O le borse o i dazi

Se il team di Trump offre compattezza, quanto accaduto fra Elon Musk e Peter Navarro, consigliere di Trump, evidenzia spaccature profonde. Anche se il loro sembra un regolamento di conti personale. Musk sabato aveva fatto un post dicendo che avere un master in economia ad Harvard (come Navarro, ndr) è una «pessima cosa non una buona». Quindi parlando al congresso della Lega aveva immaginato uno schema fra Europa e Usa a «tariffe zero». Ieri la replica di Navarro, abrasiva: «Musk? È uno che vende macchine». (Alberto Simoni – La Stampa)

Comincia a volare qualche straccetto? È tipico dei regimi avere contrasti fra gli uomini del capo. Non sempre il duce è capace di assorbirli o scioglierli. La storia insegna che spesso il tarlo decisivo per il crollo delle dittature è venuto dai conflitti interni: talmente alta e concentrata la posta in palio da renderne impossibile la tenuta nel tempo.

Mio padre diceva con molta gustosa acutezza: «Se du i s’ dan dil plati par rìddor, a n’è basta che vón ch’a guarda al digga “che patonón” par färia tacagnär dabón».

Non confidiamo troppo in queste prospettive. La società americana sta diventando sempre più incomprensibile. E il resto del mondo (Occidente compreso)? Lasciamo perdere…

Mentre il mondo s’interroga sull’effetto di medio e lungo termine dei dazi doganali americani che hanno scosso l’economia globale e fatto crollare i mercati azionari, una categoria di statunitensi ha già cominciato a subirne gli effetti: gli americani prossimi alla pensione e i neo-pensionati stanno trattenendo il fiato di fronte alle fluttuazioni di Wall Street, chiedendosi se i fondi sui quali contavano per gli anni d’oro dureranno quanto previsto, o se devono cambiare radicalmente i loro piani per la terza età. (da “Avvenire” – Elena Molinari)

Mio padre, da grande saggio qual era, sosteneva che per giudicare e fare i raggi etico-politici a una persona “bizoggnäva” guardarne e toccarne il portafoglio. È lì che casca l’asino, è lì la prova del nove di certa disponibilità teorica. «Tochia in-t-al portafój…». Funzionerà così anche negli Usa di Trump? Finita la sbornia, l’ideale sarebbe che si ricominciasse dai valori, ma sarebbe già qualcosa che si smettesse di ragionare di pancia per ripiegare sulla logica del portafoglio.

Ricordo i rari colloqui tra i miei genitori in materia politica: tra mio padre antifascista a livello culturale prima e più che a livello politico e mia madre, donna pragmatica, generosa all’inverosimile, tollerante con tutti. «Al Duce, diceva mia madre con una certa simpatica superficialità, l’à fat anca dil cozi giusti…». «Lasemma stär, rispondeva mio padre dall’alto del suo antifascismo, quand la pianta l’é maläda in-t-il ravizi a ghé pòch da fär…». Poi si lasciava andare a sintetizzare la parabola storica di Benito Mussolini, usando questa colorita immagine: «L’ à pisè cóntra vént…».

Non mi resta che sperare nelle pisciate contro vento di Donald Trump… Però bisognerebbe che almeno tirasse un po’ di vento, cosa che attualmente non vedo e non sento. Addirittura il tycoon per antonomasia, all’osteria della Casa Bianca, ostenta il fatto che tutti lo chiamano per baciargli il c..o. Niente male come benvenuto a Giorgia Meloni che si appresta a fargli visita.

Tuttavia il presidente Usa ha detto di “aver scritto con il cuore” il post con cui ha annunciato la sospensione per 90 giorni dei dazi nei confronti dei Paesi che non hanno annunciato ritorsioni agli Usa e che hanno chiesto di negoziare. E le borse hanno momentaneamente brindato. In che razza di sistema economico-finanziario viviamo? Forse siamo passati dall’economia globale al trucco nazionalista.

I casi sono diversi e forse concomitanti: Trump ha cominciato a temere di pisciare contro vento in presenza di brezza e allora sta ripiegando sulla vecchia tattica del bastone e della carota; ha spaventato le borse per lasciare campo ai suoi amici speculatori ed ora deve dare loro il tempo di realizzare i guadagni; ha, tutto sommato, paura della Cina, non certo della sbrindellata Europa che gli fa il solletico; è affetto da schizofrenia galoppante (molto peggio dell’ipotetica arteriosclerosi paralizzante di Biden).

 

 

L’arbitrio internazionale

Il presidente Mattarella non si stanca di richiamare gli Stati (Russia in primis) al rispetto del diritto internazionale. Chi vuole rimanere in tale solco dovrebbe avere riguardo verso le istituzioni che lo concretizzano: Onu, Corte penale internazionale, etc. etc.

C’è gente che afferma di credere in Dio e di osservarne le leggi, ma si rifiuta di riconoscere l’autorità della Chiesa: molto spesso è un pretesto per fare i propri comodi… Succede anche nei rapporti internazionali: delle risoluzioni dell’Onu non frega niente a nessuno, così anche dei provvedimenti della Corte dell’Aia.

Il 21 novembre 2024 la Corte penale internazionale (Cpi) ha emesso mandati d’arresto per crimini di guerra e crimini contro l’umanità nei confronti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, dell’ex ministro della difesa israeliano Yoav Gallant e del capo del braccio armato di Hamas Mohammad Deif.

Lasciamo da parte la Russia considerata fuori concorso per manifesta superiorità di violazioni, per i Paesi occidentali possiamo stilare la seguente classifica: la Cpi da alcuni Stati non è riconosciuta, da altri è riconosciuta ma categoricamente e vergognosamente smentita nei fatti, da altri ancora è elegantemente dribblata.

Tra gli Stati che non hanno aderito alla giurisdizione della Cpi ci sono in bella evidenza gli Usa, che quindi dialogano con Netanyahu e lo ricevono alla Casa Bianca: ultimamente gli hanno addirittura rilasciato di fatto una sorta di licenza di uccidere i palestinesi.

L’Ungheria ha ufficialmente annunciato l’intenzione di ritirarsi dal trattato fondativo della Corte Penale Internazionale, proprio durante la visita ufficiale a Budapest del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

L’Italia predica bene e razzola malissimo: certamente (e non sarà l’unico Paese europeo a violare i dettami dell’Aia) non si farà scrupolo di accogliere a Palazzo Chigi il premier israeliano, magari dopo avere sparso abbondanti lacrime sulla striscia di Gaza tramite il coccodrillone Antonio Tajani. La più bella però è stata la vicenda del torturatore libico Almasri: l’acrobata Carlo Nordio ha fatto i salti mortali per violare la decisione della Cpi, che ne richiedeva l’arresto, e mandarlo libero in patria per inconfessabili ma facilmente intuibili motivi di vomitevole realpolitik.

Con tanti saluti al diritto internazionale e una subdola opzione per l’arbitrio internazionale. Come la storia insegna l’Italia si distingue per il suo cerchiobottismo. Mentre Orbàn ha il coraggio sovranista di mandare a quel paese l’Europa assieme alla Corte dell’Aia, mentre Trump se ne sbatte altamente del diritto dal momento che fonda la sua presidenza e la relativa strategia sulla legge del più forte, Giorgia Meloni esibisce un farisaico perbenismo, applicando ai rapporti internazionali il maanchismo di veltroniana memoria: con i palestinesi massacrati ma anche con Israele massacrante, con l’Europa ma anche con Orbàn che dell’Europa se ne fa un baffo, con la Ue ma anche con Trump che, in poche parole, la vuole distruggere.

Un mix di ideologia fascista targata sovranismo e populismo, di pragmatismo politico targato europeismo e atlantismo, di opportunismo nullafacente targato moderatismo, di menefreghismo istituzionale camuffato da efficienza democratica, di insofferenza verso le proteste e i dissensi targata sicurezza: questo è il governo italiano!

Che differenza c’è fra la dura arroganza sovranista di Viktor Orbàn e la morbida prassi sovranista di Giorgia Meloni. Per spiegarlo ricorro a una gustosa barzelletta.

Su un calesse trainato da un asino viaggia un gruppo di suore con tanto di madre superiora. Ad un certo punto l’asino si blocca e non vuol più saperne di proseguire. Il “cocchiere” le prova tutte, ma sconsolato si rivolge alla badessa: «In questi casi l’esperienza mi dice che l’unico modo per sbloccare la situazione, costringendo l’asino a proseguire, è la bestemmia. Mi spiace, ma non c’è altra soluzione…». La suora dopo qualche ovvio tentennamento pronuncia la sua sentenza: «Se è davvero così, non resta altro da fare, ma mi raccomando la bestemmia gliela dica piano in un orecchio…».

 

 

 

Le stitichezze dell’europeismo e le cagate della Ue

«Non è tutto bianco o tutto nero. Non si può dire riarmo o diplomazia». Rosy Bindi, ex ministra della Sanità e della Famiglia, ex presidente del Pd, non si allinea acriticamente né con le posizioni di chi è pronto a votare il piano europeo per il riarmo né con chi è pronto a respingerlo.

Quello che fino ad adesso conosciamo di questo piano è lo stanziamento di 800 miliardi, 150 di finanziamento europeo, e il resto come autorizzazione alla spesa fuori dal vincolo di bilancio per i singoli Stati. E si sa che forse non possono essere usati i fondi di coesione, condizione strappata da diversi Stati, compresa l’Italia. Ma al di là di questo, non si conoscono le linee di investimento e le priorità di spesa. Io penso che quando si stanzia una cifra così importante e si rompe il “sacro vincolo” del bilancio, si dovrebbe anche trovare un punto di incontro e di accordo su come vanno spese le risorse.

(…)

Personalmente sono favorevole a una difesa europea comune e, almeno nella fase transitoria, ad un coordinamento delle spese per la difesa sostenute dai singoli Stati europei. Se la difesa fosse coordinata avrebbe bisogno di razionalizzazione e forse di innovazione. Ma un aumento senza uno strumento di coordinamento che faccia convergere in senso unitario gli strumenti delle difese nazionali rischia di far aumentare le spese militari dei singoli Paesi e di rallentare il cammino comune. Tutto ciò dovrebbe coinvolgere il Parlamento europeo e i Parlamenti nazionali.

(…)

Io contesto la mancanza di strategia. Penso alla fretta con cui abbiamo risposto alle richieste di Trump, quando ci ha minacciato: tra alleati, a prescindere da chi guida i Paesi, ci dovrebbe essere un’interlocuzione. La Nato non è stata ancora sciolta e potrebbe essere la sede in cui iniziare un confronto. E poi c’è un altro aspetto: in questi anni di guerra siamo stati fin troppo subalterni o perché non abbiamo mai preso un’iniziativa diplomatica come Europa. Al là del cardinale Zuppi, quanto ci abbiamo provato? Noi abbiamo pagato prezzi altissimi di questa guerra. La vittima è senz’altro l’Ucraina, ma l’altra vittima è l’Europa, che ha pagato con l’inflazione e la crisi industriale. E quando è iniziato il dialogo tra Trump e Putin, noi non abbiamo chiesto di partecipare a quel tavolo, come di accompagnare Zelensky a Gedda. Siamo alleati, non sudditi. Io sono per la pace e per costruirla non si può continuare a produrre armi, ma dobbiamo lavorare sul piano diplomatico e produrre relazioni. Dovremmo riprendere la Via della seta per dialogare con la Cina e stabilire una relazione con i Paesi Brics. Non possiamo isolarci così. (dal quotidiano “Avvenire” – intervista rilasciata da Rosy Bindi a Roberta D’Angelo)

Concordo pienamente con l’analisi di Rosy Bindi: bisogna ragionare, dialogare, discutere, in una parola bisogna fare politica.

«Scusi, Lei è favorevole o contrario?» così chiese un intervistatore al mio professore di italiano, in occasione dell’introduzione del divorzio nella legislazione italiana, con l’assurda coda del referendum voluto a tutti i costi dalla gerarchia cattolica al cui volere la Democrazia Cristiana si piegò per ovvi motivi elettoralistici. «Tu sei un cretino!» rispose laicamente stizzito il professore. Credo non ci voglia molto a capire come l’intervistato rifiutasse il modo manicheo con cui veniva affrontato il problema. Di tempo ne è passato parecchio ed il populismo ha fatto molta strada al punto da ridurre tutta la politica, e non solo, ad un perpetuo referendum pro o contro qualcosa, ma soprattutto pro o contro qualcuno: un continuo strisciante plebiscito strumentalmente azionato, usato per ridurre a zero il dibattito sui problemi e fuorviare i cittadini con la ratifica delle finte ed illusorie soluzioni. Se non si discute, se si viene costantemente posti di fronte ad una facilona scelta di campo, lo sbocco è condizionato dai media e vince chi ha la voce più forte, vale a dire il peggiore.

Il piano europeo per il riarmo si inserisce in questo inaccettabile schema del prendere o lasciare. Il discorso e l’errore di fondo mi sembrano quelli di voler calare un provvedimento di portata enorme in una istituzione debole e divisa al limite dell’irrilevanza politica. È un po’ come mettere in mano una cifra spropositata ad un soggetto vanesio che vive alla giornata.

Difendersi è giusto, ma lo si deve fare assieme e compatibilmente con tutte le esigenze della comunità. Questo significa avere una strategia e non limitarsi alle tattiche del momento.

Potremmo dire che, bene o male, è stata fatta l’Europa Unita, ma gli europei non sono ancora stati fatti. E allora è conseguente che, in mancanza di europeismo convinto, ci si limiti ad adottare provvedimenti di mero ed esagerato opportunismo difensivo. Volendo usare una similitudine, l’Europa è una casa comune che si preoccupa soltanto di installare il più sofisticato dei sistemi antifurto e che però non riesce a gestire, spendere e utilizzare le risorse della casa perché ognuno le vuole tenere per sé.

 

La paura bifronte

Gli organizzatori dicono di puntare su un lavoro costante di lungo termine, una goccia che finirà per lasciare il segno. Ma una partecipazione con il contagocce ha un limite, grande: è tacciabile di scarsa rappresentatività. Un altro inconveniente è che non fornisce abbastanza copertura per attirare allo scoperto persone ordinarie che nutrono frustrazione nei confronti del nuovo governo, ma hanno bisogno della sicurezza di una marcia di massa, soprattutto oggi. Rispetto a otto anni fa, infatti, nel 2025 sia il partito conservatore che l’élite imprenditoriale si sono schierati dalla parte di Trump e la protesta è diventata più pericolosa. Il presidente ha detto che non avrà remore nell’usare l’esercito contro “i nemici interni” e non ha esitato, per arrestare gli studenti che hanno protestato a favore di Gaza, a usare tattiche di sorveglianza come il riconoscimento facciale, il tracciamento della geolocalizzazione e l’identificazione potenziata dall’intelligenza artificiale. 

Gli organizzatori delle manifestazioni di ieri hanno invitato i partecipanti a “non dare per scontato di essere al sicuro”, a indossare mascherine, a lasciare a casa il cellulare e a scrivere “un contatto di emergenza sulla pelle”. Non sono frasi che possono convincere la famiglia media a rimandare la spesa settimanale per andare a sventolare un cartellone a Washington. Come non lo sono le nuove leggi che rendono punibile “rallentare deliberatamente il traffico” o “indossare una maschera che fa sentire oppressa un’altra persona”. È innegabile che negli Stati Uniti rabbia e preoccupazione stanno aumentando. Nel clima politico di questi mesi, che cosa ci vorrà perché trascendano la paura e si distillino in una volontà collettiva impossibile da ignorare? La risposta, storicamente, è un tracollo economico. Potrebbe esserla anche questa volta. (da “Avvenire” – Elena Molinari)

E la chiamavamo democrazia! Sarò esagerato, ma mi viene spontaneo un paragone impossibile (?).

Mio padre mi diceva che, ai tempi del fascismo, bastava trovarsi a passare in un borgo, dove era stata frettolosamente apposta sul muro una scritta contro il regime, per essere costretti, da un gruppo di camicie nere, a ripulirla con il proprio soprabito (non c’era verso di spiegare la propria estraneità al fatto, la prepotenza voleva così).

Ciononostante sempre mio padre mi raccontava come esistesse un popolano del quartiere (più provocatore che matto) che era solito entrare nei locali ed urlare una propaganda contro corrente del tipo: “E’ morto il fascismo! La morte del Duce! Basta con le balle!”. Lo stesso popolano dell’Oltretorrente che aveva improvvisato un comizio ai piedi del monumento a Corridoni (ripiegato all’indietro in quanto colpito a morte in battaglia), interpretando provocatoriamente la postura nel senso che Corridoni non volesse vedere i misfatti del fascismo e di Mussolini, suo vecchio compagno di battaglie socialiste ed intervistate: quel semplice uomo del popolo, oltre che avere un coraggio da leone, conosceva la storia ed usava molto bene l’arte della polemica e della satira.  Ci voleva del fegato ad esprimersi in quel modo, in un mondo dove, mi diceva mio padre, non potevi fidarti di nessuno, perché i muri avevano le orecchie.

Dove voglio parare? Al fatto che gli americani si devono rendere conto di vivere in un regime, a cui purtroppo dolosamente, colpevolmente o ingenuamente hanno dato fiducia, e che ora dopo il peccato viene la penitenza, vale a dire la protesta e la resistenza, che non saranno facili e indolori. Esiste la paura bifronte, quella di chi comanda e spaventa i potenziali oppositori (è, tutto sommato, segno di debolezza politica, che lascia trapelare qualche speranza), quella dei potenziali oppositori che non osano scendere in piazza o assumere iniziative di protesta (è segno di mancanza di forza morale, che non induce alla speranza).

I contraccolpi economici potranno servire a svegliare le coscienze democratiche? Può darsi, ma non ne sarei tanto sicuro. Siamo dentro una deriva politica di tipo mediatico, in cui non vale più nemmeno il portafoglio a far ragionare la gente. L’egoismo è ormai talmente diffuso e incallito da paralizzare i cuori. La riscossa valoriale si allontana. Occorre il coraggio di scendere in piazza e, costi quel che costi, gridare: “É morto il nuovo fascismo! La morte di Trump! Basta con le balle di Musk!”.

 

 

Il pacifismo dal volto umano e…politico

Un’alternativa pacifista che Tarquinio sta provando a portare avanti anche in Parlamento, dove «stiamo lavorando per cercare di correggere la rotta dell’Unione in un momento in cui sta scegliendo la strada del riarmo dei singoli Stati europei, piuttosto che quella della costruzione di una dimensione comune su tutto, dal sociale alla difesa, che non è sinonimo di spesa militare, ma è anche azione diplomatica, cooperazione internazionale…» spiega. 

Ho scelto questa dichiarazione di Marco Tarquinio, parlamentare europeo, per dare un senso politicamente compiuto al sacrosanto pacifismo, ridotto dai più realisti del re a mera, manierata e inconcludente espressione di dissenso globale.

In questi giorni mi è venuta spontanea una riflessione. Checché ne dica Giorgia Meloni (mi fa più pena che rabbia…), stiamo vivendo una catastrofe etico-culturale prima e più che politica. Rassegnarsi alla guerra, consegnare il potere alle armi, è l’espressione più clamorosa della deriva in cui stiamo sprofondando e che ci sta portando a considerare la politica (e la democrazia che ne dovrebbe costituire la traduzione istituzionale) come ostruzionistico giochetto per gli ingenui.

Fino ad ora ho vissuto (cercato di vivere) sulla base della fede cristiana coniugata con la politica (anche la professione politicizzata nonché il pensionamento dedicato al volontariato e alla scrittura impegnata), vale a dire l’attenzione e l’impegno alla società in particolare ai soggetti più deboli e fragili.

Purtroppo la politica non esiste più!? Rimane la fede, ma rischia la paralisi di fronte ad un sistema becero, camaleontico, inesorabile, che non ammette repliche. Anche il volontariato spesso fa da foglia di fico all’ingiustizia dominante.

Allora?

Ci stiamo preparando alla Pasqua: dobbiamo risorgere. Il sepolcro era buio e sigillato, ma le donne di prima mattina sono andate timorose e lo hanno trovato aperto. Cosa c’è di più buio e sigillato dell’odierno sepolcro globale. Eppure bisogna sforzarsi di andare a vedere cosa succede…

Mi sento molto vicino ai discepoli di Emmaus: per loro era tutto finito. Aveva vinto il potere! Ma si è fatto loro vicino uno strano viandante che la sapeva lunga. Fidiamoci di questo viandante e ripartiamo da Lui. Non parlava apparentemente di politica, ma di sacre scritture e di eucaristia. Cenò con loro e tutto risultò chiaro anche se problematico.

Chi è Donald Trump per rovinare tutto e toglierci la speranza dal punto di vista umano e politico? C’è qualcuno che è più forte di Trump. Chi è Giorgia Meloni per faci credere che tutto andrà bene dandola su al più forte. C’è qualcuno che è più coerente e credibile di Meloni e c.

Conviene fare affidamento in Lui, ripartire sempre da Lui: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi”.

 

 

Melonicamente incerti, trumpianamente sicuri

Qual è il sentiment popolare che sostiene l’ondata di destra, quel sacco politico legato da Trump, che contiene molto più di Trump, vale a dire tutti coloro che ne condividono la logica populista e sovranista (detto fuori dai denti: il fascismo odierno!).

Il bisogno di sicurezza! Le classi dirigenti sfruttano questo disagio socio-culturale e lo trasformano politicamente in protezionismo, bellicismo e razzismo. Si sta formando una sorta di internazionale sovranista in cui trova posto anche il governo italiano.

Molti si chiedono perché Giorgia Meloni sia così ondivaga rispetto allo scenario trumpiano, così indecisa nell’atteggiamento da tenere rispetto agli equilibri che si stanno delineando. La risposta sta nel fatto che ideologicamente Meloni è collocata a destra e con la destra punta all’’Europa della non Europa, anche se si sforza di presentarsi come moderata e pragmatica.

Proprio in questi giorni il governo italiano ha varato il cosiddetto decreto-sicurezza, suscitando perplessità, inquietudini e contestazioni. La logica stringente di questo provvedimento è quella di devitalizzare la critica e la protesta, arrivando persino a criminalizzarle. Verrebbe spontaneo dire: trumpianamente sicuri.

L’inganno ai danni della gente sta nel farle credere che immigrazione=delinquenza, difesa=riarmo, pace= equilibrio bellico, benessere economico=protezionismo commerciale, coesistenza pacifica=legge del più forte, etc. etc.

Questo raggiro è in atto in tutto il mondo e, complice una imbelle politica da parte delle sinistre, sta letteralmente spopolando. In certe fasce sociali si tratta di disperazione, in altre di rassegnazione, in altre di illusione, in altre ancora di egoismo bello e buono.

Il paradosso consiste nello spacciare per sicurezza le più grandi e globali insicurezze. Potremmo dire che la sicurezza è inversamente proporzionale al dialogo, alla pace, alla giustizia sociale, in una parola alla politica. L’autorità diventa autoritarismo, l’amor di patria diventa sovranismo, il rispetto per il popolo diventa populismo, la difesa dei confini nazionali diventa nazionalismo, la democrazia diventa perdita di tempo. Ditemi: se questo non è fascismo…

Un po’ per alleggerire la tensione del discorso, un po’ per renderlo umanamente più assorbibile, ricorro alla saggezza e alla verve critica di mio padre.

É molto simpatica ed “anarchica” la battuta con cui fucilava l’autoritarismo dall’alto al basso e dal basso all’alto: “A un òmm, anca al pu bräv dal mónd, a t’ ghe mètt in testa un bonètt al dventa un stuppid”.

Si divertiva spesso a raccontare uno strano e paradossale episodio che lo aveva visto quale malcapitato protagonista alla stazione di Parma. Da zio affettuoso e premuroso aveva accompagnato in stazione una nipote di Genova che ci era venuta a far visita per qualche giorno con i suoi figli ancora molto piccoli. Valigie e bambini avevano consigliato mio padre a salire sul treno in partenza per poter meglio collocare il bagaglio e salutare i nipoti. Tutto fatto, scese dal treno.  Ed ecco un addetto della polizia ferroviaria si avvicina e chiede il biglietto. Risposta ovvia: “Non ho biglietto perché non ho viaggiato, sono salito solo per aiutare mia nipote.” Replica: “Per me lei è un viaggiatore che scende dal treno senza biglietto, favorisca i documenti.” Spazientito ma corretto si reca con il poliziotto nel piazzale antistante la stazione, dove aveva parcheggiato la motocicletta, per esibire la patente. Verbale redatto nonostante le resistenze. Dopo qualche giorno arriva a casa una sonora contravvenzione e mio padre, inizialmente orientato a pagare e tacere si lascia convincere a ricorrere al pretore. Processo bello e buono. Il giudice capisce la situazione quasi da farsa e chiede al poliziotto: “Ma a lei non è venuto in mente che, avendo la motocicletta nel piazzale, l’imputato potesse avere raccontato una verità piuttosto plausibile?” Risposta: “Per me era un viaggiatore che scendeva dal treno ed era senza biglietto!”.  Assoluzione con formula piena, nemmeno la sanzione per non aver pagato il biglietto entrando in stazione (allora per il solo fatto di varcare la soglia della stazione si doveva corrispondere un piccolo obolo), perché ormai nessuno osservava tale obbligo (cominciando dai nonni che conducevano i nipotini a vedere il treno).

La morale dell’episodio è piuttosto semplice: mio padre era rimasto vittima della…sicurezza. Per fortuna c’era stato un giudice che ragionava. Ecco perché tanta ostilità verso i giudici e quanti esercitano un contro-potere: non devono ragionare, ma legare l’asino dove vuole il padrone (si chiami Trump, Le Pen o Salvini).

 

 

I medici sbrigativi fanno il sessismo puzzolente

Il pugno duro contro chi si macchia di crimini di genere non può essere l’unica risposta a un fenomeno complesso e pervasivo come la violenza contro le donne, che ha una forte componente storica e culturale – residui del patriarcato, desiderio di controllo, incapacità di riconoscere e accettare l’indipendenza e l’autonomia delle donne da parte… Da una parte non sembra che un inasprimento della pena – teorico perché, come detto, già ora il femminicida può essere punito con il carcere a vita – possa avere una efficacia deterrente su un uomo che decide di uccidere “una donna in quanto donna”. Dall’altra il cambiamento non può che partire dai più giovani, e quindi dall’educazione alla parità e al rispetto, in famiglia e nelle scuole. Ma questo è un altro capitolo della storia. Il più urgente. (dal quotidiano “Avvenire” – Antonella Mariani)

Di fronte al fenomeno dei femminicidi, sempre più sconvolgente e invadente, ho una prima reazione di tipo etico-religioso dovuta alla considerazione che queste manifestazioni possano essere riconducibili alla violenza fine a se stessa (molto spesso i responsabili stessi non riescono a portare un minimo di giustificazione ai loro comportamenti). Il male per il male!  Un sottofondo demoniaco?

Mi risulta che papa Paolo VI, dopo avere dialogato con il professor Vittorino Andreoli, noto criminologo e famoso psichiatra, lo abbia accompagnato cortesemente all’uscita, suggellando in modo inquietante lo scambio di opinioni che avevano avuto: «Si ricordi professore che il diavolo esiste!». Ricordiamocene anche noi, non per sfuggire alla realtà, ma per inquadrarla compiutamente.

La seconda è la reazione alla reazione, cioè il rifiuto della scorciatoia giustizialista che può spontaneamente indurre in tentazione. Se evocare il demonio può diventare un alibi deresponsabilizzante e fuorviante, a maggior ragione può essere semplicistico il fantasma dell’ergastolo sventolato in faccia a chi è completamente accecato dall’istinto violento. Forse sarebbe più opportuno strutturare, sistematizzare e potenziare l’intervento a difesa e supporto delle donne nel mirino degli stalker.

Mio padre credeva così fermamente e ingenuamente alle regole ed alla necessità di rispettarle al punto di illudersi di risolvere il problema dell’evasione carceraria apponendo un cartello “chi scappa sarà ucciso”. “Chi usa violenza estrema alle donne sarà condannato all’ergastolo”: un sacrosanto cartello che servirà a ben poco…

Il problema dei femminicidi ha molte cause, viene da lontano, riguarda un po’ tutti gli aspetti della vita sociale. C’è al riguardo il discorso del dipanare la responsabilità individuale con quella sociale. Un mio conoscente, esperto ed impegnato allo spasimo nel recupero dei tossicodipendenti, era portato ad escludere (quasi) completamente le cause sociali da questa piaga, facendo prevalere nella caduta e nella ripresa la volontà personale. A prova di questa sua pur discutibile tesi portava la innegabile realtà di soggetti tossicodipendenti provenienti da famiglie modello e di famiglie disastrate con figli modello. Il discorso potrebbe valere anche per la violenza sessista.

Mia madre era portata a giustificare i delinquenti, soprattutto se giovani, commentando laconicamente: “jén dil tésti mati”. Qui mio padre, in un simpatico gioco delle parti, ricopriva il ruolo di intransigente accusatore: “J én miga mat, parchè primma äd där ‘na cortläda i guärdon se ‘l cortél al taja.  Sät chi è mat? Col che l’ ätor di l’à magnè dez scatli äd lustor. Col l’é mat!”.

Sul ruolo educativo della famiglia non esiste perfetta concordanza di vedute. Abbiamo visto la tesi dello psicologo scettico. Vediamo quelle di quanti credono fermamente nel ruolo e nella responsabilità genitoriali.

Mia sorella, acuta ed appassionata osservatrice dei problemi sociali, nonché politicamente impegnata a cercare, umilmente ma “testardamente”, di affrontarli, di fronte ai comportamenti strani, drammatici al limite della tragedia, degli adolescenti era solita porsi un inquietante e provocatorio interrogativo: «Dove sono i genitori di questi ragazzi? Possibile che non si accorgano mai del vulcano che ribolle sotto la imperturbabile crosta della loro vita famigliare?». Di fronte ai clamorosi fatti di devianza minorile, andava subito alla fonte, vale a dire ai genitori ed alle famiglie: dove sono, si chiedeva, cosa fanno, possibile che non si accorgano di niente? Aveva perfettamente ragione. Capisco che esercitare il “mestiere” di genitori non sia facile ed agevole: di qui a fregarsene altamente…

Voglio ad esempio riferire quanto detto da uno psicologo ad un mio carissimo amico in merito alla credibilità della testimonianza dei genitori nei riguardi dei figli. “I figli giudicano i genitori da due comportamenti molto precisi: da come si rapportano con il coniuge e da come affrontano il lavoro”. In questa regola potrebbe essere contenuta gran parte della spiegazione per la crisi dei rapporti fra genitori e figli.

Non mi sembra giusto buttare la palla dei femminicidi nella tribuna socio-culturale, così come ritengo pressapochista rifugiarsi nel corner dell’ergastolo. Una cosa è certa: questa piaga è causa-effetto di parecchi fattori. La deriva socio-culturale che caratterizza la nostra epoca ci deve spingere ad analizzare le situazioni e a concretizzare i rimedi uscendo da fariseismi e perbenismi.

In conclusione ricordo che, molti anni fa, monsignor Antonio Riboldi, vescovo di Acerra, durante una conferenza all’aula magna dell’Università di Parma, raccontò di avere scandalizzato le suore della sua diocesi esprimendo loro una preferenza verso la stampa pornografica rispetto a certe proposte televisive perbeniste nella forma e subdolamente “sporche” nella sostanza. In fin dei conti la pornografia pura si sa cos’è e la si prende per quello che è, mentre è molto più pericoloso, dal punto di vista educativo, il messaggio nascosto che colpisce quando non te l’aspetti.

 

 

 

I dazi pagano dazio

La Camera di commercio degli Stati Uniti ha informato l’Amministrazione che i dazi previsti «non hanno precedenti, sconvolgeranno le catene di approvvigionamento e non faranno altro che aumentare il costo della vita per gli americani». Gli economisti hanno quantificato che tariffe medie del 20% costringeranno le famiglie americane a pagare dai 4mila ai 5mila dollari in più all’anno per le spese di base.

L’effetto sarebbe a catena, riducendo i consumi, gli investimenti delle imprese e le assunzioni, tanto che, secondo Moody’s, se tariffe permanenti entrassero in vigore nel trimestre in corso, l’economia americana precipiterebbe quasi immediatamente in una recessione che durerebbe più di un anno, portando il tasso di disoccupazione sopra il 7%. (dal quotidiano “Avvenire” – Elena Molinari)

Quindi la colossale manovra difensiva americana chi difende? A quanto pare non difende i consumatori, non le imprese, non i potenziali e/o già impiegati lavoratori. Si tratta della solita tattica bellica, che serve a catturare il consenso dei disperati: vale per le guerre in genere, anche per quelle commerciali.

Da cosa si difende Trump? Ebbene, improvvisamente si è accorto che gli Usa da anni sono letteralmente saccheggiati dal resto del mondo, subendo autentici furti di posti di lavoro e fabbriche e ha proclamato il giorno della liberazione per l’industria americana che rinasce, e l’America che ridiventa ricca.

Mi sembra la più colossale delle demagogie, vale a dire la totale degenerazione della democrazia, per la quale al normale dibattito politico si sostituisce una propaganda esclusivamente lusingatrice delle aspirazioni economiche e sociali delle masse, allo scopo di mantenere o conquistare il potere.

Quando in una stanza, per la presenza di troppe persone, manca l’ossigeno per respirare, esistono due possibilità: ci si può illudere di risolvere il problema facendo uscire qualcuno oppure si deve avere il coraggio di aprire le finestre.

Il protezionismo segue la prima di queste opzioni: ci si illude di risolvere i problemi chiudendosi in casa. Figuriamoci se può funzionare in un mondo globalizzato come l’attuale…

Quanto tempo impiegheranno gli americani per capire di essere stati ingannati? Non ho idea e soprattutto non si può fare affidamento sulla loro resipiscenza. Donald Trump è il fanfarone giusto per i fanfaroni, il miglior frutto del cretinismo americano: mai come in questo caso vale lo storico proverbio secondo il quale ogni popolo ha il governo che si merita. Il problema purtroppo sta nel fatto che, poco o tanto, tutto il mondo si merita Trump nella misura in cui ha subito pedissequamente gli indirizzi internazionali impressi dagli Usa, abbandonando completamente quel tanto di sano scetticismo anti-americano che oggi viene spontaneo rivalutare e rimpiangere.

Sforziamoci, nonostante tutto, di guardare avanti e allora torna in gioco l’Europa: o i Paesi europei reagiscono in ordine sparso, trattando più o meno singolarmente con gli Usa alla faccia dei trattati in essere e cercando di strappare disperatamente e ingenuamente qualche condizione di maggior favore, oppure fanno coraggiosamente e pazientemente massa critica, provando a impostare un’azione comune di politica commerciale che vada ben oltre le semplici e forse inevitabili ritorsioni.

Potrebbe essere una sorta di momento politico magico per rilanciare la UE, trovando finalmente anche consensi a livello delle forze economiche e sociali. La UE non sarà più considerata un’inutile sovrastruttura burocratica, ma un punto di riferimento imprescindibile.

Tutto il mal non vien per nuocere? Forse sì, a condizione che il male venga riconosciuto come tale e combattuto insieme in senso costruttivamente prospettico e strategicamente progressista.

 

Il ponte meloniano dei sospiri europei

Durante il periodo dell’esplodente berlusconismo, mia sorella Lucia mi raccontò di avere incontrato casualmente un esponente locale del CCD, rifugio di ex-democristiani in ceca di  sera dorotea, partito moderato che appoggiava Forza Italia. Conoscendolo, si permise di chiedergli provocatoriamente come mai dalla DC fosse approdato a Berlusconi. La risposta fu di quelle che fanno penosamente sorridere: «Sai Lucia, noi del CCD abbiamo come scopo quello di condizionare Berlusconi…». Mia sorella lo interruppe bruscamente in dialetto (certe battute non possono essere espresse o tradotte in italiano): «Co’ fät? Ma lasa pèrdor! At salut…».

Non mi soffermo ulteriormente su questo gustoso e pittoresco episodio. Ne faccio invece una similitudine con la velleitaria intenzione di Giorgia Meloni di fare da ponte fra Trump e l’Europa, in poche parole di condizionare Trump per arginarne la sua verve antieuropea. Mia sorella apostroferebbe la nostra premier con le stesse parole di cui sopra: «Co’ fät? Ma lasa pèrdor! At salut…».

E pensare che qualcuno ci crede e ci vota… Buttiamola in ridere per non piangere. Nel condizionamento statunitense si cimentarono nel passato fior di politici italiani, democristiani e non: ci riuscirono assai poco. Aldo Moro, l’unico che ebbe l’ardire di battere questa strada senza paura, la pagò cara!

Dopo aver letto dell’auto-investitura meloniana a fare da trait d’union fra Usa e Ue, ho immaginato il caustico commento di mio padre: «Pù che da pónt, la Meloni la farà da virgola…».

Concludo con lo spontaneo ricordo di una simpaticamente macabra gag che in un certo senso si attaglia al caso. «Parlèmma ‘d robi alégri» intimarono gli amici di mio padre alla compagnia in vena di discorsi penosi: uno di loro, accettando il perentorio invito, rispose: «Co’ costarala ‘na càsa da mòrt?».

 

 

 

 

 

Le Pen…ne intinte nel calamaio autocratico

Per la leader del Rassemblement National Marine Le Pen, per tre volte candidata sconfitta all’Eliseo, l’incubo più temuto diventa realtà: il tribunale l’ha condannata a cinque anni di ineleggibilità, con effetto immediato, compromettendo così la sua candidatura alla presidenza per una quarta volta nel 2027. Un voto per il quale i sondaggi la davano favorita almeno al primo turno.

Le Pen inciampa così nel processo degli assistenti parlamentari a Strasburgo: una frode da 2,9 milioni di euro ai danni del contribuente europeo, coperta da una quarantina di impieghi fittizi. In sostanza, l’ex Fn viene accusato di aver orchestrato un “sistema” di contratti truffa per rimpinguare con i soldi dell’Europa le malconce casse del partito.

Oltre all’ineleggibilità, la paladina della Fiamma tricolore bianca rossa e blu viene condannata a quattro anni di carcere di cui due senza condizionale ma con il braccialetto elettronico.

Elon Musk ha difeso su X la leader del Rassemblement National, Marine Le Pen, condannata in Francia per appropriazione indebita. “Quando la sinistra non può vincere al voto democratico abusa del sistema legale per incarcerare i suoi rivali”, ha scritto il miliardario, citando il caso Le Pen tra quelli di una presunta persecuzione globale dei populisti.

Musk ha definito la decisione un abuso giudiziario che – secondo lui – si ripete ovunque ci siano leader di destra anti-sistema. Nel post condiviso, Musk ha risposto a Mike Benz, ex funzionario dell’amministrazione Trump, che ha elencato altri casi simili: da Bolsonaro in Brasile a Imran Khan in Pakistan, fino a Salvini in Italia

Le parole di Musk si aggiungono a un coro di reazioni internazionali. Il portavoce di Vladimir Putin, Dmitri Peskov, ha parlato di “violenze alle norme democratiche” nei processi politici europei. Viktor Orban, premier ungherese e alleato politico di Le Pen in Europa, ha scritto su X: “Je suis Marine!”. Anche Matteo Salvini su X ha espresso solidarietà alla leader della destra francese. (dalle agenzie Ansa e Virgilio)

Qualche giorno fa, durante un occasionale incontro con alcuni miei conoscenti, mi è stato chiesto un sintetico e lapidario commento sulla situazione storica che stiamo vivendo. Me la sono cavata, rispondendo che non avrei mai più pensato di sprofondare in una palude tanto profonda e paralizzante di cui peraltro forse non abbiamo ancora toccato il fondo. La democrazia ostacola la libertà, la politica prescinde dalla giustizia, il popolo sovrasta le istituzioni, gli interessi nazionali scavalcano il diritto e le istituzioni internazionali.

Le succitate dichiarazioni rese da Elon Musk a latere della sentenza a carico Di Marine Le Pen sono la perfetta sintesi del marasma politico che stiamo vivendo. Gli anti-democratici ritorcono le loro porcherie sulla fantomatica persecuzione messa in atto dalla sinistra, che perderebbe nelle urne e tenterebbe di vincere nei tribunali. Forse mai la favola del lupo e dell’agnello fu così azzeccata.

Il dato di partenza non sono le pesantissime accuse rivolte a Marine Le Pen e la sua conseguente dura (?) condanna, ma la presunta perfida macchinazione politico-giudiziaria atta a metterla fuori gioco. Sarebbe come se in tribunale il soggetto sottoposto a giudizio, anziché difendersi, passasse all’attacco e pretendesse di processare i giudici, addirittura di squalificarli e tacitarli pregiudizialmente e irrimediabilmente.

È la nota metodologia di difendersi dal processo piuttosto che nel processo: è uno dei dati caratteristici degli autocrati di tutto il mondo, da Berlusconi a Trump. Imputato è il sistema democratico e tutto ciò che avviene è inquadrabile nell’abusiva resistenza contro le sacrosante destre anti-sistema.

Dopo avere incantato e messo fuori gioco il popolo, l’ultimo baluardo difensivo della democrazia viene individuato nel potere giudiziario da smantellare con paradossali riforme e/o con strumentali e generali squalifiche. Si tratta di una deriva globale che tenta di coinvolgere mediaticamente i cittadini mettendoli contro le istituzioni democratiche.

Il fatto che l’Europa e gli Usa siano, a livello di classe dirigente, impegnati in questa guerra di sfondamento della democrazia, pone una clamorosa e inquietante domanda: ci siamo sempre storicamente sbagliati nel considerare l’Occidente patria della democrazia oppure abbiamo consentito che progressivamente fra Occidente e democrazia si creasse una frizione fino ad arrivare ad una vera e propria frattura.

Saremo ancora in tempo a invertire la tendenza? Se aspettiamo che si ravvedano gli americani, stiamo freschi… Tocca agli Europei scuotersi dal sonno autocratico e risvegliarsi ad una nuova era democratica. Gli attacchi provenienti da oltre-atlantico dovrebbero quanto meno farci riflettere. Invece temo che ci spingano più al conformismo autocratico che al ribellismo democratico.