Da alleati a porte-coton

Tutto come previsto. La “picconatura” di Donald Trump è arrivata. Con tanto di firma che suggella il nuovo affondo contro la Corte penale internazionale. L’ordine esecutivo impone sanzioni al tribunale internazionale con sede all’Aja, accusandolo di «aver intrapreso azioni illegali e infondate contro l’America e il nostro stretto alleato Israele». Dalla Corte, in tutta risposta, è arrivato l’appello «agli Stati membri, alla società civile e a tutte le nazioni ad unirsi per la giustizia e ei diritti umani fondamentali». Con il passare delle ore, voci sempre più numerose si sono alzate a difesa della Corte. Alla fine, in una dichiarazione congiunta 79 Paesi membri delle Nazioni Unite hanno condannato le sanzioni di Trump.

Tra i firmatari non figura l’Italia, mentre sono presenti Francia, Germania e Spagna, oltre a, tra gli altri, Paesi Bassi, Grecia, Irlanda, Danimarca, Portogallo e, fuori dall’Ue, la Gran Bretagna. I 79 firmatari rappresentano i due terzi dei 125 Paesi che hanno ratificato lo Statuto di Roma che ha istituito la Corte Penale Internazionale. Nel documento i Paesi sostengono che le sanzioni decise dagli Stati Uniti nei confronti dell’organismo internazionale, che a novembre aveva emesso un ordine di cattura verso il premier israeliano Benamin Netanyahu e i leader di Hamas per crimini di guerra, «comprometterebbero in modo grave tutti i casi attualmente sotto inchiesta, perché la Corte potrebbe doversi trovare costretta a chiudere i suoi uffici sul campo». Il rischio, aggiungono i firmatari, è anche quello di «erodere lo stato di diritto internazionale». (dal quotidiano “Avvenire” – Luca Miele)

Come volevasi dimostrare… L’atteggiamento italiano, tenuto nei confronti della Corte penale internazionale in occasione dell’arresto/liberazione/espulsione del torturatore libico Almasri, non è stato un incidente di percorso, ma rientra in una precisa scelta nazional-populistica dettata dal nuovo corso trumpiano e seguita direttamente o indirettamente dai suoi Stati sodali tra cui l’Italia di Giorgia Meloni.

Quando dopo la seconda guerra mondiale l’Italia aderì al blocco occidentale, operò una scelta, che, pur con tutte le sacrosante riserve riassumibili nelle ragioni del cosiddetto neo-atlantismo, si rivelò, seppure a denti stretti, giusta per il nostro Paese, uscito sanguinante dalla deriva nazifascista e dal conflitto conseguente. Si tratta di scelte che condizionano in modo irreversibile la storia di un Paese.

Ebbene anche oggi si prospetta per l’Italia un’opzione storica fra un ordine mondiale fondato sul multilateralismo, di cui dovrebbe essere protagonista la Ue, e un assetto nazionalistico in cui primeggiano gli interessi degli Stati singoli l’un contro l’altro armato.

Il governo italiano sta scegliendo lo schema trumpiano illudendosi di renderlo agibile o quanto meno sopportabile per un’Italia promossa a leader tattica dell’Europa disunita: disegno assurdamente velleitario e presuntuoso dal punto di vista pragmatico, ma soprattutto inaccettabile dal punto di vista dei principi e dei valori della nostra Costituzione. Giorgia Meloni si sta candidando a svolgere il ruolo che fu del maresciallo Tito nei confronti dell’Urss: altra epoca, altro assetto internazionale, altri equilibri e soprattutto ben altro livello di statista.

Ci stiamo arrendendo alla logica del più forte delinquente, illudendoci di salvare almeno la pelle. Non è in gioco soltanto il ruolo della Corte penale internazionale, ma la resa ad un mondo governato da tre criminali: Trump, Xi Jinping e Putin a cui nessuno potrà più opporsi, ma che si contenderanno fra di loro le sorti del pianeta.   Putin ha messo al fuoco la carne dell’Ucraina, Trump ha acceso il fuoco sulla carne di Panama e della Groenlandia, Xi Jinping ha nel mirino l’Africa. Stanno giocando al rialzo per poi spartirsi la posta in palio. Non c’è più posto per alleanze strategiche, rimane soltanto la possibilità di stare a guardare dove pende la bilancia per buttarsi sul piatto più conveniente.

Giorgia Meloni gioca a fare la donna più forte d’Europa, coniugando europeismo con unilateralismo, strizzando l’occhio a Donald Trump via Elon Musk: una sorta di Penelope che di giorno tesse la tela europea e di notte la disfa d’accordo con Trump. Ulisse non esiste più, quindi… Una povera diavola che si siede a tavola con i super ricchi che le tolgono dignità e democrazia.

La peggior disgrazia che può accadere ad una persona (anche ad un Paese) non è quella di essere povero di risorse materiali, ma di essere senza dignità, vale a dire privo di risorse umane e di rispetto verso se stesso e gli altri. Quando mi recavo in quel di Verona per assistere agli spettacoli areniani, per accedere alla platea ero costretto a passare in mezzo a due ali di folla: erano frotte di curiosi alla spasmodica ricerca di qualche vip da ammirare, per soddisfare la voglia di “sgolosare” sulle sfarzose primedonne del pubblico, per accontentarsi cioè di “sfrugugliare” nel retrobottega dell’affascinante mondo dello spettacolo. Erano i poveri senza dignità, che invidiano i ricchi e non riescono ad essere “signori”.

Questa non è realpolitik, vale a dire atteggiamento e prassi che si fondano sulla valutazione delle situazioni reali e degli interessi concreti dell’azione politica, anche in modo cinico e opportunistico, ma arrivismo di Stato, paradossale politica ideologica di stampo neo-fascista.

Ci candidiamo ad essere i migliori servi sciocchi degli Usa, i porte-coton del nuovo re sole americano: roba da matti! Ai tempi di Luigi XIV c’era una classe di persone privilegiate che venivano chiamate appunto “porte-coton”. Di chi si tratta? Di nobili che avevano il privilegio di pulire il culo del re con un batuffolo di bambagia dopo che questi aveva fatto la cacca.

Il tutto avviene nella sbadataggine della gente e nel cinico scetticismo dei narratori mediatici: i due atteggiamenti si sostengono e si giustificano a vicenda. Si pensi che Luciano Fontana, direttore del Corriere della Sera, durante un intervento a “L’aria che tira” su La 7, ha beffeggiato la seduta parlamentare in occasione della seduta d’ascolto dei ministri Nordio e Piantedosi sulle ragioni dell’espulsione di Almasri dal nostro Paese, assimilandola alle calde e sessantottine assemblee. Ha commesso due sottovalutazioni in una: il ’68 non fu una buffonata, ma una problematica e drammatica messa in discussione della società del cosiddetto benessere; la discussione sulle dichiarazioni del governo non era una farsa, ma l’immagine della tragica deriva della politica interna ed internazionale. Forse voleva sdrammatizzare colpendo il cattivismo di maniera della sinistra: attenzione, perché così facendo si finisce col fare dell’opportunistico buonismo nei confronti di chi sta svendendo l’Italia al peggior offerente. Se questo è il taglio giornalistico di un giornalista di tale livello…se tanto mi dà tanto…

Non resta che sperare in un mastodontico e globale flop in cui però saremo colpevolmente coinvolti, per ricominciare semmai tutto daccapo, come se la storia fosse un palcoscenico in cui si recita a soggetto.