La diplomazia asinina

Non è una delegazione con i pieni poteri, ma appare funzionale al raggiungimento di qualche risultato. A Mosca si dice che vi sia un altro gruppo pronto a partire. Non per parlare con l’Ucraina, ma con gli Usa, laddove ce ne fosse bisogno. Ne farebbero parte figure più note come il ministro degli Esteri Sergey Lavrov, che ieri ha definito «uomo patetico» Volodymyr Zelensky, il consigliere del presidente Yuri Ushakov, e Kirill Dmitriev, il russo di Harvard, l’anello di congiunzione tra Cremlino e Casa Bianca. Quanto al Capo, Vladimir Putin si muoverà soltanto se riceverà l’invito anche ufficioso da parte di Donald Trump. A quello di Zelensky non ha ritenuto neppure di dover rispondere. Con un apposito decreto ieri il presidente russo ha rinnovato fino al 2027 il piano di difesa nazionale per lo sviluppo delle Forze Armate e l’attuazione dei programmi di armamento, e già che c’era ha rimosso dal suo incarico il comandante Oleg Salyukov, capo delle forze terrestri dell’esercito, che aveva per altro guidato la recente parata della Vittoria. Forse vuole la pace, ma intanto continua a preparare la guerra. (dal “Corriere della Sera” – Marco Imarisio)

Il vertice sull’Ucraina sta diventando un’occasione tattica per Putin: ottenere da Trump il riconoscimento di “grande potenza” con cui fare i conti per la spartizione del mondo. E Trump cosa farà?  Era partito in quarta, pensando di mettere sbrigativamente nel sacco Vladimir Putin con qualche concessione da far ingoiare a Zelensky. Né Putin né Zelensky sono così sprovveduti da cascare nel tranello trumpiano. E allora? Putin si fa subdolamente sponsorizzare dalla Cina: è il momento buono in quanto i cinesi sono obiettivamente in difficoltà di fronte alla dichiarata guerra commerciale dei dazi. Zelensky si attacca all’Europa: è il momento buono in quanto gli europei sono obiettivamente in difficoltà di fronte ai provocatori sgarbi della nuova politica americana.

Trump crede di essere il miglior fico del bigoncio, ma probabilmente si sbaglia e infatti sta facendo vergognose marce indietro, creando una confusione diplomatica in cui probabilmente ha molto da perdere.

Putin crede di essere il più furbo e forse lo è, ma prima o poi dovrà pure fare i conti con la sua vittoria di Pirro in Ucraina.

Xi Jinping crede di essere il più forte dal momento che associa la tranquillità politica alla strategia economica del suo regime, ma fino a quando i cinesi si accontenteranno di un finto benessere e di una reale mancanza di libertà.

Lasciamo perdere l’Europa che pensa di farsi grande con il riarmo e la forza dei litigiosi Paesi di punta.

L’Ucraina è costretta a fare le spese di questo bailamme diplomatico, in cui sta trovando un ruolo persino il premier turco Erdogan.

Tiro un’amara e forse esagerata conclusione: in mancanza dei cavalli, trottano gli asini. Ulteriore complicazione: gli asini sono troppi e non si lasciano legare dove vuole il padrone, che, peraltro, non esiste. Troppi asini, troppi padroni, troppi…

Uno sterminio da cortile

Un drappo rosso sangue che spunta ai piedi di una culla in segno di protesta contro le morti dei bambini uccisi a Gaza e cartelli in aria, nel silenzio. È il presidio organizzato da Amnesty davanti alla Farnesina, sede del Ministero degli Affari Esteri, nel 77º anniversario della Nakba per chiedere la fine dell’invio di armi a Israele e il riconoscimento dello stato di Palestina. “L’appello è di intervenire per fermare il genocidio nella Striscia di Gaza – ha dichiarato Riccardo Noury di Amnesty International. – Un giorno forse una sentenza condannerà l’Italia per complicità. Bisogna riconoscere che a Gaza è in corso un genocidio, e contemporaneamente bisogna fermare ogni trasferimento di armi verso Israele e convincere altri partner dell’Ue a fare lo stesso”.

***

Su invito del leader del Movimento 5 stelle, Giuseppe Conte, i deputati di M5S, Pd e Avs si solo alzati in piedi in Aula per condannare “in silenzio” lo “sterminio” a Gaza. Un appello non accolto però dai membri del governo e dai parlamentari di maggioranza che, invece, sono rimasti seduti. “Siamo qui, nel luogo eletto della democrazia, e rivolgo un appello a tutti i colleghi, un segno di umanità diamolo. Condanniamo in silenzio questo sterminio di donne, di bambini, di giornalisti, tutte le vittime civili di Gaza. Alziamoci in piedi”, ha detto Conte durante il premier question time alla Camera. Il leader M5S si è allora rivolto alla presidente al Consiglio sottolineando: “Lei rimane seduta”, tra le grida dei colleghi che dicono: “Vergogna!”. “E gli ostaggi?”, hanno replicato i deputati del centrodestra rimasti anche loro seduti ai propri posti. Fontana a quel punto ha chiesto a Conte di terminare il suo intervento. “Mi rendo conto che lei agisce senza mandato sempre. Su Gaza non ha alcun nessun mandato degli italiani per dare copertura politica e militare al governo e alla condotta criminale di Netanyahu. Nessuna condanna nel suo intervento”, aveva sottolineato Conte rivolgendosi alla premier. (da “Il Fatto Quotidiano”)

Qual è la motivazione della pilatesca posizione di governo e maggioranza?

“Non è stato Israele a iniziare le ostilità e c’era un disegno alla base dei disumani attacchi di Hamas e la crudeltà rivolta agli ostaggi” (così Giorgia Meloni in Parlamento). 

Abbiamo tutti presente come i bambini reagiscono rispetto ai violenti litigi che li coinvolgono: è stato lui o sono stati loro a cominciare. Con la piccola differenza che nel caso di Gaza non siamo in presenza di una rissa da cortile, ma del massacro di un’intera popolazione. Eppure fior di opinionisti continuano (per tutti Federico Rampini) a praticare una omertosa equidistanza tra massacratori e massacrati, strumentalizzando il pur esecrabile attacco terroristico di Hamas. Per fortuna non tutti la pensano così persino in Israele.

È così facile essere un israeliano: la tua coscienza è pura come la neve, perché tutto è colpa di Hamas. I razzi sono colpa di Hamas. Hamas ha cominciato la guerra, senza alcuna motivazione. Hamas è un’organizzazione terrorista. I suoi esponenti non sono altro che bestie, nati per uccidere, fondamentalisti. Circa 400mila palestinesi hanno dovuto lasciare le loro case. Più di 1.200 sono stati uccisi. L’80 per cento erano civili. La metà erano donne e bambini. Circa 50 famiglie sono state spazzate via. Le loro case sono state distrutte con loro dentro. La tragedia ha raggiunto le dimensioni di un massacro, ma Israele ha le mani e la coscienza pulite. È tutta colpa di Hamas.

(…)

Personalmente non sono un ammiratore di Hamas, al contrario. Ma il tentativo di Israele di dare tutta la colpa a Hamas è inaccettabile. Presto la comunità internazionale giudicherà le atrocità di questa guerra. Hamas sarà criticata, giustamente, ma Israele sarà condannato e ostracizzato molto di più. E gli israeliani diranno: “È colpa di Hamas”. E il mondo intero riderà. (Internazionale.it -Gideon Levy – giornalista israeliano).

Ho letteralmente citato l’incipit e la conclusione dell’articolo di cui sopra, la cui lettura integrale consiglio a tutti coloro che vogliano uscire dai giochetti psico-politici per fare i conti con un vero e proprio sterminio in atto e prendere almeno le distanze dalle responsabilità di chi sta portando avanti questa disumana, vergognosa, tragica e colpevole guerra, nascondendosi dietro il dito della pur grave provocazione subita.

 

Il modello europeo è classico e non va fuori moda

«È urgente, direi prioritario, che l’Europa agisca, perché stare fermi non è più un’opzione». È dal summit sull’innovazione Cotec di Coimbra – lo stesso a cui era presente anche Mario Draghi – che Sergio Mattarella lancia un «appello all’azione» ai vertici delle istituzioni europee. Il tema scelto per l’edizione del 2025 è la competitività, parola finita in cima alle priorità di Bruxelles, in particolare dopo i report di Enrico Letta e dello stesso Draghi. «Progredire senza indugi e con efficacia in quest’ambito è largamente considerata condizione indispensabile all’ulteriore approfondimento del progetto d’integrazione continentale, al rilancio strategico dell’Unione Europea e alla preservazione di un’economia prospera per i suoi Stati Membri e i suoi cittadini», ha scandito Mattarella dal palco del summit in Portogallo.

Di fronte a un mondo che cambia sempre più rapidamente, il capo dello Stato invita l’Europa a darsi da fare per non rimanere indietro: «Sarebbe miope guardare all’Unione come a una costruzione nata “sottovuoto”. Al contrario, fin dalle sue origini gli Stati membri hanno prestato attenzione ad adattare l’Unione a un’ambiente politico ed economico in continua evoluzione». Il riferimento, anche se mai citato esplicitamente, è al terremoto politico, diplomatico e commerciale innescato dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Un passaggio delicato, a cui – secondo Mattarella – Bruxelles dovrebbe reagire lavorando «insieme per un’Europa più competitiva, tecnologicamente avanzata e quindi più sicura, capace di ridurre le sue dipendenze strategiche ma senza pregiudicare la tela di fondo di un ordine internazionale fondato sul libero commercio».

Il discorso di Mattarella a Coimbra arriva poco dopo la Turandot di Giacomo Puccini. Un assist perfetto per le parole che avrebbe pronunciato di lì a poco il capo dello Stato. «Poc’anzi abbiamo ascoltato la romanza ‘Nessun dorma’, potrebbe applicarsi alla nostra Unione», ha detto il presidente della Repubblica. Dopodiché, Mattarella ha rivendicato tutto ciò che distingue il modello economico e sociale europeo, soprattutto rispetto a quello americano e cinese. «L’Unione si erge su solide fondamenta: un’economia di mercato aperta alla concorrenza e agli scambi internazionali; un sistema di banche centrali indipendente; un quadro giuridico stabile e affidabile; una concezione di Stato di diritto saldamente ancorata a una convinta tradizione democratica; politiche di redistribuzione attive ispirate al principio di solidarietà. Occorre essere orgogliosi – ha insistito Mattarella – di questa “eccezionalità europea” e progredire su tali presupposti». (da open.online)

Sono tre gli aspetti toccati dal presidente Mattarella, un europeista convinto in mezzo a troppi europeisti di maniera. Il primo punto riguarda la dinamicità del sistema europeo: non si può giocare sempre di rimessa, imprigionarsi in una diplomazia asfittica e inconcludente, credere nell’Europa ma solo un pochettino, fino a mezzogiorno. Non sono ammesse mezze misure!

Il secondo perentorio invito è quello di reagire al mondo e al modo trumpiani non solo e non tanto tatticamente, ma passando al contrattacco, agendo concretamente per un’Europa protagonista che è in gradi di mettere in campo un modello economico e sociale diverso rispetto a quelli degli Usa e della Cina. È inutile piangere sul latte versato da Trump, bisogna salvaguardare il latte europeo. Ogni botte dà il vino che ha, non è il caso di tentare di tagliare il vino democratico con quello sovranista e populista, ne uscirebbe comunque una vomitevole bevanda.

Il terzo discorso riguarda la consapevolezza di essere portatori, come europei, di un modello originale e competitivo, non rinunciando ai nostri principi per opportunismo geopolitico. Non so se all’alba vinceremo, so che avremo contribuito a costruire un mondo decisamente migliore rispetto a quello emergente dal quadro internazionale di questi tristissimi tempi.

Fa benissimo Sergio Mattarella a farci queste flebo europeiste, a lanciare queste sublimi provocazioni: ne abbiamo un bisogno estremo, se non vogliamo sprofondare del tutto in un mondo di egoismo, ingiustizia e guerra. (Dis)armiamoci e partiamo!

 

 

 

L’algebra papale

Quali erano i rapporti di papa Francesco con la base cattolica e con la gente in genere? Fra la gente era molto popolare, perché riusciva a sintonizzarsi con l’umore delle persone a cuore e Vangelo aperto: in lui prevaleva l’impostazione pastorale della misericordia.

Le sue difficoltà erano invece sul fronte interno laddove tende da sempre a prevalere l’impostazione dottrinale. Il pensiero di Bergoglio fu chiaro fin dall’inizio: non tendere in maniera esagerata alla sicurezza dottrinale a scapito della misericordia.

In molti, preoccupati di svilire la dottrina, facevano buon viso a cattiva sorte: li sa solo lui i bastoni fra le ruote che gli avranno messo i patiti della tradizione. Gli avevano consegnato una Chiesa disastrata dagli scandali e lui era riuscito a recuperare la fiducia e il consenso, toccando certi nervi scoperti. Siccome faceva male alla carne conservatrice non vedevano l’ora di sbarazzarsene e l’ora purtroppo è venuta. Non mi stupisco quindi del respirone di sollievo tirato da parecchi ambienti cattolici a pieni polmoni prevostiani: finalmente un papa che torna a vestire prada.

Checché se ne dica è stata troppo repentina la presa di distanza dal papato bergogliano: lo hanno archiviato con tanta sospettabile fretta.

Riusciranno le due correnti di cui sopra esistenti nella Chiesa e di cui si deve prendere atto – anziché negarle ipocritamente confondendole nella melassa del vogliamoci bene – a trovare un punto d’incontro? La prima comunità cristiana, dove le diversità di vedute non mancavano, riusciva nel dialogo franco e costruttivo a superare le divisioni, forse perché allora le preoccupazioni “politiche” e gli equilibrismi conseguenti non esistevano.

E la gente? Non ha spina dorsale, è succube dei media e, siccome i media sono immediatamente saltati sul carro del vincitore, anche la gente si è buttata a capofitto su Leone XIV: in fin dei conti, morto un papa se ne fa un altro. Il bagno mediatico si è immediatamente spostato da Bergoglio a Prevost.

Per papa Francesco l’espressione matematica può essere la seguente: più gente meno Chiesa o meglio più misericordia meno dottrina. Come si sa in algebra il prodotto finale è negativo. Non sono bastate le preghiere, che insistentemente Francesco chiedeva, a mutare quel meno di Chiesa in un più di Carità cristiana per tutti. Non so quale sia il risultato finale nelle coscienze: nella mia è stato “scombussolatamente” positivo, papa Francesco mi ha fatto bene!

Per papa Leone: più gente più Chiesa, con il prodotto positivo fin dall’inizio. Il nuovo papa va sul velluto: si dà enorme credito al suo parlare di pace come se il suo predecessore non ne avesse mai parlato.

Mi sovviene una sferzante annotazione di mio padre. Parlava il nuovo allenatore di una squadra di calcio – non ricordo e non ha importanza quale – che aveva ottenuto subito una vittoria ribaltando i risultati fin lì raggiunti. L’intervistatore chiese il segreto di questo repentino e positivo cambiamento e l’allenatore rispose: “Sa, negli spogliatoi ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti che dovevamo vincere”. Non ci voleva altro per scatenare la furia ironica di mio padre che, scoppiando a ridere, soggiunse: “A s’ capìssa, l’alenadór äd prìmma, inveci, ai zugadór al ghe dzäva äd perdor”.

Tutto sommato, a tutti, convintamente o distrattamente, interessa più la dottrina della misericordia: la dottrina è fatta di parole che si possono aggirare e formalizzare, la misericordia richiede fatti concreti e ci tiene quindi sulla corda interpellandoci in prima persona.

Non mi convince la tesi secondo la quale il cardinale Prevost fosse e sia il compromesso ai livelli più alti fra dottrina e misericordia. C’era di meglio, penso al cardinale Tagle, che avrebbe inoltre garantito anche la mondializzazione del papato in chiave evangelica e non geopolitica.

Qualcuno sostiene che sia emersa l’esigenza di cambiare l’aria nei rapporti internazionali fra Vaticano e resto del mondo, con la Cina in particolare, forse non per difendere la Chiesa dalle intromissioni di quel regime, ma per fare un favore al trumpismo (boccaccia mia statti zitta!) e pagare un po’ di dazi religiosi agli Usa. Sembra che la candidatura del cardinale Parolin sia scivolata proprio sulla buccia di banana filocinese.

In conclusione, Pietro nelle intenzioni di Gesù, doveva avere la voce rassicurante e riconoscibile del pastore (pasci i miei agnelli e le mie pecore). Mentre per me la voce di Francesco lo era, anche se a volte dissentivo da certe sue linee, la voce di Leone temo di non riuscire a coglierla. Al momento mi sento una pecora senza pastore, salvo cambiamenti nella voce del pastore e nelle mie orecchie.

I valori cristiani a servizio dei problemi europei

Perché le due zone grigie, quella civile e quella religiosa, sono pressoché sovrapponibili, sono due facce della stessa medaglia, solo che quella religiosa conserva l’attitudine alla vocazione, possiede ancora un codice dell’anima condiviso e non vuole rinunciare alla trascendenza, non è un caso, infatti che più della metà degli italiani si rivolge a Dio, crede in una vita dopo la morte e in qualche forma di “giudizio finale”. La grande opportunità allora che si apre in questo scenario sta proprio nel fatto che la Chiesa in uscita può portare con sé, nella zona grigia, in modo più o meno latente, i suoi attrezzi spirituali, il suo bagaglio di capacità di orientamento, la sua tensione verso un altrove, la sua spinta a dare senso ad una vita, “che non si esaurisce tutta qua”. Il contributo visto come cattolici sarà quello di richiamare gli italiani all’uso di quegli strumenti, riattivare quei semi, anche piccoli, che la “chiesa in uscita” porta con sé e che oggi, magari senza saperlo, getta nella società. Colmando, là dove ci si trova e per quanto possibile, quel deficit di vocazione che oggi affligge la nostra società, facendo leva su quell’attitudine alla trascendenza che noi tutti abbiamo interiorizzato e che fa parte del nostro patrimonio nazionale, almeno ancora per qualche generazione, visto che l’analfabetismo religioso si diffonde fra i giovani e tra uno o due generazioni, l’erosione potrebbe essere irreversibile. Avviare allora un lavoro dello spirito, una ricerca di vocazione a tutti i livelli, contrasterebbe il soggettivismo spento, orienterebbe le comunità sociali, grandi e piccole, verso il recupero di valori civili e sociali, valori magari con risonanze religiose, ma senza richiami ad appartenenze, sarebbe un bel modo per incoraggiare il Paese ad andare oltre. (da “Avvenire” – Giuseppe De Rita)
Il pezzo, da cui ho tratto il brano di cui sopra, mi dà lo spunto per andare su una questione attualissima, anche se culturalmente e politicamente piuttosto sottovalutata se non addirittura snobbata: il ruolo dei cattolici nella società odierna. Quei cattolici, che tramite loro illustri rappresentanti hanno contribuito in modo determinante a porre le basi costituzionali della nostra democrazia repubblicana e che hanno avviato e portato avanti il progetto di unificazione europea, hanno ancora una funzione da svolgere per rifondare il Paese e l’Europa nel deserto che nel frattempo si è venuto a creare?
Più volte, raccogliendo le sacrosante provocazioni di un caro amico, sono arrivato alla conclusione che solo dal rinnovato impegno cattolico possa sortire un processo di rifondazione di cui si sente la necessità impellente.
Al di fuori di qualsiasi visione integralista, bisogna riconoscere che le fondazioni del nostro vivere civile hanno bisogno di un’iniezione di cemento cristiano. Purtroppo non esistono formule precostituite, ma soltanto progetti di massima da elaborare, finalizzare ed attuare.
Vengo al discorso europeo: il ruolo dei cattolici è stato decisivo nella costruzione dell’unità europea. Lo hanno ammesso, anche se in ritardo ma con grande onestà intellettuale, gli stessi autori del manifesto di Ventotene. Il manifesto risente dei lacci ideologici del tempo che fu, dal cui buco peraltro si riuscì a cavare ottimi ragni.
Anziché elaborare opportunisticamente e strumentalmente i limiti di un qualcosa (l’Europa di Ventotene) a cui contrapporre il nulla (l’Europa di Giorgia Meloni), sarebbe meglio riempire di contenuti l’eventuale futuro del disegno europeo, rifacendo il percorso dei padri fondatori e non facendo le pulci agli stessi.
Ci saranno degli eredi di De Gasperi, Schumann e Adenauer, disponibili a ripercorrere la strada imprescindibile dell’unità europea? Non li vedo, ma il discorso resta valido e va costruito pazientemente dalla base, pur partendo, oggi come allora, da finalità concrete.
Mi interessa al riguardo l’insistenza con cui Sergio Mattarella affronta la necessità di dare una risposta unitaria a livello europeo sui dazi commerciali. Sarà il nuovo banco di prova da cui partire come fu per il carbone e per l’acciaio?
Nessuno si strappi le vesti e gridi al boicottaggio dei nuovi equilibri imperialistici in via di instaurazione. Potrebbe essere la più eloquente delle risposte al “picconamento” trumpiano, così come all’accomodamento meloniano, nonché al protagonismo macroniano, alla ruminazione britannica e al tira e molla tedesco.

Diritto di impaziente critica evangelica

“Vedrai che sarà meno male di quanto pensi: tradizione come Benedetto; continuità con Francesco (i poveri); un mediatore con meno strappi di Francesco e poi retromarce…; sarà più efficace con la sua mitezza-prudenza…mite ma non debole…si è visto come si è opposto a Vance senza mezzi termini. Speriamo che riesca a ricucire la Chiesa lacerata tra progressisti e conservatori. E influire anche sulla pace (?). Missionario tra i poveri del Perù (20 anni), che andava a trovare a cavallo. Dottrina agostiniana… conosce la Curia e le Conferenze episcopali…unità e pace le due parole chiave. Una Chiesa lacerata non va da nessuna parte… pace quanto c’è bisogno…lo Spirito Santo non finisce di stupirci…io ho sensazioni positive…ma aspettiamo…aspettiamo e preghiamo per Lui. Si è preso una bella croce sulle spalle… (…) Sul tema della sessualità bisogna aspettare per capire la linea del pontificato, non dimenticando che la ricerca della verità è sempre dialogica, anche sui temi morali. Si ricerca insieme…ascoltandosi reciprocamente su temi così spinosi. Tutto nasce dall’ascolto…e questo papa, a detta di chi lo conosce, sa ascoltare…speriamo…”.

Ho riportato integralmente la riflessione che mi ha inviato un mio carissimo amico in risposta alle mie intemperanti, istintive, precipitose, dubbiose, ma sinceramente preoccupate, reazioni a caldo alla nomina di papa Prevost. Accolgo le sue sagge, acute e pertinenti osservazioni, di cui lo ringrazio e di cui farò tesoro all’interno di un confronto da tempo aperto in clima di amicizia e fede.

L’atteggiamento giusto è sicuramento quello della paziente attesa, del dialogo e della preghiera. Per quanto concerne la pazienza è dai tempi della mia prima comunione che aspetto una Chiesa aperta, tollerante e misericordiosa: nel frattempo mi sento (quasi) in dovere di esprimere le mie riserve e i miei dubbi, non rinuncio a partecipare convintamente ma criticamente alla vita ecclesiale. Questo mio atteggiamento è sempre stato scambiato per presunzione e/o snobbato come insofferenza tipica del piantagrane.

Devo chiarire due equivoci. Il primo riguarda la non facile distinzione tra giudizio anti-evangelico e sacrosanta critica evangelica. Cerco di stare sul secondo binario: ogni e qualsiasi deragliamento è da considerare puramente casuale. Il secondo riguarda il mio stile (volutamente) provocatorio, che però non vuole scandalizzare nessuno, ma soltanto stimolare il dialogo ed il confronto.

E vengo al dialogo, facendo un lungo passo indietro, andando ai tempi del referendum sul divorzio. Come redattori del settimanale diocesano “Vita Nuova”, che aveva osato pubblicare un paginone riportando il dibattito aperto su quel tema allora tanto discusso e durante il quale era prevalso l’atteggiamento liberal, chiedemmo un incontro al Vescovo e ci fu concesso: fu chiarificatore ma in senso negativo. Il Vescovo ribadì che a suo giudizio noi (favorevoli all’istituzione del divorzio) eravamo totalmente fuori strada e, pur concedendoci la buona fede, ci considerava ai limiti della comunione ecclesiale: stavamo sbagliando, dovevamo riconoscerlo. A quel punto ricordo di essere intervenuto rincarando la dose ed affermando come ritenessi di avere diritto ad esprimere il mio parere anche su questioni di carattere ecclesiale, più che mai su questioni politiche anche se collegate a problemi etici e come non tutta la gerarchia fosse schierata sulle posizioni assunte così rigidamente dal Vescovo. Gli dissi precisamente: “Sappia monsignore che non tutti i suoi confratelli nell’episcopato la pensano esattamente come Lei!”. La riposta fu: “Non è vero!”. Si chiuse negativamente l’incontro anche e soprattutto perché non si era creato un vero clima di dialogo.

Del tempo ne è passato parecchio, ma ulteriori episodi del mio rapporto con l’episcopato parmense mi hanno portato ad agire da battitore libero, fuori dagli schemi e mi ci sono “felicemente” abituato. Sono io incapace di ascoltare o è la gerarchia cattolica che stenta a mettersi nella “rischiosa” modalità dell’ascolto?

Pregare? È fondamentale! «Non c’è forza più potente della debolezza della preghiera» (Cardinale Carlo Maria Martini). Tuttavia non scarichiamo sullo Spirito Santo le beghe ecclesiali: aiutiamoci a risolverle senza aspettare i miracoli dall’alto.

In conclusione (peraltro siamo solo agli inizi del pontificato di Leone XIV) mantengo i miei dubbi e le mie perplessità, pronto a ricredermi e sperando che nella vita della Chiesa (che non è solo il Papa) prevalgano le novità di metodo e di merito.

«La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. Io sono vecchio e malato e dipendo dall’aiuto degli altri: le persone buone intorno a me mi fanno sentire l’amore. Questo amore è più forte del sentimento di sfiducia che ogni tanto percepisco nei confronti della Chiesa in Europa. Solo l’amore vince la stanchezza. Dio è amore. Io ho ancora una domanda per te: che cosa puoi fare tu per la Chiesa?» (Cardinale Carlo Maria Martini, appello prima della morte).

Accolgo con commozione l’invito del cardinal Martini, che sfiorò il pontificato e seppe fare rinunce al riguardo senza appiattirsi sul pensiero dei pontefici regnanti. Forse era troppo avanzato per fare il papa.

Si dice che il suo passo indietro al conclave del 2005 fosse stato accompagnato da un patto ecclesiale con il cardinal Ratzinger (il lodo Cantalamessa), regolarmente violato da Benedetto XVI. Martini non si scoraggiò e ripiegò sulle proprie idee espresse anche sulla stampa laica e nel dialogo con i non credenti. Certo, lui sapeva aggiungerci l’amore. È lì che per me casca l’asino. Che Dio aiuti Leone XIV e, se non chiedo troppo, che aiuti anche me!

 

Il sesso degli angoli

«Per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante». Per Papa Francesco sarebbe quindi una restrizione moralmente problematica affermare in modo automatico che una persona divorziata e risposta vive in stato di peccato mortale, unicamente a partire dal fatto che essa si trova in una situazione che non corrisponde a una norma della Chiesa.

Già il Vaticano II aveva detto che la sessualità deve prendere una forma veramente umana, cioè “da persona a persona”, superando, quindi, una finalità strettamente naturalistica che permea la sessualità. Perciò proseguire sulla scia del Concilio in un approccio decisamente personalistico, come fa Amoris laetitia, non ha a che vedere con il fatto che si rinuncerebbe a definire ciò che è lecito o non lecito fare. Solo che con l’insegnamento del Concilio e di Papa Francesco il criterio è cambiato. La base delle istanze morali incondizionate non è più costituita dall’ordine funzionale della natura, ma da un ordine personale di ricerca del senso. Ciò che non è lecito, ha a che fare con tutto ciò che lede la dignità delle persone, offende i loro diritti e ferisce la fioritura delle loro relazioni.

Ecco la grande eredità che papa Francesco, con Amoris laetitia, lascia alla teologia morale ma anche al magistero del futuro pontefice. Evitando di credere che tutte le questioni teologiche legate al matrimonio, alla coppia e all’amore siano chiuse e risolte una volta per sempre, in un ordine morale oggettivo, al quale al massimo si possono applicare accomodazioni pastorali più morbide, egli ci offre spunti preziosi per continuare la ricerca e avanzare sulla via della comprensione della dottrina morale che tenga il suo centro gravitazionale sulla sacralità della persona. E questo apre senza dubbio a nuove speranze!

(dal quotidiano “Avvenire” – Antonio Autiero, teologo e professore emerito di teologia morale all’Università di Münster)

Anche e soprattutto su questo piano andrà misurata la continuità di papa Prevost! L’impostazione teologica bergogliana, emergente dalla Amoris laetitia, non è compatibile con i bigotti desiderata di un certo cardinalato e di un certo cattolicesimo, che auspicano un ritorno alla rigidità non a favore delle persone portatrici di problemi ma contro queste persone, in nome di un ordine naturale, sulla base di una reazionaria identità etica piena di pregiudizi ideologici e vuota di carità cristiana.

Nella mia povera e peccaminosa vita sessuale e sentimentale mi sono posto il limite del rispetto non tanto delle regole astratte, ma delle persone concrete. Ecco perché ho visto con tanto interesse le aperture, peraltro fin troppo prudenti, della pastorale bergogliana, che sintetizzo plasticamente nel “chi sono io per giudicare un omosessuale che cerca di vivere seriamente la sua condizione?”. E vale non solo per gli omosessuali.

Speravo che il conclave desse un segnale di continuità e di ulteriore sviluppo di certe impostazioni aperturiste anche e non solo nel campo della sessualità. Non si tratta di adottare lo schema progressisti-conservatori, ma c’erano fra i papabili alcuni cardinali che potevano rispondere abbastanza chiaramente a queste attese. Si è preferita una furba e comoda scelta rassicurante.

Al momento i segnali sono quindi piuttosto contrari. Si tratta solo di segnali!? Saprà il nuovo papa resistere alle ansie restauratrici emergenti da un certo mondo cattolico, i cui rappresentanti gerarchici sembrano averlo più o meno apertamente opzionato?

Il carissimo e indimenticabile amico don Luciano Scaccaglia, nelle sue ultime omelie, mettendo in contrasto la misericordia di Gesù con il moralismo della Chiesa, diceva: «Una cosa è certa: con Gesù è la fine della contrapposizione netta tra buoni e cattivi, è la fine “delle evidenze morali e dei concetti chiari e ferrei”, è la fine dei pregiudizi, a causa dei quali noi sappiamo sempre cosa occorre fare, però nella vita degli altri. Una cosa è certa: la severità della Chiesa, le sue rigide leggi pastorali, liturgiche, sacramentali verso i “diversi”, le coppie di fatto, o persone in difficoltà, o matrimoni in crisi, non aiutano né testimoniano la misericordia di Gesù; non fanno maturare, ma umiliano». E ancora, chiarendo come le distinzioni sessuali non vengono da Dio, sosteneva: «Dio ama tutti, tutte le persone e non guarda alla tendenza sessuale. Noi invece facciamo distinzione e alziamo steccati, laddove non è presente la misericordia di Dio, ma il nostro giudizio severo… Una parte della Chiesa, forte della difesa del matrimonio e della famiglia fatta giustamente da Francesco, veste i panni dei crociati e non ha stima, anzi, rifiuta le unioni civili. Certe iniziative vanno in questo senso: difendono la famiglia, il matrimonio, ma condannano altre forme ed espressioni dell’amore. Strani questi cristiani, questi vescovi, discriminanti e penalizzanti, che pensano di parlare a nome di Dio e di Gesù».

Le istituzioni ridotte a pulpito di bassa propaganda

A poco più di un mese dai cinque referendum sul lavoro e sulla cittadinanza, la maggioranza scende pesantemente in campo per farli fallire. Ad aprire lo scontro è stato Antonio Tajani, vicepremier per Forza Italia e ministro degli Esteri: «Noi siamo per un astensionismo politico, nel senso: noi non condividiamo la scelta referendaria. Andare a votare ai referendum è una scelta libera – spiega il ministro –. È una scelta pure non andare a votare. Se la legge prevede che ci deve essere un quorum, vuol dire che i cittadini devono conoscere l’importanza dei quesiti. Quindi non andare a votare è una scelta politica, non è una scelta di disinteresse nei confronti degli argomenti. Non c’è nessun obbligo di andare a votare, è illiberale chi vuole obbligare ad andare a farlo. Un conto è per le politiche, un altro per i referendum. Se i referendum uno considera che non siano giusti, è giusto per lui che non raggiungano il quorum». (da “Avvenire”)

Sta a vedere che adesso se andare o meno a votare me lo insegna Tajani? Innanzitutto stia bene attento che la storia registra come questi appelli si ritorcano contro chi li lancia. Infatti, se avevo qualche eventuale dubbio sul recarmi alle urne per i prossimi referendum, questo ridicolo intervento me lo ha tolto: andrò a votare! Se funziona così con me è probabile che succeda anche con altri potenziali elettori.

In secondo luogo la distinzione fra voto referendario e voto politico, quanto alla spinta verso l’obbligo, è infondata e soltanto strumentale ai propri interessi di bottega.  L’incitamento al non voto, checché se ne dica, mi sembra comunque una forzatura inaccettabile in quanto anti-democratica.

Matteo Renzi politicizzò a suo tempo in modo improprio i referendum costituzionali e si tirò una colossale zappa sui piedi; Antonio Tajani che di politica ne capisce sì e no un millesimo rispetto a Renzi, se tanto mi dà tanto, passerà alla storia per il suo autogol referendario. E questo a prescindere dai contenuti e finanche dai risultati.

Un ministro che invita i cittadini a non votare non è un bel vedere. Siccome gli attuali governanti italiani possono contare sulla risicata maggioranza della stragrande minoranza, forse stanno correndo ai ripari per mettere una squallida bandierina sull’assenteismo dilagante: un modo come un altro per essere maggioranza nel Paese, vale a dire coltivare il non voto per annetterselo come qualunquistico serbatoio.

Ma non è finita! Sembra calzante l’aneddoto che tutti conoscono: il baritono venne accolto da urla e fischi e, rivolgendosi al pubblico lo pregò ironicamente di pazientare ed attendere l’esibizione del tenore. Fischiate me? Sentirete il tenore! Al baritono Tajani fa eco il tenore La Russa. Una gran bella compagnia istituzionale!

Questa volta l’appello all’astensione è arrivato dalla seconda carica dello Stato, Ignazio La Russa. “Io ho detto ci penso ad andare a votare perché eravamo dentro il Senato e sono presidente del Senato, ora lo ribadisco. Ma sono sicuro che farò propaganda perché la gente se ne stia a casa”, ha rivendicato ieri dal Teatro Niccolini di Firenze in occasione dell’evento “Spazio cultura”, organizzato dai gruppi parlamentari di Fratelli d’Italia di Camera e Senato. (fanpage.it)

Naturalmente se mai si dovesse arrivare al voto referendario sulla schifezza del premierato, tutti a votare, non è ammessa l’astensione. Ma fatemi il piacere…

 

Morto un Papa si fa un Prevost

Ho seguito, più con curiosità che con partecipazione, lo svolgimento del conclave, tentando di dare un significato ad una ritualità che di senso ne ha poco o niente. Se vuole essere un segno tangibile di estraneità rispetto alla ritualità pagana, rischia di (s)cadere nella messa in scena fornita su un piatto d’argento al morboso tritacarne mediatico. Se vuole essere una dimostrazione di riservatezza, finisce col dare la stura ad una dietrologia incontenibile e rovinosa. Se vuole essere la concretizzazione dell’invito evangelico a non essere “del mondo”, arriva a inscenare una Chiesa fuori dal mondo per esservi in realtà dentro fino al collo.

Contraddizioni ed equivoci poco edificanti, confermati da una triste impressione: una sfilata di personaggi freddi, distaccati e preoccupa(n)ti. Come possa fare lo Spirito Santo a scovare un po’ di carisma su cui lavorare, lo sa soltanto la terza persona della Santissima Trinità. La morte di papa Francesco forse ha messo a nudo la carenza di leadership nella Chiesa, perfettamente in linea con la situazione della politica a livello internazionale.

La regola degli ottant’anni, inserita inspiegabilmente da Paolo VI, ha paradossalmente estromesso dal conclave tre cardinali carismatici: mi riferisco a Raniero Cantalamessa, Gianfranco Ravasi e Angelo Comastri. Il più lucido e convincente degli omileti, il più acculturato degli uomini di Chiesa, il più devoto dei prelati. Il primo ha consigliato o forse addirittura prescritto ai conclavisti una terapia d’urto, il secondo, a latere, ha dispensato alla gente garbate ma profonde pillole culturali, il terzo ha proposto di pregare con i suoi meravigliosi rosari. Quasi che teologia, cultura e preghiera fossero degli optional nelle procedure decisionali della gerarchia.

In questo desolante quadro extra-evangelico si sono consumate due reazioni in un certo senso uguali e contrarie: quella popolare in cerca di un mito da sostituire in fretta e furia a quello impropriamente e ingiustamente appioppato a papa Francesco; quella della politica interessata a sgombrare il campo dalle sacrosante provocazioni bergogliane, nascondendosi dietro le bigotte velleità di un ritorno all’etica dell’esclusione o addirittura della demonizzazione delle diversità.

In mezzo ci stanno il chiacchiericcio mediatico e lo sciocchezzaio giornalistico: la Chiesa è come la musica, o la si sente, la si vive e la si soffre oppure è meglio tacere.

Sotto la scorza del conclave ci sono tutti i problemi che non tarderanno a farsi sentire: papa Francesco era capace di ascoltare prima di pontificare e rassicurare. Dopo di lui temo il diluvio. Non ho infatti capito a quale logica geopolitica e/o ecclesiale risponda la scelta caduta su papa Prevost alias Leone XIV. Azzardo di seguito una serie di domande e di previsioni molto disincantate e piuttosto scettiche.

Il primo papa statunitense dovrà buttare la bomba religiosa fra i piedi di Trump? Si tratta del lancio di una sfida o di una mano tesa? Tutto mi aspettavo meno che un papa americano. I signori cardinali hanno inteso prendere Trump per le corna, strappandogli di mano i cattolici che lo hanno paradossalmente votato, i cosiddetti cattolici Maga alla Vance? Visto che il mondo ha perso il riferimento democratico statunitense, la Chiesa cattolica si candida a concedere un porto sicuro a cui approdare? Si è voluto provare a riconquistare il consenso dei cattolici bigotti che detestano l’ideologia di genere e i diritti Lgbtq+ e che sono in cerca di una reazionaria identità etica (discorso che vale per tutti i cattolici nostalgici del vuoto rigore morale a tutti i costi)?

Dal punto di vista ecclesiale si intende risolvere le positive (di)visioni, brandendo più il codice di diritto canonico che il Vangelo, sovrapponendo la Chiesa-istituzione alla Chiesa-comunità? Si sta cercando un ritorno alla normalità post-bergogliana, una sorta di pace sepolcrale sulle prospettive innovative e riformatrici? Si vuole offrire un ragionieristico volto rassicurante dopo che sono emersi tanti buchi nel bilancio della Chiesa? Si pensa di inaugurare una nuova stagione di certezze dogmatiche da spalmare come opportunistico balsamo sulla problematica vita di fede e carità? Che ne sarà della sinodalità, delle aperture ad una sessualità aperta e costruttiva, del celibato sacerdotale, del ruolo delle donne, dell’accoglienza alle diversità, dell’attenzione fattiva agli ultimi della pista?

La gente dopo avere tanto osannato papa Francesco desiderava una forte continuità con la sua impostazione pastorale: ebbene, ha venduto tutto per trenta denari di concertone papale, le basta un semplice “la pace sia con tutti voi” per sopportare una probabilissima impostazione assai lontana dalla provocatoria logica bergogliana.

A proposito di continuità risulta patetico il tentativo di collocare Prevost in continuità con Bergoglio: a partire dagli atteggiamenti e dai comportamenti iniziali non si direbbe che ci sia quella continuità auspicata, sbandierata, ma sotto-sotto comodamente e sostanzialmente liquidata. Non è giusto fare della dietrologia, ma sembra che della candidatura di Prevost siano stati protagonisti i cardinali statunitensi e africani, in contrapposizione a quella di Parolin sostenuta da italiani ed europei, con gli asiatici in attesa di posizionarsi. Parolin si sarebbe ritirato per timore di creare grosse spaccature: parte dei suoi potenziali elettori e gli asiatici si sarebbero spostati su Prevost, preferito comunque dai tradizionalisti rispetto ad un incontrollabile outsider emergente in un conclave bloccato. Pur essendo vero che la storia insegna come i papi, una volta eletti si sgancino dai condizionamenti dei loro grandi elettori, tuttavia Prevost sarebbe stato proposto soprattutto dalle correnti cardinalizie notoriamente e pervicacemente ostili a papa Francesco: statunitensi e africani. Alla faccia della continuità…

Si sarebbe ripetuto quanto successe nel conclave del 2005 allorché il cardinal Martini rinunciò alla sua candidatura e a quella di Bergoglio in favore di Ratzinger per non spaccare la Chiesa e sulla base di un accordo, che poi venne col tempo ampiamente disatteso da Benedetto XVI. La differenza qualitativa dei personaggi allora in lizza rispetto a quelli del conclave appena celebrato è notevole, ma le logiche sono simili. Se non riuscì il cardinal Martini a condizionare un papato di restaurazione, immaginiamo se ci potrà riuscire Parolin, a meno che lo Spirito Santo…

Staremo comunque a vedere. Non desideravo l’assurda fotocopia di Francesco, ma nemmeno la brutta copia di Ratzinger. Speravo nella decisa prosecuzione di una strada, temo invece pericolose pause, deviazioni se non addirittura inversioni di rotta.

La politica, a tutti i livelli, tira un sospiro di sollievo e si lancia nel mettere il proprio cappello sulla testa del nuovo papa: ce n’è per tutti i gusti…Difficile era prendere la misura a Bergoglio, non so come finirà con Prevost. Sento odor di sagrestia e di politici che vanno in chiesa per confabulare coi preti e carpirne strumentali appoggi.

Temo che sia arrivata una fumata grigia e pensare che io sognavo una fumata rosa: la riscossa delle donne, stanche di annunciare il “Risorto” ad una Chiesa maschilisticamente chiusa e vogliose di scaravoltare qualche cattedra piuttosto ingombrante.

Al momento non mi rimane che rifugiarmi sotto la tonaca di papa Francesco, assieme ad una suora che non vuole imbalsamarne l’esempio.

Madre Maria Ignazia Angelini offre una chiave per leggere questo momento storico per la Chiesa: il Conclave chiamato a scegliere il successore di Pietro. Monaca benedettina e teologa, nata a Pesaro 81 anni fa, ha guidato per oltre ventidue anni come abbadessa la Comunità di Viboldone, appena fuori Milano. E, ora, nella stessa Abbazia, riceve chiunque abbia necessità di conforto e consolazione, di condividere un tempo di afflizione o di gioia, di sentire una parola amica. Alla religiosa, insieme al domenicano Timothy Radcliffe, è stata affidata la realizzazione delle meditazioni che hanno introdotto le varie sessioni generali delle due Assemblee sulla Sinodalità.

Un suo ricordo personale?

Un episodio piccolo – cinguettio tra le gravi parole del Sinodo – ma rivelatore. Al termine di una mia riflessione all’inizio di una Congregazione generale, mi si è avvicinato e mi ha detto: “Grazie, mi hanno fatto bene le tue parole, mi hai fatto capire cose cui mai avevo pensato”. Io? Possibile? Ero cosciente di aver semplicemente proposto la meditazione sulla parola evangelica del giorno. Ma l’immediatezza disarmante di questo apprezzamento mi ha profondamente colpito. E subito dopo mi ha domandato se avevo un desiderio. Gli ho raccontato di una mamma che aveva appena perso il figlio unico in un incidente stradale: l’ho raccomandata alla sua preghiera. Mi ha chiesto il nome e il contatto, e immediatamente – lì, in Aula – l’ha chiamata… Lascio immaginare. Ne sono rimasta tanto commossa fino a nascondermi, in lacrime. (da “Avvenire” – intervista a cura di Lucia Capuzzi)

La storica sera, in cui papa Francesco, appena eletto, si presentò, con atteggiamenti e simbologie rivoluzionari, sulla balconata di S. Pietro, ero davanti al video in compagnia di mia sorella Lucia. Eravamo entrambi convinti che fosse successo qualcosa di grande per la Chiesa cattolica. Quella volta lo Spirito Santo era arrivato in tempo. Ero talmente commosso da non riuscire a trattenere le lacrime. Ritorno a quel momento: si vive anche di ricordi, in attesa che lo Spirito Santo batta un colpo cavando Vangelo dai buchi della Chiesa. Riuscirò a sentirlo e a capirlo?

Rifiuto comunque l’ansia di ubbidire supinamente alla gerarchia, al papa, ai vescovi e ai sacerdoti: lo Spirito Santo, in cui credo, opera e soffia (anche in me) ben al di fuori degli schemi. Al riguardo papa Francesco diceva: «Per favore, che nelle vostre comunità mai ci sia indifferenza. Comportatevi da uomini. Se sorgono discussioni o diversità di opinioni, non vi preoccupate, meglio il calore della discussione che la freddezza dell’indifferenza, vero sepolcro della carità fraterna».

Una cosa è certa, la delusione in me è fortissima, ho preso una secchiata gelata sul mio senso di appartenenza alla Chiesa. Mi prendo una pausa di riflessione. Dal momento che il buon (?) giorno si vede dal mattino, posso, al momento, concludere così: finora mi consideravo un cattolico borderline, con Prevost papa mi sento un cattolico offside.

 

La fattoria dei neonazisti

Il portavoce del Cremlino, Peskov, dichiara che “lo scopo del cessate il fuoco proposto dalla Federazione russa è quello di testare la disponibilità di Kiev a trovare soluzioni per una pace sostenibile”. E aggiunge: il rifiuto da parte di Kiev della tregua di tre giorni per il Giorno della Vittoria “dimostra che il fondamento ideologico dell’attuale regime è il neonazismo”. (Rai News.it)

Le provocazioni diplomatiche e le scaramucce verbali non servono alla ricerca della pace, nemmeno ad una tregua degna di tal nome: il tutto rientra in un macabro gioco al rialzo della guerra.

Mi permetterei quindi di consigliare a Zelensky di non cadere in questa trappola, ne guadagnerebbe in termini di fiducia dai Paesi che lo sostengono: come noto, a volte, il più bel tacer non fu mai scritto. Non so se gli serva a tenere caldo il consenso interno, che probabilmente scricchiolerà, tuttavia la sua credibilità non dipende certo dalle risse verbali da cortile.

Forse un gesto di buona volontà nell’accettare la proposta di cessate il fuoco proveniente dal Cremlino non sarebbe stato del tutto sbagliato. Vale la pena provarle tutte…

Ciò non toglie che l’accusa di neonazismo lanciata dal portavoce russo fa sinceramente pena e fa ricordare immediatamente la favola del lupo e dell’agnello: non è difficile applicarla un po’ a tutto l’atteggiamento russo nei confronti dell’Ucraina, che non avrà certo tutte le ragioni, non sarà un esempio specchiato di democrazia, ma non penso possa essere accusata sic et simpliciter di neonazismo per essersi avvalsa di unità paramilitare di volontari di orientamento neonazista. Restando nelle similitudini animalesche, sa tanto di bue che dà del cornuto all’asino. Torno alla favola di Esopo.

Un lupo vide un agnello che beveva ad un torrente, sotto di lui, e gli venne voglia di mangiarselo. Così, gli disse che bevendo, sporcava la sua acqua e che non riusciva nemmeno a bere. «Ma tu sei a monte ed io a valle, è impossibile che bevendo al torrente io sporchi l’acqua che scorre sopra di me!» rispose l’agnello. Venuta meno quella scusa, il lupo ne inventò un’altra: «Tu sei l’agnello che l’anno scorso ha insultato mio padre, povera anima». E l’agnello, di nuovo, gli rispose che l’anno prima non era ancora nato, dunque non poteva aver insultato nessuno. «Sei bravo a inventare delle scuse per tutto» gli disse il lupo, poi saltò addosso al povero agnellino e lo mangiò.

Non esito a considerare Vladimir Putin il più grande delinquente politica della storia di tutti i tempi: ha sommato in sé tutti i misfatti del comunismo e del post-comunismo, della dittatura e dell’autocrazia, dell’imperialismo e del sistema politico mafioso. A mio giudizio nella gara fra chi ha più morti sulla coscienza arriva al fotofinish con Hitler. Gli europei in passato gli hanno staccato troppe cambiali in bianco, che probabilmente Putin ha nel cassetto e che gli servono per tenere in scacco parecchi esponenti politici (pensate ai silenzi di Angela Merkel…).

Mi ricordo le piccate e reiterate reazioni di Mosca ai ragionamenti e riferimenti storici ineccepibili di Sergio Mattarella in merito al parallelismo fra nazismo e attuale imperialismo russo concretizzatosi nell’invasione dell’Ucraina. Ebbene, il neonazista di turno sarebbe Zelensky.

Visto che sono in vena di richiami etici in chiave zoologica, aggiungo, a proposito di neonazismo, un “la prima gallina che canta ha fatto l’uovo”.

La “neonazistizzazione” di Zelensky mi sembra un po’ troppo, anche se al lupo russo sta venendo in soccorso il lupo statunitense. Ricordiamoci la vomitevole scena dell’incontro con Zelensky alla Casa Bianca ipocritamente ammorbidita dallo pseudo-incontro in San Pietro.

Ora abbiamo il mondo in mano al club dei delinquenti: Putin (il più furbo), Trump (il più imbecille) e Xi Jinping (il più simpatico). Giocano a tressette col morto (l’Europa). Se esistesse un termometro per misurare il tasso di neonazismo, certamente Zelensky ne uscirebbe con poche linee di febbre, gli altri con un febbrone da cavallo infettivo per tutto il pianeta terra (altro che covid…).