La canonica non può essere canonica

Ho appena terminato la lettura di un bel libro di Michele Gesualdi sulla vita di don Lorenzo Milani, il cui contenuto può essere sintetizzato così: la canonica, intesa come casa del parroco e sede della parrocchia, nelle ardite esperienze pastorali degli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso a Calenzano e Barbiana, di questo prete toscano incompreso e osteggiato come tutti i veri profeti, diventa la sede ideale della scuola per il popolo, laddove la parola e il sapere riscattano i figli dei poveri da un destino di sfruttamento. Non aggiungo altro e rimando i miei lettori a questo libro veramente interessante.

Contemporaneamente ho appreso come nella parrocchia di Santa Maria del Sile, poco fuori Treviso, vivranno sotto lo stesso tetto un sacerdote, don Giovanni Kirschner e una famiglia: la canonica diventa un luogo condiviso per superare la solitudine del parroco e ospitare una famiglia numerosa (quattro figli) particolarmente aperta e accogliente verso gli immigrati (sei richiedenti asilo). Per ora in parrocchia vanno i componenti della famiglia vera e propria, ma forse fra qualche mese li seguiranno anche i membri extra-comunitari.

Se ai tempi di don Milani urgeva il discorso scolastico, oggi urge recuperare il senso comunitario del vivere insieme, umanizzando la sacralità del sacerdote, condividendo il benessere, valorizzando la famiglia al di là degli schemi anagrafici: un modo di superare in un certo senso e positivamente il discorso del celibato sacerdotale, di rispondere alla crisi della famiglia chiusa in se stessa e di solidarizzare concretamente con gli immigrati.

Sembra che la diocesi abbia dato il suo placet, mentre si registrano le stupide reazioni di chi ritiene questa iniziativa una ostentazione di perbenismo, una esagerazione di accoglienza, un modo per spillare e risparmiare quattrini.

A me sembra un esperimento interessante e provocante: solo rimescolando preti e laici, parrocchia e famiglia, italiani e stranieri, si riuscirà a saldare le diverse esperienze, a dialogare comunitariamente, a collaborare concretamente, a vivere evangelicamente insieme.

Non so cosa direbbe don Lorenzo Milani al suo collega di oggi. L’importante è mettere concretamente a confronto le realtà per farle concorrere al bene comune. Fino ad ora si è pensato e faticosamente provato a far convivere i preti, ad accorpare le parrocchie, a sollecitare l’impegno dei laici col diaconato permanente. L’esperimento trevigiano rimescola le carte, supera gli schemi tradizionali, rimette in discussione le consuete risposte. Sono rimasto colpito favorevolmente anche perché l’importante è smuovere le acque di un dogmatismo incartato sul celibato sacerdotale e sul non sacerdozio femminile, di un solidarismo semplicisticamente risolto dall’associazionismo, di una testarda e assolutistica difesa della famiglia tradizionale, di una carità vissuta   nella beneficenza e non nella lotta concreta e quotidiana alle ingiustizie ed alle povertà.

«Riconosciamo, nelle nostre città, una sempre maggiore fragilità del vivere che riguarda sia i preti sia le famiglie, le coppie, i giovani, gli anziani. L’unica risposta è stare insieme perché nessuno si salva da solo. Condividere può rendere la vita migliore e se una persona vive bene può allargare questo benessere agli altri» così afferma don Giovanni, il parroco di Santa Maria del Sile. «Oggi siamo sopraffatti dalla vita, una solitudine interiore, un forte smarrimento. Per questo dobbiamo ritrovare senso in ciò che facciamo. Siamo circondati da modelli di società che guardano solo produzione e consumo, ma dov’è l’uomo? Dobbiamo prenderci cura l’uno dell’altro» così Silvio Calò spiega da protagonista l’esperimento messo coraggiosamente in atto.

Grazie a loro che ci interpellano con tanto vigore e grazie anche alla giornalista Silvia Madiotto dal cui articolo ho tratto la presentazione dell’iniziativa.

Spes contra spem

“Non si fermano le proteste a Gerusalemme e nei territori occupati. Due vittime negli scontri e feriti dopo la decisione americana di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele e trasferirvi l’ambasciata Usa da Tel Aviv. Colpiti dall’aviazione israeliana obiettivi nel nord della Striscia di Gaza, in risposta al lancio di 2 razzi verso Israele. La tensione è alle stelle, gli scontri intorno alla spianata delle moschee potrebbero riaccendersi dopo le cerimonie per i 30 anni dall’inizio della prima Intifada. Trump ha invitato alla calma e alla moderazione”: questa, nell’estrema sintesi riportata da Televideo, la situazione incandescente venutasi a creare nei rapporti tra Israele ed i Palestinesi. E siamo solo all’aperitivo. Il punto più interessante e paradossale delle notizie è però l’appello alla calma e alla moderazione da parte di Trump: un becco di ferro di portata mondiale.

Ricordo scolastico. In classe con me, addirittura mio indimenticabile amico e compagno di banco, vi era un ragazzo piuttosto emotivo, che, quando veniva chiamato a rispondere a qualche domanda o a leggere un brano, si agitava notevolmente con relativa sorpresa degli insegnanti. I compagni, con la solita scherzosa ma sadica ironia, lo invitavano alla calma: «Non preoccuparti, stai sereno…». E lui, naturalmente, si agitava ancora di più   e bestemmiava tra i denti contro i colleghi, che lo prendevano in mezzo e ridevano come pazzi.

Il presidente Usa prima ha appiccato il fuoco e poi invita a spegnerlo, ben sapendo che in questi casi gli inviti alla calma ottengono esattamente l’effetto contrario in quanto suonano come una beffarda, ulteriore provocazione.

Non mi sono mai illuso che gli Stati Uniti potessero svolgere un’azione pacificatrice: la storia insegna che purtroppo tutti gli Stati, Italia compresa, cercano innanzitutto il proprio tornaconto e poi, semmai, la pace con gli altri Paesi. Nel caso in questione però non riesco sinceramente a trovare il bandolo della matassa degli interessi americani, che spingerebbero Trump a comportarsi in modo schizofrenico fino a tal punto.

Ho ascoltato autorevoli esperti ed osservatori fare alcune ipotesi peraltro molto teoriche e non del tutto convincenti. A livello internazionale gli Stati Uniti punterebbero ad un’alleanza di ferro con Israele e Arabia Saudita contro gli altri Paesi medio-orientali: strategia gradita anche alla Russia così chiamata a ridiventare il polo attrattivo degli anti-americani. In questa prospettiva verrebbe quadrato anche il cerchio delle tacite intese russo-americane, pre e post elettorali, attorno alle quali continua a dipanarsi il tormentone di un Trump sfacciatamente favorito dal nemico. Una sorta di spartizione del bottino, petrolio incluso.

A livello interno Trump terrebbe caldo il suo elettorato, rinsaldando con esso i rapporti, in vista anche di eventuali impeachment, che continuano a profilarsi. Quale miglior metodo di quello guerrafondaio: il nemico esterno distrae l’attenzione dai problemi interni e fa scattare le opportune molle patriottiche.

Se e nella misura in cui fossero vere queste interpretazioni, il comportamento di Trump sarebbe un condensato delle più orrende e tragiche ragioni di stato. Un tempo in occidente si scendeva in piazza contro l’imperialismo americano (ciò avviene ancora in Palestina, Turchia e Iran con tanto di bruciatura della bandiera a stelle e strisce), ma il mondo e le mentalità sono cambiate. Trump e Putin (suo sodale) piacciono anche alla gente europea, che vede in essi la scorciatoia populista ai problemi di vario genere. Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna e Svezia, a livello dei loro governi, sono contro Trump su Gerusalemme, ma poi entrerà in ballo la ragion di stato…

Lo stato di diritto, come sosteneva Pannella, dovrebbe andare contro la ragion di stato. Sta succedendo esattamente il contrario in quanto la ragion di stato schiaccia i diritti su cui dovrebbe fondarsi la pacifica convivenza.

“Spes contra spem”: un’espressione latina di Paolo di Tarso a significare la ostinata fede di Abramo capace di sperare contro ogni speranza, diventata un motto di Giorgio La Pira quale simbolo dell’idea audace di chi sa “osare l’inosabile”, usata da Pannella nel suo invito ad essere speranza (spes) piuttosto che avere speranza (spem) anche nella sua ultima lettera a papa Francesco del 22 aprile 2016.

Quindi ci resta solo papa Francesco. Riuscirà ad essere speranza per chi non ha speranza? Cosa potrà fare come agnello in mezzo ai lupi? Basteranno la sua sensibilità e la potenza dello Spirito Santo a tenerlo lontano dai pasticci internazionali e dai meri interessi vaticani nel mondo? Speriamo…

 

 

Il populismo al cucchiaio, che piace ai terroristi

Il simpatico e acuto salmodiare di Enzo Iannacci diceva: “Quelli che…votano a destra perché Almirante sparla bene”. Di politici che sparlano bene ce ne sono parecchi, anche ai massimi livelli internazionali. Da tempo considero, ad esempio, tempo perso ascoltare e osservare Donald Trump nelle sue esercitazioni con le quali “prende per il culo” il mondo intero. L’ultima non l’ho potuta evitare: il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale dello stato di Israele e il conseguente spostamento in tale città della sede dell’ambasciata statunitense. Si tratta di una insensata provocazione atta a gettare benzina sul fuoco dei già incandescenti rapporti medio-orientali. Se è vero, come è vero, che il conflitto tra israeliani e palestinesi è la madre di tutte le questioni di quell’area, aggiungere benzina proprio lì significa voler incendiare ulteriormente quella parte di mondo in cui, tra l’altro, alberga il terrorismo islamico.

Ho seguito con i nervi a fior di pelle l’insensato annuncio ufficiale fatto da Trump e, se non mi sono troppo innervosito, credo di aver capito che questo buffone faccia un ragionamento paradossale: siccome tenere Gerusalemme a bagnomaria non è servito a risolvere i problemi della convivenza tra Arabi e Israeliani, tanto vale buttare, come si suol dire, il prete nella merda e giocare d’anticipo mettendo tutti davanti al fatto compiuto.

C’è però un “piccolo” particolare: se si vuole spiazzare l’avversario che spinge alla porta, al fine di togliergli una importante argomento conflittuale bisogna aprire la porta improvvisamente e non chiuderla a doppia mandata o blindarla, con il solo risultato di innervosire il nemico. Roba di buon senso, non certo di alta strategia internazionale.

Il meno che possa succedere è di portare acqua polemica al mulino del terrorismo islamico, avvicinando ad esso i palestinesi, i musulmani stuzzicati nel loro orgoglio, nonché tutti coloro che odiano gli americani e gli occidentali. Mi sembra che Trump non vada oltre gli specchietti per le allodole per i suoi elettori a costo di mettere a repentaglio gli equilibri mondiali: spinge gli arabi in braccio ai terroristi o nella migliore delle ipotesi in braccio a Russia e Cina, isola ulteriormente l’Europa, se ne frega di tutto e di tutti (degli immigrati in primis…).

L’annuncio vomitato davanti alle telecamere mi ha colpito non solo e non tanto a livello verbale, ma anche per l’atteggiamento strafottente che lo ha accompagnato: un mix della gestualità di tutti i peggiori dittatori della storia. Un po’ di Mussolini, un po’ di Hitler, financo un po’ (tanto) di Berlusconi. Se lo scontro televisivo tra Kennedy e Nixon all’inizio degli anni sessanta dello scorso secolo cambiò il modo di rapportarsi con l’elettorato, non vorrei che l’apparizione televisiva di Trump per annunciare al mondo l’opzione gerosolitana passasse alla storia come il nuovo modo di volere la pace preparando la guerra.

La contenuta irritazione europea, l’impacciato e flebile appello vaticano, la strumentale reazione del mondo arabo, l’irritante soddisfazione israeliana, la tatticistica e sorniona attesa delle superpotenze rendono il quadro surreale, tale da far canticchiare: “Quelli… a cui piace Trump, perché una cucchiaiata di populismo fa sempre bene, due ancora meglio…”.

Pisapia, pisapippa e pisapizza

Da parecchio tempo mi sono chiesto cosa trovi Giuliano Pisapia di tanto progressista in Bruno Tabacci (suo compagno di cordata) rispetto, che so io, a Domenico Del Rio e ai dirigenti in genere del Partito Democratico. La domanda mi è tornata ancora più spontanea, quando l’ex sindaco di Milano ha gettato la spugna riguardo alle trattative per un’alleanza col PD condotte con Piero Fassino, chiamandosi fuori in prima persona e sciogliendo di fatto il suo Campo Progressista. Se ho ben capito – non è facile infatti comprendere le mosse strategiche e tattiche degli esponenti dell’area di sinistra – non ritiene possibile un’alleanza col PD, complici i tentennamenti sull’approvazione del cosiddetto Ius soli.

Quest’ultimo mi sembra un argomento pretestuoso, perché Pisapia sa benissimo che questa legge non può contare su un pacifico consenso parlamentare e rischia di incrinare i rapporti con gli alleati di centro (gli amici di un tempo di Bruno Tabacci) ed affrettare la caduta del governo in carica, con grave pregiudizio per tutta la problematica sul tappeto. Sono portato a pensare che Pisapia sia invece rimasto spiazzato dal nuovo movimento “liberi e uguali” e soprattutto dalla mossa di Pietro Grasso che si è reso disponibile a capeggiarlo. Gli hanno praticamente tolto la terra sotto i piedi, lui ha cominciato a traballare e ha colto l’occasione per farsi da parte: in effetti tre partiti di sinistra erano un po’ troppi, già di due uno avanza, immaginiamoci tre. Pensava di poter essere il referente di tutto il mondo alla sinistra del PD in dialogo collaborativo con lo stesso PD: il progetto è fallito per i troppi protagonismi e soprattutto per l’astio viscerale verso Renzi che manca nel pedigree di Pisapia.

Non ho ancora capito quanto ci sia di ingenuo e/o di sprovveduto nel carattere e nella mentalità di questo personaggio: sicuramente è in buona fede e, con le arie che tirano,   non è poco, ma non ci voleva molto a prevedere che i soliti marpioni della solita sinistra (D’Alema) lo avrebbero impallinato alla svelta. Molto probabilmente finirà così prima o poi anche Grasso: lo stanno strumentalizzando in modo vergognoso e lui sta al gioco in modo altezzoso e ambizioso.

Oltre tutto Pisapia, per diventare sindaco di Milano, non ha forse fatto un’operazione assai simile a quella renziana: una sinistra, tutt’altro che estremista, che guarda al centro (Tabacci ne era appunto un lucido e intelligente protagonista e garante). Pisapia, pur provenendo dall’area politica della sinistra estrema, non fa parte della burocrazia sinistrorsa che vuole reimpossessarsi non tanto del governo del Paese, ma dell’egemonia sul vecchio popolo ancora sensibile (non so quanto) ai richiami della foresta. Troppo moderato per gli uni, troppo spinto per gli altri, schiacciato in mezzo ad una morsa in cui non ha avuto il coraggio di resistere.

Quando si profilò all’orizzonte il suo ambizioso ma vago disegno politico, Beppe Grillo, che la politica la capisce più di tutti i pentastellati messi assieme, lo ribattezzò “Pisapippa” con il suo solito gusto dissacrante e distruttivo: allora ne risi soltanto, ora non ne rido più, perché ne esce con la patente di “pasticcione inconcludente” (e me ne dispiaccio sinceramente).

D’altra parte se l’arte del pizzaiolo napoletano è stata dichiarata patrimonio culturale dell’Umanità Unesco, considerata non come fenomeno commerciale ma come forma culturale, l’arte del cuoco politico milanese, Giuliano Pisapia, la possiamo ben inserire nel patrimonio culturale dei progressisti, considerata non come fenomeno della sinistra ma come pasticcio delle sinistre.

 

 

 

 

Le colpe dei figli ricadono sui padri

Consiglio a tutti di seguire la trasmissione Rai di Corrado Augias “Quante storie”. Ha il grande merito di calare la cultura, soprattutto i libri che ne sono uno specchio fondamentale, nel contesto politico, sociale ed economico e di proporre allo spettatore riflessioni profonde ma abbordabili. Molto opportunamente ogni giorno vengono ospitati studenti di scuola media superiore, i quali sono caldamente sollecitati ad intervenire con osservazioni e domande: lo fanno con tanta fatica, mettendo in mostra limiti sconcertanti a livello di formazione e di sensibilità.

Ogni volta tento disperatamente di giustificare questa estraneità con la loro giovane età, con il clima che li circonda e li induce ad evadere, con l’educazione familiare che li vezzeggia, con la scuola che li sopporta, con gli anziani che li difendono, con i nonni che li mantengono, con i media che li distraggono, con il lavoro che non li accoglie.

Poi faccio inevitabilmente un parallelo con la mia lontana gioventù. Anche la mia generazione scontava l’ingenuità e la timidezza tipiche della giovane età, ma aveva il coraggio di criticare e contestare il sistema, magari con atteggiamenti e metodi assai discutibili: meglio comunque esagerare nella protesta che accettare acriticamente la situazione. Anche i giovani di un tempo erano distratti e tentati dalle proposte fuorvianti del consumismo, ma sapevano cogliere gli aspetti fondamentali del mondo in cui vivevano.

Anche gli adolescenti di un tempo avevano un rapporto difficile con le famiglie, magari arrivavano a scontrarsi duramente con esse, persino a rifiutarle, ma non cercavano nei genitori i difensori d’ufficio delle loro inadempienze e dei loro difetti. Anche gli studenti del sessantotto avevano difficoltà nei percorsi scolastici, ma avevano la forza di opporsi, di occupare le università, di studiare senza mettere la testa nel sacco o senza rifugiarsi sulle nuvole. Il rapporto con gli anziani era tutt’altro che tranquillo, era conflittuale, ma meglio essere critici e criticati che compatiti. L’indipendenza economica era convintamente cercata e si soffriva a farsi mantenere. Si leggeva molto, si discuteva, si litigava. Le possibilità di lavoro erano maggiori, ma non si tergiversava aspettando che il posto di lavoro cascasse dal cielo.

Osservo i giovani con molta preoccupazione: mancano in loro cultura e sensibilità politiche. Ai miei tempi si sosteneva che “tutto fosse politica”, oggi la politica viene considerata una fesseria. Dove li abbiamo condotti questi giovani? Cosa abbiamo loro insegnato? Domande legittime e scomode. Quando li vedo non parlare o quando li sento parlare, mi chiedo: di chi è la colpa di tanta pochezza? Delle testimonianze sbagliate fornite loro o della svogliatezza con cui i giovani guardano il mondo che hanno attorno?

Dal punto di vista educativo, mio padre usava pazienza e senso pratico. Non ho mai ascoltato dalla sua bocca nessuna cosiddetta “paternale”, vale a dire nessun rimprovero o insegnamento teorico, tutto avveniva sempre in diretta, potremmo dire “il bello della diretta”. Non avevo un papà bontempone e accondiscendente ma carismatico, che esercitava l’autorità cercando di ottenere il meglio senza imporre ma proponendo con pazienza.

Su quest’ultima dote voglio soffermarmi un attimo recuperando quanto egli diceva di suo padre. Tutte le sere da giovane, maggiorenne e vaccinato usciva e si sentiva ripetere una serie di domande: “Ät tòt su un po’ äd sold? Gh’ät il ciävi? Gh’ät al fasolètt? E dulcis in fundo Véna a ca’ bonóra” . Quando me lo raccontava papà non aveva vergogna ad ammettere: “E mi gnäva sempor a ca’ tärdi!”

Un’altra battuta, che ho sentito ripetere da mio padre in occasione di rimproveri martellanti rivolti da madri o padri, un po’ isterici e troppo esigenti, ai loro figli bambini, magari per far loro smettere certe abitudini (succhiarsi il dito pollice) o certi vizietti infantili (attaccarsi alle gonne della mamma), è la seguente: “A t’ vedrè che quand al se spóza al ne la fa miga pu”. Della serie diamo tempo al tempo. Oppure di fronte a certi comportamenti adolescenziali piuttosto caparbi per non dire testardi era solito commentare: “S’al fa tant a catäros la moroza a cambia tutt”.

Certo mio padre non aveva a che fare con gli attuali, epocali e drammatici cambiamenti, situazioni quasi impossibili da dipanare ed in cui districarsi. A fronte di questa paradossale dinamicità globale i giovani soffrono la mancanza dello strumento principale di analisi e di impegno: la politica. Le ideologie non esistono più, le classi sociali si sono mischiate, le categorie mentali si sono capovolte, gli schemi culturali sono saltati. In poche parole, la politica gliela abbiamo rovinata e sfilata di mano. O hanno la pazienza di ricominciare daccapo o vivranno a mezz’aria con il rischio di ripiombare a terra spinti solo dai drammi della vita.

Uno zio sacerdote quasi papa

Molto impegnativo il quesito posto da mia madre al fratello sacerdote in ordine alla convivenza col marito, apparentemente non credente. Doveva tentare un improbabile proselitismo? Doveva porre il problema con una certa enfasi? Doveva provocare discussioni sul punto? Mio zio che conosceva l’onestà intellettuale e lo spessore morale di mio padre, rispondeva con un laconico ma apertissimo atteggiamento:“Lasol stär acsì”; adottava l’interpretazione, da me ascoltata e convintamene recepita, di un passo evangelico piuttosto delicato, laddove Gesù afferma: “Chi non crederà non sarà salvo”; da intendersi: “Chi non amerà non sarà salvo”.

A distanza di ottant’anni papa Francesco afferma: «Evangelizzare non è fare proselitismo. La Chiesa cresce non per proselitismo ma per attrazione, cioè per testimonianza, lo ha detto Benedetto XVI. Evangelizzare è testimoniare come vivere il Vangelo e in questa testimonianza ci sono conversioni. Ma noi non siamo entusiasti di fare subito le conversioni. Se vengono, si parla, per cercare che sia la risposta a qualcosa che lo Spirito ha mosso nel cuore davanti alla testimonianza del cristiano. Nel pranzo coi giovani a Cracovia uno mi ha chiesto: cosa devo dire a un compagno di università amico bravo ma ateo? Cosa devo dirgli per cambiarlo, per convertirlo? La risposta è stata questa: l’ultima cosa che devi fare è dire qualcosa. Tu vivi il tuo Vangelo e se lui ti domanda perché, gli puoi spiegare perché lo fai e lascia che lo Spirito Santo lo attiri. Questa è la forza: la mitezza dello Spirito Santo. Non è un convincere mentalmente con spiegazioni apologetiche. Noi siamo testimoni del Vangelo. Il proselitismo non è Vangelo”».

Mio zio sacerdote era quindi un profeta? Direi proprio di sì, e anche coraggioso, perché negli anni quaranta del secolo scorso non era facile sostenere simili tesi. Mia madre, di fronte a quella risposta si tranquillizzò in coscienza, mio padre continuò ad essere un galantuomo diversamente credente. Il problema sono io, che non sono tranquillo in coscienza perché non sono sicuro di essermi sempre comportato da galantuomo. Confido nello zio protettore, porto il suo nome.

Come ho ripetutamente scritto la mia vita, spiritualmente parlando, parte da una scena, che peraltro mi riguarda direttamente anche se avvenne appena prima della mia nascita, così delicata e commovente da mettermi i brividi. Lavinia, mia madre, era in attesa del secondo figlio, dopo quattordici anni dalla nascita della primogenita e mancavano pochi giorni al lieto evento. Ennio, suo fratello sacerdote, a trentacinque anni, era devastato da una tremenda malattia ed era perfettamente consapevole della ormai prossima fine. Mia madre, con il suo enorme pancione, si recò in visita allo zio (era un “rito” di tutte le sere) e quella volta trovò il coraggio di chiedergli se, nel caso in cui nascesse un maschio, avrebbe avuto piacere che lo chiamassero con il suo stesso nome, Ennio. Si trattava di un omaggio, ma anche di una elezione a protettore di tutta la dinastia, in quel momento da me prematuramente e indegnamente rappresentata. Nacque il maschio, lo chiamarono Ennio, lo battezzarono al cospetto del sempre più sofferente sacerdote, la zia suora lo porse in fasce al bacio di benedizione.

Se con queste premesse mi dovesse capitare di precipitare nel regno degli inferi, vorrà proprio dire che ce l’avrò messa tutta di mia spontanea volontà. Pochi giorni dopo il mio battesimo lo zio Ennio finiva il suo calvario, terminava le sofferenze accettate, o meglio offerte, in un cammino di autentica santità e…profezia. Mia madre, che ammirava il fratello prete, come più non si può, tra il serio e il faceto, gli pronosticava una carriera ecclesiastica di grande portata: «Diventerai, come minimo, papa…». Lui ci faceva sopra una sana risata. Forse oggi lo zio Ennio sacerdote, tramite Francesco, è diventato, un pochettino, papa.

Nella mia vita ho avuto il dono di nascere, crescere e vivere all’ombra di profeti: l’infanzia e la giovinezza con un’educazione religiosa illuminata dal ricordo vivo e palpitante dello zio sacerdote; la maturità caratterizzata dall’amicizia con “preti conciliari”; l’anzianità ravvivata dalla testimonianza scomoda di don Luciano Scaccaglia, un prete di frontiera.   Una bella ma gravosa sommatoria di responsabilità: io…speriamo che me la cavo….

 

La dieta della sinistra a base di Grasso

Alla mia veneranda età, non tanto e non solo anagrafica ma soprattutto politica, nei giudizi tende a prevalere il disincanto al limite dello scetticismo, il coraggio di scartare vince sulla prudenza di aspettare. Di fronte al discorso di investitura di Pietro Grasso a leader del nuovo (?) partito-movimento-lista, che raggruppa MDP, SI, Possibile e altri, in parole povere che raccoglie tutti gli scontenti e gli avversari del PD a sinistra del PD (i duri e puri…), ho provato grande pena e malinconia, un senso di ripulsa (lo devo ammettere) verso un’operazione politica di dubbia sincerità ed autenticità (non vado per il sottile).

La generica dissertazione tuttologica, che ho potuto ascoltare integralmente in diretta sulla Rai (strana questa disponibilità di spazio per una televisione pubblica ritenuta asservita al potere renziano), mi ha riempito di tristezza: si vorrebbe ripartire dall’anno zero, dall’abc della sinistra storica, dal recupero dell’identità, dal collegamento con le forze sane del Paese, come se fino ad oggi la sinistra non fosse mai esistita e tutto il male, che non vien per nuocere, fosse imputabile a Matteo Renzi ed alla sua proposta politica. Ecco perché definisco falsa l’iniziativa che vuole solo aggregare gli arrabbiati, cavalcandone strumentalmente i più triti argomenti. Non ho ascoltato neanche una proposta riformatrice degna di questo nome, ma solo un elenco di ovvietà e di propositi velleitari. Volete un esempio: “i bonus ai giovani finiscono, ma i giovani restano…”. Era da tempo che non mi imbattevo in simili scemenze nel dibattito politico della sinistra.

Quando il discorso si affacciava timidamente alla sostanza dei problemi al di là delle forzature polemiche, non si notava alcuna diversità rispetto alle proposte del PD. Si è voluta camuffare l’evidente povertà della rancorosa operazione ricorrendo al carisma (?) di un non-politico, di un uomo che veniva dalla società civile e forse era meglio se ci rimaneva. La politica non si impara in quattro anni ricoprendo un alto incarico istituzionale. Il discorso è molto più complesso e difficile. Pietro Grasso non conferisce alcuna novità alla sinistra e dà solo copertura alle solite manovrine sinistrorse. Vi erano più applausi che proposizioni a dimostrazione che si voleva solo ingaggiare un uomo delle istituzioni trasformandolo in un improbabile capo-popolo.

Se dovessi fare un resoconto di questo comizio sarei in gravissime difficoltà: tutto compreso nel biglietto. Un tuffo nel passato: il recupero del cordone ombelicale con la CGIL, la rivisitazione dei luoghi comuni della burocrazia post-comunista, il riciclaggio di personaggi logori ed astiosi, la riproposizione riveduta e scorretta di categorie del sociologismo datato, il rifugio identitario nell’utopismo fragile, la voglia di fare un dispetto alla moglie PD tagliandole sadicamente i legami con il popolo. Il tutto non per prendere la rincorsa, ma per rimanere ancorati a schemi superati, per celebrare una rivalsa, per conservare un potere più di nicchia che di piazza, più di nostalgia che di futuro. Il nuovo movimento si chiamerà “liberi e uguali”: liberi di far male alla sinistra ed al suo elettorato potenziale; uguali a chi nella storia ha scelto il massimalismo a danno del riformismo, regalando il sistema alla conservazione se non alla reazione.

È inutile girarci intorno: si tratta di un fatto grave, che prelude ad una grave sconfitta, l’ennesima e forse decisiva. Non riesco a farmene una ragione, non capisco e quel che capisco mi fa quasi ribrezzo. Non ho idea di quanto consenso riuscirà a catalizzare questo nuovo partito, non so quanti voti “ruberà” al PD.   L’importante per questi signori è far perdere Renzi, costi quel che costi. Volendo parafrasare il coro finale del Macbeth verdiano, al convegno   costituente, su cui Grasso ha messo il proprio cappello, si sarebbe potuto cantare: «Renzi, Renzi ov’è?…dov’è l’usurpator…D’un soffio il fulminò il dio D’Alema. L’eroe Grasso spense il traditor».

Dal momento che mi mancano occasioni di confronto e di dibattito e non ho assolutamente voglia di cercarle col lanternino, oltre che sparare a raffica i miei giudizi al veleno, non mi resta che rifugiarmi nel patrimonio culturale ereditato da mio padre. Lui era un socialista senza socialismo ed anche questo lo si deduceva da come spesso sintetizzava la storia della sinistra in Italia, recriminando nostalgicamente sulla mancanza di un convinto ed autonomo movimento socialista, che avrebbe beneficamente influenzato e semplificato la vita politica del nostro paese. Non era anticomunista, ma era autonomo rispetto a questa ideologia ed estremamente critico verso gli aspetti più superficiali, faziosi, demagogici, anticlericali del comunismo italiano. Oggi sentirebbe puzza di bruciato, perché qualcosa di questo comunismo emerge dal massimalismo (da Massimo D’Alema) del nuovo soggetto politico, capitanato frettolosamente da Pietro Grasso, che oltre tutto naturalmente si guarderà bene dal dimettersi da Presidente del Senato. Ma questo è il meno!

Una bandiera per “giocare” al nazi-fascismo

Una bandiera utilizzata dai neonazisti è apparsa in una camerata della caserma dei carabinieri Toscana. A mostrarla è un video sul web. Nelle immagini, per un attimo, accanto alla bandiera, definita “la bandiera di guerra del secondo Reich”, appare anche un poster, forse un fotomontaggio, con l’immagine di Salvini. Dall’Arma si rende noto che il comandante del battaglione sta “valutando provvedimenti disciplinari” ed eventuali conseguenze penali del gesto. La caserma si trova non lontano dal centro storico di Firenze. Accertamenti sono condotti dai carabinieri del comando provinciale per raccogliere gli elementi utili a fare luce sull’episodio.

Il ministro della difesa Pinotti ha chiesto al comandante dei Carabinieri, generale Del Sette, “chiarimenti rapidi e provvedimenti rigorosi” sull’esposizione della bandiera neonazi. L’Italia e la sua Costituzione “si fondano sui valori della Resistenza” scrive Pinotti. “Chiunque giura di essere militare lo fa dichiarando fedeltà alla Repubblica, alle leggi, alla Costituzione. Chi espone una bandiera del Reich non è degno di far parte delle Forze Armate avendo violato quel giuramento. I carabinieri sono un simbolo. Per questo è ancor più grave l’esposizione della bandiera neonazista”.

Fin qui la scarna e burocratica cronaca del fatto, letteralmente scaricata da Televideo. Mi sono augurato che si trattasse di una falsa notizia, di quelle che gironzolano subdolamente sui social e in internet e di cui si fa un gran parlare, temendo che possano seriamente (?) influenzare la pubblica opinione anche in vista della prossima consultazione elettorale. Mi sto convincendo che il castello informatico in cui viviamo sia fatto di carte piuttosto false, che però purtroppo non crollano al primo soffio di verità, ma si autoriproducono all’infinito e rischiano di portarci fuori dalla mentalità democratica.

Ammettendo quindi che la notizia sia vera, confesso che un brivido mi corre nella schiena: non credo che i carabinieri di quella caserma si giustificheranno dicendo di giocare a bandiera per distrarsi dalle tensioni accumulate nell’espletamento del loro servizio. Era un innocuo gioco che un tempo si faceva nei cortili delle scuole, a metà strada fra la (mal)educazione fisica e la sciocca competizione ludica. Probabilmente si scherza col fuoco o si infuoca lo scherzo: è inutile nascondersi che queste divagazioni culturali (?) albergano negli uomini in divisa e non solo a livello di truppa. I tristi fattacci di Genova e altri episodi piuttosto frequenti dimostrano che il richiamo della foresta nazifascista è sempre in agguato in chi deve garantire la difesa, l’ordine e la sicurezza: a ben pensarci è un dato gravissimo che grida vendetta al cospetto della storia e della Costituzione italiana (lo dice con parole un po’ troppo retoriche il ministro, come sopra riportato).

La storia purtroppo si ripete: nei giorni scorsi seguendo le belle ricostruzioni trasmesse dalla Rai (manco a farlo apposta il ciclo si intitola “Passato e presente”) mi sono rinfrescato la mente sull’omertoso, se non addirittura complice, comportamento delle forze dell’ordine verso i fasci di combattimento, prima ancora che si instaurasse il regime mussoliniano: lasciavano fare, chiudevano un occhio sulle violenze e le distruzioni verso persone e strutture riconducibili ai ceti operai e contadini, in quanto si sentivano appoggiati e protetti da questi scalmanati contro i pericoli rivoluzionari del socialismo.

Temo che nelle forze armate e in quelle di polizia permanga questo senso di psicologica subordinazione verso l’estrema destra politica e la sua strumentale e demagogica capacità di difendere sempre e comunque l’onore di chi porta una divisa. Questo è l’iceberg le cui punte sono rappresentate dagli episodi clamorosamente filo-fascisti e filo-nazisti, come quello del vessillo agitato in quel di Firenze.

Invece di baloccarsi stupidamente con vomitevoli bandiere, sarebbe opportuno che carabinieri e polizia si impegnassero e sprecassero il loro coraggio in battaglie come la lotta allo sfruttamento delle ragazze immigrate: cosa ci vuole a individuare e arrestare i protagonisti di questa vera e propria tratta? Molti diranno che è tutta colpa di una politica permissiva e remissiva verso il fenomeno migratorio e quindi si ritorna daccapo. Non è un caso che (fotomontaggio o accostamento vero e proprio) accanto alla bandiera nazi-fascista ci fosse l’immagine di Salvini: mentre i carabinieri si sentono più tranquilli sventolando questi scandalosi vessilli presi a prestito da certi ben noti gruppi estremisti, questi ultimi si sentono protetti da certi ben noti politici. E il cerchio anti-democratico si chiude.

Un’ultima notazione: un mio insegnante non poteva sopportare (giustamente) la retorica della gloriosa Marina, dei gloriosi Carabinieri etc. etc. Diceva infatti: siamo tutti gloriosi se facciamo bene il nostro dovere di cittadini e di democratici. Grazie ancora professore!

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Pil dei poveri

Il Censis nel suo rapporto annuale scatta una impietosa fotografia sociale dell’Italia: «Non si è distribuito il dividendo sociale della ripresa economica, il blocco della mobilità sociale crea rancore e la paura del declassamento è il nuovo fantasma sociale». Il Censis aggiunge che l’87% degli appartenenti al ceto popolare ritiene difficile salire la scala sociale, l’84% degli italiani non ha fiducia nei partiti, il 64% è convinto che il cittadino non conti nulla. In questo quadro l’immigrazione evoca sentimenti negativi nel 59% degli italiani, con valori più alti nei ceti più bassi.

Non è certo una immagine incoraggiante anche se evidenzia dati abbastanza scontati. Che la ripresa economica fatichi non tanto a consolidarsi ma a spalmarsi sull’occupazione è cosa nota, che getta secchiate gelide sulle speranze, peraltro avvalorate da convergenti dati sulla ripresa economica provenienti da varie istituzioni e da diversi settori. Non capisco chi nega ostinatamente che l’economia italiana si stia riprendendo, sostenendo che i dati sul Pil non sarebbero attendibili e artatamente gonfiati. Su questi dati, quando hanno davanti il segno negativo, si costruiscono analisi e giudizi catastrofici; quando il segno diventa positivo non ci si crede. Mi si perdonerà, al fine di rendere l’idea, una divagazione di carattere calcistico.

Nel corso di un campionato di serie B di molti anni fa assistemmo all’incontro tra il Parma, la nostra squadra che militava nei bassifondi della classifica, e il Cagliari, compagine di altissima classifica. Mio padre temeva molto questo scontro e pensava, come la gran parte del pubblico, che il Parma avrebbe subito una pesante sconfitta. Invece – il bello della imprevedibilità del calcio – il Parma vinse con un largo punteggio, un cinque a uno clamoroso. Uscimmo con pochi minuti di anticipo, visto il punteggio: «In faran miga quàtor gol in du minud» diceva mio padre mentre abbandonavamo con una certa soddisfazione lo stadio. Appena fuori, sullo stradone, incontrammo un distinto signore che ci chiese educatamente il risultato della partita. Risposi con orgoglio: «Il Parma ha vinto cinque a uno». Ci guardò con uno strano sorriso e proseguì per la sua strada. Mio padre mi disse: «Al ne gh’à miga cardù. Adésa al la dmandarà a ‘d j ätor…Al nostor Parma…s’al pèrda i criticon, s’al vensa i ne gh crèddon miga…».

Il discorso occupazionale fatica purtroppo a trovare una definitiva e significativa inversione di tendenza, anche se qualche risultato positivo può essere registrato, ma vale sempre il discorso di cui sopra.

Sarò un patito della politica, ma quelli che mi preoccupano maggiormente sono i dati sulla sfiducia dei cittadini nel sistema politico e la chiusura egoistica da parte dei ceti più bassi: una specie di sconfortante illusione di risolvere i problemi chiudendosi a riccio nella propria particolare pessimistica povertà, che così facendo da economica diventa intellettuale e morale.

John Kavanaugh, sacerdote gesuita, filosofo e osservatore critico della nostra società consumista, scrive: «Gli uomini e le donne hanno un valore inestimabile non perché possono servire come strumenti per generare un prodotto interno lordo o per costruire la terra, né perché sono capaci di produzione o di potere e di dominio, ma perché nell’abbraccio compassionevole della loro stessa verità, nella povertà del loro essere spaventosamente incompleti, si scoprono sì vulnerabili, ma radicalmente aperti in libertà alla pienezza dell’amore e della conoscenza personale. Essi incarnano il loro stesso Dio».

Mi sembra la migliore risposta possibile agli aridi dati del rapporto Censis, pur nella consapevolezza che la povertà molto spesso rimpicciolisce il cuore, ragion per cui, come diceva papa Giovanni, le persone, prima di essere coinvolte in discorsi di apertura spirituale e sociale, dovrebbero essere soddisfatte nei loro bisogni impellenti.

Giancarlo Bossi, eroico padre missionario nelle Filippine, in riferimento alla sua diretta esperienza scrive: «Ho capito che dovevo camminare con i piccoli, i poveri. Loro sono sempre più avanti di me, perché hanno valori innati che sono già cristiani…». Cosa direbbe

del fatto che, come sostiene il Censis, l’immigrazione evoca sentimenti negativi nel 59% degli italiani, con valori più alti nei ceti più bassi? Se non erro, infatti, ciò significherebbe che più si è poveri più si tende a osteggiare i poveri, nel caso gli immigrati. Che questa brutale constatazione non serva a mettere a posto la coscienza dei ricchi!

Trump e naziskin insieme appassionatamente

Negli Usa ha sollevato polemiche il verdetto assolutorio di un immigrato messicano accusato della morte di una donna uccisa da un proiettile mentre camminava su un molo di San Francisco nel luglio del 2015. La giuria ha ritenuto l’uomo colpevole non dell’assalto, ma solo del possesso dell’arma con cui ha sostenuto di aver sparato per errore.

Il presidente Trump, dopo aver cavalcato il caso in campagna elettorale per sostenere la linea dura anti immigrati, ha così   twittato, commentando la suddetta sentenza: «Un verdetto scandaloso: nessuno stupore se la gente del nostro Paese è così arrabbiata per l’immigrazione illegale».

A Como un gruppo di naziskin entra con un blitz in un circolo Pd di sostegno agli immigrati e vomita deliranti accuse contro l’immigrazione. Giorgia Meloni, leader (?) di Fratelli d’Italia, si affretta a declassare l’accaduto da atto di violenza bello e buono a semplice atto intimidatorio, recuperando il discorso degli opposti estremismi: la vera violenza sarebbe infatti quella dei compagni dei centri sociali, i quali distruggono i beni degli italiani senza che nessuno faccia appelli per le loro condanne. Matteo Salvini, leader (?) della Lega, è intervenuto dicendo: «Il problema dell’Italia è solo Renzi, non i presunti fascisti», respingendo l’appello di Renzi a combattere le provocazioni di segno fascistoide, appello peraltro ritenuto addirittura ridicolo dalla Meloni.

Come volevasi dimostrare. I Paesi cosiddetti democratici ci stanno a sdoganare metodi e contenuti del fascismo passato e   presente pur di cavalcare le paure della gente ed incassarne il relativo dividendo elettorale. Se lo fa Trump, lo possono fare tranquillamente anche Meloni e Salvini. L’intolleranza verso gli immigrati rende scandaloso il corso della giustizia e tollera manifestazioni di chiaro stampo fascista.

Quando ho visto in televisione le immagini del blitz dei naziskin a Como, ho apprezzato il sangue freddo ed il senso civico dei presenti alla scena: non hanno mosso nemmeno un dito. Cosa sarebbe successo se avessero reagito in qualche modo alla triste intromissione di questi prepotenti, che volevano impartire lezioni socio-politiche in materia di rapporti con gli immigarti? Non cado nel giochino della distinzione tra intimidazione e violenza: l’una è l’anticamera dell’altra. Non mi presto alla resurrezione degli opposti estremismi facendo un parallelo tra naziskin e appartenenti ai centri sociali: la violenza è inaccettabile in ogni caso e mentre quarant’anni fa sbagliava certa sinistra ad esprimere comprensione verso i contestatori di sinistra, oggi sbaglia certa destra a non voler prendere nettamente le distanze dai naziskin e da Casa Pound che addirittura ha la sfrontatezza di presentare proprie liste elettorali.

Tutto sommato però ritengo molto più grave l’atteggiamento di Donald Trump rispetto alle penose e vergognose sceneggiate destrorse italiane. A parte il diverso peso politico, a parte la rilevanza del pulpito da cui viene la predica, a parte la storia che ci ha consegnato una distorta immagine democratica degli Usa, è veramente preoccupante che il presidente degli Stati Uniti abbia un concetto di giustizia asservita alla politica e un’idea razzista di colpevolezza a prescindere. Siamo su una brutta china. In fin dei conti il pericolo è che Trump fornisca un perfetto assist internazionale e populista ai movimenti estremisti di destra: una sorta di “neofascisti di tutto il mondo unitevi”.

Gli immigrati non fanno altro che mettere a nudo gli equivoci e le contraddizioni della nostra democrazia e danno una ulteriore e postuma dimostrazione della nostra propensione al fascismo, al nazismo ed al razzismo in genere. Malattie assai dure a morire e per le quali non esistono purtroppo vaccini e antibiotici: bisogna solo prevenirle e combatterle con la democrazia, quella vera.