La canonica non può essere canonica

Ho appena terminato la lettura di un bel libro di Michele Gesualdi sulla vita di don Lorenzo Milani, il cui contenuto può essere sintetizzato così: la canonica, intesa come casa del parroco e sede della parrocchia, nelle ardite esperienze pastorali degli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso a Calenzano e Barbiana, di questo prete toscano incompreso e osteggiato come tutti i veri profeti, diventa la sede ideale della scuola per il popolo, laddove la parola e il sapere riscattano i figli dei poveri da un destino di sfruttamento. Non aggiungo altro e rimando i miei lettori a questo libro veramente interessante.

Contemporaneamente ho appreso come nella parrocchia di Santa Maria del Sile, poco fuori Treviso, vivranno sotto lo stesso tetto un sacerdote, don Giovanni Kirschner e una famiglia: la canonica diventa un luogo condiviso per superare la solitudine del parroco e ospitare una famiglia numerosa (quattro figli) particolarmente aperta e accogliente verso gli immigrati (sei richiedenti asilo). Per ora in parrocchia vanno i componenti della famiglia vera e propria, ma forse fra qualche mese li seguiranno anche i membri extra-comunitari.

Se ai tempi di don Milani urgeva il discorso scolastico, oggi urge recuperare il senso comunitario del vivere insieme, umanizzando la sacralità del sacerdote, condividendo il benessere, valorizzando la famiglia al di là degli schemi anagrafici: un modo di superare in un certo senso e positivamente il discorso del celibato sacerdotale, di rispondere alla crisi della famiglia chiusa in se stessa e di solidarizzare concretamente con gli immigrati.

Sembra che la diocesi abbia dato il suo placet, mentre si registrano le stupide reazioni di chi ritiene questa iniziativa una ostentazione di perbenismo, una esagerazione di accoglienza, un modo per spillare e risparmiare quattrini.

A me sembra un esperimento interessante e provocante: solo rimescolando preti e laici, parrocchia e famiglia, italiani e stranieri, si riuscirà a saldare le diverse esperienze, a dialogare comunitariamente, a collaborare concretamente, a vivere evangelicamente insieme.

Non so cosa direbbe don Lorenzo Milani al suo collega di oggi. L’importante è mettere concretamente a confronto le realtà per farle concorrere al bene comune. Fino ad ora si è pensato e faticosamente provato a far convivere i preti, ad accorpare le parrocchie, a sollecitare l’impegno dei laici col diaconato permanente. L’esperimento trevigiano rimescola le carte, supera gli schemi tradizionali, rimette in discussione le consuete risposte. Sono rimasto colpito favorevolmente anche perché l’importante è smuovere le acque di un dogmatismo incartato sul celibato sacerdotale e sul non sacerdozio femminile, di un solidarismo semplicisticamente risolto dall’associazionismo, di una testarda e assolutistica difesa della famiglia tradizionale, di una carità vissuta   nella beneficenza e non nella lotta concreta e quotidiana alle ingiustizie ed alle povertà.

«Riconosciamo, nelle nostre città, una sempre maggiore fragilità del vivere che riguarda sia i preti sia le famiglie, le coppie, i giovani, gli anziani. L’unica risposta è stare insieme perché nessuno si salva da solo. Condividere può rendere la vita migliore e se una persona vive bene può allargare questo benessere agli altri» così afferma don Giovanni, il parroco di Santa Maria del Sile. «Oggi siamo sopraffatti dalla vita, una solitudine interiore, un forte smarrimento. Per questo dobbiamo ritrovare senso in ciò che facciamo. Siamo circondati da modelli di società che guardano solo produzione e consumo, ma dov’è l’uomo? Dobbiamo prenderci cura l’uno dell’altro» così Silvio Calò spiega da protagonista l’esperimento messo coraggiosamente in atto.

Grazie a loro che ci interpellano con tanto vigore e grazie anche alla giornalista Silvia Madiotto dal cui articolo ho tratto la presentazione dell’iniziativa.