Gli insopportabili pupattoli catodici

Per il sottoscritto è un periodo di conflitti virtuali con il mondo dell’informazione. Non mi riferisco   tanto alla “pornoinformazione delle fake news”, ma alla “pseudoinformazione perbenista”. Mentre verso la prima, una volta preso atto che esiste, si possono alzare barriere difensive attive e passive, con la seconda la battaglia rischia di essere persa in partenza. Tutti temono le false notizie che circolano clamorosamente nei circuiti informatici, io temo le notizie vere mal presentate dai media televisivi pubblici e privati.

Negli ultimi tempi ho provato a disintossicarmi dalla carta stampata, rinunciando al rito della lettura dei quotidiani. Mi sono fatto quasi violenza anche perché ho ereditato da mio padre il pallino della lettura del giornale, autentico simbolo della sua mentalità. Credo che mio padre, fatti salvi i giorni di assoluto e totale impedimento, non abbia mai rinunciato al giornale, parola che, come annotava simpaticamente mia madre, era pronunciata da lui in modo dialettale, rotondo nella pronuncia, con una punta di enfasi: “Al giornäl”. E soprattutto negli anni di vita intellettualmente più vivaci, non si trattava del misero, anche se blasonato, quotidiano locale, ma di un giornale che portava in se qualcosa in più rispetto alla lettura parziale e localistica degli avvenimenti: cercava uno strumento di informazione che, seppur discutibile nei suoi contenuti, mettesse lui e tutta la famiglia in condizione di capire cosa stava succedendo al di la “dal cantón con borgh Bartàn”. Questa sorta di culto della lettura del giornale mi è stato trasmesso pari pari e non ho mancato di praticarlo forse fin troppo.

Ultimamente mi sono rifugiato nel corner dell’informazione televisiva, andando automaticamente a sbattere contro Rainews24, una rete intelligentemente puntata sulle notizie a getto continuo. Purtroppo però l’attuale bravo direttore, Antonio Di Bella, è circondato da una folta schiera di pupattoli catodici non all’altezza del compito dal punto di vista professionale, come l’indisponente Enrica Agostini, una tifosa a prima vista del movimento cinque stelle, o come l’insopportabile saputello Roberto Vicaretti cui vengono affidati una confusionaria rassegna stampa e i pedanti mattutini dibattiti di approfondimento politico. Lasciamo perdere poi quelli che non sanno quello che fanno: la giornalista che sembra uscita dal bancone di una pescheria di Nuoro, tanto inaccettabile risulta il suo accento smaccatamente sardo (un tempo le avrebbero fatto frequentare qualche corso di dizione), e le altre sue colleghe che hanno confuso lo studio televisivo con palazzo Pitti (sembrano specchiarsi continuamente nella telecamera) o i colleghi di ambo i sessi che vengono sguinzagliati sul territorio a propinare luoghi comuni e commenti scontati (capitano lì per caso, parlano a vanvera di tutto con il piglio presuntuoso di chi non sa niente).

Che peccato! Uno strumento formidabile sciupato nella pappagallesca ripetizione di poche e superficiali notizie. Persino i microfonisti e i tecnici audio pagano dazio! Cambiare canale vuol dire addirittura peggiorare la situazione e allora si può sempre spegnere il televisore e fare l’eremita dell’informazione. In questo mondo però bisogna pur viverci, non serve scappare.

Ricordo il Resto del Carlino tutto spiegazzato che mio padre acquistava di primo mattino e che sfogliava, leggendo i titoli, quasi con avidità, sulla soglia del magazzino da cui partiva la spedizione lavorativa giornaliera. Il giornale veniva quindi consegnato alla famiglia durante la pausa pranzo (una sorta di staffetta giornaliera) e ripreso per la regolare ed approfondita lettura in serata: i contenuti venivano approfonditi e discussi in modo spontaneo nelle chiacchierate familiari, a tavola, in salotto (dopo che si ebbe l’opportunità di avere a disposizione questa stanza in più), seduti in poltrona (ricordo il gusto e la soddisfazione con cui mio padre al termine di un giornata lavorativa poteva sprofondare nella sua poltrona, accendere la lampada, inforcare gli occhiali e dedicarsi alla lettura del giornale con un’attenzione ed una concentrazione tali da fare invidia al fior fiore degli intellettuali). Mia madre si lamentava della sua eccessiva dedizione a questo rito culturale, ma lui non si distaccava dalla giusta e succulenta abitudine: solo il richiamo della cena pronta in tavola era in grado di interrompere il collegamento. Sì, perché il mangiare insieme per mio padre era la concretizzazione dell’unità della famiglia, il mettere in pratica lo spiccato senso della famiglia.

Ebbene io non posso nemmeno rifugiarmi nella tavola del pasto comunitario: vivo solo e litigo col video da cui sgorga sofferenza per un’informazione penosamente somministrata. Alla fine mi sento ancor più solo. Tuttavia, meglio soli che male informati.