Presepi e balocchi

Quando si avvicinavano le feste di Natale mio padre registrava quasi con fastidio, con un notevole senso di sorpresa, una ricorrente domanda che gli veniva formulata “Indò vät par Nadäl “. Questo succedeva nel periodo delle vacche grasse, perché, quando regnava sovrana la miseria, tali richieste sarebbero risuonate assurde per non dire offensive. E la risposta, pronta e spontanea anche se un po’ risentita e giustamente provocatoria, fulminava l’interlocutore: “Tutti, s’ j én lontàn, i fan di vèrs da gat par gnir a ca’, e mi ch’a són a ca’ vót ch’a vaga via?” . Si trattava, a ben pensarci, di un libero rifacimento del classico “Natale con i tuoi”, ma un po’ più ragionato e motivato da una logica stringente e indiscutibile che inchiodava, col buon senso, chi proponeva l’evasione in una pur legittima uscita dagli schemi.

La ritualità del Natale sovrappone l’incredibile dono fatto da Dio all’umanità all’usanza di scambiarsi doni instaurata dagli umani: della serie, visto che Dio è generoso approfittiamone e facciamo man bassa. C’è però un piccolo particolare: mentre Dio si dona in povertà, noi ci doniamo in ricchezza. Facciamo finta di essere buoni e generosi, ma in realtà celebriamo solo il nostro benessere materiale tenendocelo ben stretto. Ai piedi del presepe, plastica immagine dell’atteggiamento povero che Dio ci propone concretamente, collochiamo e ci scambiamo i simboli del nostro consumismo. Voglio allontanarmi quindi dal questo contesto ricordando i quattro Natali che hanno scandito in un certo senso la mia esistenza.

Il Natale della povertà: non ero ancora nato ma mi hanno ripetutamente raccontato che la mia famiglia ebbe un periodo di gravissime difficoltà economiche. La miseria regnava sovrana in molti strati sociali, mio padre era disoccupato, mia madre lavorava ma il reddito non era sufficiente, per farla breve non c’era il becco d’un quattrino per affrontare le feste natalizie. Arrivò in soccorso lo zio ribelle, che, nella sua simpatica rivoluzione personale, combatteva anche   la miseria, ottenendo interessanti successi ed aprendo il cuore a chi lo aveva sempre accolto incondizionatamente: intervenne senza bisogno di sollecitazioni con una generosità unica, capace di cambiare la situazione, di donare con gioia. Mi raccontavano i miei genitori come un Natale di povertà e tristezza si trasformò in gioia grazie all’intervento di questo inimitabile zio, che regalò tutto l’occorrente per trascorrere dignitosamente le feste Natalizie.

Il Natale della mia fanciullezza e del montante anche se lento, progressivo benessere: era fatto di armonia, degli ingredienti soliti e tradizionali, dell’albero, del presepe, della neve (cme l’ é bél Nadäl con la néva, diceva mio padre), del cenone, della letterina, della messa di mezzanotte, delle vacanze scolastiche, dell’apertura della stagione lirica, delle mangiate (anolén a più non posso). Mia madre era sempre al centro della situazione, ruotavamo intorno a lei:   riusciva persino a scuocere le tagliatelle per l’ardore di comunicare gli auguri a destra e manca. Forse si stava andando verso un po’ di consumismo e allora ecco arrivare…

Il Natale della paura: quando mio padre era gia da tempo afflitto da una grave forma di demenza senile e mia madre cominciava ad avere disturbi fisici piuttosto enigmatici. Avevo   un grave timore che da tempo mi attanagliava. Se anche la mamma, la quale cominciava a dare segni di malattia incipiente, fosse crollata fisicamente, ci sarebbe stato da mettersi le mani nei capelli: di fronte ad una eventualità di questo tipo mi tremavano le vene ai polsi e la paura era tanta. Quel Natale trascorse con la spada di Damocle sul capo di una famiglia che vedeva profilarsi un calvario: d’altra parte il Bambino di Betlemme aveva di fronte a sé prospettive poco tranquillizzanti.

Il Natale della sofferenza arrivò l’anno successivo: i miei timori diventarono certezze, le gravi malattie si sovrapposero, papà era sempre più assente con il suo cervello obnubilato da una inarrestabile forma di sclerosi galoppante, mamma era entrata da due mesi in ospedale dove la febbre la stava distruggendo in un quadro clinico grave ed ancora incerto. Più che Natale sembrava Venerdì Santo e mi viene la tentazione di definire quello come il più brutto della mia vita, anche se la famiglia reagì e seppe far fronte alle difficoltà, trovò in sé la forza ed in tal senso potrebbe essere, anche cristianamente, definito il Natale più bello.