Le colpe dei figli ricadono sui padri

Consiglio a tutti di seguire la trasmissione Rai di Corrado Augias “Quante storie”. Ha il grande merito di calare la cultura, soprattutto i libri che ne sono uno specchio fondamentale, nel contesto politico, sociale ed economico e di proporre allo spettatore riflessioni profonde ma abbordabili. Molto opportunamente ogni giorno vengono ospitati studenti di scuola media superiore, i quali sono caldamente sollecitati ad intervenire con osservazioni e domande: lo fanno con tanta fatica, mettendo in mostra limiti sconcertanti a livello di formazione e di sensibilità.

Ogni volta tento disperatamente di giustificare questa estraneità con la loro giovane età, con il clima che li circonda e li induce ad evadere, con l’educazione familiare che li vezzeggia, con la scuola che li sopporta, con gli anziani che li difendono, con i nonni che li mantengono, con i media che li distraggono, con il lavoro che non li accoglie.

Poi faccio inevitabilmente un parallelo con la mia lontana gioventù. Anche la mia generazione scontava l’ingenuità e la timidezza tipiche della giovane età, ma aveva il coraggio di criticare e contestare il sistema, magari con atteggiamenti e metodi assai discutibili: meglio comunque esagerare nella protesta che accettare acriticamente la situazione. Anche i giovani di un tempo erano distratti e tentati dalle proposte fuorvianti del consumismo, ma sapevano cogliere gli aspetti fondamentali del mondo in cui vivevano.

Anche gli adolescenti di un tempo avevano un rapporto difficile con le famiglie, magari arrivavano a scontrarsi duramente con esse, persino a rifiutarle, ma non cercavano nei genitori i difensori d’ufficio delle loro inadempienze e dei loro difetti. Anche gli studenti del sessantotto avevano difficoltà nei percorsi scolastici, ma avevano la forza di opporsi, di occupare le università, di studiare senza mettere la testa nel sacco o senza rifugiarsi sulle nuvole. Il rapporto con gli anziani era tutt’altro che tranquillo, era conflittuale, ma meglio essere critici e criticati che compatiti. L’indipendenza economica era convintamente cercata e si soffriva a farsi mantenere. Si leggeva molto, si discuteva, si litigava. Le possibilità di lavoro erano maggiori, ma non si tergiversava aspettando che il posto di lavoro cascasse dal cielo.

Osservo i giovani con molta preoccupazione: mancano in loro cultura e sensibilità politiche. Ai miei tempi si sosteneva che “tutto fosse politica”, oggi la politica viene considerata una fesseria. Dove li abbiamo condotti questi giovani? Cosa abbiamo loro insegnato? Domande legittime e scomode. Quando li vedo non parlare o quando li sento parlare, mi chiedo: di chi è la colpa di tanta pochezza? Delle testimonianze sbagliate fornite loro o della svogliatezza con cui i giovani guardano il mondo che hanno attorno?

Dal punto di vista educativo, mio padre usava pazienza e senso pratico. Non ho mai ascoltato dalla sua bocca nessuna cosiddetta “paternale”, vale a dire nessun rimprovero o insegnamento teorico, tutto avveniva sempre in diretta, potremmo dire “il bello della diretta”. Non avevo un papà bontempone e accondiscendente ma carismatico, che esercitava l’autorità cercando di ottenere il meglio senza imporre ma proponendo con pazienza.

Su quest’ultima dote voglio soffermarmi un attimo recuperando quanto egli diceva di suo padre. Tutte le sere da giovane, maggiorenne e vaccinato usciva e si sentiva ripetere una serie di domande: “Ät tòt su un po’ äd sold? Gh’ät il ciävi? Gh’ät al fasolètt? E dulcis in fundo Véna a ca’ bonóra” . Quando me lo raccontava papà non aveva vergogna ad ammettere: “E mi gnäva sempor a ca’ tärdi!”

Un’altra battuta, che ho sentito ripetere da mio padre in occasione di rimproveri martellanti rivolti da madri o padri, un po’ isterici e troppo esigenti, ai loro figli bambini, magari per far loro smettere certe abitudini (succhiarsi il dito pollice) o certi vizietti infantili (attaccarsi alle gonne della mamma), è la seguente: “A t’ vedrè che quand al se spóza al ne la fa miga pu”. Della serie diamo tempo al tempo. Oppure di fronte a certi comportamenti adolescenziali piuttosto caparbi per non dire testardi era solito commentare: “S’al fa tant a catäros la moroza a cambia tutt”.

Certo mio padre non aveva a che fare con gli attuali, epocali e drammatici cambiamenti, situazioni quasi impossibili da dipanare ed in cui districarsi. A fronte di questa paradossale dinamicità globale i giovani soffrono la mancanza dello strumento principale di analisi e di impegno: la politica. Le ideologie non esistono più, le classi sociali si sono mischiate, le categorie mentali si sono capovolte, gli schemi culturali sono saltati. In poche parole, la politica gliela abbiamo rovinata e sfilata di mano. O hanno la pazienza di ricominciare daccapo o vivranno a mezz’aria con il rischio di ripiombare a terra spinti solo dai drammi della vita.