I boss e Bossi

Premetto che mi considero un perdente, un nostalgico, un pessimista, un insicuro, e può bastare così. Sono portato a rivalutare il passato dopo aver criticato impietosamente il presente. “Si vive anche di ricordi” è un po’ il (patetico?) leit motiv della mia collanina editoriale. Questa confessione autocritica mi serve a mettere le mani avanti, perché mi accingo forse ad esagerare nelle mie riflessioni pseudo-politiche.

Se mi poneste il solito quesito della torre, tra Matteo Salvini e Umberto Bossi non avrei esitazioni su chi buttare giù e lo farei convintamente. A parte la simpatia che ispira Bossi nella sua ruvida ma genuina verve politica, a parte la coerenza di un percorso storico tutto sommato rispettabile, a parte la tenerezza che ispira nella sua evidente menomazione, a parte il suo indiscutibile fiuto di animale politico, a parte il carisma che non è acqua fresca, a parte la mancanza di cattiveria che lo ha sempre reso accettabile anche dagli avversari, a parte che lo stimo un galantuomo, semmai un po’ ingenuo al punto da essere trascinato in trappole finanziarie tese dai profittatori della sua situazione di debolezza fisica e psichica, a parte che, pur nella sua istrionica smania di novità, non metteva in discussione i fondamentali valori della nostra Repubblica, a parte tutto ciò e proprio per tutto ciò, mi fa tanta rabbia l’arrogante scodella di legno che gli porge Salvini.

Non si fa così. Se questo è il nuovo che avanza, anche indipendentemente dal merito politico, preferisco il passato con tutti i suoi limiti e difetti. Se non ci fosse stato Umberto Bossi ad aprire la bottega Matteo Salvini sarebbe un modesto commesso di botteghe altrui (forse non se ne accorge, anche perché è poco intelligente).

Dove pensa di andare? Prima o dopo a sbattere! Credo che se avesse almeno l’umiltà di ascoltare il suo illustre predecessore, potrebbe risparmiarsi e risparmiarci qualche triste avventura. Che vergogna! Almeno un minimo di rispetto e di comprensione. Nemmeno quello.

In politica, come del resto in tutti i campi dell’esistenza, non esiste riconoscenza. I ricambi generazionali avvengono con violenza psicologica se non addirittura fisica. Il discorso va oltre la Lega anche se nel caso della Lega sta diventando clamoroso e disgustoso. Non a caso si parla di rottamazione: da una parte chi non vuol mollare l’osso, dall’altra chi punta a ripulire la scena senza troppi riguardi. Bossi però non mi sembra il tipo che vuol rimanere a dispetto dei santi, pare disposto a farsi da parte con grande dignità, stile e discrezione e non merita, sinceramente, un trattamento così brutale. Mi dispiace perché non è un boss che non vuol passare la mano, tutt’al più un leader che vuole dare una mano.

Mentre Bossi veniva insolentito a Pontida, a Fiuggi (ci vuole un bel fegato infatti a sopportarlo) Berlusconi rimaneva sul podio a pontificare e insolentiva il passato (la miglior difesa è l’attacco), farneticando di colpi di stato ai suoi danni (poverino…). Voglio proprio vedere se il boss Salvini userà la stessa brutale verve rottamatrice nei confronti del boss dei boss, Berlusconi. Tra l’altro penso che avrà bisogno di soldi, viste le sbandierate ristrettezze del suo partito, e allora dovrà far buon viso a cattiva sorte e venire a più miti consigli. Anche in questo Bossi gli potrebbe essere di insegnamento, non nel senso di gestire oculatamente la dotazione di partito (non è stato capace di farlo), ma in quello di abbassare la cresta quando si è nel bisogno (lo ha fatto fin troppo).

Quelli che…sparlano di calcio

Un tempo il medico di famiglia oltre che saper curare le malattie (senza spedire frettolosamente i malati dagli specialisti o all’ospedale all’insorgere del minimo disturbo), dopo averle diagnosticate (senza l’ausilio di eco, tac, pet e altri sofisticati marchingegni), avevano anche il compito di dare consigli comportamentali e regole di vita ai loro disponibili pazienti.

Era certamente il caso della mia famiglia, per la quale un medico all’antica, che non sbagliava un colpo, forniva preziose interpretazioni della realtà. Riguardo all’estate (ai tempi in cui l’aria condizionata era di là da venire e le vacanze si limitavano ad una scampagnata fuori-porta nel giorno di ferragosto), alle solite lamentazioni per il caldo e l’afa rispondeva così: «Vi lamentate tanto per il caldo, ma non sapete che in estate molte malattie scompaiono o allentano il loro ritmo e quindi, tutto sommato, che si vive meglio usando il fazzoletto per asciugarsi il sudore piuttosto che il naso…».

Sì, in estate sono più gli aspetti esistenziali positivi di quelli negativi. Fra i primi c’è… l’assenza del calcio giocato, da cui ci si riesce finalmente e fortunatamente a disintossicare, anche se è sempre in agguato quello parlato assai meno avvolgente e invadente. Purtroppo l’estate è finita e, oltre agli acciacchi gastro-intestinali, reumatici e respiratori, cominciamo a rifare i conti con le partite di calcio, trasmesse, commentate, analizzate, centellinate dalle televisioni a pagamento e non: una girandola pallonara sempre più insopportabile e artificiosa. Mancava solo la var (preferisco chiamarla moviola in campo per far prima) a completare la giostra.

Ebbene, nel pomeriggio festivo di ieri, complice un brutto mal di schiena (colpa della stagione o delle stagioni?), per alleggerire il dolore, reagire all’immobilità e prescindere, almeno un poco, dalla ossessionante lettura di libri e giornali, ho avuto la cattiva idea di accendere il televisore anziché rifugiarmi nel tradizionale e radiofonico “tutto il calcio minuto per minuto”. Da alcuni anni fanno, o meglio intenderebbero fare, la parodia dell’invecchiata. ma sempre valida trasmissione antenata (tutto il calcio…), chiamandola “quelli che il calcio…”, andando a prestito da Enzo Iannacci, che di satira se ne intendeva, mentre gli assurdi presentatori attuali sembrano bambini che giocano a fare i grandi (un tempo si giocava al dottore, oggi si gioca al presentatore): ore di idiozie che vorrebbero ridimensionare e beffeggiare il fenomeno calcio e finiscono col farlo rimpiangere per quello che è. Brutto ma autentico, sempre meglio di battute stupide, ironie da cortile, farneticazioni satiriche, digressioni snob, sciocchezze a non finire.

Ho rimpianto il caldo soffocante dell’estate appena passata: valeva la pena pagare il prezzo dell’afa pur di essere liberi di respirare senza la maschera dell’ossigeno inquinato del calcio. Aveva ragione il medico dei miei anni verdi.

Tra l’altro non c’è peggior critico di chi non sa criticare; sarebbe sacrosanto ridimensionare il fenomeno calcio, ma facendo così lo si rivaluta. Sono solo buffoni alla corte calcistica. Perso per perso, meglio i presidenti che aprono le curve agli ultras mafiosi, meglio gli ultras che si fanno guerre spietate e cruente, meglio i giocatori che fingono di esultare per il gol fatto ma in realtà godono per l’ingaggio astronomico, meglio i cronisti sportivi che dissertano di tattiche e di strategie come se si trattasse di battaglie navali, meglio gli allenatori che non tacciono, non stanno fermi un attimo e fanno una confusione tale da confondere la testa anche al più lucido dei loro giocatori, meglio il carrozzone di prima classe, dove si disserta di calcio in modo sussiegoso, piuttosto di quello di terza, dove si fanno pernacchie e sberleffi pensando di dare fastidio ai passeggeri di alto bordo.

uesti QQuesti mangia calcio a tradimento mi hanno fatto venire voglia di riascoltare le asettiche e professionali radiocronache di un tempo (ma Sandro Ciotti è morto da un pezzo) o addirittura di tornare allo stadio, sui vecchi e logori spalti (ma mio padre non c’è più…era lui che mi salvava). E allora? Mi tengo il mal di schiena e a denti stretti rileggo un libro (“Dallo scudetto ad Auschwitz”), su una storia di calcio mischiata alla vita e alla morte di un allenatore ebreo finito in un campo di concentramento.

 

Indaga ben chi indaga Ultimo

«Stiano sereni tutti, perché mai abbiamo voluto contrastare Matteo Renzi o altri politici, mai abbiamo voluto alcun potere, mai abbiamo falsificato alcunché. L’unico golpe che vediamo è quello perpetrato contro i cittadini della Repubblica, quelli che non hanno una casa, quelli che non hanno un lavoro e quel golpe non lo hanno fatto e non lo fanno i carabinieri». Questa è la linea difensiva del colonnello Sergio De Caprio, noto come capitano Ultimo da quando guidò la cattura di Totò Riina nel 1993, che è stato componente del Noe (Nucleo operativo ecologico), passato negli anni scorsi ai Servizi (Aise) e poi ritornato nell’Arma.

Questo illustre carabiniere è chiamato pesantemente in causa dall’inchiesta nell’inchiesta: sì, perché sembra, sempre più, che due carabinieri e un magistrato spingessero, volendo usare un eufemismo, l’inchiesta sulla corruzione su Cpl-Concordia e Consip (irregolarità negli appalti per la metanizzazione a Ischia e nelle procedure dell’agenzia centralizzata per la concessione degli appalti nella pubblica amministrazione e relative rivelazioni del segreto d’ufficio), verso l’alta politica, coinvolgendo il padre di Matteo Renzi e lo stesso Renzi. “Ha una bomba in mano”, “Succederà un casino, arriviamo a Renzi”, dicevano il capitano Giampaolo Scafarto e il colonnello Sergio De Caprio al procuratore di Modena, Lucia Musti, a cui erano arrivati documenti in merito ad una delle due inchieste, come la stessa procuratrice ha dichiarato al Consiglio Superiore del Magistratura, che vuole vedere chiaro   su questi strani comportamenti e la procura di Roma, che sta “indagando sulle indagini” (ipotesi di falso per i suddetti carabinieri e di violazione del segreto d’ufficio e falso per il pm di Napoli Henry John Woodcock, titolare iniziale di queste indagini poi trasferite a Roma).

Sta emergendo un quadro al limite dell’eversivo, con carabinieri ed un giudice che avrebbero tramato contro il capo del governo: ipotesi inquietante, che dimostrerebbe pesanti e illegittime interferenze politiche da parte di appartenenti ad alcuni corpi ed organi dello Stato.

Non entro nel merito delle questioni, altri lo stanno facendo a livello giornalistico (non sempre con obiettività e coerenza) e a livello giudiziario (non ho idea se mai si arriverà in fondo a queste inchieste a dir poco sconvolgenti). Resto alla dichiarazione emblematica da cui sono partito.   Un carabiniere di alto grado, accusato di aver puntato al potere politico sulla base di falsi atti di indagine, si difende buttando il tutto ancor più in politica con affermazioni da comizio elettorale, con accuse demagogiche di golpe verso i governanti ai danni della povera gente.

Siamo alla follia istituzionale; forse sarebbe il caso che il Presidente della Repubblica intervenisse a mettere un po’ d’ordine. Qualcuno ha certamente esorbitato dai suoi compiti, creando illegittimamente discredito sul capo del governo e qualche giornale (che fa il primo della classe contro il malaffare) gli ha fatto da cassa di risonanza, nascondendosi magari dietro il diritto/dovere di pubblicare le notizie che comunque arrivano in redazione. Ognuno si prenderà le sue responsabilità, nelle forze di polizia, nella magistratura, nella stampa.

Ma questo gravissimo corto circuito istituzionale ha in questi giorni ben due contraltari. Matteo Salvini, attuale leader della Lega, grida al golpe perché la procura di Genova ha messo sotto sequestro i conti correnti del suo partito dopo la sentenza di condanna al fondatore della Lega Umberto Bossi ed il suo ex tesoriere per truffa ai danni dello Stato per 48 milioni di euro. Secondo Salvini la Lega non sarebbe più la stessa e verrebbe impropriamente chiamata a rispondere per il comportamento scorretto di suoi ex dirigenti, con grave pregiudizio per la sua attività politica. La procura ribatte che i soldi devono essere ricuperati in prima battuta presso chi ne ha beneficiato e quindi presso il partito della Lega, a risarcimento dello Stato che è stato defraudato. Quindi un golpe inesistente e ridicolo, come ridicolo è il modo di fare politica di questo assurdo personaggio: se la Lega ha rubato deve restituire il maltolto, punto e stop. Il resto è farneticazione populista e demagogica.

In sede parlamentare due presidenti di commissione, Roberto Formigoni e Altero Matteoli, condannati per corruzione o giù di lì, restano come se niente fudesse, al loro posto fregandosene altamente delle questioni di etica-politica.

La politica, che cerca il privilegio e se ne sbatte altamente della magistratura, finisce col legittimare i comportamenti giudiziari sbracati ed esagerati contro la politica al limite dell’interferenza o della falsificazione delle carte in tavola. Finisce col dare ragione al colonnello De Caprio, alias capitano Ultimo, ed alle sue farneticazioni.

 

Noemi: un po’ Desdemona, un po’ Giulietta, un po’ Francesca

Questa tragedia si poteva evitare? Si riduce a questa striminzita domanda retorica, l’analisi mediatica di un fatto drammatico, quello dell’omicidio di una ragazza sedicenne ad opera del suo fidanzato diciassettenne, avvenuto a Lecce ed i cui angosciosi contorni ci spalancano una finestra sull’inferno. Noemi, manco a farlo apposta un nome biblico che richiama una vicenda di amore sublime a livello famigliare, viene uccisa dal suo innamorato a cui era legata da un rapporto fatto (così sembra) di violenza e intimidazione, subite al limite del masochismo.

Nel periodo dell’adolescenza si ha il fuoco dentro l’animo, si è portati ad estremizzare i sentimenti, a difenderne la “definitività” alla faccia di chi ce ne sottolinea la provvisorietà e la precarietà. Noemi è andata incontro a morte (quasi) certa, difendendo eroicamente il proprio amore, non volendo credere all’evidenza prospettatale dalla sua famiglia, amando nonostante tutta la violenza che subiva e andando contro tutti coloro che volevano distoglierla da questo sogno estremamente pericoloso. Anche Desdemona nell’Otello di Shakespeare non è tanto vittima della gelosia e della vendetta, come si dice sempre e superficialmente, ma di se stessa, del suo amore paradisiaco a dispetto dell’infernale macchinazione che le viene imbastita contro.

Intorno a Noemi si è proprio creata una situazione di drammatico contrasto. Prima di essere schiacciata sotto i massi della campagna salentina, viene stretta in una paradossale morsa sentimentale : da una parte i suoi genitori che vogliono difenderla da un destino assai problematico, dall’altra il suo innamorato che invece di apprezzare la sua forte disponibilità, sembra cogliere un odioso contrasto tra famiglie e, stando alle sue prime ammissioni ed al probabile ruolo attivo (tutto da dimostrare) del padre, difende e vendica (forse) il suo clan contro quello dell’amata. In un fatto di parecchi anni fa, Erika si chiamava la ragazza, i due fidanzatini precipitavano all’inferno e giustiziavano diabolicamente e di comune accordo la famiglia rea di osteggiare il loro sogno d’amore. Oggi Noemi è la vittima sacrificale di tutto: dell’amore impossibile, delle famiglie perbene, della società guardona, financo della comunità cristiana assente e balbettante (persino il parroco cade nel tranello del “si poteva evitare?”). Siamo ad una versione stranita di Romeo e Giulietta (sempre con Shakespeare abbiamo a che fare), di Paolo e Francesca (la Divina Commedia dantesca). Se la vicenda richiama le più grandi creazioni letterarie di tutti i tempi, vuol dire che è veramente profonda.

Si tratta di una vicenda in cui psicologia, sociologia, letteratura e storia si intrecciano, creando una miscela che è esplosa nelle tenere e dolci mani di Noemi. Ecco perché non sopporto il chiacchiericcio scatenatosi, volto solo a cogliere l’aspetto “cronachistico” e “giudiziario” della vicenda. Polizia e magistratura potevano evitare questo disastro? Sì, se ne vediamo solo gli effetti finali; no, se ne sondiamo le motivazioni profonde. Non vorrei esagerare, ma questa triste vicenda interroga tutti e non se ne esce cercando disperatamente l’argine a valle per un diluvio a monte. Questo è un fatto che non rientra nemmeno nel cliché del machismo violento: anche questo c’entra se vogliamo, ma c’è ben altro. Solo il vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca ha il coraggio di approfondire: «Trovare una risposta giusta a questo gesto è difficile. Si tratta di adolescenti, di ragazzi che ancora non hanno sviluppato appieno la loro personalità, i loro desideri, i loro progetti, i loro sogni. Certamente c’è anche una storia precedente che in qualche modo ha toccato la vicenda dei due ragazzi. Quello che mi pare evidente, anche dalle parole lasciate su Facebook dalla ragazza, è che c’era da parte sua un desiderio di amore vero, di amore puro, che fosse fatto d’incontro e dialogo. Sono parole che invitano a un rapporto sincero».

La verità giudiziaria non sarà esauriente. Qui non siamo in una caserma dei carabinieri o in un’aula di tribunale, qui guardiamo il paradiso con i piedi ben piantati all’inferno. Speriamo che il paradiso possa attendere chi si vuole liberare dall’inferno. Noemi si è liberata ed è in paradiso. Noi tutti, più o meno, rimaniamo attaccati all’inferno.

La “Mastella”, il bambino e l’acqua sporca

L’ex ministro della giustizia Clemente Mastella è stato assolto dal Tribunale di Napoli, dopo nove anni, da presunti reati commessi nelle nomine alle Asl e in altri settori pubblici. La notizia esige parecchie riflessioni.

La prima concerne la scontata differenza di spazio e attenzione sui media tra le notizie   dell’indagine e dell’incriminazione di allora e dell’assoluzione di oggi. Sul piano giudiziario le sentenze assolutorie hanno effetto ex tunc, vale a dire cancellano tutti i procedimenti avviati e rimettono le cose a posto (in certi casi addirittura con risarcimento del danno arrecato all’imputato), ma sulla stampa hanno sì e no effetto ex nunc, cioè vengono distrattamente annunciate e, mediaticamente parlando, chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato e scordiamoci il passato. Il giustizialismo vale solo per i colpevoli, gli innocenti si arrangino. Il garantismo è scritto sulla carta, ma non esiste effettivamente: l’indagato è già colpevole e nell’opinione pubblica rimane tale anche se successivamente assolto.

La seconda riflessione riguarda il fatto che sono obiettivamente troppe le sentenze che buttano all’aria i castelli indagatori delle procure, tali da giustificare la separazione delle carriere, ma soprattutto tali da imporre maggiore prudenza nei pubblici ministeri: quando un rinviato a giudizio viene assolto, trionfa certamente la giustizia, ma perde di credibilità e autorevolezza la magistratura inquirente.

La terza considerazione è sui tempi della giustizia: nel caso in questione ci sono voluti nove anni per arrivare a sentenza, lungaggini scandalose che dimostrano come le procedure giudiziarie non funzionino. Sarà certamente colpa delle manchevolezze strutturali e funzionali: i poteri legislativo ed esecutivo dovrebbero intervenire a rimuovere i vergognosi macigni dell’inefficienza, una delle principali cause della squalifica del nostro sistema-paese. Credo però che i magistrati non siano esenti da colpe. Sarebbe quindi opportuno che abbassassero la cresta a livello individuale e categoriale, lavorassero di più e meglio. Non si tratta di ledere la loro autonomia o di squalificare il loro operato, si tratta di capire che la professione del magistrato è delicatissima, assimilabile a quella del chirurgo: entrambe incidono sulla carne viva degli individui e gli eventuali errori sono soltanto parzialmente e non sempre sanabili. Si ha l’impressione che medici e giudici siano intoccabili, non paghino mai per i loro errori, sappiano difendersi con le unghie e coi denti.

La quarta delicatissima riflessione è inerente il rapporto tra politica e magistratura. Affermato senza alcun dubbio che per la politica non deve sussistere alcun privilegio o corsia preferenziale, bisogna tuttavia capire che certi interventi della magistratura influiscono o possono impropriamente influire sugli equilibri politici e sul consenso dei cittadini. Tornando al caso concreto di Mastella, ricordiamoci che fu costretto alle dimissioni da ministro e ritirò il suo appoggio (partito dell’Udeur) al governo Prodi, circostanza che contribuì alla   caduta dell’esecutivo e alle elezioni anticipate che videro il successo della coalizione guidata da Berlusconi. La storia, quindi, avrebbe potuto prendere una piega diversa. Cosa voglio dire? Che i magistrati debbano usare due pesi e due misure? No di certo! Che gli inquirenti usino in ogni caso molta prudenza e non cavalchino l’indifferenziata ansia di giustizia della gente: questo sì.

Qualcuno penserà che, tutto sommato, aveva un po’ di ragione Berlusconi ad attaccare la magistratura. Io so soltanto una cosa: è proprio Berlusconi, con i suoi paradossali e sconcertanti comportamenti da uomo e da politico ad avere rovinato il sistema politico portandolo a regime e ad aver quindi legittimato il giustizialismo a cui anche la politica finì col delegare la battaglia contro il berlusconismo dilagante.

Il discorso su giustizia e magistratura vale anche per la ricerca a tutti i costi del capro espiatorio a fronte di eventi tragici riguardanti ambiente e territorio. Siamo proprio sicuri che non esista la fatalità? Siamo certi che l’uomo, come ha recentemente e provocatoriamente affermato papa Francesco, sia piuttosto stupido. Ma è stupido anche pensare che, tutto e sempre, quel che non va sia riconducibile alle omissioni ed agli errori dell’uomo, magari giudizialmente perseguibili. Se è irresponsabile la scappatoia delle cause di forza maggiore, è superba, presuntuosa e fuorviante la pretesa di scovare sempre e comunque uno scandalo da sbattere in prima pagina. L’uomo non è onnipotente, ha dei limiti e non è sempre detto che le sue colpe siano da galera.

 

 

Scherza coi fanti e lascia stare i santi

Prima e più di pacifista mi sento, a tutti gli effetti, antimilitarista. Sono allergico alla mentalità militare e guardo infatti con senso di compassione coloro che svolgono l’ufficio di Ministro della Difesa. Mi stupisce che una donna accetti di ricoprire un tale incarico, non per sottovalutazione delle doti femminile, ma semmai per sopravvalutazione. Compiango la ministra Pinotti proprio perché mi sembra una donna in gamba, sciupata in mezzo a baionette, sfilate e “presentatarm” .

Figuriamoci con quale gioia io sia venuto a sapere che San Giovanni XXIII è stato nominato, con tanto di bolla pontificia, protettore dell’Esercito italiano. Sulle prime ho pensato a uno scherzo, magari tirato a papa Francesco. Poi mi sono dovuto rassegnare all’evidenza e all’ufficialità della notizia. Meno male che anche il presidente di Pax Christi ha espresso perplessità, constatando lo stridente contrasto tra il papa della “Pacem in terris” e le armi che si troverà sotto la sua giurisdizione patronale.

È vero che Angelo Roncalli è stato uno zelante cappellano militare ed è riuscito a promuovere le virtù cristiane fra i soldati. Non mi sembra tuttavia il modo migliore per indirizzare la sua preferenziale protezione. I Santi patroni di categoria mi hanno sempre fatto sorridere: la santità è una cosa seria da non ridurre a patacca, come se in Paradiso ci fosse un vero e proprio sindacato protettivo.

Qualcuno ha sottolineato, non ho capito se contro o a favore della nomina, come l’Esercito di oggi, formato da militari professionisti e non più di leva, sia molto diverso da quello del passato e che pure il modello di difesa sia cambiato e teso a difendere gli interessi vitali ovunque minacciati o compromessi. E allora?

“Scherza coi fanti e lascia stare i santi” dice il sagrestano nel primo atto di Tosca, quando il pittore Cavarodossi mischia con una certa disinvoltura i visi di donna (ammirata e/o laicamente amata) con il volto di Maria Maddalena da lui dipinto in S. Andrea della Valle. Mi sembra una battuta oltremodo appropriata.

Anche i militari, i soldati, gli ufficiali, i generali, etc. sono popolo di Dio, sono chiamati ad essere buoni cristiani e, perché no, santi: la storia ce ne ha offerto qualche fulgido esempio. Il discorso però è un altro.

Scrive il quotidiano Avvenire: “La ricerca di un patrono per i soldati italiani affonda le proprie radici nel lontano novembre 1996, quando in occasione della consegna della bandiera di guerra dell’Esercito italiano nell’allora ordinario militare, l’arcivescovo Giuseppe Mani, e in moti cappellani militari nacque la domanda sull’individuazione di una figura significativa per questo ruolo. Hanno impiegato 21 anni per arrivare al dunque: deve essere stato un parto piuttosto difficile. Cosa dire? Spero, anzi sono certo che san Giovanni XXIII farà di tutto per evitare ai nostri soldati l’uso delle armi. A proposito della mentalità militare, di cui ogni tanto affiorano episodi disgustosi, basterebbe applicare il Vangelo. A volte, forse sempre, vale la pena fermarsi lì. Il resto potrebbe venire dal maligno, altro che santi protettori…

Lo straripante senno del poi

In occasione di una alluvione in Italia (non ricordo dove e quando, ma non ha molta importanza) mio padre sfoderò una delle sue più belle battute per stile, eloquenza, brillantezza, spontaneità e parmigianità. Di fronte al solito ritornello dei comunisti trinariciuti, quelli col paraocchi, che recitava più o meno “Cozi dal gènnor in Russia in sucédon miga”, mio padre rispose: “ Sät parchè? In Russia i gh’àn j èrzon äd cärta suganta”. Non sopportava infatti la faziosità in generale, detestava la mancanza di obiettività e lanciava questi missili fatti di buon senso più che di analisi politica.

Dopo l’alluvione di Livorno e il solito conseguente rosario della ricerca di facili capri espiatori, me ne sono ricordato e l’ho trovata oltremodo attuale e pertinente. Ai comunisti trinariciuti si sono sostituiti gli ecologisti parolai del giorno dopo.

In tre ore su quella città è caduta la pioggia di un anno: il colore e la tempestività dell’allerta, la perfetta pulizia dei fossi e dell’alveo dei torrenti, il rigoroso rispetto dei vincoli idro-geologici, la costante manutenzione del territorio sarebbero bastati ad evitare i danni di un simile fenomeno catastrofico? Smettiamo quindi i panni del grillo parlante e finiamola con la politicizzazione di questi eventi: il Pd non avrebbe nel suo dna l’ambiente…E chi ce l’ha? Il Papa, come al solito, ci dà una lezione: l’uomo è stupido! Se proprio vogliamo trovare un colpevole su cui scaricare la colpa, siamo tutti colpevoli. Si dirà che i governanti hanno responsabilità. Certamente, ma anche i governati che ne combinano di tutti i colori, anche i cittadini che chiedono tutto e subito, fregandosene altamente del rispetto ambientale e non solo ambientale, persino la difesa del posto di lavoro a volte prescinde dalla salvaguardia della salute pubblica.

Onestamente non so se una diversa politica del territorio possa almeno contenere i danni derivanti da eventi atmosferici straordinari come quello di Livorno e quanto tempo occorrerà prima di averne i benefici effetti. Abbiamo mangiato tutti scriteriatamente ed a crepapelle alla mensa dello sviluppo e del benessere economico; adesso che la tavola si è fortemente impoverita e che su di essa piove a dirotto, “governo ladro”. Non sopporto questo senno del poi di cui sono pieni i fiumi e i torrenti.

Per cui, come si suol dire, calma e gesso. Tra l’altro, non tutto è scientificamente scontato. Non mi riferisco alle farneticazione trumpiane, ma, per fare un esempio, credo che sulla pulizia del greto dei torrenti ci siano due teorie contrapposte: chi la ritiene un obiettivo da perseguire per contenere gli straripamenti e chi la ritiene una spinta ulteriore al precipitare delle acque.   Forse mi sbaglio, ma le questioni non sono così semplici e immediate.

Per il presidente della Repubblica “questa ennesima calamità dovrà sollecitare al più presto nel mondo politico una riflessione seria e approfondita sugli effetti dei cambiamenti climatici e su come difendere efficacemente il nostro territorio”. Non si può che essere d’accordo. Ma attenzione: una diversa politica del territorio imporrà sacrifici, scelte dolorose, conversioni cruente, cambiamenti di mentalità e di aspettative. Non sarà una passeggiata nel bosco. Il risanamento ambientale dovrebbe passare da un contenimento dei tassi di inquinamento atmosferico. Le energie pulite dovrebbero prendere il posto del petrolio e dei suoi derivati. Pensiamo a quali mutazioni comporterà una simile scelta, dai rapporti economici internazionali alle abitudini personali. Partire dal dna del partito democratico, fa sinceramente ridere, come illudersi che i grillini con un tratto di web possano cambiare il mondo. Con tutto il rispetto per gli ambientalisti che chiedono udienza alla sinistra politica e per i cinque stelle che chiedono voti agli italiani scontenti.

 

Gli stupri multicolori

È arrivata la risposta: ai nostalgici che rispolverano immagini fasciste, nel caso si trattava di un uomo di colore che aggredisce una donna bianca con tanto di invito a difenderla dai nuovi invasori, è giunta la peggiore ma eloquente risposta, le donne bianche si devono guardare dai carabinieri italiani. Non è giusto, ma se vale generalizzare verso gli immigrati, deve valere anche per gli uomini in divisa, oltretutto proprio coloro che dovrebbero difendere le donne come del resto tutti dalle aggressioni di ogni tipo.

Questa forzata contrapposizione ci deve insegnare parecchie cose. Non si può e non si deve criminalizzare nessuna categoria di persone, i fatti vanno esaminati oggettivamente e singolarmente, lasciando a chi di dovere l’adozione dei provvedimenti del caso. La violenza sulle donne non è monopolio dei neri e degli immigrati: è un oligopolio assai diffuso ed articolato, che coinvolge persino le donne contro le donne, se è vero, come è purtroppo vero, che le donne nell’esercizio del potere, non solo politico, sono cattive come gli uomini.

La violenza sessuale è un’aberrazione culturale che affonda le proprie radici anche e soprattutto nelle filosofie razziste, xenofobe, oppressive, discriminatorie, quelle che vorrebbero insegnarci come difendere le nostre madri, mogli, sorelle e figlie; essa trova il suo sfogo in tutte le circostanze violente in cui si presenta l’occasione propizia: guerre, torture, regimi dittatoriali, scontri sociali. Laddove c’è una situazione di debolezza per la donna, c’è chi è pronto a sfruttarla, spostandola sul piano sessuale, magari presentandola subdolamente come iniziale difesa e proseguendola come paradossale intesa.

Quando la violenza viene da chi dovrebbe combatterla, quando si fa scudo di una divisa o comunque di un potere affidato o di un ruolo esercitato, diventa la più grave delle anomalie umane e sociali: può trattarsi di un poliziotto, di un carabiniere, di un magistrato, di un politico, di un manager, di un padre, di un fratello maggiore, di un fidanzato, di un marito, di un amico. È perfettamente inutile, ingannatore e illusorio spostare la sporcizia della nostra casa sotto il tappeto dell’immigrazione. Guardiamo nelle nostre case, nelle nostre caserme, nelle nostre aziende, nelle nostre famiglie, troveremo sgradite sorprese.

Sul piano sociale lo sfruttamento e la violenza sulle donne trovano una sorta di istituzionalizzazione nella prostituzione, soprattutto a danno di ragazze immigrate, ingannate e imprigionate nei gangli di un fenomeno ben noto, ma che nessuno attacca con il giusto piglio: tutto ciò fa sorgere non pochi dubbi. Le forze dell’ordine sanno tutto, ma intervengono sporadicamente con qualche risibile retata. Perché? Me lo sono chiesto spesso ed ho trovato due risposte: la paura verso mondi in cui si rischia la vita e l’omertà per non dire la complicità. Se grattiamo la scorza di perbenismo con cui vogliamo difenderci dalle ondate migratorie, non finiamo più di trovare le nostre gravissime colpe e le nostre code di paglia.

Spero che i carabinieri di Firenze paghino per quanto di grave hanno fatto, giudicati senza processi sommari ma con la dovuta severità,   ma non ripieghiamo sul discorso delle mele marce, il marcio è molto diffuso e profondo e bisogna scovarlo e toglierlo, non certo con la scopa sporca, logora e fascista di Forza Nuova.

 

 

Il gioco dell’oca dell’immigrato

Non era difficile immaginare che una certa politica di contenimento dell’immigrazione avrebbe avuto il triste contraccolpo dell’ammassamento dei profughi nei lager libici. Questi disperati, che vengono fermati dalla guardia costiera libica, ritornano all’inferno, anzi sono partiti dall’inferno dei loro luoghi di origine, hanno attraversato l’inferno dei trafficanti e approdano all’inferno dei campi di concentramento: una sorta di macabro gioco dell’oca dell’immigrato.

In questo momento l’Europa sta facendo la politica dello struzzo, mette la testa sotto la sabbia e riconsegna indirettamente i profughi ai loro carcerieri sperando così di risolvere il problema, facendo calare sì gli arrivi, evitando le morti in mare, ma sottoponendo questi disgraziati a torture, violenze, maltrattamenti e umiliazioni.

Non faccio fatica a credere al rapporto e alle accuse di “Medici senza frontiere”. Un paese come la Libia, dilaniato da lotte tribali, diviso in due tronconi, senza uno straccio di classe dirigente, non è in grado di gestire l’emergenza immigrazione. Anche gli eventuali aiuti economici rischiano di essere ininfluenti e di non creare alcun sollievo ai migranti accatastati nei centri di detenzione in attesa di un impossibile ritorno nei loro Paesi.

Penso, spero di sbagliare, che anche in Turchia la situazione non sia molto diversa. Tramite Turchia e Libia stiamo riuscendo a bloccare i traffici, ma non stiamo affatto risolvendo o avviando a soluzione il problema.   Agli annosi ritardi accumulati nella politica verso i Paesi sottosviluppati, aggiungiamo la pretesa di recuperare gli errori e le situazioni drammatiche, allontanando dalle nostre coste la pressione, ributtando indietro i fuggitivi e spostando il tutto in campo neutro.

Come minimo bisognerebbe avere il coraggio di controllare veramente quanto succede in questi luoghi di decantazione del problema e non limitarsi a prendere atto con soddisfazione dei risultati ottenuti in mare. Il problema è enorme e nessuno ha la ricetta in tasca. Però l’Europa deve trovare una politica comune che ripartisca equamente i sacrifici, deve stanziare le risorse materiali e umane necessarie, deve “intromettersi” in questi Stati per favorirne un minimo di responsabilizzazione democratica, deve guardare meno alle urne elettorali e più alla gente che soffre e muore, deve riuscire a rasserenare il clima tranquillizzando i “poveri nostrani” e togliendoli dall’inganno della contrapposizione ai ”poveri stranieri”, deve cessare di rincorrere i fantasmi populistici per battere i populismi, deve parlare chiaro ai cittadini senza nascondere i problemi e la verità.

Se sapessimo riflettere di fronte all’orrore dei morti in mare, dei profughi sfruttati dai trafficanti, delle torture inferte ai migranti intercettati e riportati indietro, se alla sera, prima di addormentarci, avessimo il coraggio di pensare a come (non) dormiranno gli ospiti (?) dei campi di concentramento in Libia e forse anche nei centri di accoglienza in Italia, i Salvini di turno dovrebbero cambiare mestiere, gli imprenditori della paura dovrebbero rischiare sulla propria pelle e non speculare su quella degli altri, i politici tutti dovrebbero aprire la mente e il cuore e fare fino in fondo il proprio dovere.

Non parto però dai politici, ma dai singoli cittadini che devono smetterla di mentire spudoratamente a loro stessi criminalizzando un fenomeno che, se di criminale ha qualcosa, dipende in tutto e per tutto anche dal nostro passato e dal nostro presente. È comodo scandalizzarsi se delinque un immigrato e sorvolare sulla delinquenza nostrana a tutti i livelli; è scorretto pensare che chi ha fame voglia rubarci il pane; è inaccettabile far finta di credere che i migranti siano terroristi camuffati da poveracci. Sconfiggiamo questi vergognosi luoghi comuni. Poi potremo discutere seriamente e pretendere che la politica faccia la sua parte, che è anche la nostra parte.

La marcia dell’antistoria

L’Italia è il più bel paese del mondo, non la cambierei con nessun altro, ma diamoci una regolata: dove vogliamo andare? Stiamo ben attenti perché qualcuno ci convoca per rifare la marcia su Roma il 28 ottobre prossimo. A Parma, qualche anziano cade ancora, in buona fede, nell’errore di chiamare piazza 28 ottobre l’attuale piazza Giacomo Matteotti. Fare casino su tutto e su tutti porta anche a queste assurdità: non quella di sbagliare il nome di una piazza, ma quella di sbagliare il verso della storia. Non ci manca più che rimettere in discussione l’articolo uno della Costituzione in nome della libertà di essere fascisti o nazi-fascisti. Un movimento lo si trova sempre, anzi c’è già e si chiama Forza nuova. Qualche imbecille disposto ad andare in strada a sbraitare slogan mussoliniani ed a fare saluti romani c’è, eccome. Parecchi soggetti violenti, dipendenti visceralmente dai propri impulsi incontrollati, non aspettano che l’occasione per sfogarsi.

Se fossero episodi marginali, particolari e isolati, ci sarebbe da ridere o piangere a seconda dei gusti. Se invece li contestualizziamo c’è di che preoccuparsi. La deriva razzista parte in quarta dagli Usa di Donald Trump, dove si sta spegnendo il sogno di 800 mila figli di clandestini regolarizzati provvisoriamente, che rischiano di essere mandati paradossalmente nei Paesi di origine dei loro genitori, a loro (quasi) totalmente sconosciuti; dove si vogliono alzare veri e propri muri verso il Messico; dove si vuole bloccare l’ingresso di persone provenienti da Paesi in odore di terrorismo. Negli Stati Uniti un tempo non entravano i comunisti, oggi il comunista più potente e vomitevole del mondo, Vladimir Putin, gioca a scacchi con Trump e non entrano, addirittura escono i poveri diavoli. Come cambia il mondo!

I Paesi dell’Est europeo, facenti parte un tempo del blocco comunista, dove la gente scappava verso ovest per sottrarsi al gioco totalitario, oggi, dopo essere stati accolti fin troppo rapidamente nella Ue e goderne gli aiuti, si permettono il lusso di chiudere le porte ai disgraziati africani e non c’è verso di farli ragionare, perché non retrocedono nemmeno di fronte alle sentenze della Corte Ue, che impone a tutti gli Stati membri il rispetto dei patti in materia di ripartizione dei migranti.

In Francia si insiste nell’assurda e inapplicabile distinzione tra profughi e migranti economici, come se chi scappa dalla guerra fosse da considerare un uomo di serie A, mentre chi fugge dalla miseria e dalla fame fosse una persona di serie B.

In Germania dopo avere svenduto con i soldi europei una buona fetta di immigrati alla Turchia, si balla nel manico e si rivedono le precedenti aperture fin troppo spinte. La Gran Bretagna è scappata dalla Ue soprattutto a causa del problema migranti ed è tutto dire.

L’Italia, che fino ad ora si era distinta per l’atteggiamento aperto e disponibile, in mezzo ad un’azione seriamente impegnata, sta tuttavia spostando i discorsi sotto il tappeto libico e balbetta persino sullo Ius soli, un provvedimento di civiltà molto simile a quanto fece, seppure non in via definitiva, Barak Obama con una direttiva a favore dei baby migranti (oggi in via di revoca da parte dell’amministrazione Trump).

Questo è, più o meno, il contesto sostanzialmente razzista in cui ci troviamo. Ebbene qualcuno si alza un bel mattino e convoca una marcia su Roma in nome del fascismo, che aveva nel razzismo uno dei suoi connotati principali. Il conto purtroppo si chiude in “nero”. È possibile ricadere all’indietro fino al punto di rimpiangere la dittatura fascista? Sembrerebbe proprio di sì. Non credo si tratti di intervenire legislativamente e/o per fare rispettare le leggi esistenti: anche questo serve. Mi sembra una questione culturale, che richiede discorsi molto più impegnativi. Forse si tratta di rivedere il concetto di democrazia, non più inteso solo nella difesa delle libertà individuali e collettive, ma aperto sugli scenari mondiali del progresso dei popoli e delle genti tutte.

Interroghiamoci seriamente, non giochiamo con le paure, non andiamo al ballo mascherato della storia passata. Vogliamo ragionare o ci stiamo bevendo il cervello?