L’ubriacatura riarmista

«Viviamo in un’era di riarmo». Ursula von der Leyen punta dritta al nodo della questione: il mondo gioca alla guerra e l’Ue si prepara. La presidente della Commissione europea propone perciò un piano per rendere l’Unione a prova di questi «tempi pericolosi», come li definisce lei stessa. Un piano che sarà discusso già tra due giorni, in occasione del vertice straordinario dei capi di Stato e di governo dell’Ue del 6 marzo, e che snatura l’idea di pace alla base del progetto di integrazione, e che si palesa nel punto tre del piano inviato alle capitali e alle cancellerie di tutta Europa: gli Stati potranno usare i fondi di coesione per spese nel settore di difesa. Non più strade, ponti, ospedali, piste ciclabili, dunque. I fondi strutturali concepiti per rilanciare i territori e appianare i divari come quello nord-sud d’Italia verranno usati per altro. «Rearm Europe può mobilitare quasi 800 miliardi di euro in spese per la difesa per un’Europa sicura e resiliente», spiega Von der Leyen. (La Stampa – Emanuele Bonini)

Non so sinceramente se essere più preoccupato, meglio dire sconvolto, della orrenda piega impressa da Trump ai rapporti internazionali o della reazione avviata in sede europea. Speravo che l’attacco trumpiano potesse servire ad uno scatto di dignità, temo invece che serva a reagire in malo modo, mostrando i muscoli in una sorta di gara bellicista e riarmista. Ci stiamo accorgendo che è proprio quel che desidera Trump? Trascinarci in un vortice senza via d’uscita, diventando politicamente irrilevanti, commercialmente titubanti e strategicamente devitalizzati.

Possibile che l’unica risposta europea debba consistere nell’aumento delle spese militari, in una sorta di conversione da un’economia di pace ad un’economia di guerra? L’industria bellica si sta leccando i baffi e i mercati finanziari ne stanno prendendo atto: le armi le compreremo dagli Usa. La nostra economia soffrirà i dazi commerciali, ma respirerà con i polmoni d’acciaio.

Forse stiamo prendendo troppo sul serio le fandonie americane e ce ne facciamo condizionare. Anziché cercare nel nostro retroterra di civiltà, finiamo col rovistare nel laboratorio americano dell’inciviltà. È il momento di Irrobustire le mani fiacche, di rinsaldare le ginocchia vacillanti, di abbandonare la paura. Non c’è tempo da perdere? D’accordo, ma attenzione all’ansia cattiva consigliera.

I democratici non hanno mai applaudito, i repubblicani hanno consumato mani per applaudire il presidente Trump nel discorso davanti alle Camera riunite in stile Discorso sullo Stato dell’Unione. Una trasposizione dell’America divisa quella andata in scena a Capitol Hill ieri sera. Da una parte i conservatori a sostenere ogni virgola dell’agenda trumpiana, dall’altra gli orfani della presidenza Biden che hanno inscenato proteste mostrando palette nere con le scritte «Musk ruba» o «Falso» alzato ogni volta il presidente diceva qualcosa di poco aderente, secondo i criteri dem, al vero. Dopo pochi minuti è stato cacciato dall’aula il deputato del Texas Al Green che imperterrito ha interrotto più volte il discorso di Trump accusandolo di voler distruggere la sanità pubblica. Tre deputate poi a un certo punto si sono alzate, hanno dato le spalle a Trump si sono tolte la giacca e mostrato una maglietta nera con la scritta «Resist». Poi hanno lasciato l’aula. (La Stampa – Alberto Simoni)

Ebbene, dovremmo avere il coraggio di andare per la nostra strada. Come ho più volte ricordato e scritto, il presidente Sandro Pertini sosteneva, in un ammirevole mix di realismo, patriottismo e riformismo, che il popolo italiano non è né primo né secondo agli altri popoli. Il discorso vale a maggior ragione per il popolo europeo. Non facciamoci quindi prendere dal senso di inferiorità rispetto agli Usa. A tal proposito ricordo una simpatica barzelletta di uno storico personaggio di Parma, Stopàj. Questi, piuttosto alticcio, sale in autobus e, tonificato dall’alcool, trova il coraggio di dire impietosamente la verità in faccia ad un’altezzosa signora: «Mo salä che lè l’è brutta bombén!». La donna, colta in flagrante, sposta acidamente il discorso e risponde di getto: «E lu l’è imbariägh!». Uno a uno, si direbbe. Ma Stopaj va oltre e non si impressiona ribattendo: «Sì, mo a mi dmán la me pasäda!». Gli europei guardano la situazione e la trovano molto, troppo brutta, allora le si rivolgono contro assumendo toni disinibiti da ubriaco per farsi coraggio, con una differenza sostanziale: l’ubriacatura generale non dura solo un giorno, si protrae nel tempo e tutti sappiamo i danni irreversibili che può provocare.

 

   

Lo zoccolo duro dei valori condivisi

Il volto paonazzo, la postura aggressiva, le parole come pietre. Nulla di nuovo, purtroppo. Togliete Donald Trump dallo studio ovale mentre si scaglia contro Volodymyr Zelensky. Mettetelo in un’arena per comizi tra la folla osannante, in chiesa mentre ascolta le suppliche umanitarie di una donna vescovo o in un video creato dall’intelligenza artificiale nel quale prende il sole lungo la Striscia di Gaza insieme all’amico Benjamin Netanyahu. Sarà sempre lo stesso Trump, quello che da 40 giorni vuole sconvolgere il mondo. «C’è un nuovo sceriffo in città» direbbe J.D. Vance, il suo vice pronto ad aizzarlo e a blandirlo come ha fatto venerdì a Washington scatenando lo sdegno del leader ucraino. «Non fa nulla per correggersi, nulla per aderire alla missione pubblica che gli è stata affidata per la seconda volta dai cittadini americani» spiega Mario Morcellini, professore emerito di comunicazione all’Università La Sapienza di Roma. L’uomo più potente al mondo «fa di tutto per scuotere dalle sue spalle i pesi gravosi dell’incarico, moltiplicando all’infinito il suo istinto bestiale».
È la prova che la comunicazione politica è finita, perché è diventata tutto e il contrario di tutto. Un’arma potente da usare, ma anche un boomerang. «Siamo davvero alla regressione morale, alla secessione delle nostre certezze» ribadisce lo studioso quando gli si chiede se e come sopravvivremo a questo magma verbale, in cui escono ammiccamenti, paranoie, battute. «Donald Trump sta infliggendo alla coscienza pubblica occidentale una serie di colpi senza precedenti. Lavora sulle nostre percezioni e sulla nostra anima, provocando in noi un male oscuro, quasi psicologico».

(…)
Di questo passo, chissà quando misureremo i danni di questa sovreccitazione. «Alla fine resterà in piedi solo chi deciderà di non entrare in questo gioco perverso: chi non si servirà solo di una comunicazione fatta di punti esclamativi, ma anche di frasi più complesse, che prevedono soggetti, verbi e persino il congiuntivo» argomenta Morcellini. È l’unica buona notizia per l’Europa e per quella parte di Occidente che oggi è sgomenta: restare capaci di un pensiero e di una visione forse ci salverà. (Dal quotidiano “Avvenire” – Diego Motta)

In un simile disarmante contesto fanno sorridere le domande su cosa ne pensi Giorgia Meloni: è il personaggio totalmente incapace di un pensiero e di una visione; non aspettiamoci niente se non l’invito a rassegnarsi opportunisticamente. Gli altri leader europei, bene o male, stanno impostando una reazione, anche se ne vediamo i limiti. La risposta non può essere calata dall’alto della politica, ma salire dal basso della coscienza popolare. Anche i migliori commentatori stanno balbettando, le loro categorie di analisi non reggono.

Non è un caso se sto rinunciando all’ascolto dei dibattiti televisivi, anche i più seri e impegnati, per ripiegare sul dialogo interpersonale, che faccia rifermento alle esperienze concrete di vita democratica. C’è il rischio della nostalgia: a volte serve più la nostalgia che costringe a ripartire dallo zoccolo duro dei valori condivisi, piuttosto che andare in cerca di traballanti risposte nuove.

A livello europeo stiamo cadendo nella trappola: cerchiamo risposte comuni nel riarmo, nei riti pseudo-diplomatici, nei vuoti tatticismi. È cambiato il mondo, dobbiamo scendere per ripartire da un bastimento carico di…

 

Dagli immortali vertici

C’è una responsabilità del cristianesimo e della Chiesa in Europa. Oggi siamo passati alla prevalenza dell’“io” nella vita sociale e si fa fatica a far affermare un “noi europeo”.
Se non la Chiesa non vedo altre agenzie in grado di lanciare un discorso di comune sensibilità sull’Europa.
Oggi è la Chiesa a dover rilanciare un progetto europeo di pace, fratellanza e sviluppo. Insomma una comune visione. (dall’intervista di Andrea Riccardi al quotidiano “Avvenire”)

Al termine dell’agghiacciante scontro tra Donald Trump e Volodymyr Zelensky mi è venuto spontaneo chiedermi: chi potrà fermare l’arroganza del neo-presidente americano? La Cina? L’Europa? Il popolo americano? La religione? Verso tutte queste realtà Trump ha messo le mani avanti, può ingannare il mondo intero, ma non il Padre Eterno.

In questi giorni alla forza apparentemente irresistibile dei padroni del vapore fa riscontro la debolezza di papa Francesco: solo lui è un serio antidoto. Non si tratta di fuggire dalle proprie responsabilità, ma di collocarle nella giusta dimensione esistenziale.

Come europei possiamo fare uno scatto. Mi sembra invece che continuiamo a pestare l’acqua nel mortaio, passando da un vertice all’altro, abbiamo paura degli Usa, non ce la sentiamo di provare a prescindere dai diktat. Recentemente Massimo D’Alema ha osservato come la sinistra abbia impiegato decenni per sgravarsi di dosso l’anti-americanismo. E adesso ci si accorge che un po’ di sano antiamericanismo non faceva e non fa male.

Si tratta di ragionare con la propria testa anche perché, come dice padre Cristoforo a don Rodrigo, verrà un giorno…e non ce ne sarà per nessuno. La diplomazia avrà finito quel poco che rimane in suo potere. I superbi saranno dispersi nei pensieri del loro cuore, i potenti saranno rovesciati dai troni e finalmente saranno innalzati gli umili, i pacifici saranno riconosciuti come figli di Dio e i miti riceveranno in dono la terra.

Non so quali preghiere recitino i governanti Usa prima delle loro riunioni: ringrazieranno Dio farisaicamente e si sentiranno a posto. Qualcuno dovrà fare un serio esame di coscienza anche a livello europeo.

 

La rialfabetizzazione senza alfabeto

Elena Granata è docente di Analisi della città e del territorio e di Geografia urbana al Politecnico di Milano. Le trasformazioni territoriali, sociali ed economiche sono da anni al centro della sua ricerca.

“Siamo vivi. Qui a Trieste, nei rispettivi territori. Abbiamo avvertito la brezza dello Spirito, abbiamo compreso, insieme, che occorre partecipare”. Elena Granata, Vicepresidente del Comitato scientifico, interviene all’assemblea dei delegati della Settimana sociale, per individuare alcune “prospettive”. Indica la necessità di non dimenticare “ciò che abbiamo fatto qui”, perché c’è “il rischio” di ritenere che “sia stato tutto un sogno”. “Si tratta di continuare ad attenerci alla dinamica partecipativa che abbiamo sperimentato in questi giorni”. Occorre del resto “rialfabetizzarsi alla democrazia, e questo vale per ogni generazione”. Aggiunge: “L’elaborazione politica, l’agire pensante chiede un linguaggio nuovo, un pensiero che sta nella complessità, sviluppando competenze”. Partecipazione e democrazia chiamano in causa i “luoghi, perché non si può mai essere estranei rispetto ai luoghi in cui viviamo”. “Oggi a Trieste ci sentiamo spinti dalla ‘Fratelli tutti’. E non vorremmo che Papa Francesco debba scrivere una ‘Fratelli tutti 2’ perché non abbiamo messo in pratica la prima”. La professoressa Granata ricorda che i delegati hanno “sperimentato alcune formule”. Anzitutto “le piazze della democrazia, per mostrare come la democrazia deve tornare nelle piazze delle città”. Quindi segnala i “dialoghi tra le buone pratiche, spazi nuovi di messa in rete”, domandandosi “cosa possiamo fare per essere utili e sfidanti per la politica”. Cita infine la possibilità di “promuovere luoghi di confronto e discernimento” tra persone impegnate in politica. (AgenSir)

Ebbene, sono rimasto molto colpito dalle frettolose dichiarazioni rese dalla suddetta professoressa (a cui va tutta la mia stima ed ammirazione) nell’intervento fatto al recente convegno milanese di ‘Comunità democratica’ sul ruolo dei cattolici in politica: ” Creare legami, guarire la democrazia, un impegno dopo la settimana sociale dei cattolici”.

Cito (quasi) testualmente): «…Non possiamo usare le parole di Sturzo e di Moro e pensare di cavarcela e sentirci a casa, perché quel mondo è finito e i giovani hanno bisogno di sentire parole nuove…».

Cara professoressa, se non prendiamo la rincorsa sfruttando la virtuosa scia dei testimoni del passato non andiamo da nessuna parte ed è proprio quello che sta succedendo. O abbiamo il coraggio di riscoprire e rilanciare i messaggi di impegno democratico e civile provenienti da personaggi come Moro, Dossetti, La Pira, Bachelet, Mattarella e altri o ci avventuriamo e impantaniamo in una sorta di improvvisazione di un futuro pseudo-democratico e pseudo-partecipativo. La rialfabetizzazione alla politica non si fa senza alfabeto…

Le consiglio di leggere alcune recenti dichiarazioni di Rosy Bindi nell’ambito di un’intervista rilasciata al quotidiano “Avvenire”.

Domanda: «Lei era al fianco di Vittorio Bachelet al momento dell’agguato. Nel film lei lo definisce, al pari di Aldo Moro e Piersanti Mattarella, un martire della Repubblica».

Risposta: «Fu il cardinale Martini a definire l’assassinio di Vittorio Bachelet “martirio laico”, sottolineando che era stato «ucciso non in ragione della propria fede ma del proprio impegno civile». Sono convinta che lo stesso si debba dire per Aldo Moro e Piersanti Mattarella, uccisi brutalmente perché incarnavano la politica come speranza, come forma esigente di carità, secondo la bella definizione di San Paolo VI. Erano tutti e tre impegnati a ricucire le lacerazioni della società italiana di quegli anni. Moro sul fronte della politica nazionale, con il progetto di democrazia dell’alternanza. Mattarella a Palermo con quella Sicilia dalle carte in regola, in aperta discontinuità nel rapporto con i poteri occulti e criminali. Bachelet per l’equilibrio con cui esercitava il suo ruolo nel Csm, favorendo il dialogo tra magistratura e politica. Tutti uccisi per il loro servizio alla comunità».

Nell’attuale pur interessantissima e ammirevole elaborazione socio-culturale dei cattolici ritrovo gli storici limiti e difetti riconducibili ad una certa presunzione, che nell’analisi della professoressa Granata rischia di assumere i contorni di un sia pur comprensibile ansioso nuovismo. È necessaria tanta umiltà che discende dalla considerazione di un passato ricco di attualissima, prospettica e coraggiosa testimonianza.

Se ci illudiamo di affrontare il futuro girando pagina e inventando parole nuove, tradiamo le pagine e le parole della Costituzione. L’alfabeto è quello e gli insegnanti sono coloro che hanno dato la vita per rimanervi fedeli.

Penso che la professoressa Granata sarà d’accordo. In conclusione la mia non vuole essere una critica. Come direbbe mio padre: “A t’ capirè se mi a m’ permetriss äd criticär ‘na profesôrèssa”. Il mio è semplicemente un timido, anche se convinto, invito: mi permetto solo di consigliarle uno sforzo di completezza nella visuale storica. So benissimo che non è facile coniugare la radicata tradizione del cattolicesimo democratico col volatile nuovismo della cultura modernista, ma sarebbe un errore trascurare, sottovalutare o anche solo relegare nel pantheon le fulgide testimonianze del passato, autentico oro colato per affrontare le sfide del presente e del futuro.

Una vergona che passerà alla storia

La copertina dell’Economist è più che esplicita. Donald Trump si muove come un boss della mafia, a mezza via fra Tony Soprano e Le iene di Quentin Tarantino. E così è stato, nell’avvilente faccia a faccia fra il presidente americano e Volodymyr Zelensky, umiliato e rimproverato oltre misura con toni che appartengono più al gergo di Vito Corleone e alla sua «offerta che non si può rifiutare» che a quelli di un leader occidentale. «Senza le nostre armi avresti perso la guerra in due settimane – ha detto Trump. Il problema è che ti ho dato il potere di essere un duro, non credo che lo saresti senza gli Stati Uniti. Firma l’accordo o noi siamo fuori. E se noi siamo fuori, ve la dovrete vedere da soli con la Russia. Sarà sanguinoso, ma combatterete. Se invece firmi quell’accordo, sarai in una posizione molto migliore. Non hai carte in mano».

La posta in gioco, come si vede, non è altro che il bottino in terre rare, ciò che maggiormente preme a The Donald. Il resto, la pace, il compromesso con Putin, la cessazione delle ostilità e dell’inutile strage sui fronti ucraini sembra un fatto di contorno.
«Putin è un killer, non voglio compromessi. Non sono venuto per giocare a carte», ha provato a dire Zelensky. Ma ci si è messo anche il vicepresidente Vance, l’ex ragazzo hillbilly, ora alfiere di un’America dura, pura e intransigente, la stessa che con irridente crudeltà sventola ad ogni piè sospinto l’onnipresente Elon Musk: «È irrispettoso venire nello Studio Ovale e litigare di fronte ai media americani». Risultato: Zelensky si alza e lascia la stanza del potere americano, ma di fatto è stato invitato ad andarsene con il famigerato «You’re Fired!» per cui The Donald è rimasto famoso. La conferenza stampa è annullata. Su Truth – la sua piattaforma social – Trump scrive: «Hai mancato di rispetto agli Stati Uniti». E il rispetto fra gli uomini d’onore, è tutto. Come hanno sempre saputo i vari Gambino, John Gotti, Genovese. Guai a non rispettare un boss.

Ma un po’ di dietrologia in questi casi non guasta: Zelensky è diventato una pedina ingombrante. I potenziali successori, quelli che faranno i patti leonini con la Casa Bianca e il Cremlino, già si avvistano all’orizzonte. Uno di essi è il generale Valery Zalushnyj, già comandante in capo delle forze armate ucraine, rimosso da Zelensky un anno fa. A Trump piace molto. E questo forse spiega l’imboscata mafiosa di ieri. E l’orribile pagina politica che grazie a The Donald l’America che dovrebbe ridiventare grande si è rimpicciolita come un nanerottolo da giardino. (dal quotidiano “Avvenire” – Giorgio Ferrari)

Voglio tentare un esame critico a prescindere dai toni di autentica cattiveria usati da Trump (una vergogna che passerà alla storia!). Se Zelensky ha commesso degli errori nel reagire all’aggressione russa, è stato molto ben assecondato dall’intero Occidente, che ha preferito attestarsi sull’intransigente massimalismo internazionale anziché impegnarsi nell’ardua via diplomatica.

A parte l’inevitabile senno di poi, non è possibile un improvviso voltafaccia, che cambia le carte in tavola e impone una sorta di “mortus” come si fa per i giochi dei bambini nel cortile di casa. Il triviale ragionamento trumpiano è questo: ti abbiamo aiutato e (forse) ci siamo sbagliati per colpa del mio predecessore e dell’Europa. Adesso basta, te la vedi tu, io posso solo aiutarti alle mie condizioni, prendere o lasciare.

Chi mai accetterebbe un simile incondizionato diktat? Un cambio repentino e radicale di strategia mette tutti in gravissima difficoltà. I Paesi europei abbozzano, non osano dichiarare apertamente la loro opinione seppure tardiva e costruttiva. Dallo scenario del “tutti contro Putin” passiamo a quello della “pace purchessia con Putin” o meglio della pace dei sepolcri che interessa Trump e Putin.

Massimo D’Alema a Piazzapulita ha dichiarato: “Un grande errore della sinistra lasciare alla destra la parola d’ordine della pace. L’ho pensato dall’inizio: la guerra in Ucraina era una guerra che nessuno poteva vincere. E quando nessuno può vincerla, occorre mettere in campo la politica. Noi oggi rischiamo una pace cattiva: l’Europa non ha avuto nessuna iniziativa politica, e ha lasciato a Trump la bandiera della pace”.

Ha aggiunto una acuta nota autobiografica (cito a senso): in gioventù nutrivo seri dubbi sul sistema democratico americano, poi mi sono gradualmente convertito. Oggi posso dire che i dubbi di un tempo non erano infondati…

L’Europa si è accomodata da tempo nel proprio cimitero, accontentandosi di puntare in ordine sparso alla migliore tomba possibile. Ci sarà un rigurgito di dignità, un sussulto di orgoglio culturale e storico? Spero, nonostante tutto, nella Francia e nella Germania. L’Inghilterra è sempre stata succube degli Usa. L’Italia, in passato, qualche spiraglio di autonomia (pagato a carissimo prezzo) lo ha mostrato.

Alla follia della globalizzazione mafiosa, che si profila come il leitmotiv dell’assetto mondiale, bisogna rispondere con la forza dei principi della democrazia e del rispetto del diritto internazionale. Occorrerebbero leader della statura di un De Gasperi.

«Il futuro non verrà costruito con la forza, nemmeno con il desiderio di conquista, ma attraverso la paziente applicazione del metodo democratico, lo spirito di consenso costruttivo e il rispetto della libertà». Questa citazione di Alcide De Gasperi, figura di spicco del cattolicesimo democratico, racchiude la sua visione di politica e governance che oggi avrebbe ancora tanto da insegnare.

 

 

 

Il segreto di Stato posto da Pulcinella

Silvio Berlusconi in occasione del varo del governo Meloni dipinse un ritratto molto nitido della premier: “Giorgia Meloni. Un comportamento: 1. Supponente 2. Prepotente 3. Arrogante 4. Offensivo. Nessuna disponibilità al cambiamento. È una con cui non si può andare d’accordo”. Lei agli epiteti formulati da Berlusconi aggiunse un secco “non sono ricattabile”.

Facciamo un salto di oltre due anni. Appena ricevuto l’avviso di garanzia per i reati di favoreggiamento e peculato nel caso del generale libico Osama Almasri, Giorgia Meloni registra un video e dà per prima la notizia affermando: «Non sono ricattabile. Non mi faccio intimidire. È possibile che per questo sia invisa a chi non vuole che l’Italia cambi ma intendo andare avanti per la mia strada».

Purtroppo la vicenda Almasri sembra smentire questa auto-incensazione: più passano i giorni e più emerge la triste realtà di un governo italiano alla mercè dei ricatti libici, complici i rapporti fra i nostri servizi segreti e i “padroni” della Libia: si sta probabilmente andando ben oltre i già inaccettabili accordi italo-libici del 2017 (governo Gentiloni- ministro dell’Interno Minniti) per giungere ad un vero e proprio immondezzaio di reciproci e inconfessabili piaceri a suon di valige piene di soldi recapitate alle squadracce libiche comandate dal torturatore espulso con tutti gli onori dal governo italiano. Non è ancora chiaro e forse non lo sarà mai quale sia la contropartita libica: il contenimento dei migranti? la fornitura di petrolio? qualche altro piacerino?

Giorgia Meloni a quanto pare è ricattabile e quindi anziché spiegare dove sta la scomodissima ragion (?) di Stato, preferisce sciorinare le sue bugie (!) di Stato. Troppo pericoloso porre il segreto di Stato su una vicenda che giorno dopo giorno assomiglia molto al segreto di Pulcinella.

Non è finita e si apre un caso di spionaggio, che potrebbe essere in qualche modo collegato all’affaire Libia.

A fine gennaio, Meta – l’azienda che controlla Facebook e Whatsapp – ha fatto sapere che circa 90 persone in tutta Europa erano state vittima di spionaggio illecito: tra di loro attivisti e giornalisti. In Italia, il direttore di Fanpage.it è stato il primo a dire di aver ricevuto la comunicazione in questione: “A dicembre WhatsApp ha interrotto le attività di una società di spyware che riteniamo abbia attaccato il tuo dispositivo. Le nostre indagini indicano che potresti aver ricevuto un file dannoso tramite WhatsApp e che lo spyware potrebbe aver comportato l’accesso ai tuoi dati, inclusi i messaggi salvati nel dispositivo”.

Pochi giorni dopo, anche l’attivista Luca Casarini, capomissione di Mediterranea Saving Humans, ha annunciato di essere tra le vittime dello spionaggio. Oggi è emerso che le persone di Mediterranea coinvolte sarebbero almeno tre, tra cui l’armatore Beppe Caccia. A rivelare l’identità è stato l’europarlamentare Pd, Sandro Ruotolo, che parlando in occasione della presenza a Napoli della nave Mare Jonio ha sottolineato che tra gli spiati ci sono giornalisti e chi “guarda caso è in mare a soccorrere i migranti, mentre noi, Paese Italia, concediamo la fuga a un generale libico accusato di crimini contro l’umanità”.

Lo scandalo Paragon “riguarda l’Europa, non riguarda solo l’Italia, sicuramente ce ne occuperemo perché c’è la violazione dei dati personali di cittadini europei e c’è l’attacco alla libertà di informazione. Noi vogliamo sapere chi ha spiato, per conto di chi e perché sono stati spiati”, ha proseguito Ruotolo. “Lunedì a Strasburgo verranno le vittime conosciute, ma noi vogliamo conoscere anche gli altri nomi degli italiani e degli europei e verranno anche loro in conferenza stampa”, ha aggiunto. Tra le vittime dello spionaggio dunque, un giornalista – direttore di una testata che ha svolto inchieste anche sulla destra di governo – e diversi attivisti legati a un’Ong duramente critica dell’esecutivo e della sua politica sui migranti. Anche per questo motivo le opposizioni hanno iniziato a chiedere spiegazioni al governo Meloni. (fanpage.it)

Aldo Moro, mi risulta da fonti attendibili anche se non ufficiali, che affrontasse l’argomento “spionaggio” con distacco e scetticismo e osservasse con estremo disincanto: «Da che mondo è mondo le spie sono sempre state le peggiori persone esistenti…». La filastrocca infantile la dice lunga al riguardo: “Chi fa la spia non è figlio di Maria, non è figlio di Gesù, quando muore va laggiù, va laggiù da quell’ometto che si chiama diavoletto”.

E noi vorremmo difendere la nostra democrazia utilizzando soggetti che storicamente non hanno fatto altro che tramarle contro: gli antenati, più o meno extra-parlamentari e più o meno smascherati, di Giorgia Meloni se ne intendono e non mi stupirei affatto se lo spionaggio italiano in questo periodo fosse impiegato a difendere le identitarie politiche governative anti-immigrati. Una ulteriore ciliegina sulla torta dei rapporti con i torturatori libici?

Ora si aggiunge anche il nome di don Mattia Ferrari, cappellano di bordo di Mediterranea Saving Humans, nella lista delle persone vittime del software di hacking progettato dall’agenzia israeliana Paragon Solution. Il sacerdote infatti è stato avvisato da Meta di essere l’obiettivo di «un sofisticato attacco sostenuto da entità governative non meglio identificate» nel febbraio 2024, tramite lo spyware Graphite.

«Hanno spiato anche don Mattia, persino don Mattia Ferrari. Vi sarà capitato di vederlo qualche volta in Tv: è un sacerdote cattolico molto vicino a Papa Francesco. Il governo italiano permette di spiare illegalmente un sacerdote tra i più conosciuti e nel frattempo scarcera con il volo di Stato un trafficante di esseri umani. È pazzesco» scrive su X il leader di Italia viva, Matteo Renzi, aggiungendo che «se fanno così con i personaggi famosi, immaginate cosa possano fare ai cittadini comuni? E la Meloni che scappa senza dirci di chi è la responsabilità». (dal quotidiano “Avvenire” – Alessia Guerrieri)

 

L’estetica che prescinde dall’etica

Il momento che delizia i cronisti parlamentari lassù in tribuna e fa esplodere sui social l’hashtag #santanchedimettiti, è quello in cui la «pitonessa» si compiace dell’immagine che ogni giorno lo specchio le rimanda: «Io sono l’emblema di tutto ciò che detestate, lo rappresento pla-sti-ca-men-te. Sono il vostro male assoluto. Sono una donna libera, porto i tacchi da 12 centimetri, ci tengo al mio fisico, amo vestirmi bene e sono anche quella del Twiga e del Billionaire, che voi tanto criticate». E qui si sente forte e chiara la voce di Angelo Bonelli, di Avs: «Pensi alle famiglie dei suoi cassintegrati!». (Corriere della Sera – Monica Guerzoni)

Se i dubbi sull’opportunità di presentare la mozione di sfiducia contro il ministro Daniela Santanchè erano parecchi sul piano politico e tattico, dal punto di vista etico tale mozione ha costretto l’interessata ad uscire allo scoperto, rivelando la sgradevole, oserei dire vomitevole, concezione esibizionistica della donna in carriera.

Due sono le possibili reazioni: il compatimento, la rimozione prima culturale che politica di un personaggio squallido; oppure la valutazione del nesso tra questo atteggiamento e il fare politica non solo della Santanché ma di un intero gruppo dirigente di cui è, lo si voglia o no, emblematico porta-bandiera.

La bellezza oggi è qualcosa di ben preciso a cui adeguarsi: un certo modo di vestire, di mangiare, di parlare, di camminare. Non si tratta di una questione puramente estetica, ma di una tecnica politica di esercizio del potere. In altre parole, di una gabbia dorata in cui non ci rendiamo conto di essere rinchiusi. (Maura Gancitano)

Serviranno le parole di Daniela Santanché a scuotere, seppure in negativo, i cittadini oppure li porteranno ancor più ad una sorta di rassegnazione verso una concezione commediante della politica? Con le arie che tirano sarei portato a propendere per la seconda ipotesi anche se forse si sta un po’ esagerando e chissà che…

Qualcuno dirà che con tutti gli sconvolgenti problemi sul tappeto interno e internazionale, interessarsi alle sciocchezze propalate dalla Santanchè sembra un divertimento innocuo per cittadini scemi.

A parte il fatto che la ministra si sta mettendo la Costituzione sotto i piedi, tutto si tiene: il bullismo di Trump, l’opportunismo di Meloni, lo strapotere di Musk, l’ideologia di Bannon e le arie di Santanchè. A ben pensarci sono tutti modi di interpretare la politica a livello di prepotenza. Se proprio volete, le donne al potere, anziché ammorbidire i toni machisti, li stanno scopiazzando in modo più o meno penoso. Non mi stupirei se dal clan dei Trump partisse un endorsement nei confronti di Santanchè: allora cosa farebbe Giorgia Meloni? Avrebbe un motivo in più per continuare a fare il pesce in barile…

 

Tra bellicismo di maniera e trattativismo sepolcrale

È normale che quando ci si sente sotto attacco si finisca con l’auto-gratificarsi delle proprie debolezze. Temo sia l’atteggiamento di chi giustifica la logica di guerra perseguita dall’Europa in merito alla crisi Ucraina. Il fatto che Donald Trump stia perseguendo una perfida logica di finta pace non assolve l’Ue dal suo peccato, vale a dire dall’aver lasciato marcire per anni la situazione del conflitto russo-ucraino nascondendo la propria incapacità diplomatica e la subdola intenzione di nascondere l’Occidente dietro l’Ucraina almeno in parte chiamata a difendere oltre che se stessa anche la Nato.

Non si è vista nessuna proposta di pace da parte della Ue, si è andati avanti alla cieca fornendo armi senza minimamente ragionare sulle possibilità di aprire una qualsivoglia trattativa con la Russia. Anche la proposta della Cina, che non era da cestinare sbrigativamente, non ha scosso tatticamente la volontà europea.

Con un imperialista come Putin non si tratta: questo è stato l’imperativo categorico su cui ci si è più impantanati che appiattiti, senza dimenticare che in passato, più o meno sottobanco, si era trattato, eccome, con la Russia. Ho sempre avuto l’impressione che i Paesi europei avessero timore che Putin potesse aprire certi cassetti piuttosto imbarazzanti.

E allora, tratta tu che non tratto io, siamo arrivati a Trump, ad un imperialista che tratta con un altro imperialista, tagliando fuori sgarbatamente l’Ucraina, chiamata persino a restituire seppure indirettamente gli aiuti ricevuti dagli Usa, e l’Unione europea considerata un ingombro ed un intralcio alla strategia trumpiana.

O la pace la faceva l’Europa o la fa Trump dopo che gli si è lasciata un’autostrada da percorrere verso la pace dei sepolcri. Adesso che il vaso si è rotto si corre ai ripari, cercando goffamente di mettere insieme i pezzi con la colla del riarmo senza nemmeno parlare seriamente di esercito comune: della serie “siccome i percorsi di pace sono molto problematici al limite dell’impossibile, meglio rimanere in una logica di guerra, poi si vedrà…”.

Ho la netta sensazione che si stia continuando ad agire in modo schizofrenico, difendendo nominalmente l’Ucraina, ma in realtà difendendo sconclusionatamente quel simulacro di Europa che rimane in essere.  I Paesi europei hanno paura di Trump e della sua aggressiva strategia e non tanto di Putin, pensano a difendersi ben più che a difendere l’Ucraina (come peraltro è sostanzialmente successo dal giorno dopo dell’aggressione russa).

Il paradosso è che il rilancio dell’Europa rischia di avvenire sulle ali di un pazzesco riarmo indotto unicamente dai ricatti statunitensi. Credo che Zelensky si senta tradito e infatti comincia a piegarsi ai voleri statunitensi: non gli resta altro da fare.

Sia chiaro che l’Europa ha commesso enormi errori, trincerandosi dietro la pur sacrosanta difesa ucraina dall’aggressore russo senza mettere in campo alcun tentativo di pace, andando persino a scomodare gli errori storici di tolleranza verso il nazifascismo.

Adesso è tardi per stracciarsi le vesti davanti allo scempio trumpiano, i rigurgiti di vitalità strategica fanno (quasi) sorridere. Si è aperta una fase drammatica non solo per l’Ucraina, ma per il mondo intero. L’Europa, che è una potenza a condizione di essere unita, deve ritornare alla sua vocazione di pace e di progresso economico-sociale, convincendo prima di tutto i suoi popoli, che nel frattempo si sono a dir poco disamorati (vedi i successi dell’ultra destra antieuropea).

Ogni simile ama il suo simile

“Amo l’Italia, è un Paese molto importante. C’è una donna meravigliosa come leader e oggi era nelle discussioni del G7, penso che l’Italia stia facendo molto bene e abbia una leadership molto forte con Giorgia”. Il presidente americano, Donald Trump, accanto al presidente francese Emmanuel Macron nello Studio Ovale prima del bilaterale, elogia la premier italiana Giorgia Meloni.

(…)

“Grazie a Donald Trump per le sue parole. Italia, Stati Uniti ed Europa condividono valori e responsabilità comuni. Lavoreremo insieme per affrontare le sfide globali con determinazione e visione”, scrive intanto sui social Giorgia Meloni dopo le parole del leader Usa. (da adnkronos)

Posso fare un commento lapidario? Me la cavo con un proverbio: “Ogni simile ama il suo simile”.

 

Lunedì gli Stati Uniti si sono schierati per due volte con la Russia in due votazioni all’ONU sulla guerra in Ucraina: prima nel voto di una risoluzione non vincolante all’Assemblea generale, che è stata respinta, e poi nel voto di un’altra risoluzione al Consiglio di sicurezza, che invece è stata approvata. Soprattutto il primo voto ha fatto molto discutere perché nella risoluzione, presentata dagli Stati Uniti stessi, si chiedeva la fine della guerra in Ucraina, ma senza mai menzionare l’invasione russa cominciata il 24 febbraio del 2022.

Il voto è avvenuto peraltro in una data dal valore simbolico estremamente importante, dato che lunedì era il terzo anniversario dall’inizio della guerra in Ucraina. Dal suo insediamento, lo scorso 20 gennaio, il presidente statunitense Donald Trump ha segnalato in vari modi l’avvicinamento della sua amministrazione alle posizioni del presidente russo Vladimir Putin: aprendo alla possibilità di negoziati senza includere l’Ucraina e gli alleati europei, chiedendo la rimozione dei termini «paese aggressore» da altri importanti documenti e dicendo cose false e in linea con la propaganda russa sulla guerra.

Alla fine l’Assemblea generale ha respinto il tentativo degli Stati Uniti di far passare la risoluzione. Prima di procedere al voto, i 193 membri dell’Assemblea avevano approvato delle modifiche sostanziali alla bozza statunitense, per chiarire il ruolo della Russia come paese aggressore e la violazione delle norme internazionali; poi la risoluzione emendata è stata approvata con 93 voti favorevoli, 8 contrari e 73 astenuti. Gli Stati Uniti si sono astenuti, mentre la Russia ha votato contro (l’Italia ha votato a favore).

Dopo aver fallito nel tentativo di far passare la propria risoluzione all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, gli Stati Uniti ne hanno presentata un’altra al Consiglio di sicurezza in cui avevano chiesto una pace immediata in Ucraina, senza menzionare l’invasione russa o attribuire alcuna colpa. In questo caso la risoluzione è stata approvata con 10 voti favorevoli su 15, tra cui Stati Uniti e Russia: si sono astenuti invece Francia e Regno Unito, i principali paesi europei membri del Consiglio. A differenza delle risoluzioni dell’Assemblea generale dell’ONU, quelle adottate dal Consiglio di Sicurezza sono teoricamente vincolanti, ma comunque possono non essere rispettate dai paesi coinvolti.

Sempre lunedì l’Assemblea ha votato a favore di una risoluzione sostenuta dai paesi dell’Unione Europea, con cui si chiedeva più chiaramente il ritiro immediato delle truppe russe dal suolo ucraino. Questa è stata approvata da 93 paesi, con 18 contrari e 65 astenuti. Anche se alla fine entrambi i voti sono andati a favore dell’Ucraina, in passato le risoluzioni di condanna dell’invasione russa erano passate con un consenso più ampio. (ilpost.it)

Questa volta ci sono di mezzo i rapporti fra Trump e Putin, ma la morale della favola è sempre la stessa: “Ogni simile ama il suo simile”. E l’Onu conta come il due di coppe quando è briscola bastoni.

 

 

 

 

Estremi mali nazifascisti ed estreme ammucchiate democratiche

Fino a poche settimane prima delle elezioni in Germania, l’obiettivo del partito di sinistra Linke era riuscire a restare in parlamento. Non era sicuro di superare la soglia di sbarramento del 5 per cento. La Linke ha ottenuto l’8,8 per cento dei voti, un risultato inaspettato e sorprendente, vista la situazione in cui il partito aveva iniziato la campagna elettorale.

Nei sondaggi di novembre, quando i partiti si erano accordati sulla data del voto anticipato, la Linke (che in tedesco vuol dire “La sinistra”) era ai minimi storici: al 3,4 per cento. Per questo il quotidiano Süddeutsche Zeitung ha scritto che è «la storia di una resurrezione politica». C’è più di una ragione.

La Linke ha rinnovato la sua leadership e ha ritrovato unità dopo la scissione guidata da Sahra Wagenknecht, ai tempi la sua più nota esponente, che se ne andò per fondare un nuovo partito (rimasto fuori dal parlamento). Ha condotto una campagna elettorale efficace e ha beneficiato del suo posizionamento politico: è l’unico partito che non ha proposto misure più restrittive sull’immigrazione – lo hanno fatto anche quelli progressisti – e che ha escluso a priori un’alleanza con Friedrich Merz, il leader della CDU (centrodestra) che sarà il prossimo cancelliere se riuscirà ad allearsi con i Socialdemocratici.

La Linke è da sempre un partito antifascista, ma questo posizionamento ha funzionato soprattutto dopo che, a fine gennaio, la CDU ha votato per due volte insieme al partito di estrema destra Alternative für Deutschland (AfD) in parlamento. Lo ha fatto tanto più perché Socialdemocratici (SPD) e Verdi, i due principali partiti progressisti, non potevano escludere di coalizzarsi con la CDU dopo le elezioni: dalle intenzioni di voto, infatti, era già chiaro che senza almeno uno di loro non ci sarebbero state maggioranze, e quindi un governo, senza AfD.

Dopo l’intesa tra Merz e AfD in parlamento, in Germania ci sono state grandi manifestazioni a cui hanno partecipato decine di migliaia di persone. La Linke ha avuto un ruolo visibile in questa mobilitazione e la cosa ha contribuito a ridarle centralità in un pezzo dell’elettorato di sinistra.

Solo nell’ultima settimana prima delle elezioni ha registrato 10mila nuovi iscritte e iscritti: da metà gennaio i nuovi tesserati sono stati in tutto 31 mila, soprattutto giovani donne. La Linke è stata abile a investire su questo entusiasmo, con una comunicazione originale e una campagna elettorale basata sui suoi temi forti, sociali, come il caro affitti, il costo della vita e la redistribuzione del reddito.

La Linke è stato il partito più votato dagli elettori più giovani: da quasi un quarto delle persone della fascia anagrafica 18-29 anni (il 24 per cento), secondo gli exit poll.

C’è anche una questione di genere. La Linke è stata votata soprattutto dalle donne: è andata meglio tra le elettrici che tra gli elettori, come gli altri partiti progressisti ma in misura maggiore a loro. Come era avvenuto nel 2021, l’elettorato maschile ha votato in prevalenza partiti conservatori (la CDU-CSU) e l’estrema destra, mentre in quello femminile i partiti progressisti hanno ottenuto percentuali più alte. AfD ha comunque raddoppiato i suoi consensi tra le elettrici rispetto alla tornata precedente.

Una novità rispetto al passato è che la Linke ha aumentato i suoi consensi un po’ in tutto il paese, anche fuori dalle grandi città, dove tradizionalmente andava meglio (soprattutto a Berlino). (ilpost.it)

Fa certamente notizia il risultato elettorale in Germania dell’estrema destra con venature neo-naziste (AfD), ma induce a serie riflessioni anche quello della Link (La sinistra). Evidentemente, innanzitutto l’elettorato tedesco, che ha partecipato in massa alle elezioni (84%), desidera proposte politiche forti e identitarie. Vale soprattutto a sinistra (SPD) dove i partiti non colgono e non rappresentano più la spinta ideale e valoriale e tendono a rincorrere l’elettorato su temi reazionari (immigrazione, equilibri internazionali, ordine e sicurezza).

Probabilmente anche l’europeismo si è troppo annacquato e finanziarizzato al punto da trovare contrarietà e scetticismo sia a destra che a sinistra. A livello di governo poi la sinistra non si distingue e porta avanti politiche di routine in una sorta di grossa melassa: un forte centro forse più reazionario che moderato (CDU-CSU) condiziona la socialdemocrazia (SPD) sempre meno sociale e più moderata.

Purtroppo i socialisti devono governare a tutti i costi per arginare la pericolosissima valanga nera e sono costretti a patti piuttosto equivoci con i cristiani democratici e sociali, tentati da alleanze avventuristiche. Persino i vescovi tedeschi si sono sentiti in dovere di affermare che «Afd è incompatibile con democrazia e valori cristiani».

A questo punto mi chiedo da osservatore superficialone e schematico: dal momento che il fronte della sinistra, costituito da Link, BSW (gli scissionisti della Link), Verdi e SPD, assomma a circa il 42% dei voti, non potrebbe rappresentare una forte massa critica da contrapporre al fronte di centro-destra costituito da CDU/CSU e AfD che conta su un quasi 50% dei voti? Le sinistre unite potrebbero mettere alla punta il centro cristiano costringendolo a stare dalla parte della democrazia contro l’estremismo di destra?

Non vivo in Germania e non conosco gli umori politici di questo Paese anche se mi sembra che abbia fatto i conti con l’eredità nazista e quindi dovrebbe recepire questa sorta di conventio ad excludendum. La politica europea è alla frutta e non si può scherzare col fuoco su cui sta soffiando Trump a pieni polmoni.

In Italia si chiamò patto costituzionale e per un certo delicato periodo funzionò. Recentemente l’Italia ha portato la destra neofascista, più o meno camuffata, al potere. Attenzione a non fare un disastroso bis in Germania e magari anche in Francia: probabilmente è quanto si augurano Trump e la sua ghenga. Tutto in Europa diventerebbe ancor più difficile. A estremi mali nazifascisti estremi rimedi democratici.