Aspettando Trumpot o Harrisot

Donald Trump mette le mani avanti lasciando intendere che una sua sconfitta non potrà che essere frutto di brogli elettorali. Al contrario penso che una sua vittoria non potrà che essere frutto di masturbazioni elettorali da parte degli americani. Forse i riconteggi e i dubbi sulla regolarità delle procedure saranno il salvataggio in corner di Kamala Harris. Un vero e proprio gioco delle parti in commedia. Staremo a vedere…

Mi permetto anch’io di mettere le mani avanti osservando come, al di là di un assetto istituzionale democraticamente blasfemo, il sistema elettorale statunitense consenta una vera e propria commedia/sfregio al suffragio universale, introducendo due discutibilissimi meccanismi: un voto sostanzialmente pesato sulla popolazione dello Stato di appartenenza, un sistema maggioritario senza alcun correttivo. Risultato finale: un presidenzialismo frutto di populismo, un parlamento senza capo né coda, una giustizia politicizzata, un isolazionismo/sovranismo a livello internazionale.

In questi giorni, in cui guardo televisivamente con un certo interesse le partite di tennis, mi è venuto spontaneo fare un collegamento tra vittoria tennistica in base a set, games e singoli punti e vittoria elettorale americana in base ai grandi elettori nominati all’ultimo voto e assegnati in base alla popolazione dei singoli Stati.

Questo meccanismo consentì a Donald Trump nel 2016 di battere Hillary Clinton che aveva ottenuto quasi tre milioni di voti in più. I primi risultati sembrano assegnare la vittoria a Trump addirittura anche nel voto popolare, superando la contraddizione di otto anni fa.

Tra incongruenze istituzionali, assurdità del sistema elettorale, bipartitismo forzato, fasullo e sganciato da principi e valori, competizioni truccate da lobbismi vari, voti comprati al mercato e assegnati alla viva la libertà di voto, narrazioni culturali taroccate, percezioni sociali in contrasto con la realtà, si arriva ad una democrazia sostanzialmente malata, che rischia di infettare il mondo intero.

Cosa potranno partorire le elezioni americane se non una creatura concepita nella triste provetta del “sondaggismo” e fatta crescere in un utero preso in affitto dai poteri forti? Cosa cambierà nel dopo elezioni? In quest’ultimo periodo in molti si sono esercitati in queste previsioni geopolitiche. È finito il tempo in cui nutrivo aspettative e mi appassionavo conseguentemente: dai Kennedy in poi è stata una lunga e inarrestabile caduta, forse con l’intervallo di Barak Obama. Anche l’opzione per il partito democratico, che mi sembrava storicamente giustificata e politicamente obbligata, ultimamente si è indebolita al limite di una diversità di mera immagine.

In una società dove la politica è invertita, vale a dire dove i ricchi votano a sinistra e i poveri a destra, dove la destra sa il fatto suo e la sinistra sbaglia sistematicamente le battaglie identitarie confondendo la modernità di costumi con la giustizia sociale, tutto può succedere, ma alla fine ho il timore che non termini solo la democrazia ma, ancor più e prima, la politica stessa.

Qualcuno ha già pronosticato che finiremo col rimpiangere Joe Biden. Può darsi che vada così, al peggio non c’è mai fine. Possibile, mi chiedo, che in una società come quella statunitense non ci fosse di meglio rispetto a Trump e Harris? Ogni popolo ha i governanti che si merita, con la piccola aggravante che la pomata americana, a torto o a ragione, viene spalmata su tutto il mondo.

Ricordo come all’indomani dell’attentato alle torri gemelle si intravedesse un trio di governanti a dir poco inquietante: Bush, Putin e Berlusconi. La situazione non è cambiata di molto: con ogni probabilità avremo il trio Trump, Netanyahu, Putin, con Xi Jinping pronto a sedersi al tavolo per giocare a “Tresette col morto”, vale a dire una partita giocata formalmente in tre ma virtualmente in quattro. E l’Europa? Ridotta al ruolo di osservatore, zittito al primo tentativo di spiaccicare parola. Fuor di metafora una sorta di equilibrio fondato sulla libertà per ogni potenza di fare i cazzi propri.

Aspettando Godot è un’opera teatrale del drammaturgo irlandese Samuel Beckett, nel quale due personaggi, Vladimir (Didi) ed Estragone (Gogo), si intrattengono in una varietà di discussioni mentre attendono il titolare Godot, che mai arriva. Anch’io mi sento in attesa del titolare della democrazia, che non arriva. Sono stanco di aspettare, anche se la speranza è l’ultima a morire, sì la sperànsa di mälvestì ca fâga un bón invèron.

 

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Chi è senza peccato scagli la prima manciata di fango

La gestione del rischio deve entrare nella quotidianità delle amministrazioni locali. Ma vorrei dire di più: ogni pratica di pianificazione del territorio, di gestione e di governo, ogni normativa e ogni regolamento, ogni politica locale deve misurarsi con la questione climatica. Non possiamo definire criteri di densificazione edilizia senza fare i conti con la mappa delle isole urbane di calore. Non possiamo trascurare le aree verdi e naturali, le risorse idriche, il valore dei suoli se abbiamo compreso che l’unico rimedio e contrasto all’aumento delle temperature e ai rischi idraulici dipende da un corretto uso della natura. (dal quotidiano “Avvenire” – Elena Granata)

 

Negli anni in cui era alla guida della prima economia al mondo, Trump ha bollato il riscaldamento globale come «un’invenzione della Cina» e anche a questa tornata elettorale non ha lesinato nell’attaccare le politiche per il clima. La transizione verso l’auto elettrica? Porterà a un «bagno di sangue». Le pale eoliche? «Causano il cancro» e «uccidono le balene». L’aumento delle temperature? «Vanno su e poi vanno giù, il clima è sempre cambiato». Secondo un calcolo del New York Times, durante i suoi quattro anni alla Casa Bianca Trump ha smantellato più di cento provvedimenti sul clima, comprese alcune norme per la tutela dell’aria, dell’acqua e degli animali introdotte da altri presidenti repubblicani. In più, ha fatto uscire gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi, il documento firmato alla Conferenza Onu sul clima del 2015 che impegna i governi a contenere l’aumento della temperatura media mondiale «ben al di sotto» di 2°C rispetto ai livelli preindustriali. (Open – Gianluca Brambilla)

 

La contestazione della gente spagnola, esasperata, disperata dopo l’alluvione e inevitabilmente spietata contro i pubblici poteri, va capita, ma soprattutto va metabolizzata a tutti i livelli e in tutti i sensi. La questione climatica è il problema dei problemi, mentre la classe dirigente a livello mondiale tende al negazionismo o nella migliore delle ipotesi si nasconde dietro parole generiche e programmi fumosi. Il recente cataclisma spagnolo nella sua sconvolgente tragicità ci impone un cambio di mentalità, un diverso approccio alla socialità e alla politica, un concreto ed immediato nuovo modo di governare. Non è un problema da ridurre ad una sorta di “allertismo” continuativo, che non va sottovalutato, ma è quasi impossibile da impostare e gestire tanto assomiglia al chiudere la stalla quando i buoi sono scappati, e alle polemiche propagandistiche post-alluvionali.

Carlo De Benedetti su questo tema è molto schietto: sul clima ci stiamo ancora raccontando delle storie, il discorso riguarda tutti i governanti ampollosamente riuniti nei vari summit. Ammette onestamente di far parte di una generazione che ha gravissime responsabilità nell’avere letteralmente devastato il pianeta e di dovere chiedere scusa alle generazioni presenti e future per il danno arrecato al mondo intero. La salvaguardia dell’ambiente non era infatti una priorità, in passato non ci si è posti il problema.

L’inversione di tendenza è tutta da inventare.  La situazione odierna del pianeta è molto peggiore di quella del 2015, data in cui vennero assunti impegni regolarmente e clamorosamente disattesi. Giocare al rimbalzo sui tempi lontani serve a poco, meglio sarebbe che ogni Paese entro il 31 dicembre di ogni anno inviasse un pubblico rendiconto all’Onu sul rispetto di alcuni fondamentali parametri preventivamente individuati e altamente significativi riguardo al rispetto ed al recupero dell’ambiente naturale.

Il recente G20 ha segnato un discreto fallimento in quanto gli obiettivi fissati sono modesti e collocati in tempi lunghi. Bisogna cambiare l’approccio al problema, togliendolo dai fuorvianti tempi a venire per affrontarlo pragmaticamente in tempi ragionevoli e incentivanti.

Devo fare un onesto mea culpa, ammettendo di non avere avuto in passato e di non avere nemmeno al presente una grande sensibilità verso l’ecologia, restando vittima del comodo fatalismo e della illusoria priorità dei problemi sociali rispetto a quelli ambientali. Se da una parte occorre fare ammenda, dall’altra bisogna essere concreti togliendo il discorso dai salotti e portandolo nel vivo del tessuto economico-sociale, nelle regole del vivere civile e nella quotidianità delle pubbliche amministrazioni.

Molto convincente è quanto afferma Papa Francesco nella Enciclica “Laudato si’ sulla cura della Casa Comune”: «Oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri». I gemiti di sorella terra si uniscono ai gemiti degli abbandonati del mondo. È gravissima inequità quando si pretende di ottenere importanti benefici facendo pagare al resto dell’umanità, presente e futura, gli altissimi costi del degrado ambientale».

 

 

 

Il fascismo perde il pelo ma non il vizio

Il 31 ottobre del 1979 te ne sei andato piegato dalla fatica. Ricordo ancora il tuo mezzo sorriso, caro papà… dolce e gentile… L’altra metà te l’avevano portato via i due anni di lager nazista a Dortmund che avevi dovuto scontare per non esserti voluto piegare alla barbarie del nazifascismo». Con queste parole sui suoi profili social Vasco Rossi ricorda il papà scomparso. «Non ci crederai… ma sono tornati… lupi travestiti da agnelli… bulli. Arroganti e le facce ghignanti. Con i loro deliri… i loro dileggi… la loro propaganda… e la stessa ignoranza”, ha aggiunto Vasco nel post in cui si vede una foto del padre in divisa. “Io resto orgoglioso di te! Viva Giovanni Carlo Rossi… Papà Carlino!». (dal quotidiano “La Stampa”)

A questa stupenda e benefica (oserei dire sacrosanta) provocazione ha fatto seguito la meschina e infantile reazione dei politici sorpresi con le dita nella marmellata del neofascismo riveduto e scorretto e quella saccente e snobistica degli storici che non guardano la storia ma la punta del loro naso.

Tutto si riduce alla stucchevole diatriba sull’esistenza di un pericolo fascista. Non c’è per chi non lo vuol vedere anche perché è ben camuffato nell’autoritarismo del premierato strisciante, nella repressione spacciata per sicurezza, nell’egoismo spacciato per liberismo, nel razzismo spacciato per patriottismo, nell’insofferenza per i diversi spacciata per bigottismo perbenista pseudo-religioso, nel fisco vissuto come obbligo fastidioso da evitare spudoratamente, nella critica esorcizzata come sfogo anti-italiano, nello scontro politico considerato un demagogico vezzo tardo-comunista, nell’antifascismo relegato nell’album dei ricordi, etc. etc.

Non c’è peggior fascista di chi non vuol ammettere di esserlo stato e/o di ispirarsi, direttamente o indirettamente (quindi ancor più pericolosamente), ad esso nella prassi politica odierna, cadendo in questa tentazione nascosta o manifesta, improvvisa o insistente, passata ma sempre presente soprattutto se non si ha il coraggio di fare e chiudere i conti con essa.

Se poi alziamo lo sguardo e ci imbattiamo nel sovranismo dilagante o nel nazionalismo imperante, come li chiamiamo? Per me sono fascismo bello e buono. Bisogna intendersi: tutti i fenomeni autoritari nascono nell’indifferenza dei molti, nel fanatismo dei pochi e nel ribellismo dei coraggiosi che non si piegano e pagano di persona.

Mi è stata inculcata questa visione politico-culturale del fascismo e non voglio assolutamente liberarmene e ringrazio vivamente chi me la mantiene viva. Non sopporto chi mi vuole raccontare che non esiste alcun pericolo di marca fascista. Rispondo parafrasando una famosa dichiarazione di don Andrea Gallo: «Non mi curo di certe sottigliezze culturali e politiche perché mi importa solo una cosa: che la Costituzione italiana sia antifascista!»

 

 

L’arca di Trump

Sono impressionanti le opinioni americane emergenti dai reportage in clima preelettorale: autentici fiumi di volgarità egoistiche e di bestemmie antipolitiche che inducono a temere come inevitabile la vittoria di Donald Trump. Il clima statunitense è drammaticamente anti-democratico: ognuno per sé e Trump contro tutti.

Sono impressionanti le immagini provenienti da Valencia in clima alluvionale: autentici fiumi di fango che portano a distruzione e morte un’intera popolazione e che inducono a temere come inevitabile un disastro ecologico a pezzi così come sta avvenendo per la guerra.

Non è un caso che Trump sia un accanito negazionista dei cambiamenti climatici: lo straripante fiume trumpiano ha paura di quello alluvionale anche perché il recente uragano in Florida non è stato uno scherzo. Dalla natura infatti sembra uscire un grido disperato alla responsabilità di chi governa il mondo pena una sua progressiva autodistruzione.

Potranno le incombenti minacce ecologiche indurre tutti a più miti consigli e alla riscoperta della democrazia quale strada per difendere la natura e in essa gli uomini con i loro enormi problemi? Oppure gli uomini si chiuderanno ancor più nel loro penoso egoismo, sperando che il disastro possa riguardare qualcun altro?

In Spagna al fiume disperato di fango e di morte sta seguendo quello fiducioso dei volontari che reagiscono col potere umano allo strapotere della natura violata e diventata disumana: una sorta di attiva e dinamica Arca di Noè, che ci lascia un filo di speranza nel futuro dell’umanità.

Negli Usa ci potrà essere un fiume di democrazia che contrasti la folle alluvione antidemocratica incombente non solo sull’America ma su tutto il mondo? Oppure gli elettori americani si consegneranno e ci consegneranno al manicomio trumpiano?

Dove sono le folle oceaniche di americani che seguivano i comizi di Martin Luther King? Dove sono gli americani che credevano nelle nuove frontiere kennediane? Dov’è finita la politica con la “P” maiuscola in America e, per essere campanilisti, in Italia?

Stiamo per toccare il fondo o l’abbiamo già toccato? Mi auguro che sia valida la seconda ipotesi che potrebbe preludere ad un problematico (ri)scatto. Temo invece che possa essere un affondamento progressivo, a pezzi per dirla col Papa, da cui non si risale se non con tempi biblici che vivranno in qualche modo le nuove generazioni.

Il diluvio universale non aveva forse questo significato? Ma noi continuiamo a ballare, a cantare, a votare o a non votare come se niente fosse. In fin dei conti chissenefrega di Trump e degli alluvionati di turno…

 

Il pil…ancio truccato

I conti dell’Italia sono messi meglio di quanto possa sembrare. O almeno è questo quello che fanno pensare i giudizi delle agenzie di rating arrivati a tarda sera. S&P ha confermato il suo giudizio sul debito italiano, con un giudizio BBB/A-2 e outlook stabile, mentre pochi minuti dopo anche Fitch ha annunciato una conferma del rating italiano al livello BBB, con un outlook che però migliora, da stabile a positivo. Le Borse avevano già mostrato ottimismo sui giudizi in arrivo: lo spread tra i Btp italiani e i Bund tedeschi ha chiuso sotto i 118 punti base, ai minimi degli ultimi tre anni.

Secondo l’agenzia di rating americana S&P nel periodo 2024-2027 il Pil italiano crescerà in media dell’1% all’anno, con un ritmo migliore di quello del periodo pre-pandemia. Ma il merito è di fatto esterni e temporanei: «L’Italia si trova ancora ad affrontare sfide strutturali economiche sostanziali che probabilmente riemergeranno quando verranno meno sia lo stimolo derivante dall’incentivo fiscale “Superbonus” per le ristrutturazioni residenziali sia i fondi NextGeneration Eu» ricorda S&P. (dal quotidiano “Avvenire”)

Non mi avventuro nel groviglio di sigle economico-finanziarie e tanto meno mi sento in grado di entrare nel merito dei giudizi formulati dalle agenzie di rating. Mi limito a contrapporre a tali visioni, tutto sommato rassicuranti, i dati Istat sulla povertà in Italia.

Nel 2023 sono in condizione di povertà assoluta poco più di 2,2 milioni di famiglie (8,4% sul totale delle famiglie residenti, valore stabile rispetto al 2022) e quasi 5,7 milioni di individui (9,7% sul totale degli individui residenti, come nell’anno precedente).

L’incidenza della povertà assoluta fra le famiglie con almeno uno straniero è pari al 30,4%, si ferma invece al 6,3% per le famiglie composte solamente da italiani.

L’incidenza di povertà relativa familiare, pari al 10,6%, è stabile rispetto al 2022; si contano oltre 2,8 milioni di famiglie sotto la soglia.

In lieve crescita l’incidenza di povertà relativa individuale che arriva al 14,5% dal 14,0% del 2022, coinvolgendo quasi 8,5 milioni di individui.

Appare evidente il contrasto fra i marker economici e quelli sociali. La spiegazione la trovo nel pensiero di Robert Kennedy, personaggio di cui sento una nostalgia profonda e inconsolabile.

Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto interno lordo [Gross National Product]. Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle […]. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. […] Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani. (Robert Kennedy, Discorso sul Pil, 18 marzo 1968, Kansas University)

 

La reginètta dal marchè

Come trova Giorgia Meloni?

«Il peggio del peggio. Ha messo insieme ministri trucidi come Salvini, ideologici come la Roccella, e incompetenti, come quasi tutti».

Ma ha vinto le elezioni. Ed è ancora forte nei sondaggi.

«La Meloni è il frutto dell’impoverimento subìto dall’Italia in questi vent’anni. Ma di consenso ne ha sempre meno».

(intervista di Aldo Cazzullo a Carlo De Benedetti sul Corriere della Sera)

Migliore sintesi della portata politica di Giorgia Meloni e del suo governo non si potrebbe fare. Non aggiungo quindi niente di mio se non riportare un giudizio proveniente dal livello europeo: la nostra premier si muove alla Ue come una “reginetta”. Forse le lasciano l’illusione di esserla, visto come percorre altezzosamente i corridoi di Bruxelles: sembra la padrona e gli allocchi la ammirano e magari la votano anche.

Probabilmente le lasciano sfogare la sua smania di grandezza, poi, quando si fa sul serio, le cose cambiano. Una cosa è certa, per Giorgia Meloni l’Europa, che doveva essere la storica pietra d’inciampo, è diventata il rifugio in cui ripararsi dalle beghe italiane giornaliere. In Europa c’è poi il filo rosa con Ursula: due peggio sommati non fanno certo un meglio. Fatto sta che riesce a galleggiare sul mare europeo. Fino a quando non è dato sapere.

Altro punto di forza di Meloni è il rapporto con gli Usa. Cosa le succederà con il dopo Biden. Temo che Donald Trump non le riserverebbe le carinerie bideniane a meno che non la elegga a sfasciatrice della Ue, a sovranista anti-europea, incoraggiandola ulteriormente a rinsaldare l’asse preferenziale con Orban e c. In poche parole potrebbe svolgere la funzione di amica del giaguaro trumpiano.

Qualora invece nelle elezioni americane vincesse Kamala Harris potrebbe aspirare a fare la dama di compagnia della nuova presidente: fra donne ci si intende anche se magari ci si odia. Si costituirebbe una sorta di trio Lescano – Ursula-Kamal-Giorgia – ribattezzato dialettalmente come trio “lescandol”.

Se non erro esiste una commedia dialettale parmigiana intitolata “La reginètta dal marchè”: se la memoria non mi tradisce credo si tratti di un concorso per eleggere una miss dei poveri, una bellezza a livello di mercatino. Anche l’Europa pian-piano sta diventando solo un mercato e quindi va benissimo candidarsi a reginetta/miss della Ue. Mi sovviene la gustosa barzelletta delle miss che provocano un incidente stradale, investendo un anziano ciclista. Si presentano a lui: io sono miss Emilia, io miss Toscana… “E mi a són miss mäl” risponde il malcapitato.

Barzelletta per barzelletta faccio un’aggiunta. Giorgia Meloni si presenta agli italiani con tanto di corona e fascia dicendo: io sono miss Ue. E gli italiani commentano sconsolatamente: “E nuätor a sèmma miss mäl…”.

 

Il governo frettoloso fa i decreti ciechi

Sarà la Corte di Giustizia dell’Unione Europea a definire meglio i contorni del recente decreto legge sui “Paesi sicuri”. La sezione immigrazione del Tribunale di Bologna, esaminando il caso di un cittadino del Bangladesh, ha infatti ritenuto «sussistenti» i presupposti per un rinvio pregiudiziale alla Corte con sede a Lussemburgo, per chiedere quale sia il parametro «sulla cui base debbono essere individuate le condizioni di sicurezza che sottendono alla designazione di un Paese terzo come paese di origine sicuro» e se sussista «sempre l’obbligo per il giudice nazionale di non applicare le disposizioni nazionali in caso di contrasto con la direttiva che riguarda le procedure comuni». In pratica, il Tribunale bolognese chiede se l’ordinamento europeo continui ad essere prevalente. E fa esplicito riferimento, come detto, al Bangladesh, ricordando che i casi in cui si riscontra la necessità di una protezione internazionale sono legati all’appartenenza alla comunità Lgbtqi+, alle vittime di violenza di genere, alle minoranze etniche e religiose, senza dimenticare i cosiddetti sfollati climatici.

Lo spirito del decreto, suggeriscono i giudici, avrebbe quindi il carattere di «un atto politico, determinato da superiori esigenze di governo del fenomeno migratorio e di difesa dei confini. Paradossalmente si potrebbe dire che la Germania sotto il regime nazista era un Paese estremamente sicuro per la stragrande maggioranza della popolazione tedesca: fatti salvi gli ebrei, gli omosessuali, gli oppositori politici, le persone di etnia rom ed altri gruppi minoritari, oltre 60 milioni di tedeschi vantavano una condizione di sicurezza invidiabile. Lo stesso può dirsi dell’Italia sotto il regime fascista. Se si dovesse ritenere sicuro un Paese quando la sicurezza è garantita alla generalità della popolazione, la nozione giuridica di Paese di origine sicuro si potrebbe applicare a pressoché tutti i Paesi del mondo, e sarebbe, dunque, una nozione priva di qualsiasi consistenza giuridica». (dal quotidiano “Avvenire” – Igor Traboni)

Certe pentole più si mescolano e più puzzano. Quando si parte male è difficilissimo rimettersi in carreggiata. Il governo prima di maramaldeggiare sulla pella dei migranti spediti in Albania doveva studiare bene la fattibilità della procedura non solo dal punto di vista etico, ma anche sul piano giuridico. Invece una gaffe tira l’altra e, come si dice in dialetto padovano, “xe pèso el tacòn del buso”. La materia è delicata e non si può affrontare con la delicatezza di un elefante in un negozio di cristallerie.

Anche volendo prescindere dal merito del provvedimento di “esportazione migratoria”, rimane il punto dolente dei “Paesi sicuri”, da cui dovrebbero provenire i migranti in odore di rimpatrio o comunque di espulsione verso “lager transitori”. Chi lo stabilisce e in base a quali criteri? Non se ne esce vivi! O meglio non ne escono vivi i migranti che scappano dai loro Paesi.

Chi proviene dagli Stati sicuri non avrebbe infatti diritto alla richiesta di asilo e dunque viene trattenuto in un Cpr e allontanato dall’Italia. Il decreto, messo ora in discussione dal tribunale di Bologna, era arrivato dopo la decisione dei giudici del tribunale di Roma, sezione immigrazione, di non convalidare il trattamento di dodici richiedenti asilo, trasferiti nei centri in Albania e poi rientrati a Bari in seguito alla deliberazione della magistratura.

Fa sinceramente pena e vergogna la diatriba sull’accertamento dei motivi che spingono i rifugiandi alla fuga dai loro Paesi di origine così come la verifica della sicurezza di tali Paesi. Ci sarebbero i rifugiandi di comodo? Pensate un po’, gente che scappa disperatamente e mette a repentaglio la propria vita, abbandona tutto, paga cifre pazzesche a scafisti senza scrupoli, si sottopone ad un viaggio in condizioni disastrose senza alcuna garanzia di arrivare a destinazione e rischia di morire annegata. E tra questi ci potrebbe essere un disperato di comodo? Ma fatemi il piacere. Poi arrivano e nessuno li vuole accogliere. Tutti li scansano e li sballottano di qua e di là, come se fossero dei rifiuti da far sparire. Trattati “cme i rosp al sasädi”.

E questo sarebbe il buongoverno della destra reiteratamente premiato dagli elettori? E questa sarebbe la politica inattaccabile da parte della Magistratura? Non sono un aprioristico tifoso dei giudici, ma meno male che c’è la magistratura a bloccare provvedimenti senza capo né coda, visto che l’opposizione sa soltanto litigare al proprio interno, che la gente non ha il coraggio di reagire alle ingiustizie e di scendere in piazza e visto che siamo diventati tutti indifferenti davanti alle peggiori porcherie ai danni dei nostri simili.

 

 

 

Il Musk…io selvaggio della democrazia

Trovo semplicemente agghiacciante (anche se non sorprendente) quanto sta succedendo nella campagna elettorale americana: il miliardario Musk non si sta facendo scrupolo di comprare voti in favore di Trump tramite vere e proprie lotterie milionarie. Trump da parte sua non sta nascondendo l’intenzione di favorire spregiudicatamente l’impero economico di Musk. Un gioco al massacro democratico in cui è rimasta impigliata recentemente anche Giorgia Meloni: forse col riconoscimento che le hanno assegnato, l’hanno iscritta in pole position nell’albo del disonore dei già tanti estremisti del potere per il potere.

L’iniziativa mira a raccogliere almeno un milione di elettori negli stati in bilico, citati esplicitamente come gli unici in cui si potrà partecipare alla lotteria. Sono: Pennsylvania, Georgia, Nevada, Arizona, Michigan, Wisconsin e North Carolina. Chi firma la petizione deve fornire oltre al nome e al cognome anche un indirizzo e un numero di telefono, attraverso i quali potrà poi essere contattato non solo in caso di vincita, ma anche per ricevere sollecitazioni per votare per Trump. Come aveva già annunciato in precedenza Musk, ogni firmatario riceverà 47 dollari per ogni persona che convincerà a firmare la petizione, sempre negli stati in bilico. Tutti i partecipanti sono automaticamente iscritti alla lotteria, che assegnerà il premio giornaliero da un milione di dollari fino al 5 novembre. (il post)

Che la politica fosse inquinata, anche e soprattutto negli Usa, da forti collegamenti con gli affari, era cosa nota, ma forse stiamo raggiungendo l’impensabile. Da tempo mi chiedo fino a che punto un elettore, quando si reca al voto negli stati democratici occidentali, sia libero.

In Moldavia e Georgia sono in atto gli inquinamenti elettorali putiniani: la mafia post-comunista è all’opera per difendere con le unghie e coi denti i suoi miseri resti imperiali e sottrarli all’Unione europea, ricostituendo un velleitario blocco di coccio fra i blocchi di ferro (Usa e Cina) e/o proponendosi come Paese componente dei cosiddetti Brics (una sorta di anticapitalista resto del mondo).

Nel mondo occidentale la musica non è migliore. I media, controllati dal potere economico e/o da quello politico, condizionano l’elettore in modo pesante. Il dibattito politico è sostanzialmente inesistente. Le candidature vengono calate dall’alto. I partiti sono personalizzati. Qualcuno dirà che, tutto sommato, è preferibile la trasparente americanata del binomio Musk-Trump alle subdole manovre dei voti di scambio. Gli americani sono soliti fare le cose in grande quindi… Dobbiamo prendere atto che la democrazia, così come la si intende in occidente, è molto cambiata ed è molto inquinata. Bisogna accontentarsi oppure impegnarsi a costruire dal basso minimi percorsi di partecipazione, ricominciando tutto daccapo. La strada è in salita e la tentazione di astenersi è sempre più forte. L’astensione è funzionale alla fuga democratica e viceversa. Il gatto si morde la coda e i gatti diventano sempre più aggressivamente accattivanti o irritanti.

Alla luce del giorno il controllo del Paese più influente del pianeta è stato messo all’asta e verrà deciso dal più alto offerente. In piena trasparenza, i cittadini americani, dopo aver venduto per due spiccioli (uno sconticino qui, un abbonamento gratis là) i loro dati personali, hanno cominciato a cedere il loro voto per 47 dollari, 100 se hanno la fortuna di vivere nella decisiva Pennsylvania. Se non stupisce che Musk ci provi, stupisce quanto sembri tutto assolutamente normale. Forse 15 anni di contributi multimilionari ai candidati hanno svuotato di significato il gesto del voto. Forse l’era di YouTube e degli influencer ci ha insegnato a monetizzare tutto quello che possiamo, dai follower alla – perché no – preferenza elettorale. Ma la sensazione fastidiosa di queste ore è che senza fanfara gli Usa abbiano superato la soglia che separa la democrazia da qualcosa di infinitamente più infido. Il dizionario la chiama oligarchia. (dal quotidiano “Avvenire” – Elena Molinari)

 

 

Com’è triste il M5S soltanto quindici anni dopo

Beppe Grillo rialza la posta dello scontro con Giuseppe Conte per la leadership di M5s, rivendicando “il diritto all’estinzione” della creatura politica da lui fondata che ora dice di non riconoscere più.

Una frase, come nel suo stile dai toni tra l’evocativo-apocalittico e l’allusione a possibili ricorsi legali. Non ci stanno a queste affermazioni gli attuali parlamentari del Movimento che rivendicano il loro impegno in adesione al progetto originario, e non ci sta soprattutto Giuseppe Conte, che rivendica la fase costituente da lui lanciata esattamente per permettere a M5s di essere quella forza che dà al Paese uno sguardo lungo, proteso al futuro.

Già in passato Grillo aveva parlato di “biodegradabilità” di M5S, ma in termini opposti a quelli odierni, quando cioè avrebbe realizzato i suoi programmi trasformando il Paese: “Quando i cittadini avranno gli strumenti per fare un referendum da casa, il movimento potrà anche sciogliersi, siamo un movimento biodegradabile”, disse per esempio il 2 marzo 2018. Il post scritto oggi sul suo blog è diversissimo, anche se vi si parla ancora di un M5s “biodegradabile” e “compostabile”.

 “Io rivendico da creatore del movimento il mio diritto all’estinzione del movimento. Io quando vedo questa bandiera dei 5 Stelle, con davanti il mago di Oz (cioè Conte ndr) che parla di democrazia diretta, mi viene un buco nello stomaco. Quindi, va benissimo, dobbiamo essere persone civili. Lui si può fare il suo bel partito, si può fare il suo manifesto con la sua faccia bella, simpatica, sincera, con scritto, Oz e i suoi 22 mandati può arrivare all’8%”.

 Grillo critica poi la fase costituente voluta da Conte, lamentando di essere stato lasciato fuori da ogni decisione: “Io accampo questo diritto all’estinzione perché”, “lo sappiamo tutti, il movimento non c’è più è evaporato”. É diverso dal suo M5S visionario del futuro: “Io sono vecchio, posso essere passato di moda, però dentro ci sono ancora delle idee meravigliose, di ripensare anche il mondo di come sarà fra vent’anni”; “C’è tutto un mondo da ripensare e noi invece ribadiamo questa politica ormai stramorta”. (ANSA.it)

In casa pentastellata volano gli stracci. Quando nacque il movimento ero portato a credere che consistesse tutto nell’abilità affabulatoria di Beppe Grillo e ne sono ancora convinto. Giuseppe Conte è un incidente di percorso. Quindi ha ragione il fondatore ha rivendicare almeno il diritto a stendere il certificato di morte di fronte al tentativo di mantenere in vita una creatura politica con l’alimentazione forzata prescritta da Conte.

A questo movimento ho dato fin dall’inizio l’unico merito di avere intercettato una larga e pericolosa deriva antipolitica, dandole rappresentanza a livello parlamentare, ma trasferendola troppo velocemente nelle stanze del potere tramite la costituzione di governi senza capo né coda. È l’errore storico dei movimentisti: non hanno la pazienza di metabolizzare la politica e finiscono col fare una scorpacciata di velleità governative che finisce naturalmente in una indigestione che porta ad una patologia cronico-degenerativa.

Se Grillo ha avuto il merito di intuire un certo malessere sociale trasformandolo in spinta al cambiamento, Conte ha avuto il demerito di contenere la spinta al cambiamento finendo col vivacchiare in chiave polemica nell’area della sinistra nelle sue componenti storiche. Far convivere formazioni politiche che, bene o male hanno una loro storia, con movimenti senza storia che si limitano a disturbare e ad interferire malamente, è una gara dura che può durare qualche tempo ma che forse è durata fin troppo.

L’esito della consultazione elettorale regionale della Liguria conferma la fine del M5S con un ulteriore definitivo crollo nei consensi: i voti se ne stanno andando, a manca il Pd non è in grado di intercettarli se non in minima parte, alcuni se ne tornano a sfogare il malcontento a destra, la maggior parte si rifugia nell’astensione. L’aumento inquietante del non voto è dovuto anche alla fuga senza meta degli elettori grillini. La sinistra, se contava di fare squadra coi pentastellati, deve ricredersi e puntare tutto sulla propria capacità di scaldare i cuori, lasciando perdere da una parte le velleità di Giuseppe Conte e dall’altra parte le sirene centriste dei Calenda e dei Renzi: meglio perdere da soli che tentare di vincere male accompagnati. E chi ha detto che questo bagno identitario e purificatore non faccia bene  alla sinistra e non le consenta di attingere al bacino degli astensionisti a cui, seppure in modo sofferto e discontinuo, riconosco a malincuore di appartenere.

Ecco perché ammetto di concedere l’onore delle armi a Beppe Grillo nonostante gli errori clamorosi che può avere commesso: è sempre meglio un padre confusionario di un patrigno che la sa lunga. Probabilmente il tutto finirà con le carte bollate: chi voleva ferire la burocrazia politica perirà di burocrazia giudiziaria. Un esito inglorioso di cui non riesco a godere, che mi mette tanta tristezza, perché il fallimento di una esperienza politica è pur sempre negativo per la politica stessa.

Quando ho l’occasione di ascoltare qualche dibattito parlamentare colgo generalmente qualcosa di positivo negli interventi dei rappresentanti del M5S: hanno almeno il merito di saper fare polemica, di buttare qualche sasso in piccionaia, di esprimere democraticamente i dolori di pancia della società più viva e reattiva. Ormai però hanno perso il filo della loro pur breve storia, manca un barlume di sintesi politica e uno spiraglio di prospettiva per il futuro. Peccato. Li rimpiangeremo? Può anche darsi, staremo a vedere…

 

   

 

Buttare il cuore di Gesù oltre gli ostacoli del mondo

Il Sinodo sulla sinodalità è finito. Oggi ci sarà la Messa finale in San Pietro. Ma ora comincia il suo cammino nelle comunità ecclesiali di tutto il mondo. Non ci sarà un’esortazione apostolica conclusiva. Il Papa ha annunciato questa sera, a conclusione dei lavori assembleari che vale in tutto e per tutto il documento votato nell’Aula Paolo VI. E già questa è una novità. L’altra è rappresentata dal fatto che continuerà il lavoro delle dieci commissioni su problemi particolari. E lo stesso Francesco continuerà ad ascoltare vescovi e Chiese su questi temi. «Alla luce di quanto emerso dal cammino sinodale – ha detto il Pontefice nel suo discorso finale lungamente applaudito – , ci sono e ci saranno decisioni da prendere». Ma «in questo tempo di guerre dobbiamo essere testimoni di pace, anche imparando a dare forma reale alla convivialità delle differenze», ha osservato. Per tale ragione – ha spiegato Francesco – non intendo pubblicare una esortazione apostolica. Basta quello che abbiamo approvato. Nel documento ci sono già indicazioni molto concrete che possono essere di guida per la missione delle Chiese, nei diversi continenti, nei diversi contesti: per questo lo metto subito a disposizione di tutti» in modo che «sia pubblicato».

 

Forse non è sbagliato cominciare a leggere la nuova enciclica di papa Francesco, Dilexit nos (ci ha amati) dalla fine. E precisamente dalla preghiera del Pontefice che troviamo nelle ultime righe del testo dedicato al culto del Sacro Cuore di Gesù. Perché nella preghiera che papa Bergoglio scrive c’è il nucleo essenziale del suo messaggio. “Prego il Signore Gesù che dal suo Cuore santo scorrano per tutti noi fiumi di acqua viva per guarire le ferite che ci infliggiamo, per rafforzare la nostra capacità di amare e servire, per spingerci a imparare a camminare insieme verso un mondo giusto, solidale e fraterno. Questo fino a quando celebreremo felicemente uniti il banchetto del Regno celeste. Lì ci sarà Cristo risorto, che armonizzerà tutte le nostre differenze con la luce che sgorga incessantemente dal suo Cuore aperto. Che sia sempre benedetto!”. (dal quotidiano “Avvenire” – Mimmo Muolo)

 

Ho volutamente accostato i primi commenti a due eventi, apparentemente indipendenti l’uno dall’altro, forse addirittura in contraddizione metodologica tra di essi, per tentare una brevissima riflessione su quanto possa fare la Chiesa per il disastroso mondo in cui viviamo e in cui rischiamo di asfissiare per mancanza di prospettive, per dirla con una parola grossa per mancanza di speranza.

Da qualsiasi parte ci si volga emergono lutti e tragedie apparentemente senza vie d’uscita: è in atto la normalizzazione della disperazione!? Mentre da una parte la sinodalità ecclesiale offre al mondo un discreto ma pressante metodo di dialogo per costruire qualcosa che vada oltre le tragicomiche architetture vigenti, dall’altra parte l’enciclica papale lo scuote dal torpore di una sorta di illuminismo riveduto e scorretto per proporgli la centralità di Gesù, che metta il suo e il nostro cuore al posto delle menti malate e fuorviate dall’imperante egoismo.

La Chiesa ha qualcosa da dire a se stessa e al mondo? Sembrerebbe proprio di sì, anche se il condizionale è d’obbligo non tanto per la debolezza delle proposte ma per l’indifferenza di chi le dovrebbe ascoltare. Ricordo l’entusiasmo con cui vennero accolte le encicliche “Pacem in terris” e “Populorum progressio”, emanate rispettivamente da Giovanni XXIII e Paolo VI: era un altro mondo, i problemi non mancavano, ma c’era il desiderio, soprattutto da parte delle giovani generazioni, di affrontarli in una logica diversa, oserei dire rivoluzionaria. Oggi a questo fermento innovativo si è sostituito un paludoso scetticismo, assai più pericoloso delle fughe in avanti delle teologie liberatorie.

Papa Francesco in tutto il suo pontificato non ha puntato tanto a riformare la Chiesa sul piano strutturale, ma a ricondurla nel solco evangelico senza se e senza ma, sostenendo che «parlare sempre dei poveri non è comunismo, è la bandiera del Vangelo». Probabilmente con l’enciclica “Dilexit nos” vuole aggiungere che nel cuore di Gesù ci siamo tutti solo se ammettiamo la nostra povertà nel combattere le povertà. La povertà elevata al quadrato può essere contenuta e risolta solo in un cuore elevato all’infinito (la matematica non è mai stata il mio forte, infatti la uso soltanto per rendere l’idea…).

Apprezzabile la decisione di lasciare sostanzialmente aperto il Sinodo, passando la parola alle comunità ecclesiali, che nel cuore di Gesù non trovano soltanto lo sbocco compiaciuto di un devozionismo spinto, ma il kit del cristiano che intende essere nel mondo ma non del mondo.

In conclusione, a prima vista e riservandomi una lettura attenta ed approfondita del documento sinodale e dell’enciclica papale, colgo l’umile ma forte intenzione di allargare la mente a tutto lo scenario dell’umanità dopo avere aperto il cuore (quello di Cristo che tutti accoglie) alle immani sofferenze dell’umanità stessa: il cuore di Gesù è infatti ben più largo ed esauriente delle nostre necessarie ma penose elucubrazioni geopolitiche e delle nostre inevitabili ma inconcludenti conflittualità sociali.

Il cardinal Martini in aperto dialogo con Eugenio Scalfari affermava: «La storia del mondo non sarebbe quella che è se la speranza non alimentasse i nostri sforzi e la carità non illuminasse la nostra vita quotidiana. La Risurrezione dello Spirito è la fiamma che spinge le ruote del mondo. Lei può immaginare un mondo senza carità e senza speranza?».