L’ottovolante della Repubblica

Nelle discussioni sull’andamento dell’economia italiana sembra di stare sull’ottovolante: un giorno è una quasi catastrofe con la borsa in picchiata, con il treno europeo che ci scappa, con il pil che batte la fiacca, con la disoccupazione che ci tormenta; il giorno successivo la borsa si riprende, l’Europa ci aspetta e ci concede lo sconto, il pil è in ripresa e l’occupazione dà qualche segno di miglioramento. Sono mesi che andiamo avanti così: gli esperti, i commentatori, gli addetti ai lavori ci ingabbiano nelle loro discutibilissime e poco attendibili analisi.

Adesso ci sono di mezzo le elezioni anticipate e allora tutto dipende da questa eventuale scadenza ravvicinata. Chi paventa un autentico disastro, chi vede la speculazione pronta ad aggredirci, chi teme per la vita delle banche, chi vota contro il governo ma vorrebbe che durasse per un altro anno, chi vota a favore del governo a denti stretti ma è tutto velenosamente preso dalla difesa del suo scarso patrimonio elettorale, chi desidera il voto anticipato ma non ha il coraggio di ammetterlo temendo di essere criminalizzato, chi fa il pesce in barile e boccia sistematicamente ogni e qualsiasi proposta.

Se bastasse votare o non votare per risolvere i problemi economici… Un giorno il governatore della Banca d’Italia piange autorevolmente miseria, il giorno dopo l’Istat ci rialza il morale; un giorno il governo sembra viaggiare sull’orlo del baratro, il giorno successivo il ministro dell’economia incassa fiducia e promesse da Bruxelles; un giorno sembriamo l’ultima ruota del carro europeo, un altro giorno l’ammalato prende un brodo e rialza la testa.

Finiamola una buona volta con queste assurde chiacchiere, con i numeri del lotto, con gli economisti che si parlano addosso e con i politici che rilasciano interviste a vanvera. Noi amiamo parlar di morte, ma non vogliamo morire. Sono laureato in economia, ho svolto una professione collegata al mondo economico, ho sempre ritenuto, pur non essendo marxista, che l’economia condizioni fortemente la politica. Ma da qualche tempo ho smesso di leggere il “non verbo” sparso a piene mani dagli economisti. Con tutto il rispetto possibile, sono solito ricordare infatti che, mentre i sociologi si esercitano   nell’elaborazione sistematica dell’ovvio, mentre gli psicologi tutto spiegano a livello di subconscio quindi senza timore di poter essere smentiti, gli economisti pontificano con eloquenza, la sanno raccontare bene, ma non ci pigliano mai.

Sono partito sconclusionatamente dalle pressapochistiche e teoriche analisi economiche, che fanno a brandelli la reale economia del Paese fornendo di essa una falsa e contraddittoria immagine. È la festa della Repubblica, alla migliore delle immagini che possiamo spendere. Complice l’assegnazione del cavalierato ad un caro amico ho assistito, all’aperto e sotto un sole cocente, alla “fredda” cerimonia con tanto di alzabandiera (molto opportunamente allargato al vessillo europeo), di inni (l’inno di Mameli suggestivamente allargato all’inno alla gioia), di messaggi (brevi, inviati dalle massime autorità nazionali), di discorsi (più sostanziosi di quanto mi aspettassi), di prefetto (il suo fervorino non mi è dispiaciuto), di sindaci, di fascie tricolori, di autorità varie ed eventuali. Queste feste rischiano di inocularci pericolose nostalgie in cui lavare sbrigativamente i panni del presente. Forse, tutto sommato, è meglio guardare indietro. Poi bisognerebbe però prendere la rincorsa. Non dimentichiamo che siamo (Totti) Italiani (e juventini)! Poi c’è anche l’Europa. Mi fermo anche perché non vorrei ritornare daccapo.

Le vergogne di Stato

Quando osservo il comportamento dei rappresentanti delle massime istituzioni nazionali di fronte ai parenti delle vittime di tragici eventi (prescindo in questo caso volutamente da eventuali responsabilità pubbliche a monte di tali tragedie), da una parte mi compiaccio che lo Stato abbia il coraggio di avvicinare queste persone per trasmettere loro la vicinanza e la solidarietà dei concittadini, ma dall’altra, devo ammetterlo, mentre ascolto parole e frasi opportune ed impegnative quali “non vi dimenticheremo” etc.etc., mi viene spontaneo temere che tutto possa essere compromesso dai soliti ritardi, dalle solite lungaggini e dalle solite omissioni in cui lo Stato si trasforma da amico solidale a burocrate pignolo (badate bene: non mi riferisco alle ricostruzioni post-terremoto e simili, ma a cose molto più piccole ma molto eloquenti e scandalose).

Ricordo con grande commozione la coraggiosa e credibile presenza dell’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini alle esequie delle vittime dell’attentato del 2 agosto 1980 alla stazione ferroviaria di Bologna: il suo smarrimento nel girare fra le bare, il suo scuotimento di capo a significare l’incredulità del popolo italiano per un fatto che ne minava la vita democratica (avrà sicuramente pensato: sono stato in galera, ho rischiato la vita assieme a tanti partigiani ed antifascisti, ho combattuto fino in fondo per riconquistare la libertà e la democrazia all’Italia ed ora, da capo dello Stato, vengo a fare il funerale a cittadini innocenti massacrati da rigurgiti anti-democratici), quella sua mano appoggiata al braccio del sindaco di Bologna che fece il discorso di omaggio (geniale gesto di vicinanza dello Stato democratico alle Istituzioni ed alla gente in un momento di grave inquietudine al limite della disperazione).

Cosa direbbe oggi Sandro Pertini apprendendo che, a distanza di 37 anni, i risarcimenti alle vittime di quella strage sono ancora in ballo, le pratiche relative non sono ancora state chiuse, queste somme sono state stralciate dalla manovra estiva del governo? Mi ha fatto immenso piacere che il vescovo di Bologna Matteo Zuppi se ne sia voluto interessare e che abbia pronunciato appropriate parole al riguardo: «Speriamo che si riesca a trovare una soluzione, ci sono ritardi che sono inaccettabili e fastidiosi, in certi casi lo sono ancora di più per la sofferenza che non viene capita e che viene minimizzata».

Perché lo Stato non ha la sensibilità di affrontare e risolvere con la necessaria tempestività queste situazioni che, tra l’altro, per la finanza pubblica rappresentano una goccia nel mare della spesa, una goccia rossa come il sangue delle vittime. Non capisco. E ci si casca sempre. Forse Bologna è un caso clamoroso, ma ce ne sono altri. Ogni tanto ne spunta uno. Sì, perché i familiari delle vittime hanno oltre tutto la delicatezza di non protestare più di tanto: dopo il danno ingoiano anche la beffa. Ribadisco di non capire. Ci sarà mai, una buona volta, un politico che, investito di ruolo istituzionale, vada a verificare tutte queste vergognose situazioni accumulate nel tempo (risarcimenti, pensioni, etc. etc), le sblocchi definitivamente e metta in atto procedute tali da evitare simili vergogne di Stato?

I grilloparlanti elettorali

Di fronte all’eventualità di elezioni politiche, anticipate di circa sei mesi rispetto alla normale scadenza della legislatura, si sta alzando un coro di allarmate proteste, tutte più o meno riconducibili al rischio di compromettere la tenuta economica del Paese, la seppur debole ripresa economica, la credibilità e la stabilità del governo italiano.

Voglio sperare che a tutti quanti stiano veramente a cuore queste ragioni e che tali motivazioni non siano la copertura di meri interessi di bottega partitica o correntizia: le prendo per quel che sono senza indulgere ad alcuna dietrologia. Così come voglio concedere la buona fede a chi ritiene sia meglio chiudere in fretta la legislatura per avviarne più autorevolmente una nuova.

Non riesco tuttavia a capire quale tranquillità ai mercati, quale spinta allo sviluppo, quale autorevolezza al Paese possa dare un governo in scadenza con una maggioranza parlamentare risicata e traballante, con grossi divergenze al suo interno, costretto a ricorrere continuamente a voti di fiducia per rimanere a galla, impossibilitato a riprendere una pregnante azione riformatrice.

È pur vero che non si sa quale Parlamento e quale Governo sortiranno dalle prossime elezioni in un sistema partitico abnorme e contraddittorio quale il nostro. Fra sei mesi però la situazione non sarà diversa, anzi probabilmente tenderà a deteriorarsi ulteriormente, mentre i partiti, a ridosso delle elezioni, non avranno il coraggio di scelte coraggiose e talvolta impopolari o comunque tali da compromettere la già difficile raccolta del consenso.

Quando è necessario affrontare una situazione grave, una prova dura, un passaggio problematico, generalmente siamo tutti portati a stringere i tempi per uscire il prima possibile dall’impasse o quanto meno per chiarire i termini del problema senza girarci intorno. Vale per una diagnosi difficile, per un’operazione chirurgica impegnativa, per un esame fondamentale, per ogni decisione che possa condizionarci la vita futura. È così anche per le Istituzioni e per la vita collettiva.

Non credo che tutto possa dipendere dal fatto che Renzi voglia stringere i tempi per fare ancora il premier, come sostiene velenosamente il tecnico Mario Monti. Non credo nemmeno che dall’altra parte si voglia solo tergiversare per paura dei mercati o per timore del ravvicinato verdetto elettorale. Spero che la discussione sia più seria e oggettiva. Ecco perché mi pongo le domande di cui sopra e non trovo sinceramente motivazioni pesanti per la prosecuzione di una legislatura, nata male, riportata faticosamente nel solco delle riforme che purtroppo non hanno potuto trovare piena approvazione, arrivata male al dunque. Ma questi sono problemi politici che non dipendono dal calendario elettorale e nemmeno dalla legge elettorale.

Molti temono che dalle urne esca un Paese ulteriormente frammentato e ingovernabile. Allora cosa facciamo? Non votiamo più in attesa che il centro-sinistra trovi la quadra, che la destra si liberi dai fantasmi del passato e del presente, che il centro recuperi spazio e ruolo, che il M5S diventi un partito di proposta e smetta i panni di un movimento di protesta?

Mio padre quando finivano le vacanze mi consolava dicendomi: «C’è un tempo per riposarsi e un tempo per studiare o lavorare». Per la democrazia c’è un tempo per votare e un tempo per governare. Non si deve votare a tutti i costi, ma nemmeno governare tanto per governare. Staremo comunque a vedere. Punto tutto sul senso dello Stato di Sergio Mattarella. Di lui mi fido!

Le elezioni (non) s’hanno da fare

È da oltre sei mesi che il nostro paese vive nel tormentone elettorale: la legge per votare non c’è, complice lo sciagurato fallimento delle riforme costituzionali,   conseguenza di un eccessivo tuziorismo della Corte Costituzionale, effetto di una classe politica che non riesce a guardare oltre il naso dei propri calcoli di bottega; la voglia di ricorrere alle elezioni anticipate è altalenante: tutti le vogliono e tutti non se ne intendono assumere la responsabilità, i motivi a favore sono tanti ed altrettanti quelli contro. Quando i giochi sembrano fatti, il banco salta e si ricomincia tutto da capo. Se si profila un accordo spuntano le grida allarmistiche all’ignobile connubio, se l’accordo si allontana si censura la rigidità delle posizioni che portano allo stallo.

Elezioni anticipate sì, elezioni anticipate no. Ad esse molto probabilmente si annette un importanza eccessiva, un effetto taumaturgico sul piano della tenuta democratica e del funzionamento istituzionale. E facciamole una buona volta! Se ne uscirà un casino pazzesco negli equilibri fra partiti e coalizioni, ce lo saremo meritato. E il giorno dopo si ricomincerà a parlare di elezioni.

Purtroppo la cura elettorale rischia di peggiorare la malattia politica costituita da partiti inadeguati, rissosi e inconcludenti. Le elezioni rischiano di essere la chemioterapia per il tumore partitico: bloccano le metastasi ma debilitano il sistema.

Si fa un gran parlare di sistema elettorale maggioritario o proporzionale con tutte le opzioni intermedie: si chiacchiera di rappresentatività e governabilità,   di partiti e di piccole e grandi coalizioni, di sbarramenti e premi. L’ingegneria e la fantasia elettorali   sono purtroppo inversamente proporzionali alla concretezza dei problemi ed alla loro soluzione.

All’inizio degli anni novanta andò i crisi, per tutta una serie di motivi, la classe dirigente   politica che aveva retto il lungo periodo dal dopoguerra in avanti. Ricordo che Gianni Agnelli previde tempi duri in quanto, a suo giudizio, sarebbero occorsi venti anni per crearne una nuova all’altezza delle mutate situazioni. I venti anni, coincidenti, più o meno, con lo spreco del berlusconismo, sono passati, ma la nuova classe dirigente fatica ad emergere, tra personalismi eccessivi e politicismi incalliti.

Il problema mi sembra questo, prima e al di là dei sistemi e delle consultazioni elettorali. Per parafrasare un vecchio detto: web pieno (di stronzate), urne (probabilmente) sempre più vuote, politica (drammaticamente) assente dai problemi e lontana dai cittadini.

Basta guardare come si rischia di arrivare alle elezioni anticipate, non sulla base della impossibilità o incapacità di affrontare importanti questioni, ma facendo detonare scontri pretestuosi su falsi problemi di principio (leggi voucher e lavoro occasionale). Questo comporterà che anche la successiva campagna elettorale si snoderà su temi polemici, sul rimpallo di responsabilità in ordine all’interruzione dell’esperienza governativa, sullo scontro tra una politica debole e pasticciona e un’antipolitica confusa e pericolosa.

Non invidio il Presidente della Repubblica, il quale ha il compito di arbitrare una partita brutta, fallosa ed ostruzionistica. Speriamo nel suo senso delle Istituzioni, nel suo equilibrio politico e, come ha detto Trump (fra le tante cazzate, questa l’ha indovinata), nella grande reputazione di cui gode.

 

L’usato sicuro (di sbagliare)

Nell’asfittico e noioso dibattito politico italiano pontificano i personaggi che tendono penosamente ad autoriciclarsi. I media li inseguono perché fanno notizia (?) con le loro corbellerie, la gente li osserva come fantasmi del passato e purtroppo la politica ne viene comunque inopinatamente influenzata.

Tra i tanti faccio due esempi. Il primo riguarda Massimo D’Alema, che, dopo aver insegnato a Renzi come (non) si fanno le riforme costituzionali, predica agli incalliti ed irriducibili vedovi del partito comunista come si fa a (non) essere di sinistra ed a governare (male) nello stesso tempo. Sembrerebbe una lezione curiosa e interessante, ma purtroppo la predica viene da un pulpito inattendibile, non per l’’indiscutibile intelligenza del personaggio (da questo punto di vista l’ho sempre rispettato ed ammirato), ma per la sua incoerenza e per l’abitudine di piegare il senso politico all’inguaribile vizio di demolire gli altri per far emergere il proprio smisurato ego. D’Alema non è stato capace   di guidare la sinistra e non ha saputo governare da sinistra. La sua fu la prima esperienza (breve) di un ex comunista chiamato a presiedere il governo italiano. Era un periodo in cui l’ideologia tirava gli ultimi, ma non era ancora morta. Fu in un certo senso il pessimo e decisivo sdoganatore (complice Francesco Cossiga) dei comunisti, passati da mostri mangiabambini a governanti in doppio petto (i più attempati ricorderanno la gag di Cossiga che regalò a D’Alema la statuetta di un bambino di zucchero da mangiare golosamente). Si ipotizzò malevolmente che fosse stata una perfida manovra a sfondo internazionale per consentire all’Italia di entrare nella guerra del Kosovo dalla porta di servizio aperta da un immaturo ex-comunista affamato di potere, cosa che non avrebbe mai accettato il maturo cattolico Prodi. Guerra e Cossiga a parte, fu un fallimento. D’Alema recitò con estro e fantasia la parte del politico che vuole riappropriarsi del suo spazio lavorando di gomito: fu infatti uno degli affossatori del primo governo Prodi, colpevole di avere superato i rigidi schemi della partitocrazia.

Faccio un secondo esempio e lo prendo dall’area politica opposta, dal centro-destra. Si tratta di Giulio Tremonti, il quale, dopo esser stato protagonista di squallide esperienze governative al fianco di Silvio Berlusconi, si atteggia, dallo scranno di senatore dipendente solo dalla propria straboccante boria, a censore della corsa alle elezioni anticipate, da ex ministro dell’economia a profeta dei disastri economici, finanziari e bancari del nostro Paese, da professore universitario a erudito analista dell’attuale fase storica a livello mondiale.

Non so, ma probabilmente Giulio Tremonti pensa che gli Italiani siano cretini (cvetini come direbbe lui) o smemorati. Con quale autorevolezza teorica e pratica ci inonda del suo verbo? Forse farebbe meglio ad andare a nascondersi. Invece parla eccome, lasciando intendere che ai suoi tempi le cose andavano molto meglio. Sì, eravamo arrivati al punto di essere derisi ed umiliati in Europa e nel mondo.

Sono spesso portato a rivalutare le vicende politiche del passato, ad ascoltare le esperienze di personaggi di un tempo, quindi non sono un rottamatore ante litteram, anzi. Però tutto ha un limite! Chi dal suo passato ha poco o niente da insegnare dovrebbe starsene zitto. Fate come dico e non come ho fatto? Ma mi facciano il piacere…

G7 di Taormina: sotto il vestito niente

La complessità e la difficoltà dei problemi mondiali è tale da non lasciare spazio a troppe speranze, tuttavia quando si riuniscono i cosiddetti grandi della terra che, bene o male rappresentano o dovrebbero rappresentare democraticamente gran parte delle popolazioni del pianeta, mi si apre ingenuamente il cuore: non siamo in mano a nessuno, qualcuno, pur con tutti i limiti e i difetti, si fa carico del nostro futuro, soprattutto di quello delle future generazioni.

Il recente G7 di Taormina purtroppo non è stato deludente solo sul piano delle soluzioni concrete alle questioni, terrorismo, clima, immigrazione, scambi commerciali, ma su quello delle visioni e delle prospettive di carattere generale. I protagonisti, chi più chi meno, hanno mostrato tutta la loro inadeguatezza a guardare avanti, a farsi carico dei problemi globali e sono rimasti prigionieri degli interessi delle loro nazioni.

La politica, a livello internazionale, al di là di tutto, soffre di questa miseria culturale e intellettuale dei capi di Stato e di governo (probabilmente specchio della vacuità delle società moderne), che si traduce in una escalation di conflitti senza vie d’uscita, in un rissoso bailamme di contrasti senza capo né coda. Donald Trump pensa ai petrolieri, agli operai, alla gente a cui ha fatto scriteriate e anacronistiche promesse elettorali e non si schioda da esse: è vero che la Germania si è egoisticamente accomodata sul proprio surplus commerciale, ma non se ne esce con un generalizzato liberi tutti di fare i propri comodi; è vero che il peso economico della Nato grava, forse da sempre, sulle spalle degli Usa, ma, anche volendo prescindere da considerazioni etiche, non se ne esce chiedendo drasticamente a tutti di alzare l’impegno militare in una progressione impossibile da sostenere   di fronte alla crisi economica immanente; è vero che la globalizzazione ha creato enormi disuguaglianze, ma non se ne esce tornando al protezionismo e chiudendosi a riccio nella difesa delle proprie traballanti economie; è vero che l’Europa parla bene e razzola male, ma non se ne esce lasciando che tutti si sfoghino a parlar male e a razzolare ancor peggio; è vero che la questione ambientale non deve diventare una camicia di forza, ma non se ne esce proseguendo imperterriti verso il baratro dell’inquinamento e degli squilibri naturali; è vero che l’immigrazione sta diventando un’emergenza ordinaria, ma non se ne esce alzando muri e chiudendo le porte.

La grande responsabilità trumpiana sta proprio nel ributtare il mondo in una visione egoistica e affaristica, infondendo l’illusione che dietro un’articolata, complessa, concordata e graduale soluzione dei problemi ci stiano l’inettitudine degli establishment e gli interessi dei poteri forti. Il ragionamento pericolosissimo è il seguente: se nel mondo dominano certi assetti e certi equilibri, tanto vale buttare tutto in malora, consentendo ad ogni Stato di comportarsi a misura dei propri interessi. Una sorta di tutti contro tutti da cui si spera possa emergere un nuovo ordine mondiale.

L’Europa, divisa e balbettante com’è, non riesce ad opporsi a questa tendenza, a volte sembra quasi che la condivida e quanto meno non è in grado di rinserrare le proprie fila in una linea di ulteriore integrazione politica ed economica. La Gran Bretagna è sul piede di partenza e si preoccupa solo di ritrovare un suo spazio sullo scacchiere mondiale; la Francia ha appena iniziato la terapia Macron ed è lontana dall’assumere una convincente leadership a livello europeo; la Germania non si scolla dal suo rigorismo imperante e non capisce che, come diceva mio padre (traduco in italiano per fare prima), “se non apri i pugni chiusi, non ti caga in mano nemmeno una mosca”; l’Italia, tutto sommato, è la meno peggio, ma ha troppi scheletri nell’armadio per ergersi a guida credibile. Non proseguo la rassegna, perché sarebbe inutile e sconfortante. Il concetto di fondo mi sembra chiaro.

Qualcuno recrimina sulle spese eccessive sostenute nell’organizzazione, peraltro impeccabile, del G7 di Taormina. Mi permetto di osservare come non siano le cene di gala, le pompose scenografie, le passerelle cinematografiche delle mogli (ammetto, nel vuoto politico emergente dal summit, di essermi rifugiato nelle cronache mondane alla disperata ricerca di uno sguardo dolce e femminile sulle miserie del mondo: tutto sommato le mogli si sono comportate assai meglio dei loro mariti) a distrarre i potenti e a disturbare i deboli: sono i contenuti che contano, è la loro carenza   che deve spaventarci. Il resto ci può anche stare a livello di bella immagine che l’Italia può offrire ed ha offerto di sé.

I bigotti dell’ideologia vecchia e nuova

Le ragazzine saltano in aria come birilli, i bambini affogano come gattini sopranumerari , la povertà aumenta vertiginosamente, i giovani non trovano uno straccio di lavoro, gli immigrati ci chiedono accoglienza, e gli uomini della “vera” sinistra italiana, si preoccupano dei voucher al punto da farne un’occasione per mettere eventualmente in crisi il governo.

I bersaniani di Mdp hanno tempo da perdere e si attaccano alle piccole questioni trasformandole in battaglie ideologiche. Il problema è quello del lavoro saltuario e occasionale: bisogna trovare uno strumento agile per regolamentarlo al meglio. Si era introdotto lo strumento voucher, ma su di esso si è scatenata un’assurda offensiva sindacale fino alla promozione di un referendum abrogativo. Viene tolto questo strumento e si pensa di trovarne uno migliore che magari eviti gli abusi. No, non va bene. Perché? Per Mdp è un limite invalicabile, non si può parlare di queste semplificazioni per le imprese, ma solo per le famiglie. E le imprese, soprattutto quelle piccole col problema di dover fare ricorso a questi lavoretti una tantum? Si avvalgano delle forme contrattuali già in essere! Ma non si adattano al bisogno… Si arrangino! Ed effettivamente si arrangeranno e faranno ricorso al lavoro nero.

Tutto perché bisogna ostentare qualche gargarismo di sinistra per distinguersi a tutti i costi e buttare un po’ di fumo negli occhi al popolo. Penso e spero che la gente capisca la strumentalità di queste posizioni da “trinariciuti” riveduti e scorretti, ma non ne sarei troppo sicuro. Il richiamo della foresta si fa sempre sentire.

Se la sinistra pensa di recuperare credibilità e consenso in questo modo…È questa la strategia dell’attenzione agli emarginati delle periferie sociali e territoriali? È questo il rigore etico e politico di una sinistra di governo?

Ma parliamo d’altro. Non sono un ammiratore di Flavio Insinna, il presentatore televisivo reo di avere pronunciato, fuori onda, parole offensive verso i concorrenti della sua trasmissione e quindi non intendo spendere parole a sua discolpa. La cosa curiosa però è stata la reazione del presidente della Commissione di vigilanza Rai, Roberto Fico, un esponente di primo piano del M5S: «Non ci sono parole per i fuori onda della trasmissione Rai Affari tuoi. È stato superato ogni limite di decenza. Sono offeso per i concorrenti, oggetto di commenti irripetibili, e per il pubblico presente in studio e a casa». «Chi ha scelto questa nana di m….?» avrebbe detto Insinna, innervosito dal comportamento di una concorrente a lui sgradita.

Consiglierei a Roberto Fico di preoccuparsi piuttosto delle parole irripetibili lanciate dal suo leader Beppe Grillo durante i comizi e tutte le volte che viene interpellato. Da che pulpito viene la predica! Saranno i grillini i castigati portatori del verbo politicamente corretto? A Parma si chiama becco di ferro.

In conclusione, da una parte abbiamo i bacchettoni della sinistra che si scandalizzano dei voucher, dall’altra i bigotti grillini che si scandalizzano delle parolacce fuori onda di un personaggio televisivo. Di qua i nostalgici della “lotta e della massa”, di là i burini dell’antitutto. In mezzo tutta la stupida, inconcludente e irritante strumentalità del dibattito politico.

Nel frattempo le ragazzine continueranno a saltare in aria come birilli, i bambini ad affogare come gattini, la povertà aumenterà ancora, i giovani non troveranno uno straccio di lavoro, gli immigrati ci chiederanno accoglienza e noi faticheremo sempre più a concedergliela. Non è certo colpa solo dei due scalcagnati eserciti di cui sopra (Mdp e M5S), ma da chi pretende di avere in mano la verità e di essere portatore dell’ideologia vincente si può esigere un po’ più di sensibilità, serietà e coerenza.

Una Cei a (bergogliana) libertà vigilata

Ho intravisto, come del resto molti commentatori, con sollievo e soddisfazione la nomina del nuovo presidente della Conferenza episcopale italiana, quale fine di un lungo e oscuro periodo nella conduzione dell’episcopato italiano volto più alle manovre ed ai compromessi politici che all’impegno pastorale

“La Chiesa negli ultimi 30 anni si è abituata a un abito clericale che garantisce la riproduzione del proprio apparato senza che a questo corrisponda un rinnovamento profondo legato all’evangelizzazione”, così dice don Luigi Ciotti e questo discorso vale anche e, forse, soprattutto per la Chiesa italiana.

Quindi finalmente si ha la sensazione e la speranza di un voltare pagina, di un cambio di registro, indotti dal nuovo stile papale e dalle sue scelte, che pian piano arrivano a toccare anche le persone a livello di gerarchia. Non so fino a qual punto il cardinale Gualtiero Bassetti, vescovo di Perugia, sarà in grado di compiere l’auspicata svolta a livello Cei: avrà in questo un appoggio ed un conforto essenziale nel Papa, che lo ha nominato seppure dietro segnalazione di un’assemblea comunque ben orientata dalle evidenti opzioni bergogliane.

Il pontificato di Francesco, assieme alle tante speranze di rinnovamento, mi mette un serio dubbio: il suo carisma, la sua sensibilità, il suo coraggio stanno ponendo beneficamente a soqquadro la Chiesa a tutti i livelli. La sta letteralmente rivoltando come un calzino, almeno in certi campi fondamentali. Il timore è però che tutto ciò possa essere esclusivamente legato a lui e non si traduca a cascata in metodi, stili e procedure nuovi per la gerarchia e per la Chiesa che vive con lui e che verrà dopo di lui. Lunga vita a papa Francesco, ma la Chiesa deve andare oltre e metabolizzare i suoi insegnamenti traducendoli in tesori che non soffrano l’usura del tempo.

Per tornare alla nomina del presidente della Cei, questa volta (regnante papa Francesco) la regola della nomina papale si è rivelata opportuna, ma non è concettualmente giusta: gli equilibri potrebbero ribaltarsi nel tempo e quindi sarebbe importante fissare una regola democratica fino in fondo, che vada al di là delle terne (sono sempre state un escamotage per glissare democrazia e responsabilità).

Vedo che in tutto si sta verificando questo stretto collegamento tra stile papale e stile ecclesiale: può essere uno stimolo ed un impulso, ma potrebbe rivelarsi anche un freno e soprattutto, in prospettiva, una fuga dalla partecipazione ed un preludio al ritorno indietro.

Mi si dirà che la Chiesa ha un asso infallibile nella manica: lo Spirito Santo, un Dio che vede e provvede, ma che vuole anche avere bisogno degli uomini e li lascia spesso sbagliare. Sarebbe quindi a mio giudizio molto importante che le “conquistate novità bergogliane” fossero sistematicamente consolidate.

Servirebbe anche a togliere un peso   eccessivo che va accumulandosi sulle robuste spalle di Francesco, ma non ha senso trasformarlo nel “superpapa” della rivoluzione. Forse non c’è bisogno di superuomini e di rivoluzioni, basta tornare al Vangelo. In fin dei conti è quel che sta facendo Bergoglio, ma si sforzi di tradurlo in pillole da far ingoiare alla Chiesa istituzione e alla Chiesa comunità. Non deve aver paura, il popolo di Dio è con lui. E non succederà quel che successe a Gesù dopo qualche giorno da quando lo osannavano come Figlio di Davide. Anche perché, come lui chiede continuamente (probabilmente sente tutto il peso e teme di soccombere), si sta pregando molto per lui: chiedete e otterrete…

Il sangue degli innocenti lavi gli equivoci religiosi

L’escalation del terrorismo islamico, alla cui origine si pongono motivazioni di ordine storico, economico, sociale, politico, mi induce sempre più a valutare anche le ragioni di carattere religioso. Il discorso vale, a maggior ragione, quando l’attentato è opera di kamikaze, i quali devono per forza avere motivazioni molto forti, che, direttamente o indirettamente, sono riconducibili a una qualsivoglia ispirazione religiosa portata all’ennesima potenza fanatica.

Non sono un conoscitore dell’Islam: so però che è una religione del libro, il Corano, e questo libro evidentemente si presta a non pochi equivoci sui quali si può basare il fanatismo omicida. A questo discorso si controbatte giustamente ricordando come anche i cristiani nella storia ne hanno combinate di tutti i colori in nome della religione, basti pensare alle Crociate e all’Inquisizione.

C’è però una differenza abissale: mentre nel Corano ci possono essere appigli tali da giustificare la follia contro gli infedeli, nel Vangelo, come ricorda autorevolmente il vaticanista Aldo Maria Valli, non possono sussistere equivoci. Chi uccide in nome di Gesù Cristo è completamente e inesorabilmente fuori strada, perché il protagonista del Vangelo è morto in croce per insegnarci anche e soprattutto la non violenza. E l’antico testamento della Bibbia? Purtroppo presenta anch’esso non pochi margini di equivoco, che vengono però spazzati via dalla vita di Gesù: se le scritture fossero state esaurienti non sarebbe stata necessaria l’Incarnazione. Non a caso il Cristianesimo è una religione della persona e non del libro; non a caso Gesù non ha scritto nulla e ci ha lasciato esempi di vita, concreti, precisi ed inequivocabili; non a caso Gesù ha più volte affermato che veniva non a cambiare, ma a superare e dare compimento alle antiche leggi (che vuol dire ben più di cambiare).

Con tutto ciò non voglio dire che il discorso verso l’Islam sia troppo accondiscendente e comprensivo, per come ad esempio si comporta papa Francesco, ma proprio questo dialogo aperto e leale, questa incondizionata ed evangelica apertura di credito, deve mettere coloro che hanno il ruolo di interpretare il Corano davanti alle loro responsabilità per farli uscire da ogni e qualsiasi omertosa tolleranza. Si continua a leggere di imam inquisiti ed espulsi, di moschee chiuse per istigazione al terrorismo, di plagi effettuati all’interno delle carceri, di possibili contiguità tra i “preti” islamici e le fasce di soggetti più esposti alla cosiddetta “radicalizzazione”.

Di pari passo occorre che gli islamici rispettino rigorosamente le leggi dei Paesi che li ospitano soprattutto in materia di diritti irrinunciabili e collegabili al rispetto della persona umana. In questo senso non c’è Corano che tenga: le donne hanno parità di diritti, i bambini pure, la vita è sacra e non si tocca, etc. etc. Non basta l’indignazione contingente, ci vuole una quotidianità che sappia prendere le distanze ed isolare ogni e qualsiasi fanatismo.

L’Isis spera di mettere i musulmani e i cristiani in guerra fra loro. I cristiani non devono cadere nel tranello della comoda generalizzazione e tanto meno rifugiarsi nella strategia del muro contro muro. I musulmani però devono uscire totalmente dall’equivoco, dalle riserve mentali, dalle vendette ataviche, dalle zone d’ombra. Solo nella estrema chiarezza si può convivere, dialogare, collaborare, volersi bene.

Ce lo chiedono le vittime innocenti delle stragi a sfondo religioso: Gesù è scampato ad una di queste per poi autoconsegnarsi ai suoi carnefici al momento giusto, al fine di azzerare la religione che osa uccidere.

 

P.S. Chi fosse interessato ad approfondire questa materia, può fare riferimento alle riflessioni sul terrorismo islamico di cui al saggio “Il paradosso: l’amore ci divide…la violenza ci accomuna”, contenuto nella sezione libri di questo sito.

Non c’è vaccino contro il morbo di Trump

Di fronte all’evidente sciagura dell’elezione di Trump, emergente dalle sue prime mosse strategiche e tattiche e condizionata dall’aria di impeachment che spira intorno alla Casa Bianca, i suoi imbarazzati difensori, americani e non, si nascondono dietro due luoghi comuni: Trump ha vinto perché era ed è contro l’establishment; Trump, a livello internazionale, non sta facendo niente di molto diverso rispetto a Obama.

Il discorso dell’establishment sta diventando l’alibi dietro cui si nascondono tutte le più assurde, inconsistenti e insensate proteste populiste: l’importante è riuscire a bucare il video dell’antipolitica, dopo di che tutto va ben e tutto fa brodo. Persino i vaccini vengono ascritti al sistema di potere e quindi devono rimanere opzionali. Il marxismo riportava tutti i problemi al conflitto di potere nei rapporti economici, l’attuale populismo li riporta allo generica battaglia contro lo strapotere delle classi dirigenti. Pura ideologia, che nel primo caso aveva presupposti scientifici, nel secondo ha solo fondamenti mediatici e psicologici.

Non ha importanza se Trump è stracarico di conflitti di interesse, se sta difendendo precisi interessi petroliferi, se pesca nel torbido del marasma economico-sociale americano e mondiale, se dimostra la più totale incompetenza e impreparazione, se si muove nell’incoerenza fatta sistema, se recita a soggetto di fronte ai problemi più delicati e complessi. È il simbolo dell’anti establishment (che tra l’altro nessuno spiega bene cosa sia) e questo basta anche ai trumpiani o trumpisti di casa nostra.

L’altro luogo comune è la presunta sostanziale continuità rispetto a Barak Obama. Durante le recenti visite in Arabia Saudita e in Israele ha letteralmente capovolto la strategia obamiana volta all’evoluzione democratica nei Paesi arabi, alle aperture verso l’Iran, all’appoggio critico verso Israele. Si passa con incredibile superficialità dal Trump innovatore ante litteram al Trump pedissequo continuatore. Quando fa e dice certe cose è un sano riformatore, quando fa e dice altre robe (da matto) è in linea col passato.

Dietro Trump ho l’impressione che si celi tutta la contraddizione della politica attuale: l’ansia di corrispondere a tutte le paure, magari appositamente create o enfatizzate, per mettere sostanzialmente a repentaglio le fondamenta del sistema democratico. Provate a leggere in questa chiave le mosse di Trump e vi ci ritroverete. Manco a farlo apposta è entrato alla Casa Bianca con un blitz anti-democratico (come interpretare diversamente la sua elezione con milioni di voti in meno rispetto alla Clinton).

Non so se questa sbornia durerà e fino a quando potrà durare. Non ho grande fiducia negli impeachment: nel clima attuale rischiano di essere veri e propri boomerang. Non nutro grande considerazione nella capacità reattiva della società civile americana: è così confusa, contraddittori ed articolata… Non mi illuderei più di tanto rispetto agli attacchi della stampa e dei media: esagerano e gli offrono l’arma del vittimismo. Non concedo credito agli esperti ed ai commentatori che lo prevedono in rapida e obbligata conversione alla realpolitik: non ha infatti il senso della realtà perché vive in un mondo virtuale connotato ai suoi deliri di onnipotenza; non ha senso politico in quanto affronta tutte le situazioni, anche le più ingarbugliate, con piglio teatralmente decisionistico, estremizzando la scelta tra male e bene, che purtroppo non stanno mai da una sola parte.

Più osservo il comportamento, anche esteriore, di Donald Trump e più mi viene spontaneo il parallelismo con Silvio Berlusconi. Indro Montanelli, in riferimento al berlusconismo, sosteneva si trattasse di una brutta malattia, che doveva fare il suo corso per consentire la creazione degli anticorpi. Aveva perfettamente ragione: non ne siamo ancora perfettamente guariti. Se tanto mi dà tanto, abbiamo davanti una lungo-degenza da morbo di Trump, da cui non so come usciremo. Io, molto probabilmente, non farò in tempo ad uscirne. Auguri a chi può sperare in meglio, almeno per motivi anagrafici.