Mi a ca mèja e ti…a ca tòvva

Un bambino, quando ha paura, cosa fa? Se non è cambiata anche la psicologia infantile, si nasconde dietro la gonna della mamma perché lì si sente sicuro e protetto. Non capisce infatti che si tratta di un nascondiglio precario e illusorio, gli basta restare attaccato alle proprie origini e rifiuta i pericoli del futuro. Ci vorranno tempo e pianti per affrancarsi da questa comoda ed egoistica sudditanza.

Questo percorso vale anche a livello sociale: l’apertura di mercati, frontiere, confini, scambi, viaggi e sistemi ci sbatte in faccia una realtà che tendiamo a rifiutare. Ci difendiamo dalle provocazioni della globalizzazione chiudendoci a riccio nel nostro particolare, si chiami razza, nazione, regione, rione, casa, fabbrica; alle drammatiche e provocatorie sfide dell’egoismo globalizzato rispondiamo con l’egoismo parcellizzato; alle ingiustizie del mondo preferiamo quelle di casa nostra.

Pretendiamo di risolvere l’enorme problema dell’immigrazione accogliendo le persone, alla disperata ricerca di uno spazio vitale, intimando loro un assurdo prima che ingiusto “fatti più in là”. Ma che ospitalità è quella di aprire la propria porta di casa a patto di rispondere ai bisogni dell’altro in modo rigorosamente secondario rispetto ai nostri?

Nelle comunità religiose, quando arriva un ospite inatteso, non si dà la minestra agli stanziali e poi, se ce ne rimane,   ai nuovi arrivati. Non si sottopone l’ospite alla gogna dell’essere un indesiderato elemento d’ingombro e di peso, si allunga il brodo e tutti mangiano un po’ meno bene, ma mangiano.

Se le cose non vanno bene all’interno di un gruppo o di una comunità, è comodo fare gruppo nel gruppo per strappare qualche beneficio a danno della generalità dei componenti. Dividersi è facile, ma non risolve i problemi, li sposta, li avvicina, ma li ingigantisce.

Sto parlando indirettamente di chiusura e separatismo quali risposte sbagliate all’immigrazione e alla crisi economica. La tanto chiacchierata Brexit altre non è che la sbagliata e malaugurata sintesi metodologica ai problemi della nostra epoca. Il “tu non entri in casa mia” o il “non mi sento a casa mia e me ne vado” sono le due facce della medaglia divisiva e violenta con cui vogliamo pagare li dazio della nostra storia.

Viviamo purtroppo un periodo di grave carenza valoriale e ideale, la nostra è probabilmente l’epoca del pragmatismo politico e sociale: non è facile affrontare i problemi a prescindere dalla spinta etica che dovrebbe guidarci. Sformiamoci almeno di essere razionalmente impegnati in una convivenza aperta e di vivere guardandoci intorno, non accontentandoci di difendere il nostro misero orticello.

Quando sento persone in buona fede fare il ragionamento del prima pensiamo alle nostre povertà, oppure quando vedo acide battaglie indipendentiste a livello regionale, penso a mia madre, che mi spiegava come nella casa della mia famiglia (io non ero ancora nato) trionfasse la povertà e alla porta bussassero continuamente parenti e amici in cerca di aiuto ed a tutti si riusciva a rispondere positivamente. Miracolo? No. Eroismo? No. Solo buona volontà, quella che fa i miracoli ed è capace persino di gesti (quasi) eroici.

Un mio simpatico e indimenticabile zio, al momento dei saluti, rivolto all’amico di turno, dopo avergli dato una pacca sulla spalla e/o avergli stretto calorosamente la mano, diceva: «Veh, arcòrdot bén, quand at me vól gnir a catär…sta a ca tòvva». Lui scherzava, noi facciamo sul serio.

 

Prima si vota, poi si (s)ragiona

Sono due i modi per arrivare a decisioni sbagliate: affrettare i tempi e scegliere sull’onda emotiva del momento oppure allungare i tempi e lasciare che gli eventi decidano al posto nostro. Nella mia vita, per indole ansiogena e carattere scrupoloso, sono stato portato ad attendere troppo e quindi a lasciarmi condizionare da timori e paure, arrivando spesso a scegliere fuori tempo massimo. Mia sorella infatti mi definiva bonariamente come l’eterno preoccupato: di non farcela, di fallire, di non essere all’altezza, perdendo i treni che passano una sola volta e mancando le occasioni che non si ripresentano più. Così facendo, da una parte, in senso negativo, si rischia di rimanere paralizzati dall’assurda ricerca di un impossibile   perfezionismo, dall’altra, in senso positivo, si è spinti a migliorare le proprie prestazioni senza mai accontentarsi dei risultati raggiunti.

Ho introdotto questa digressione psicologica con evidenti cenni autoreferenziali al fine di analizzare un fenomeno che si sta verificando: la superficialità pre-elettorale, l’emotività elettorale e il pentimento post-elettorale. Detta in parole povere: si discute di politica dando aria ai denti, si vota con la pancia e quel che segue, poi, finalmente ma tardivamente, si comincia a ragionare con la testa. Dei due suddetti schemi decisionali si tende quindi ad utilizzare il primo, quello dell’emotività, quasi per fare dispetto alla razionalità. Si vota di getto e alla carlona, si consuma la scheda, bastano pochi giorni per tornare in se stessi e capire di avere sbagliato, ma è tardi e la frittata è fatta.

È successo in Gran Bretagna con la Brexit: se oggi si rivotasse sono convintissimo che il risultato verrebbe ribaldato. Stanno infatti venendo a galla tutti gli equivoci e le falsità sulle quali ha incespicato l’elettorato inglese. Analogo discorso si sta verificando negli Stati Uniti: ogni giorno emerge clamorosamente la colossale gaffe commessa dagli americani nel dare fiducia a un personaggio che non la meritava. Loro stessi si stanno accorgendo del bluff colossale di Donald Trump. Qualcosa di simile sta succedendo anche in Francia dove l’indice di popolarità di Emmanuel Macron è in caduta libera. Può darsi succeda anche in Germania: la perdita di consensi dei cristiano democratici e sociali nonché soprattutto dei socialdemocratici porterà solo un po’ di ingovernabilità e un pizzico di antieuropeismo e i tedeschi capiranno, ma in ritardo, di avere votato a vanvera.

Questa volatilità nei consensi, che spesso rende inaffidabili i sondaggi, dipende dalla leggerezza con cui si sceglie. Più che di populismo (vale a dire lisciare il pelo all’elettore) si può parlare di qualunquismo (sfruttare la volubilità e la superficialità dell’elettore).

I motivi per cui si sta cadendo in questa pericolosa trappola, sostanzialmente anti-democratica, sono tanti, riconducibili ad una sempre più striminzita idea di democrazia quale scelta una tantum per banalizzare la politica. Siamo su questa strada anche in Italia, basti verificare l’assurdo e paradossale credito concesso a personaggi inconsistenti e inqualificabili. Ne prendo due a caso (?), riconducibili alla deriva irrazionale in corso. Luigi Di Maio: basterebbe poco per capire che si tratta di un sacchetto pieno di niente, che magari si presenta bene, ma evidenzia immediatamente un vuoto politico pneumatico. Eppure va per la maggiore o almeno così sembra… Matteo Salvini: un triviale arruffapopolo, che recita a soggetto frusti copioni di sconvolgente memoria, che usa un linguaggio inaccettabile per dire cose ancor più inaccettabili. Eppure miete consensi o almeno così sembra…

Al solo pensiero di consegnare il Paese in mano a simili esponenti politici mi tremano le vene ai polsi. Se dovesse succedere, la realtà impiegherà poco a venire a galla, ma sarà tardi e in politica, come in certe strade, non è ammessa l’inversione di marcia. Bisogna aspettare la prima deviazione possibile, nel frattempo non so cosa sarà successo.

La chiamano terza repubblica: la prima basata sul dualismo tra democristiani e comunisti con l’intromissione devastante dei socialisti; la seconda fondata sul conflitto tra berlusconiani e antiberlusconiani con l’influenza artificiosa dei media; la terza costruita sullo scontro tra politica debole e antipolitica forte. La prima repubblica si basava sulle ideologie, la seconda sugli affari, la terza vive di sondaggi. Di male in peggio. Tornerei volentieri indietro.

 

Una repubblica di sana costituzione

Ho rivisto con interesse e piacere una trasmissione di Rai storia sulla Costituzione italiana: sono queste le iniziative che giustificano, distinguono e qualificano la televisione pubblica. È stata l’occasione che mi ha aiutato a dipanare l’apparente contrasto   tra legalità e solidarietà anche relativamente all’atteggiamento da tenere nei confronti degli immigrati. Nella nostra Costituzione si va ben oltre il concetto di uguaglianza, perché l’articolo 3 al secondo comma recita in un crescendo programmatico più unico che raro: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Mentre all’articolo 2 vengono riconosciuti i diritti inviolabili dell’uomo, l’articolo 3 non si accontenta, al primo comma, di togliere ogni distinzione di razza e religione, ma, al secondo, introduce il criterio della promozione umana. Oserei dire quindi che gli immigrati vanno accolti in quanto uomini a cui garantire il diritto all’esistenza, alla salute, alla libertà, al rispetto (vale per chi viene torturato, per chi rischia la pelle, ma anche per chi non ha di che vivere dignitosamente: Macron ripassi la rivoluzione francese e noi rileggiamo la nostra Costituzione). Dopo averli accolti devono però essere integrati senza discriminazione alcuna e promuovendo la loro crescita economica e sociale.

Qualcuno penserà che questi concetti valgano per i cittadini italiani (di qui l’ostilità, culturale o tattica fa poca differenza, verso l’allargamento del diritto di cittadinanza a soggetti che, per nascita o percorso formativo, sono di fatto italiani) e non per gli immigrati: di fronte a tale interpretazione restrittiva i costituenti si rivolterebbero nelle loro tombe e griderebbero tutta la loro indignazione per una simile chiusura umana e culturale.

Altri si nasconderanno dietro il solito paravento degli scarsi diritti riconosciuti agli italiani o del timore che i diritti degli italiani possano essere compressi da quelli degli extra comunitari: o si cresce insieme o si dimagrisce comunque tutti, non fosse altro per il fatto che gli immigrati espulsi dalla porta rientreranno prima o poi dalla finestra.

Giuliano Amato, introducendo da par suo il commento al dettato costituzionale ed alla sua gestazione, citando un personaggio che non ricordo, ha plasticamente valorizzato la nostra Costituzione indicandola come una sorta di arma legale difensiva contro chiunque tenti di ledere i diritti e attenti alle libertà. Ai migranti, si dice giustamente, bisognerebbe insegnare subito la lingua italiana; forse bisognerebbe anche spiegare la Costituzione. Si rischierebbe di far credere a queste persone che esistano solo i diritti? Nossignori, perché in essa ci sono anche i doveri, c’è tutto quel che serve per una buona convivenza civile. Potremmo rischiare di vedere gli stranieri sventolare sotto il nostro naso il libretto costituzionale. Questo sì, ma sarebbe un bene, perché noi non la conosciamo o facciamo finta di non conoscerla e qualcuno ce la ricorderà.

Il populismo dei lupi e degli agnelli

Era da mesi che si aspettavano le elezioni politiche tedesche e adesso che ci sono state siamo più ignoranti e sprovveduti di prima. Un tempo alle elezioni vincevano tutti, oggi perdono tutti, ma è esattamente la stessa cosa: la grande fatica del sistema dei partiti a rappresentare democraticamente le istanze popolari, che trova nel populismo la rischiosissima scorciatoia, vale a dire la sfrontatezza della politica nel cavalcare tout court gli umori se non addirittura gli istinti della gente.

I partiti tradizionali non riescono a fronteggiare questa ondata populista, al massimo tentano di arginarne le scalate al potere; finora nei Paesi europei facenti parte dell’area occidentale, bene o male, le formazioni politiche nazionaliste, xenofobe e razziste, pur raggiungendo significativi e preoccupanti livelli di consenso elettorale, non hanno avuto accesso alle stanze dei bottoni. È successo anche in Germania laddove gli estremisti di destra entrano in Parlamento con una notevole pattuglia di eletti, ma dove vige nei loro confronti una conventio ad excludendum rispetto all’area governativa.

In Italia la situazione non è così chiara e rassicurante. Due sono i motivi inquietanti che lasciano temere uno spericolato approccio dei populisti al governo del Paese. Innanzitutto abbiamo la camaleontica abilità di queste formazioni politiche estremiste, che riescono a coniugare la strumentalizzazione delle proteste verso la politica con la rassicurazione di un rinnovatore sistema democratico di potere. La Lega di Salvini, i Fratelli d’Italia e i Cinque stelle hanno l’abilità di offrire il volto più buono ed accettabile del populismo e riescono a intercettare e catturare lo scontento verso le forze politiche tradizionali, forse proprio perché essi non sono totalmente anti-tradizionali e quindi finiscono col fornire una proposta eversiva ma non troppo in cui è facile rimanere intrappolati.

Mentre il movimento pentastellato rifiuta sdegnosamente ogni e qualsiasi intesa politica con i partiti, la Lega aspira ad integrarsi, seppure da posizioni di forza, nell’area di destra che si candida a governare il Paese. Il ragionamento è questo: tutti siamo un po’ antieuropeisti, ebbene per chi lo vuole essere di pancia c’è la Lega, per chi lo vuole fare con nostalgia c’è FdI, per chi vuole soprattutto minacciare di esserlo c’è Forza Italia. Tutti siamo un po’ razzisti, ebbene per chi intende chiudere le frontiere c’è Salvini che sparla bene, per chi teme l’annacquamento dei principi nazionali c’è Giorgia Meloni che parla romanesco, per chi vuole regolare i flussi c’è Tajani che sa tenere i piedi in tante scarpe.

Il secondo motivo inquietante che rischia di portare l’estremismo di destra nell’area di governo è quindi la possibilità di patti compromissori scellerati sulla pelle degli Italiani, degli Europei e degli immigrati. Prima o poi questa tentazione, che finora ha solo sfiorato i grillini, finirà col coinvolgere anche loro in una sorta di inciucio dell’anti-inciucio.

Sbaglia di grosso chi ritiene moderati i nostri populisti e tende a sdoganarli: attenti, perché non si tratta di moderazione ma di finzione dietro cui si nasconde una proposta politica traumatica. Personalmente preferisco sempre chi combatte a viso aperto e dichiara apertamente di volermelo mettere in quel posto, un estremista che si rivela per quello che è piuttosto che un moderato capace di mettermelo in quel posto con tanto di vaselina, un lupo travestito da agnello.

Follie, follie, delirio vano è questo…

Ero partito con l’intenzione di leggere attentamente e senza pregiudizio alcuno il documento di impeachment emesso contro papa Francesco da oltre sessanta personaggi (non so chi siano, ma dal tono non credo si tratti di “cattolici di fila”): secondo questa dotta relazione il papa sarebbe reo di ben sette proposizioni eretiche in materia di morale sessuale e matrimoniale (vedi esortazione apostolica Amoris laetitia e altre parole, atti ed omissioni: un vero e proprio “confiteor” da far ingoiare a Francesco). Il mio intendimento partiva dalla convinzione che il diritto di critica debba esistere anche all’interno della Chiesa e quindi che non debba scandalizzare il fatto che un gruppo di persone segni il proprio dissenso rispetto a certi insegnamenti papali. Mi sono detto: se rivolgevo critiche ai papi precedenti e davo ascolto ai dissensi emergenti rispetto alle loro linee dottrinali e pastorali, perché dovrei rifiutare a scatola chiusa gli appunti rivolti a papa Francesco?

Mi sono messo pertanto a leggere e ad un certo punto però ho interrotto la lettura, non tanto perché il documento sia insopportabilmente pedante e ostentatamente forbito (forse anche questo, lo ammetto), ma in quanto dettato solo dal cervello a prescindere dal cuore (dalla coscienza). Lo sforzo papale, peraltro ancora ben lontano dal raggiungimento di obiettivi assai significativi e innovativi in materia di morale, era ed è proprio quello di concedere il primato alla coscienza di chi deve giudicare e di chi è giudicato: il primo deve giudicare (discernere) col cuore misericordioso e comprensivo di Gesù (Donna chi ti ha condannato? Nessuno Signore! E neanche io ti condanno…), il secondo deve mettersi nello stato d’animo del pubblicano (O Dio abbi pietà di me peccatore), entrambi non devono scimmiottare il fariseo della parabola evangelica (Ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri…). Questo sempre, ma nel caso in questione, in materia di comunione ai divorziati.

Sta (finalmente) venendo a galla il livore che da tempo cova dentro certi personaggi preoccupati non di difendere il tradizionale rigore, ma il permissivismo economico-sociale e il meccanismo di potere. Squalificare in senso eretico l’atteggiamento aperturista in campo sessuale serve, come sempre, a coprire bigottamente la disonesta ricchezza e l’impropria influenza sulle coscienze.

In parole povere questa manovra, dietro le dissertazioni pseudo-teologiche, nasconde una precisa volontà conservatrice nei rapporti istituzionali della Chiesa, messi in discussione dalla nuova impostazione pastorale. In fin dei conti papa Francesco, come ha più volte acutamente osservato Eugenio Scalfari, ha invertito l’ordine dei fattori, privilegiando la Chiesa comunità (amore e misericordia) rispetto alla Chiesa istituzione (gerarchia e potere); quando ci si è accorti che questa inversione dei fattori poteva andare contro le regole matematiche, vale a dire cambiare il prodotto, ecco allora alzarsi gli scudi per difendere non la dottrina di cui non frega niente a nessuno (pensate quanto interesserà a questi personaggi dissidenti che i divorziati possano o meno comunicarsi), ma il potere di condizionare le coscienze e quindi le altre istituzioni. Sono in gioco due visioni: non è questione di eresia, è solo un problema difensivo del modo di essere della Chiesa e del suo potere. Il resto è fuffa, che non mi interessa. Ecco perché ho interrotto la lettura dell’atto di accusa: tempo perso e, se proprio devo essere sincero, ho preferito leggere il brano evangelico della liturgia del giorno, che, manco a farlo apposta, parlava di un padrone anomalo, che pretende poco e dona molto a chi lavora nella sua vigna e non sopporta chi si maschera con la nobile veste della giustizia per nascondere il demone dell’invidia (non si vuole che Dio sia buono, non si sopporta che capisca gli errori e li perdoni).

Quando Violetta, nella Traviata di Giuseppe Verdi, si accorge di essere sul punto di innamorarsi, senza bisogno di essere pagata per fingersi tale, confessa a se stessa di vaneggiare, non lo crede possibile: “Follie, follie, delirio vano è questo…”. Invece succede. Poi arriva l’ipocrita di turno, quello che tira fuori le regole, il benpensante del cavolo, che rovina tutto. Manovra di disturbo, che nel caso di Violetta crea un disastro umano. Nel caso degli odierni benpensanti cattolici, non si creerà alcun problema. Scrivano, sbraitino, si lamentino, ma la mia coscienza e quella dei divorziati, dei separati, dei conviventi, non la possono toccare. E ancor meno quella di papa Francesco.

 

Ius culturae et simulatio publica

Sono due le foglie di fico che i più moderati, ma pericolosi, esponenti politici, tentennanti sul discorso dello ius soli e dello ius culturae, pongono a copertura della loro posizione vergognosa e strumentale: questa legge non deve essere tema elettorale e quindi va rinviata ad un momento più adatto al confronto pacato, che oltre tutto in questo momento storico si fa tanta fatica a creare; il problema della cittadinanza, pur essendo di competenza nazionale, richiederebbe regole omogenee a livello europeo.

I politicanti non si smentiscono mai. Perché il discorso non può essere affrontato nell’imminenza di una competizione elettorale? Molto semplice. Perché non si vogliono perdere consensi nel caso di un voto favorevole e ancor peggio si vogliono conquistare consensi cavalcando furbescamente le assurde paure che una cittadinanza accogliente possa essere scambiata per una spinta all’immigrazione. Come se un povero disgraziato, che pensa disperatamente di scappare dal suo Paese, stesse a guardare cosa fa il Parlamento italiano in materia di cittadinanza, roba che riguarderà semmai fra diversi anni i suoi figli, mentre lui ha letteralmente l’acqua alla gola e rischia di non sopravvivere oggi. Chi è gia in Italia, alle condizioni previste dal progetto di legge, regolarizzerà la sua posizione e aggiungerà doveri ai diritti di una civile convivenza democratica. Tutto qui con buona pace di chi vuole rincorrere l’opinione pubblica sfruttandone le paure e fingendo di voler legiferare al meglio, che in questo caso è nemico del bene.

Perché dovremmo aspettare una preventiva armonizzazione delle legislazioni vigenti in materia a livello europeo, tra l’altro ben più aperturiste di quella in discussione da anni al Parlamento italiano? Come mai questa improvvisa conversione europeista, quando dell’Europa non frega niente a nessuno? Serve solo a prendere tempo, a rinviare l’assunzione di responsabilità, a sciogliere nel brodo europeo un problema facile-facile, ma evidentemente scomodo-scomodo, se è vero, stando ai sondaggi che la maggioranza degli italiani sarebbe contraria a questo provvedimento (sono sicuro che come al solito si esprime un giudizio senza aver capito la sostanza del problema e quindi si va a lume di naso, fuorviati da chi grida più forte). Si tratta di mero populismo ossia di dare ragione al popolo senza spiegargli di cosa si sta parlando.

A queste capziose e felpate argomentazioni, tutto sommato, preferisco le triviali espressioni di chi non nasconde la propria contrarietà di principio all’immigrazione ed a tutto quanto sia ad essa comunque riconducibile (almeno ha il coraggio di dire fino in fondo come la pensa e fa il gioco strumentale allo scoperto).

Ma c’è un’altra chicca in questo dibattito e purtroppo viene da sinistra: così come a destra si cavalca lo ius soli per farne un punto fermo contro l’immigrazione, a sinistra si ideologizza lo ius soli per mettere in difficoltà il governo e il Pd. Cosa deve fare il Pd se si accorge di non avere la maggioranza sufficiente per varare questo provvedimento? Deve andare a sbattere per mettere in crisi il governo e a repentaglio l’ultimo delicato scorcio di legislatura, che doveva proprio servire a varare alcuni provvedimenti fra cui lo ius soli? Strano modo di fare politica, anche in questo caso solo per rubare a sinistra qualche voto a Renzi. Poveri stranieri in attesa di diventare cittadini italiani! Mi permetto una battuta finale: forse sono ancora in tempo per scappare dall’Italia e tornarsene a casa loro. Sarà questo, sotto-sotto, quello a cui puntano i razzisti dichiarati e quelli camuffati? Donald Trump ha proprio l’intenzione di spegnere il sogno degli stranieri che si considerano americani, ma che lo sono precariamente. L’aria che tira è questa.

 

 

Il volto indecente della povertà

“E non dimenticatevi di pregare per me!”. È il ritornello finale degli interventi di papa Francesco. Da parecchio tempo mi sono convinto che questa insistente richiesta di preghiera su di sé sia dovuta alle crescenti difficoltà della sua azione pastorale. Probabilmente si sta accorgendo che quando si tratta di passare dalle parole (accolte sempre con applausi) ai fatti (accolti con mugugni e scetticismi), la situazione si fa difficile.

Tutte le occasioni possono essere buone per ridimensionare la forza dirompente del suo messaggio. I modo sono tanti. Qualcuno sostiene che non stia dicendo e facendo nulla di nuovo, solo una difesa populista delle tesi tradizionali. Altri temono che stia svendendo i valori cristiani facendo demagogia in giro per il mondo. Altri ancora non perdono occasione per mettergli i bastoni fra le ruote per dimostrare che vive nel mondo dei sogni. Altri si stanno preparando alle rivincite, convinti che prima o poi arriverà l’occasione per tentarle.

Papa Francesco non deve mollare. Sul piano della Chiesa istituzionale deve cercare di tradurre le sue tesi innovative in riforme strutturali e procedurali. Dal punto di vista pastorale deve esigere rispetto per le sue indicazioni. Altrimenti finisce come quando Amintore Fanfani segretario della democrazia cristiana faceva coraggiosamente, in Sicilia, discorsi infuocati contro la mafia e in prima fila c’erano i mafiosi che lo applaudivano freneticamente.

La recente ripulitura di piazza San Pietro, dalla presenza dei poveracci per motivi di decoro e di sicurezza, papa Francesco non la doveva accettare. C’è sempre un motivo valido (?) per sloggiare gli accattoni. Lui li aveva aiutati, li aveva invitati alla sua mensa, ne aveva fatto una questione di accoglienza evangelica. Poi, improvvisamente, con la scusa di evitare infiltrazioni terroristiche e di restituire allo sfarzo artistico il colonnato del Bernini, gli straccioni se ne devono andare. Gli sporcaccioni in materia di affari e di sesso sono stati sopportati per anni e anni e forse lo sono ancora (il papa proprio negli stessi giorni lo ha pubblicamente ammesso), i senza dimora invece non possono restare in Vaticano o vicino al Vaticano. Strane misure…

Caro papa Francesco, faccia rientrare questo provvedimento assurdo che va in controtendenza rispetto alla sua mentalità. La metta giù dura! Non ceda il passo ai normalizzatori del cavolo. Non faccia come Giuliano Amato che, da ministro degli Interni, voleva fare la guerra agli accattoni e non era stato capace di dire nemmeno una parola contro i mercanti socialisti. Gesù ha cacciato i mercanti dal tempio, i poveri li ha toccati solo per risanarli ed aiutarli. I lebbrosi erano ben più pericolosi degli accattoni odierni e Gesù li toccava, li guariva, li riammetteva nella comunità.

Gesù è stato intransigente, non ha ceduto di un millimetro ai forti, ha concesso tutto ai deboli. Papa Francesco ha adottato questo stile, ma non deve avere ripensamenti, perché altrimenti finisce tutto. La bomba più pericolosa per il Vaticano non è quella del terrorismo islamico, ma quella del conservatorismo religioso. Chi deturpa l’immagine vaticana non sono i poveri cristi, ma certi cardinaloni e i tromboni dei palazzi.

 

La catena di montaggio della sala parto

Non sono un patito delle statistiche, delle ricerche e delle indagini, ritengo tuttavia, che pur non fornendo dati da prendere alla lettera, segnalino certe tendenze e osservino certe realtà. Da una ricerca Doxa esce il dato sconvolgente che negli ultimi 14 anni sarebbero state circa un milione le madri in Italia, pari al 21% del totale, vittime di qualche forma, psicologica o fisica, di violenza ostetrica alla loro prima esperienza di maternità, donne che sarebbero state “maltrattate” in corsia durante il parto.

Qualcosa sotto ci dovrà pur essere di vero e di inaccettabile. Bisogna andare adagio nello squalificare e colpevolizzare una struttura e tutti coloro che in essa operano, non basta un’autorevole ricerca a sputtanare tutti i reparti di ginecologia ed ostetricia del Paese, ma un po’ di verità ci potrà pur essere. Tra l’altro di   questo strano e incontrollato fenomeno si è sempre sentito parlare: vox populi, vox dei e vox statisticae!

Vai a capire il perché. Probabilmente in sala parto si scontrano la meravigliosa, ma delicata e rischiosa, situazione psicologica e fisica della donna con la solita routine ospedaliera: la fabbrica dei bambini, la catena di montaggio dei parti non ammette di andare per il sottile. Un conto è però la freddezza sanitaria, un conto è il maltrattamento. Non entro nel merito in cui peraltro entra la ricerca Doxa.

Mi viene spontaneo fare una riflessione provocatoria. La stragrande maggioranza degli operatori sanitari risulta essere obiettore di coscienza in materia di aborto. Ci sarebbe da discutere, ma il mio ragionamento è un altro. Come mettono d’accordo, questi medici e infermieri, la loro oltranzistica difesa della vita con il fatto di accoglierla in modo violento o comunque non adeguato. C’è una contraddizione palese! Da una parte si vorrebbe che la donna partorisse il figlio a tutti i costi per poi dall’altra maltrattarla proprio mentre dà alla luce il figlio stesso. Misteri della struttura sanitaria e di chi vi opera dentro.

Ammetto che la donna viva quei momenti con una carica psicologica particolare e quindi possa essere particolarmente e forse esageratamente sensibile ai comportamenti che le stanno intorno. Di qui a giustificare veri e propri maltrattamenti ce ne passa di strada.

Forse invece di sollevare questioni di principio sarebbe il caso di comportarsi bene nelle faccende concrete del quotidiano. C’è di che riflettere per tutti e di che indagare e intervenire per i responsabili della sanità ai vari livelli.

Una cosa è certa: l’evento più bello per una donna, ma anche per la sua famiglia e per tutta la società, rischia di essere rovinato da comportamenti trasandati, “routinari”, per non dire di peggio. Se è questo il sostegno alla maternità di cui ci si riempie la bocca, andiamo proprio bene.

Non è il miglior viatico per chi deve scegliere se diventare madre oppure no, né per chi deve decidere se diventarlo per una ulteriore volta. A giudicare dal numero di studenti che frequentano le facoltà di psicologia non dovremmo avere problemi a trovare psicologi da immettere nei reparti di ginecologia e in sala parto. Ho cominciato dicendo che non credo molto nella statistica. Termino affermando che non credo molto nella psicologia. Ma visto che la statistica ci consegna un quadro choccante e allarmante, visto che la deontologia professionale non è sufficiente, proviamo ad allargare il campo. Sarà il caso di rispondere battendo un tasto, magari proprio quello della psicologia.

Smartphone? Presente!!!

In materia di telefoni cellulari e successive modificazioni e integrazioni sono rimasto a quanto diceva il famoso e acutissimo giornalista Rai Andrea Barbato: in una delle sue simpatiche cartoline, inviate dagli studi di non ricordo quale canale della televisione pubblica, affermava di ammettere la necessità dei telefonini solo ed esclusivamente per i sacerdoti, chiamati con urgenza al capezzale dei moribondi, e per le ostetriche, chiamate con altrettanta urgenza in caso di incipiente parto. In mezzo, a parere di Barbato, solo fuffa telefonica.

Ebbene, pur essendomi personalmente e relativamente piegato all’incedere del progresso (?), mantengo le mie opinioni molto simili a quelle del prestigioso giornalista dell’epoca. Qualche giorno fa, osservando il passeggio delle persone regolarmente incollate ai loro smartphone, mi sono chiesto: se il tempo, dedicato a tutte le chiacchiere e le informazioni inutili che transitano da questi diabolici aggeggi, fosse impiegato per leggere, studiare e dialogare seriamente sui problemi reali, la nostra società farebbe un balzo culturale in avanti.

Non l’avessi mai pensato: sono stato immediatamente smentito dalla ministra della Pubblica Istruzione, Valeria Fedeli, che ha previsto l’ammissione e l’uso in classe di questi strumenti con tutto il dibattito conseguente, tra favorevoli e contrari. Speriamo di non arrivare a un referendum in materia, per il quale mi prenoto con un colossale NO.

Perché? Fino a prova contraria a scuola ci si dovrebbe andare per imparare e per imparare bisogna concentrarsi sulle materie proposte e non girarci intorno, occorre andare a fondo, capire, memorizzare, discutere, approfondire, etc. etc.

Per raggiungere questi scopi esiste il docente che si avvale di strumenti, dai libri alle lavagne più o meno luminose. Gli smartphone servirebbero solo a bypassare gli insegnanti e a distrarre gli alunni, emarginando quindi i protagonisti e facendo dominare la scena al web, questa creatura impalpabile, sgusciante e fuorviante.

Nella mia vita professionale ho fatto in tempo ad usufruire, a livello convegnistico, della proiezione di slide, per seguire le quali rinunciavo a prendere appunti, seguendo il ragionamento del conferenziere di turno che commentava e interpretava le slide stesse. Quando a distanza di qualche tempo, rispolveravo i contenuti del convegno, non mi ricordavo più niente, sfogliavo le slide e non mi dicevano nulla, appunti non ne avevo, tutto si era volatilizzato. Gli appunti, i sani appunti, i libri, i sani libri dove erano finiti? Tra di me pensavo, se tanto mi dà tanto, agli studenti, che si formano sulla base di queste metodologie d’avanguardia, alla fine cosa rimarrà in testa.

Il tempo è passato e il problema si è ingigantito al punto da mettere in crisi la massima autorità in materia di insegnamento. È vero che ogni strumento non è buono o cattivo di per sé, ma la sua positività e utilità dipendono dall’uso che ne viene fatto, ma è altrettanto vero che non si può mettere un coltello in mano a un infante. Mio padre non voleva che mia sorella, da piccola, usasse aghi e forbici per imparare a cucire (mia madre oltretutto faceva la magliaia e poteva sovrintendere con una certa cognizione di causa): temeva che si potesse infilzare gli occhi e non era una preoccupazione assurda, un timore da matusa.

Non so se lo smartphone possa essere considerato in assoluto uno strumento pericoloso, non vorrei esagerare, ma certamente non è lo strumento ideale per frequentare al meglio le aule scolastiche. Con buona pace della ministra, dei rivenditori di smartphone e di chi pensa che il cervello (e il cuore) possa essere sostituito da una macchinetta prodigiosa. Penso di essermi spiegato anche se sono sicuro di venire conseguentemente catalogato nella categoria dei retrogradi.   Pazienza, l’età e la mentalità lo possono comportare.

 

 

P.S. Chi volesse rovistare ulteriormente su come la penso in argomento, può leggersi, spero con una certa simpatica leggerezza, quanto contenuto in questo sito alla sezione libri: “Dialogo tra un trolley ed uno smartphone – CHE STRANA GIOVENTU’…”

 

Prostituzione, spaventiamo i clienti e tutto (non) sarà risolto

Siamo alle solite: i problemi si vogliono risolvere dal fondo, come se a dipingere una parete si cominciasse dal basso e non dall’alto. È il caso della lotta alla prostituzione sulle strade, dietro cui si cela un fenomeno di sfruttamento, sarebbe meglio dire di vero e proprio schiavismo di minorenni, soprattutto immigrate, attirate in uno spietato racket dove le ragazze che restano impigliate rischiano di non liberarsi più, pena la tortura, la morte di se e dei propri famigliari in patria. Ho letto qualche tempo fa alcuni reportage sulle violenze subite da queste donne: non sono riuscito a proseguire, ho dovuto interrompere la lettura tanto era l’orrore.

Fino a qualche tempo fa si tendeva a “sputtanare le prostitute” con vere e proprie retate, in cui queste persone venivano trattate come carne da macello. E i protettori? Ben protetti e ben nascosti!

Adesso si è passati ai clienti con sanzioni pesanti e sputtananti per coloro che ricorrono a questo mercato stradale. E i protettori? Ben protetti e ben nascosti!

Non ne ho le prove, sarà, lo ammetto, un processo alle intenzioni, tutto però mi lascia credere che le forze di polizia conoscano per filo e per segno questo fenomeno, sappiano benissimo chi sono gli sfruttatori (d’altra parte non è difficile risalire ad essi), ma abbiano paura, perché in quegli ambienti non si scherza e si rischia la pelle (è mafia!) e quindi scattino comportamenti omertosi (in qualche caso addirittura complici di questo vomitevole caravanserraglio). Pensiamo se la mano dura contro i rivoltosi della politica (i no global di Genova ad esempio), la usassimo contro gli schiavisti del sesso…Certo, risulta più facile massacrare di botte un giovane ribelle, che andare dentro certi ambienti dove anche per i poliziotti la coltellata è dietro l’angolo.

L’intelligence, che in Italia sembra assai efficiente almeno rispetto agli altri paesi europei, sa tutto di tutti, si spendono somme enormi per intercettare le telefonate, si ha la netta sensazione di una schedatura di massa, bisogna stare attenti a quel che si dice perché potrebbe costare assai caro. Non mi vengano a raccontare che non si sa o non si può sapere chi siano gli schiavisti del sesso!

Allora, è più comodo colpire l’ultimo anello della catena. A parte che la prostituzione d’alto bordo o al coperto la farebbe comunque franca, non sono assolutamente d’accordo sulla criminalizzazione dei clienti. Se tutti avessero una regolare ed esemplare vita sessuale il problema non esisterebbe, ma non è così. Gli uomini non sono tutti dotati di regolari mogli e fidanzate, molti sono “costretti” ad arrangiarsi pur di trovare uno sfogo alle loro pur normali pulsioni sessuali (non giustifico, ma cerco di capire). Non facciamo del moralismo che, in questo caso, va d’accordo con semplicismo. Non facciamo come una certa Chiesa che nega l’uso del preservativo, perfino per proteggersi dall’aids, puntando tutto sulla moralizzazione dei costumi.

È così per il problema delle droghe. Non si legalizza niente, perché ci si nasconde dietro battaglie di principio e poi si riempiono le carceri di consumatori o di piccoli spacciatori. E il commercio della droga va a nozze.

Allora dobbiamo avere il coraggio di legalizzare e controllare a valle questi fenomeni, togliendo ad essi buona parte del retroterra clandestino, mentre a monte ci dobbiamo concentrare sulla lotta agli sfruttatori ed agli affaristi della droga e del sesso.

Magari non lasciando al solito e benemerito volontariato il compito di offrire occasioni di liberazione a queste ragazze, accogliendole ed aiutandole sul serio, senza pretendere da esse la vocazione al martirio.

Con tutta la simpatia per le buone intenzione del sindaco di Firenze e del ministro Minniti e pur condividendo la battaglia etica da non confondere col moralismo di facciata, mi pare che si stiano sparando cannonate alle mosche (la mobilitazione della polizia urbana per accertare le infrazioni: mi viene da ridere al pensare quante sanzioni verranno effettivamente comminate in base a prove tante risibili e contestabili), mentre agli elefanti si fa il solletico (conviene, come dicevo sopra, per scelta di comodo).

Non mi trincero dietro i luoghi comuni della prostituzione quale mestiere antico ed ineliminabile, ma non mi illudo che improvvisamente i clienti siano spariti per la paura o siano diventati stinchi di santo. Se fosse così bisognerebbe mettere la pena dell’ergastolo per ogni e qualsiasi reato, dopo di che tutti righeremmo dritti come fusi. Ma fatemi il piacere…