Gli amanti di giornata

Mio padre era solito esprimere il suo scetticismo verso il “nuovo a tutti i costi”: sceneggiava plasticamente la fuga di una donna con l’amante che l’aveva appena riscattata dalle grinfie del marito e “rapita” al nido coniugale. Ipotizzava che avrebbero cominciato a litigare scendendo le scale. «Adésa indò andemja?». «A ca méjja!». «Mo gnanca p’r insònni…». Già finito l’idillio…

Come non pensare a questo aneddoto di invenzione paterna di fronte al precario idillio tra Mdp e Campo progressista, meglio dire tra i fuorusciti del Pd capitanati (?) dal livoroso Massimo D’Alema e gli eterni insoddisfatti raggruppati e condotti da Giuliano Pisapia.

Dopo avere progettato la fuga, avvicinandosi il redde rationem, si sono immediatamente messi a litigare di brutto: prima ancora di cominciare a convivere si starebbero separando (il condizionale è d’obbligo vista la liquidità strategica della sinistra).

Qualcuno sostiene malignamente che l’ex sindaco di Milano, messo alle strette, tra la prospettiva di fare da stampella pseudo-culturale e movimentista all’ennesimo partitino di sinistra sventolato nell’aria fritta dalemiana e la possibilità di fare il ministro di un eventuale governo di centro-sinistra guidato da Matteo Renzi, stia propendendo nettamente per la seconda ipotesi. Non credo che tutto possa essere ridotto a questi minimi termini, anche se la suddetta semplificazione in chiave dorotea può essere emblematica di una scelta ben più di fondo tra il riformismo della sinistra di governo e il velleitarismo della sinistra identitaria e di   testimonianza.

Concessa a tutti la buona fede, si intravedono due diverse scappatoie. Per il movimento dei democratici progressisti fin che c’è Speranza c’è vita, nel reparto di rianimazione della sinistra vecchia e sclerotica ; per Campo progressista il discorso è diverso: fin che c’è Pisapia c’è possibilità di contare qualcosa per i movimentisti vedovi della lotte e delle masse.

I soliti osservatori qualunquisti propendono per una lettura in chiave prettamente personalistica: D’Alema odia, forse non solo politicamente, Renzi e lo vuole distruggere; Pisapia si accontenta di condizionarlo pesantemente. Un po’ di verità c’è anche in questa banale ricostruzione.

Cosa ne penserà il potenziale elettorato di sinistra di cui peraltro faccio parte? Ho seri dubbi che si entusiasmi di fronte a queste vicende e temo possa allontanarsi sdegnato e infastidito da queste irresponsabili diatribe. L’elettore di sinistra non vota più in base al richiamo della foresta, vuole vedere una prospettiva politica seria e percorribile. Lo stanno disturbando e confondendo. Possibile che i protagonisti di queste scorribande non lo capiscano? Mettendo in seria difficoltà il Pd contribuiscono a mettere in crisi l’intero sistema politico. Cosa rimane? Vota Grillo (anzi Di Maio) e poi muori.

 

 

Il crumiraggio della fame

Non mi stupisce affatto che nelle battaglie politiche, soprattutto quelle relativi ai diritti civili, venga adottato lo strumento di pressione dello sciopero della fame: dovrebbe essere l’estremo tentativo non violento per ottenere attenzione da parte dei pubblici poteri. Lasciamo stare il fatto che a questa iniziativa pacifica sia stato fatto eccessivo ricorso: i radicali, maestri in queste forme di lotta, hanno talvolta esagerato, ma sempre meglio esagerare nella protesta non violenta che (s)cadere nelle iniziative violente o nel silenzio qualunquistico.

Niente da ridire quindi che il digiuno sia entrato nell’acceso dibattito sulla concessione del diritto di cittadinanza per nascita in Italia da genitori di origine straniera, ma radicati nel nostro Paese, e per assimilazione oggettivamente comprovata della nostra cultura.

Ciò che stupisce è che lo sciopero della fame venga adottato anche da membri del Parlamento per ottenere che questo argomento venga posto in discussione e votato. Viene cioè in un certo senso capovolto il discorso: non è più solo la società civile che chiede al potere politico, ma è il potere politico che chiede a se stesso. Qualcosa non và.

È vero che nelle aule parlamentari si è visto e si vede di tutto: si mangiava a si beveva per festeggiare la caduta del governo Prodi e quindi non c’è assolutamente nulla di scandaloso se qualcuno non mangia per richiamare il parlamento ai propri compiti. La preoccupazione però si sposta a monte. Un Parlamento che non riesce ad affrontare temi riguardanti i diritti fondamentali dei cittadini , meglio dire nel caso specifico un Parlamento che non riesce a decidere chi sono i cittadini italiani, suscita non poche perplessità. In teoria potrebbe essere un motivo di scioglimento anticipato delle Camere da parte del Presidente della Repubblica: non sarebbero in grado di svolgere il loro ruolo costituzionale, imprigionate nei veti reciproci e nelle strumentalizzazioni partitiche.   Anche i Presidenti dei due rami del Parlamento non ci fanno una gran bella figura.

Non si può pretendere che questa legge venga approvata, si può però pretendere che venga discussa e votata: ognuno si prenderà le proprie responsabilità, senza nascondersi dietro motivazioni risibili o addirittura (quasi) razziste. Il vero sciopero è quello in atto da tempo con il tentativo ostruzionistico di giubilare un discorso imprescindibile di civiltà. Quindi si rischia di non capire chi fa sciopero: forse più che di sciopero si dovrebbe parlare di “crumiraggio della fame”.

È inutile e scorretto legare questo provvedimento di legge alla tenuta del governo e della maggioranza che lo sostiene: tutto è politica, ma in questo caso c’è ben più della politica.

Per cominciare quindi bisognerebbe garantire che il governo possa continuare la sua azione a prescindere dall’esito dell’esame parlamentare sul cosiddetto ius soli.

Mi sembra che questa vicenda oltre la cecità riguardante il merito dimostri la inadeguatezza di metodo e soprattutto una grave carenza a livello istituzionale. I tatticismi non dovrebbero prevalere sulla sostanza di tale questione. Chi non condivide l’allargamento del diritto di cittadinanza esca dall’equivoco della inopportunità legata al momento storico e/o la smetta di fare confusione tra diritto di cittadinanza e incoraggiamento all’immigrazione. Chi condivide questo provvedimento non lo agiti come una clava polemica verso il governo e il Pd, ma lo appoggi convintamente senza farlo rientrare nella gara per verificare chi è più o meno di sinistra.

Attenzione quindi. Se lo sciopero della fame potesse servire a sgombrare il campo dagli equivoci, sarebbe il benvenuto; se invece serve solo a fare propaganda e finisce col dare alla controparte pretesti per irridere alla battaglia politica o, ancor peggio, per “svaccare” indirettamente il problema, meglio lasciar perdere.

 

 

Angeli e demoni

Nemo propheta in patria. Vale sempre e comunque. Basti pensare che in questi giorni il disegnatore satirico non credente Sergio Staino ha iniziato a pubblicare sue strisce intitolate “Hello Jesus” su Avvenire, il quotidiano cattolico per eccellenza. Presentando questa sua decisione ha dichiarato: «Sono stato sessantottino, figlio dei fiori, contro la famiglia: ma non mi toccate Gesù…». Di papa Francesco dice: «Trovo che quest’uomo sia per il mondo una boccata di ossigeno».

Ma non è finita qui: il giornale comunista “Il manifesto”offre ai suoi lettori un volume inedito con tre discorsi di papa Francesco. La direttrice di questo quotidiano, commentando l’iniziativa, afferma di voler portare ai lettori la semplicità delle parole del Papa col quale riscontra una forte sintonia sulle politiche migratorie e per le cui parole ammette di nutrire forte interesse soprattutto in materia di rapporti fra etica e politica.

Non c’è alcun dubbio che papa Bergoglio abbia sparigliato i giochi tradizionali e sappia portare la Chiesa a dialogare a trecentosessanta gradi. Vorrà dire che, stanco della supponenza culturale e della smania tuttologa ed egemonica de “La repubblica”, proverò a leggere criticamente “Avvenire” (lo sto facendo da tempo) e “Il manifesto” (l’ho fatto solo qualche volta).

Questi superamenti incrociati di tabù avvengono in nome di una sensibilità comune su temi come la giustizia sociale, l’ambiente, il diritto alla casa, il diritto a un lavoro dignitoso, l’accoglienza agli immigrati.

D’altra parte racconta Staino come quando incontrava padre Ernesto Balducci, un autorevole teologo, suo amico e conterraneo, si sentisse dire: «Guarda, Sergio, che tu in fondo sei più credente di me».

Norma Rangeri, direttrice del Manifesto, aggiunge a commento delle aperture verso il pensiero di Bergoglio: «Il Papa parla di incontro fra le persone. In una fase post-ideologica come questa mi sembra la strada giusta per ridisegnare una convivenza diversa».

I radicali offrono al Papa la loro tessera: quelli che venivano considerati dei mangiapreti vogliono dialogare ed incontrarsi con una Chiesa sdoganata e sdogmatizzata. Credo sia un bel segno dei tempi.

Alcuni storcono il naso, esprimono perplessità, imbarazzo verso certi atei critici e collocati politicamente a sinistra, mentre   gli atei cosiddetti devoti, vale a dire proni alla Chiesa istituzione e collocati politicamente a destra vanno benone e vengono da tempo ospitati persino nei templi ad illustrare le loro teorie. Una storia vecchia come il cucco.

Fin qui il rapporto con i non credenti, che da sempre divide i cattolici. Ma si è aperta una polemica anche in casa, vale a dire sull’uso improprio delle chiese, dopo che a Bologna in San Petronio il papa ha pranzato con una folta rappresentanza di persone in difficoltà economiche e sociali. Qualcuno ha gridato alla profanazione del tempio, allo sgarbo fatto all’Eucaristia e roba del genere. Se il Papa trova insperata attenzione dai non credenti, sta incontrando ostilità e critiche da parte dei credenti. Ci può anche stare: nemo propheta in patria… Alcuni sono andati a scomodare i sacri canoni: la religione delle regole, della forma, del quieto vivere.

Sergio Staino dice ironicamente riguardo alla sua fanciullezza: «Ero un bambino che si voltava di scatto, sperando di vedere l’angelo custode…». Ebbene ci sono molti adulti che si voltano di scatto e sono convinti di vedere il demonio…

Non studio, governo ladro

Dopo essermi brillantemente diplomato in ragioneria, per cogliere l’acqua in tanto che correva e per rispondere alle esigenze economiche familiari, decisi di provare ad iniziare l’attività lavorativa cercando di combinarla con la prosecuzione degli studi a livello universitario. Ci provai con tutte le più buone intenzioni, agevolato dall’orario di lavoro continuato che mi consentiva di frequentare le lezioni mattutine o pomeridiane all’università.

Così feci anche quel mattino del febbraio 1969: verso mezzogiorno dovetti abbandonare l’aula di gran fretta per tornare a casa, mangiare un boccone in solitario e recarmi nel centro elaborazione dati della Barilla Spa dove assolvere al mio turno di lavoro pomeridiano (dalle tredici alle ventuno). Durante il breve e frugale pasto scoppiai a piangere: ero stressato da alcuni mesi di attività frenetica, avevo sommato il noviziato sul lavoro a quello universitario, ero stato costretto ad abbandonare le amicizie scolastiche, ero decisamente teso e cominciavo a dubitare seriamente di poter sostenere tali ritmi col rischio di interrompere gli studi o di allungarli in un interminabile e stiracchiato curriculum.

Mia madre, che mi aveva preparato il pasto, rimase abbastanza sorpresa, ma mi tranquillizzò sdrammatizzando la situazione pur capendo perfettamente le difficoltà del momento.

Non azzardò giudizi o consigli, riuscì con molta dolcezza a calmarmi, non approfondì le questioni, lasciandomi intuire di non voler interferire in decisioni che mi spettavano e per le quali ero in grado di vagliare tutti gli elementi in mio possesso, da quelli economici a quelli professionali, da quelli umani a quelli culturali.

Come mio solito optai per una decisione rapida, radicale, coraggiosa al limite dell’irresponsabile. Mi recai in ufficio, mi sedetti nell’anticamera del capo-centro, fui ricevuto da lui e rassegnai le dimissioni.

Ne parlai con mia madre che la accettò magari senza condividerla, la comunicò a mio padre che si rassegnò a lavorare alacremente per altri quattro anni, fece da cuscinetto rispettando la mia autonomia decisionale. Ricordo che non ritornò mai sull’argomento, non recriminò, non mi fece mai pesare il sacrificio conseguente alla decisione, continuò a contenere l’atteggiamento di mio padre, da quel giorno più intransigente, ebbe fiducia in me, senza se e senza ma. Per fortuna tutto andò per il meglio ed arrivai lestamente alla laurea anche per merito di mia madre, meravigliosa nella sua semplicità e riservatezza.

Perché ho ripreso questo raccontino ( vedi libro La tela di Lavinia in ricordo della vita di mia madre)? In esso credo vi sia la risposta al gran parlare sulle poche lauree e sul loro scarso livello qualitativo relativamente ai giovani italiani: in estrema sintesi, in pochi raggiungono la laurea, spesso sbagliano laurea rispetto alle loro capacità e alle aspettative del mercato del lavoro, altrettanto spesso alla laurea non corrisponde il giusto livello di preparazione.

Nella vita i risultati si ottengono con impegno e sofferenza: molti giovani prendono sotto gamba la scuola, in questo malauguratamente supportati dalle famiglie che tendono a difenderli anche in caso di profitto deficitario (gli insegnanti hanno sempre torto, le colpe sono sempre della scuola che non aiuta); la scelta a livello universitario viene fatta alla leggera, sovente sulla scia dei miraggi mediatici, prescindendo magari dalle proprie attitudini e soprattutto ignorando gli andamenti occupazionali (psicologi, sociologi, giornalisti etc., tutte facoltà inflazionate in conseguenza dell’appeal televisivo di queste professioni); l’impegno studentesco a livello di corsi di laurea è più goliardico che serio e le famiglie sopportano sacrifici non adeguatamente corrisposti (se avessi studiato con i ritmi e l’intensità di molti giovani odierni, mio padre non avrebbe esitato a tagliarmi i fondi e a mettermi di fronte alle mie responsabilità) .

Per onestà intellettuale bisogna ammettere che solo dopo aver confessato questi limiti e difetti si può parlare di carenze nella struttura scolastica e nella società, pur presenti e da rimuovere con adeguate riforme: non tutte le famiglie si possono infatti permettere di sostenere gli studi avanzati dei loro figli e l’università evidenzia parecchie lacune a livello didattico, scientifico ed organizzativo.

Poi in fondo al percorso arriva la doccia fredda della scarsa domanda di lavoro da parte delle imprese o della domanda che non trova riscontro nella preparazione degli studenti: insomma il lavoro scarseggia e dove c’è non si è in grado di svolgerlo.

Non si può chiudere il discorso con la solita lamentazione: manca il lavoro per i giovani, governo ladro. Bisogna che tutti i protagonisti facciano bene la loro parte e la soffrano sulla propria pelle. A cominciare dagli studenti e dalle loro famiglie.   A casa mia funzionò così. Altri tempi, si dirà. Altro spirito di sacrificio, aggiungo io.

 

Ubi Di Maio, democrazia cessat

Mio padre, dall’alto del suo sano e genuino scetticismo politico, raccontava spesso la barzelletta del comizio onnicomprensivo: «Faremo questo, vi daremo quest’altro…». «E l’afta epizootica?» chiede un preoccupato agricoltore. «Vi daremo anche quella!».

I politici, in vena di campagna elettorale scoordinata e continuativa, cadono spesso e volentieri in questo approccio, che, oltretutto, ormai non incanta più nessuno. Luigi Di Maio, rappresentante ufficiale dell’anti-politica, dopo essersi insediato nella candidatura pentastellata a premier, non ha resistito alla tentazione ed ha cominciato a girare in lungo e in largo la penisola promettendo novità a destra e manca, ultima la riforma del sindacato dei lavoratori. Forse farebbe meglio a dichiarare una volta per tutte che vuole cambiare “tutto”: otterrebbe ancor più attenzione e consenso. Ci sarebbe però un allarmato cittadino che potrebbe chiedere: «E la democrazia?». «Cambieremo anche quella!».

In effetti tra una sparata populistica e l’altra, fra una consultazione informatica e l’altra, la democrazia nel disegno grillino sta cambiando (perdendo) la faccia. Il Parlamento serve solo quale cassa di risonanza delle proteste, il governo sarà il trampolino di lancio dei personaggi vicini al movimento, la magistratura indosserà il grembiule della “donna di servizio” per pulire la nazione e via discorrendo. Il Presidente della Repubblica andrà a lezione di democrazia da Di Maio (la scuola è già cominciata). E il sindacato? O si auto-riforma o lo riformiamo noi!

Intendiamoci bene, non voglio dire che i lavoratori siano rappresentati e guidati al meglio: il sindacato continua ad essere combattuto tra la tentazione dell’invasione del campo politico e quella del corporativismo o meglio della mera difesa dei diritti conquistati. L’autonomia dalla politica mostra le sue contraddizioni e la spinta riformista nel disegnare il ruolo del lavoro nella società moderna lascia alquanto a desiderare. In democrazia nessuno è intoccabile, ma risulta molto pericoloso un disegno che, dopo aver bypassato i partiti, sottovaluta le cosiddette forze intermedie per privilegiare il rapporto diretto fra governanti e governati, sostituendo o integrando la piazza col web. Ed ecco fatta la riforma costituzionale. Se non è populismo questo…

Non credo che il disegno grillino, se esiste, possa camminare sulle gambe di Luigi Di Maio, ma picchia oggi, picchia domani, la confusione aumenta e il bambino può finire nella fogna assieme all’acqua sporca.

Ho inizialmente riconosciuto al movimento cinque stelle e al suo vero leader il merito di avere incanalato e rappresentato una protesta che poteva degenerare ed assumere toni eversivi. Strada facendo il discorso tende però a capovolgersi e ad alimentare la protesta fine a se stessa.

Ricordo un colorito episodio della mia modesta vita politica. Partecipavo ad un convegno ed il relativo dibattito era fastidiosamente appiattito sulla conservazione dello status quo. Ero seduto vicino ad un caro e battagliero amico e lo istigai ad intervenire sfoderando la sua vis polemica: «Vai e tira giù» gli continuavo a dire. Ad un certo punto si convinse, chiese la parola e fece un intervento pazzesco, al punto che mi trovai costretto ad urlargli dietro ed a contestarlo apertamente dalla platea. Lui mi guardava esterrefatto, non capiva cosa fosse successo, io gridavo contro di lui perché stava dicendo cose inaccettabili. Lo stesso presidente dell’assemblea fu costretto ad intervenire, invitandolo alla calma ed a tenere un linguaggio corretto: «Chi conosce la tua spinta protestataria può anche capire, ma chi non ti conosce penserà che siamo una manica di ladri da abbattere senza pietà…».

Sta succedendo più o meno così con i grillini. Forse Grillo lo ha capito e si è in parte defilato. Sta aizzando Di Maio? Non vorrei che ad un certo punto si mettesse a sbraitare contro di lui. Sarebbe il massimo: l’auto-populismo all’attacco della democrazia.

 

 

 

 

Adésa vag a ca, ansi cag vaga chiätor

Durante la mia bella e stimolante esperienza di componente della commissione teatrale del Regio di Parma, un autorevole e titolato collega mi metteva in crisi con la sua professionalità e mi stupiva per il distacco con cui viveva gli eventi musicali: con i suoi atteggiamenti sembrava sempre ribadire la superiorità della musica nella sua assolutezza artistica rispetto alla relatività delle pur apprezzabili esecuzioni sinfoniche e operistiche.

Sul più bello di infuocate riunioni o di interessanti rappresentazioni, si alzava in piedi, si vestiva di tutto punto (cappello compreso) e sorprendeva tutti con un lapidario “Adésa vag a ca…”. Una volta a richiesta spiegò come il motivo fosse il suo impegno antelucano di studio che gli imponeva di addormentarsi presto per essere appunto in grado di affrontare questo giornaliero preludio alla sua normale attività professionale in campo musicale. Non c’era verso di trattenerlo. Lo ammiravo per questa sua dedizione alla musica vera mentre io mi “distraevo” con la musica in teatro. Nei suoi gesti e nelle sue scelte non c’era niente di presuntuoso o di polemico, non intendeva prendeva le distanze dalle scelte operate dalla commissione ai cui lavori partecipava sempre, né pensava di snobbare gli spettacoli del Regio a cui non mancava mai: si teneva solo questo spazio di autonomia, quasi un ticket da pagare a chi la musica la componeva, rispetto a chi la eseguiva.

Mi è venuto spontaneo fare uno strano parallelismo tra l’autentico purismo di questo musicista e il purismo tattico di certi politici di sinistra, che nei momenti topici del dibattito e dello scontro si alzano in piedi e se ne vanno sbattendo la porta e gridando “Vag a fär un partì”. Il mattino dopo non si alzano presto per studiare, ma brigano per attaccare il gruppo a cui appartengono e per costituirne uno nuovo. Mentre in passato queste storiche frizioni e frazioni della sinistra erano giustificate da questioni ideologiche (massimalismo-riformismo; oriente-occidente; governo-opposizione) oggi sono caratterizzate da calcoli contingenti e strumentali (job’s act sì o no; Renzi sì o no; coalizioni sì o no). Quando uno non è d’accordo si alza, se ne va e fa un nuovo partito: i motivi e una manciata di voti si trovano sempre.

Poi magari di partitini ne fanno tre o quattro, si mettono a litigare fra di loro, dividono e disorientano l’elettorato di sinistra, fanno vincere la destra, ma il loro onore è salvo. Se durante la Resistenza al fascismo e all’indomani della caduta del regime i politici di sinistra fossero stati altrettanto radicali, avremmo ancora la monarchia e la Costituzione sarebbe di là da venire.

La politica è l’arte del compromesso ai più alti livelli possibili e non quella di segnare il proprio territorio come fanno i gatti. Superato definitivamente il bivio vocazionale sinistra di lotta-sinistra di governo, bisogna discutere di contenuti in un partito largo, plurale, aperto e innovativo, senza incaponirsi in questioni identitarie farlocche e senza difendere burocraticamente il passato che non torna più. Nella bagarre dalemian-bersanian-pisapiana vedo questo arroccamento sentimentaloide a parole, di potere nei fatti, che di politico ha ben poco. Il partito democratico è contendibile dall’interno e non sputtanabile dall’esterno. Renzi non sarà quel carismatico leader che occorrerebbe, ma nemmeno un disertore o un traditore. La linea politica può essere ampiamente discussa e migliorata. La classe dirigente può essere tranquillamente riverificata e aggiornata. Tutto ciò non autorizza nessuno ad alzarsi in piedi, a vestirsi di tutto punto (cappello compreso) e a gridare “Adésa vag a ca…”. Anche perché questi signori non vanno mai a casa e vogliono solo mandarci gli altri.

 

 

La violenza è sempre terroristica

Mia madre così come era rigorosa ed implacabile con il comportamento degli anziani -affidava loro una grossa responsabilità a livello educativo – era portata a cercare di comprendere i comportamenti delinquenziali, commentando laconicamente: “Jén dil tésti mati”. Qui mio padre, in un simpatico gioco delle parti, ricopriva il ruolo di intransigente accusatore: “J én miga mat, parchè primma äd där ‘na cortläda i guärdon se ‘l cortél al taja. Sät chi è mat? Col che l’ ätor di l’ à magnè dez scatli äd lustor. Col l’ é mat!”.

Mia madre opterebbe per la pazzia dell’autore della strage di Las Vegas (una sessantina di morti e oltre cinquecento feriti tra i partecipanti ad un evento musicale), mentre sono sicuro che mio padre insisterebbe sulla sua teoria del “lucido da scarpe”. La gratuità del gesto e l’epilogo suicida fanno effettivamente propendere per un episodio di pura follia, mentre l’enorme dotazione bellica, la   meticolosa organizzazione e la precisione di mira spingono ad ipotizzare un atto di criminalità.

Se è pazzia, gli americani devono fare i conti con la loro follia di consentire a un folle il possesso di un vero e proprio arsenale militare: la storia degli Stati Uniti è ricca di episodi di questo genere anche se questa volta si è battuto ogni macabro record. È vero che il proibizionismo delle armi non garantirebbe la società da questi episodi di violenza, ma consentire un facile accesso alle armi non è comunque il miglior antidoto alla violenza di qualsiasi tipo essa possa essere. Finora, lo sanno tutti, hanno prevalso gli interessi di un’industria fiorente, quella delle armi: è così negli Stati Uniti ed è purtroppo così in tutto il mondo. La fabbricazione, il commercio, l’uso delle armi sono l’indiscutibile presupposto di ogni forma di guerra.

La follia quand’è che diventa vera e propria criminalità? Quando risponde ad un disegno interessato di eliminazione del proprio simile. Il disegno può riguardare il potere, il denaro, il sesso, la vendetta, la politica, la religione, la razza. In questa fase storica siamo portati a ricondurre ogni e qualsiasi violenza al terrorismo e segnatamente al terrorismo islamico. Dopo qualsiasi fatto di sangue a valenza sociale ci poniamo lo stucchevole ed esorcizzante quesito: sarà terrorismo islamico? E anche questo è un risultato a cui punta la strategia dell’Isis e c.

Tornando all’episodio sconvolgente e choccante di Las Vegas, è sicuramente un atto fondato sul terrore: terrorismo psicologico e/o politico-religioso? Forse, tutto sommato, sono le due facce di una stessa medaglia: la violenza fatta sistema che coinvolge tutti gli aspetti della nostra vita.

Alla base di qualsiasi atto delinquenziale c’è sempre qualcosa di folle (aveva pienamente ragione mia madre), ma è altrettanto vero che la violenza è sempre criminale (quindi, in un certo senso, aveva ragione anche mio padre). Da riconoscente figlio tendo a sintetizzare ed attualizzare gli insegnamenti famigliari.

L’unica paradossale risposta è la non-violenza, senza se e senza ma. Difficilissimo attuarla a tutti i livelli. Fin dove può spingersi infatti la legittima difesa a livello individuale e collettivo? Quando la difesa diventa armata tendo a considerarla illegittima. L’uso delle armi anche da parte delle forze di polizia non risolve i conflitti, ma li accende ed oltre tutto espone i poliziotti a rischi enormi.

Di fronte ai continui attacchi tendiamo a pensare che sia risolutivo controllare, schedare, infiltrare, bloccare, sparare, bombardare, etc. etc. Sì, in teoria tutto può fare brodo. Ma non ne usciamo. Gli Usa di Trump ci stanno trascinando in una deriva guerrafondaia spaventosa: non è certo colpa di Trump la carneficina di Las Vegas, ma non è certo con le sue politiche che si combatte la violenza. Vale per Trump e vale per ognuno di noi.

 

 

 

Il naso della Catalogna

Devo confessare che faccio fatica, in un mondo globalizzato come l’attuale, a comprendere le ragioni dei separatisti della Catalogna e, in generale, di tutti i separatisti. Solo dove l’indipendenza riguarda la lotta alla discriminazione e alla mancanza dei diritti fondamentali, civili, religiosi e politici, capisco e condivido queste spinte (è il caso dei Curdi e di altre popolazioni represse).

Dove la democrazia garantisce il rispetto delle minoranze, dove addirittura vigono sistemi piuttosto avanzati di autonomia regionale, temo che sulle pulsioni separatiste soffi il vento della protesta generale e l’illusione di risolvere meglio i propri problemi chiudendosi, egoisticamente e irrazionalmente, nel particolare.

Certo sarebbe più che auspicabile che questi conflitti fossero affrontati e risolti nella ragionevolezza diplomatica piuttosto che con la forza della polizia, anche perché, reprimendo questi moti indipendentisti, si alimenta ulteriormente la smania di queste popolazioni e si lascia covare sotto la cenere un fuoco che prima o poi sprigionerà fiamme ancor più alte e pericolose.

Mi fermo qui, non ho infatti conoscenze sufficienti per approfondire storia e cultura che possono sottendere a questi fenomeni, anche se vale il discorso di fondo, forse un poo’ semplicistico, che sia molto meglio unire le forze piuttosto che separare le debolezze.

Voglio invece soffermarmi un attimo sulle reazioni politiche italiane agli scontri della Catalogna.

I cinque stelle naturalmente dove sentono odore di protesta si buttano a pesce e quindi che i grillini sostengano i separatisti catalani è quasi scontato. Anche il Pd ha assunto un atteggiamento in linea con la sua impostazione politica: una morbida ricerca di compromesso etico-storico tra Spagna e Catalogna, tra unità nazionale e autonomia regionale con la benedizione europea e le polizie possibilmente relegate in caserma.

Fa invece scalpore la divergenza clamorosa all’interno del centro-destra. Mentre Fratelli d’Italia diventa, nel caso, Fratelli di Spagna e non ammette alcuna discussione sull’unità nazionale spagnola, la Lega di Salvini – peraltro senza esagerare e nascondendosi dietro i referendum promossi dalle regioni Lombardia e Veneto per rafforzare la loro autonomia (separatismo da operetta) – chiede il rispetto della volontà popolare e quindi delle aspirazioni indipendentiste dei Catalani (una sorta di revival bossiano e di ritorno ai bei tempi della Lega Nord). Forza Italia tenta di mediare “l’immediabile” e questo non costituisce una novità rilevante.

Non so tuttavia come si possa stare con la difesa oltranzistica spagnola strizzando l’occhio all’indipendentismo catalano: mistero della fede destrorsa. Se la vedranno gli elettori orientati in tal senso. Resta la pochezza tattica della politica nostrana. Ogni occasione è buona per non guardare oltre il proprio naso.

 

Papa Francesco tra fischi teologici e finti applausi

L’unico personaggio sulla scena italiana e mondiale che fa vera notizia e tendenza è papa Francesco. Non manca giorno in cui i suoi pronunciamenti non tocchino nel vivo della carne politica oltre che religiosa, soprattutto sulle tre questioni che dominano la scena, vale a dire la buona politica, la buona accoglienza e il buon lavoro.

Durante i suoi ultimi viaggi a Cesena e Bologna ha fatto affermazioni rilevanti sulla politica che non deve essere asservita alle ambizioni individuali o alla prepotenza di fazioni o centri di interesse e che non deve essere né serva né padrona, ma amica e collaboratrice, non paurosa o avventata, ma responsabile e quindi coraggiosa e prudente allo stesso tempo, che deve far crescere il coinvolgimento delle persone, la loro progressiva inclusione e partecipazione, che non lasci ai margini alcune categorie e non saccheggi e inquini le risorse naturali. Ha tracciato un vero e proprio identikit etico dell’uomo politico: un “martire” del servizio, perché lascia   le proprie idee, per metterle al servizio del bene comune.

Sul discorso economico ha chiesto la relativizzazione del profitto ed ha richiamato il “Patto per il Lavoro” sottolineando l’importanza del dialogo e l’indispensabilità del welfare.

Ha insistito poi sulla necessità che un numero maggiore di Paesi, con acuta visione e grande determinazione, adotti programmi di sostegno privato e comunitario all’accoglienza e apra corridoi umanitari per i rifugiati, per i migranti definiti “lottatori di speranza”, che devono aprirsi alla cultura e alle leggi dei Paesi ospitanti.

Sarebbe interessante aprire il dibattito sui contenuti dell’azione pastorale di Francesco, non per fare da cassa di risonanza ai reazionari (cercano la rissa teologica), non per solidarizzare col papa (ha ben altri ed autorevoli avvocati difensori che siedono alla destra del Padre), ma per scendere dalla superficialità dell’applauso facile alla concretezza dell’adesione difficile. Non mi interessa più di tanto cosa scrive Avvenire, arrivo a sottovalutare persino le pur importanti posizioni episcopali, sarei curioso invece di capire cosa ne pensa la periferia cristiana. Non so nelle altre diocesi, ma a Parma, come al solito, tutto tace. Vige un regime di piatto e silenzioso conformismo. A cosa? Non sarà il momento, prima che sia troppo tardi, di   prendere posizione a parole e soprattutto in opere? Non chiedo un referendum con un sì o un no a papa Francesco. Peraltro mi sembra sbagliato far dipendere la Chiesa dalle labbra del pontefice. Tuttavia i suoi pressanti inviti non possono lasciare indifferenti, così come non si possono passare sotto silenzio certe cazzate teologiche a lui ostili, non si possono tenere atteggiamenti ambigui del tipo “il papa ha ragione, ma gli immigrati…” e nemmeno applaudire asetticamente con adesioni teoriche che lasciano il tempo che trovano.

Lasciamo stare un attimo le questioni sessuali che oltretutto da sempre fanno da paravento alla conservazione sociale: oggi è il turno degli immigrati. Il papa li difende troppo e dà fastidio. Lo ius soli sta diventando un banco di prova anche per il Vaticano e sta finalmente scoprendo gli altarini di certe strumentali vicinanze politiche. Credo che la popolarità di Francesco sia a rischio in tutti i sensi, ma lui non deve mollare. Va benissimo pregare per lui, ma aiutiamolo anche con i fatti: della serie “aiutati che papa Francesco ti aiuta”.

Cinque stelle e cinquanta voti

Volenti o nolenti le prospettive della politica italiana passano anche dal movimento cinque stelle: parecchi Italiani, disperati e schifati, sarebbero propensi a dare fiducia a questo movimento in vista delle prossime elezioni per il Parlamento. I pentastellati sfruttano una serie di contingenze a loro favorevoli, direi soprattutto tre fattori: la crisi economica che inasprisce gli animi, la corruzione che squalifica i partiti, gli immigrati che mettono a repentaglio gli equilibri sociali.

Su questi punti i grillini (continuo a chiamarli così nonostante Di Maio) non hanno proposte, si fermano alla protesta, e, se le hanno, esse si limitano ad aspetti marginali che fanno solo scalpore. Sull’economia puntano sul reddito di cittadinanza, che è un atto di sostanziale impotenza: garantiamo a tutti un minimo vitale, cioè fermiamo l’alluvione a valle, una non soluzione del problema che però ha il suo populistico effetto.

Per quanto concerne la lotta alla corruzione vogliono imporre la cura dimagrante ai partiti ed ai loro rappresentanti: un po’ come combattere un conclamato tumore con una dieta ferrea. Non è indebolendo la politica che si allontana la tentazione della corruzione, anzi solo una politica forte ed autonoma riuscirà a recidere i legami con le mafie e l’affarismo. Abbattere gli stipendi e le pensioni dei parlamentari crea tuttavia un certo superficiale consenso elettorale.

Venendo agli immigrati le cose si complicano. Su tale complessa problematica i cinque stelle ondeggiano e strizzano l’occhio ora agli uni ora agli altri: sono passati dall’eliminazione del reato di clandestinità al suo mantenimento; sullo ius soli fanno gli apertoni mentre sulle ong fanno i rigoristi, il privato sociale non sanno nemmeno cosa sia, si limitano a censurare quel che fanno gli altri e dimostrano di non avere nessuna visuale complessiva e di dare un colpo al cerchio ed una alla botte. Questa tattica consente loro di rincorrere le proteste del momento e di catturare episodici consensi.

Prima o dopo la gente passerà dalla pura protesta al bisogno di soluzioni concrete e allora il risveglio grillino sarà piuttosto sgradevole. Sì, perché si è già capito perfettamente che alla prova dei fatti concreti amministrativi il movimento 5 stelle si rivela totalmente incapace di gestire e di innovare. Roma ne è un esempio sempre più clamoroso: Virginia Raggi è la finale prova del nove che non torna.

Di fronte ai flop comunali ci si rifugia nelle cantine del web, dove si illude la gente di contare qualche cosa. Trentamila voti su trentasettemila votanti hanno incoronato candidato premier Luigi Di Maio. Quando mi candidai a consigliere comunale di Parma, nel lontano 1975, occorrevano migliaia di preferenze per sedersi sui banchi municipali. Allora si faceva incetta di preferenze con metodi non sempre cristallini, ma non si vorrà dimostrare che sia vera democrazia quella dell’odierno metodo adottato per la scelta del leader pentastellato.

Il loro acerrimo nemico Pd ha eletto il suo segretario con quasi due milioni di votanti. Qualcuno diceva che i voti non si contano, ma si pesano. Ebbene allora bisogna ritenere che i voti per Di Maio siano molto pesanti, ogni voto ne varrebbe oltre cinquanta: questo sarebbe il moltiplicatore grillino, il fattore G come Grillo.

Se fossi giovane e un tantino spregiudicato, potrei provarci. Nel 1975 ottenni 720 preferenze: applicando il suddetto calcolo arriverei a 36.000 voti e batterei Di Maio. Ho sbagliato epoca per fare carriera politica. Sempre meglio che sbagliare politica per fare epoca.