Cinque stelle e cinquanta voti

Volenti o nolenti le prospettive della politica italiana passano anche dal movimento cinque stelle: parecchi Italiani, disperati e schifati, sarebbero propensi a dare fiducia a questo movimento in vista delle prossime elezioni per il Parlamento. I pentastellati sfruttano una serie di contingenze a loro favorevoli, direi soprattutto tre fattori: la crisi economica che inasprisce gli animi, la corruzione che squalifica i partiti, gli immigrati che mettono a repentaglio gli equilibri sociali.

Su questi punti i grillini (continuo a chiamarli così nonostante Di Maio) non hanno proposte, si fermano alla protesta, e, se le hanno, esse si limitano ad aspetti marginali che fanno solo scalpore. Sull’economia puntano sul reddito di cittadinanza, che è un atto di sostanziale impotenza: garantiamo a tutti un minimo vitale, cioè fermiamo l’alluvione a valle, una non soluzione del problema che però ha il suo populistico effetto.

Per quanto concerne la lotta alla corruzione vogliono imporre la cura dimagrante ai partiti ed ai loro rappresentanti: un po’ come combattere un conclamato tumore con una dieta ferrea. Non è indebolendo la politica che si allontana la tentazione della corruzione, anzi solo una politica forte ed autonoma riuscirà a recidere i legami con le mafie e l’affarismo. Abbattere gli stipendi e le pensioni dei parlamentari crea tuttavia un certo superficiale consenso elettorale.

Venendo agli immigrati le cose si complicano. Su tale complessa problematica i cinque stelle ondeggiano e strizzano l’occhio ora agli uni ora agli altri: sono passati dall’eliminazione del reato di clandestinità al suo mantenimento; sullo ius soli fanno gli apertoni mentre sulle ong fanno i rigoristi, il privato sociale non sanno nemmeno cosa sia, si limitano a censurare quel che fanno gli altri e dimostrano di non avere nessuna visuale complessiva e di dare un colpo al cerchio ed una alla botte. Questa tattica consente loro di rincorrere le proteste del momento e di catturare episodici consensi.

Prima o dopo la gente passerà dalla pura protesta al bisogno di soluzioni concrete e allora il risveglio grillino sarà piuttosto sgradevole. Sì, perché si è già capito perfettamente che alla prova dei fatti concreti amministrativi il movimento 5 stelle si rivela totalmente incapace di gestire e di innovare. Roma ne è un esempio sempre più clamoroso: Virginia Raggi è la finale prova del nove che non torna.

Di fronte ai flop comunali ci si rifugia nelle cantine del web, dove si illude la gente di contare qualche cosa. Trentamila voti su trentasettemila votanti hanno incoronato candidato premier Luigi Di Maio. Quando mi candidai a consigliere comunale di Parma, nel lontano 1975, occorrevano migliaia di preferenze per sedersi sui banchi municipali. Allora si faceva incetta di preferenze con metodi non sempre cristallini, ma non si vorrà dimostrare che sia vera democrazia quella dell’odierno metodo adottato per la scelta del leader pentastellato.

Il loro acerrimo nemico Pd ha eletto il suo segretario con quasi due milioni di votanti. Qualcuno diceva che i voti non si contano, ma si pesano. Ebbene allora bisogna ritenere che i voti per Di Maio siano molto pesanti, ogni voto ne varrebbe oltre cinquanta: questo sarebbe il moltiplicatore grillino, il fattore G come Grillo.

Se fossi giovane e un tantino spregiudicato, potrei provarci. Nel 1975 ottenni 720 preferenze: applicando il suddetto calcolo arriverei a 36.000 voti e batterei Di Maio. Ho sbagliato epoca per fare carriera politica. Sempre meglio che sbagliare politica per fare epoca.