Essere o non essere…populisti

Se populismo vuol dire filo diretto con le pulsioni della gente senza alcuna mediazione politica, per battere il populismo non si devono ignorare aprioristicamente tali pulsioni per arroccarsi a difesa oltranzistica del sistema politico-istituzionale. Questo è il miglior assist al populismo stesso.

Non è sempre vero che il più bel tacer non sia mai stato scritto, a volte bisogna parlare anche a rischio di portare acqua al mulino della protesta fine a se stessa: occultare od ovattare la verità non aiuta a contrastare coloro che vogliono sempre andare oltre la verità apparente.

Sono le spontanee riflessioni maturate a latere della diatriba sulla Banca d’Italia ed il suo Governatore: chi osa criticare è immediatamente considerato un populista, autentico (M5S) oppure scimmiottante (Pd di Matteo Renzi). Qualcuno, all’indomani dello “sgarbato” documento di analisi critica sul ruolo della Banca d’Italia, ha ipotizzato l’esistenza in Italia di tre populismi: quello leghista di stampo squisitamente razzista, quello movimentista di contestazione globale al sistema, quello renziano di pura rincorsa ai due precedenti. Tutti o quasi tutti populisti.

Voglio fare un’imbarazzante confessione: di fronte alla superflua e stucchevole difesa d’ufficio nei confronti di Ignazio Visco (Santo quasi subito in risposta a chi vorrebbe demonizzarlo), mi sono detto che, se andiamo avanti così, per esprimere una posizione critica (il sale della democrazia) sarò costretto a votare Beppe Grillo. Se la critica a ciò che non funziona la lasciamo ai populisti per il timore di essere considerati tali, rischiamo di legittimarli quale unica forza di cambiamento: da una parte lega e cinque stelle all’attacco, dall’altra i benpensanti in difesa.

Il partito democratico viene messo su una snervante graticola alimentata dal fuoco purificatore del sinistrismo di lotta e smorzata dalle secchiate di acqua gelida del moralismo istituzionale. Paradossalmente c’è persino chi recita alternativamente le due parti in commedia: un giorno con il sindacato in piazza, l’altro con la Banca d’Italia nel palazzo.

Mio padre, con la sua abituale verve ironica, così sintetizzava lo scontro fra generazioni: «Quand j’éra giovvon a säve i véc’, adésa ch’a són véc’ a sa i giovvon…». Intendeva sdrammatizzare gli insopportabili schemi sociologici, che ci assillano con le loro sistematiche elaborazioni dell’ovvio. D’altra parte è come nella vita di coppia. Quando in una famiglia regna un clima di tensione, chi ha il coraggio di parlare si espone per ciò stesso al rischio di sbagliare: qualsiasi cosa dica si troverà contro un po’ tutti. Quando non c’è un fondamento di rispetto reciproco, qualsiasi parola è fuori luogo. Meglio tacere e non fare nulla. È quanto, in fin dei conti, molti “falsi criticoni” desiderano ardentemente. Mi sembra la migliore similitudine applicabile al dubbio amletico piddino.

 

 

I sindaci fanno anticamera in procura

Che i sindaci in Italia abbiano troppi poteri è innegabile, che siano degli incompetenti è spesso vero, sul fatto che commettano reati a raffica mi permetto di avere qualche serio dubbio. Le incertezze di cui sopra valgono a prescindere dall’appartenenza partitica dei sindaci stessi.

Effettivamente i primi cittadini provenienti dalle fila del movimento cinque stelle stanno facendo incetta di avvisi di reato (l’abuso d’ufficio è il più gettonato), ultima Chiara Appendino, sindaco di Torino. Non mi iscrivo però alla schiera di coloro che vogliono “smerdare” tutto e tutti, compresi i grillini o grilloparlantini come dir si voglia.

Sono sostanzialmente tre, a mio avviso, i motivi relativi a questa continuativa valanga che sommerge i sindaci italiani. Innanzitutto l’eccesso di competenze e poteri che li costringe ad essere improbabili tuttologi, esposti al rischio di commettere errori di carattere contabile, amministrativo, burocratico, che possono facilmente sconfinare nel reato. Dovrebbero vivere sotto scorta legale per radiografare preventivamente ogni e qualsiasi atto compiuto nell’adempimento della loro funzione.

L’eccesso di responsabilità si associa spesso alla carenza di preparazione ed esperienza: si candidano a sindaco persone inadeguate per curriculum politico e professionale. Ci cascano fior di personaggi, immaginiamoci sindaci improvvisati e frettolosamente selezionati. Forse c’è anche un po’ di faciloneria associata alla necessità di lanciare segnali immediati ad un elettorato che aspetta il miracolo dal sindaco eletto, il quale a sua volta, prima di essere eletto, ha magari promesso miracoli.

Il terzo motivo dipende dalla complessità e farraginosità delle procedure amministrative: un autentico ginepraio in cui si perderebbe qualunque essere umano, anche il più ferrato degli amministrativisti. I legacci burocratici condizionano tutti, cittadini e loro amministratori. Mentre i cittadini fanno anticamera in comune, i sindaci la fanno in procura.

Parlare di riforma burocratica è tempo perso. Auspicare meccanismi selettivi più seri per la classe dirigente politica impegnata nell’amministrazione degli enti locali è doveroso, anche se ormai candidarsi a sindaco è diventato un trampolino di lancio o un contentino di ripiego per la carriera politica. Temo che parecchi non si rendano conto delle difficoltà cui vanno incontro e si lascino affascinare dall’immagine di sindaco eletto dal popolo e personaggio potente e prestigioso. Rivedere gli assetti amministrativi mi pare impossibile, vista l’enfasi con la quale si sbandiera la funzionalità comunale associata al meccanismo elettorale tanto osannato.

C’è però un quarto motivo ascrivibile alla invadenza della magistratura, troppo rigida e pignola nel valutare e buttare nel tritacarne i comportamenti dei sindaci. Il buon senso, merce sempre più rara e che non si compra dal bottegaio, fa difetto anche nelle Procure della Repubblica: una maggiore prudenza ed una certa cautela potrebbero evitare di sbattere in prima pagina i sindaci ed i loro comportamenti dettati dalla buona fede. Se continuiamo così, dovremo mettere un magistrato a ricoprire le cariche politiche a tutti i livelli. Nella storia del popolo ebreo, come viene riportata nella Bibbia, c’è stato un periodo in cui il potere era esercitato dai giudici: ci pensino loro, sperando che poi non si mettano a litigare ed a farsi le pulci a vicenda.

 

Chi tocca la Banca d’Italia muore

Rivado con la mente a Roma, all’EUR, ai lavori di un lontano congresso della Democrazia Cristiana a cui ho assistito come semplice ma interessatissimo invitato. Durante l’intervento dell’allora ministro del Tesoro, Emilio Colombo, si alzò un isolato, ma forte e netto, attacco verbale all’azzimato esponente democristiano ed al suo intervento lungo e tecnicamente pesante: «Te lo ha scritto Carli?» gli chiesero provocatoriamente. Guido Carli era all’epoca il potente governatore della Banca d’Italia. Scaramucce che segnavano la vivacità, ma anche la profondità del dibattito. Allora come ora ci si chiedeva se l’economia dovesse essere indirizzata dal potere delle banche centrali o dalla politica.

Discorso vecchio ritornato d’attualità in questi giorni per il tanto discusso pronunciamento della Camera dei Deputati su iniziativa del Pd, reo di aver presentato un ordine del giorno critico verso l’operato della Banca d’Italia e contenente un sibillino auspicio a riportare l’Istituto ad un più attento ed efficace operato in difesa dei risparmiatori ed in attuazione dei suoi poteri di controllo sul sistema bancario.

È scoppiato un mezzo finimondo politico-mediatico: sarebbe infatti stata lesa la maestà della Banca d’Italia, attaccata la sua autonomia, invaso il campo governativo e quirinalizio relativamente all’ormai prossimo rinnovo del Governatore, attaccato il comportamento di Visco fatto capro espiatorio relativamente alle note, confuse e gravi vicende bancarie.

Ho letto e riletto i passaggi cruciali del documento, quelli che hanno fatto gridare allo scandalo. Non vi ho trovato nulla di scorretto e di inopportuno. Anzi. Da tempo si facevano risalire le disavventure di certe banche alle carenze a livello di vigilanza, non capisco perché, se il discorso approda in Parlamento (tra l’altro è al lavoro anche una commissione d’inchiesta), ci sia da stracciarsi le vesti.

È vero che il discorso avviene a ridosso della nomina del Governatore e che quindi, in teoria e col solito istinto retroscenista, può essere inteso come un’interferenza sui poteri dell’esecutivo e della Presidenza della Repubblica cui spetta tale designazione, ma non vedo sinceramente pericoli di conflitti istituzionali se il Parlamento indirizza raccomandazioni più che giustificate al Governo in questa e altre materie.

Poi si è detto che il Pd vuole scaricare sulla Banca d’Italia le sue colpe, che Renzi vuole distogliere l’attenzione dalle banche in cui sono invischiati certi personaggi, che la politica è alla ricerca di un governatore manovrabile e condizionabile, che tutto rientra ormai nella campagna elettorale e risente di strumentalizzazioni, che l’immagine dell’Italia ne esce compromessa a livello europeo. Se devo essere sincero, le reazioni stizzite in difesa di Banca d’Italia e Visco (di cui peraltro nessuno ha chiesto la testa) più insopportabili le ho riscontrate in Pierluigi Bersani e financo in Walter Veltroni: pensassero alle code di paglia politiche del Pci e successive modificazioni e integrazioni nel caso della malagestione e del dissesto del Monte Paschi Siena (non facciano pertanto i furbi tentando di recuperare la verginità con lo schierarsi in difesa ad oltranza della Banca d’Italia).

Essere autonomi non vuol dire essere intoccabili, essere nominati dal Governo non significa che il Parlamento se ne debba totalmente disinteressare, essere “bollinati” dal Presidente della Repubblica non comporta essere chiusi in una sorta di inattaccabile torre d’avorio bancaria. Non trovo niente di scandaloso anche nel fatto che il Governo abbia chiesto di “alleggerire” il contenuto critico del documento, togliendone i punti direttamente ricollegabili al giudizio su Ignazio Visco: richiesta legittima che rientra nella dialettica fra esecutivo e legislativo.

Le banche ne combinano di tutti i colori, non godono di buona fama presso la pubblica opinione, dei risparmiatori se ne fanno un baffo. La Banca d’Italia non dovrebbe vigilare? Lo faccia e chi la richiama a questo delicato e importante compito non sbaglia. Uno strano Paese l’Italia, dove tutti vomitano accuse ed offese a destra e manca, dove tutti dubitano della correttezza di tutti, dove va di moda lo sport del lancio del fango, dove esistono partiti e movimenti politici che fanno dell’insulto e della insinuazione la loro prassi quotidiana; poi se un partito politico (nel caso il Pd) presenta un documento in Parlamento, alla luce del sole, per criticare la Banca d’Italia ed auspicarne un comportamento più garantista e rassicurante, si crea un caso nazionale ed internazionale.

Parecchio tempo fa mi raccontavano di un incontro informale tra amministratori pubblici della provincia di Parma: un pianto cinese sulle difficoltà finanziarie dei comuni e sulle ristrettezze delle loro comunità. Ad un certo punto uno dei partecipanti sbottò e cominciò ad esprimersi in dialetto, adottando uno spontaneo e simpatico intercalare, scaricando colpe a più non posso sul sistema bancario reo di compromettere sul nascere ogni e qualsiasi intento di ripresa: «Parchè il banchi, ät capi…» diceva a raffica e giù accuse agli istituti di credito. Questo per dire che a volte la politica tende a scaricare sue responsabilità su altri soggetti, ma è pur vero che i detentori del potere finanziario tendono a condizionare scorrettamente la politica, a sentirsi al di sopra di ogni sospetto, magari dopo avere creato disastri (gli esempi sono numerosi a tutti i livelli). Succede in Europa e in Italia.

L’aria politica tira verso destra

I risultati delle elezioni in Austria e in Bassa Sassonia, pur non essendo istituzionalmente omogenei e politicamente analoghi, si prestano a qualche considerazione sugli schieramenti partitici che si vanno delineando in Europa ed anche in Italia.

Il primo dato emergente è lo spessore elettorale piuttosto consistente delle forze di estrema destra, che, sulle ali di assurde nostalgie, riescono a creare l’illusione di risolvere quello che molta parte della gente vive come il problema dei problemi: l’immigrazione.

Il dato preoccupante non è però il forte appeal di queste formazioni politiche estremiste, ma la loro capacità di influenzare tutto lo scenario politico, condizionando gli atteggiamenti e i programmi dei partiti di centro, costretti a rincorrere gli elettori sul terreno semplicistico dell’anti-immigrazione e dell’anti-europeismo ed a valutare eventuali alleanze su tali basi. Fino a qualche tempo fa le destre estreme esistevano, ma erano fuori gioco, confinate in un recinto reazionario, nello sfogatoio dell’anti-storia, nello spurgo delle rabbie etniche; oggi in buona parte conducono le danze.

Se in Francia è stata evitata la caduta nel precipizio lepeniano, se in Germania il centro democratico mantiene una forza tale da consentire alleanze al di fuori della destra neo-nazista, in Austria i popolari, dopo una campagna elettorale sbilanciata a destra, si trovano a valutare con molta plausibilità un’alleanza di governo con la destra estrema. Anche prescindendo dalle combinazioni post-elettorali, resta il forte condizionamento verso i partiti di centro, costretti a sopravvivere sposando politiche di destra. In buona sostanza, se proprio non si vogliono direttamente sdoganare i moderni fascismi, se ne viene comunque influenzati e trascinati: dato di una gravità eccezionale. Per il centro non esistono più i due forni di andreottiana memoria, ne è rimasto solo uno.

Anche in Italia, tutto sommato sta avvenendo questa pericolosa competizione destrorsa: un debole e frazionato centro alla rincorsa dell’avventurismo leghista e del nazionalismo meloniano. Silvio Berlusconi si sta inesorabilmente adeguando a queste derive estremiste anche se a parole dice di voler dettare l’agenda politica del centro-destra.

Se il centro va a destra, la sinistra riformista (i socialdemocratici e simili) resta paralizzata, abbandonata dalle ali estreme totalmente incapaci di mettersi in gioco, abbarbicata in vuote questioni identitarie, inadeguata ad elaborare proposte politiche convincenti e moderne. Succede clamorosamente in Francia, un po’ meno clamorosamente in Germania, ancor meno in Austria, speriamo per niente in Italia, anche se i presupposti si intravedono distintamente.

Le grandi coalizioni non risolvono i problemi, perché finiscono con l’alimentare ulteriormente la presa elettorale estremista, senza risolvere i problemi reali del Paese. In Francia l’esperimento Macron, ancora tutto da valutare, ha consentito di uscire da questo impasse. In Germania tutto dipende da Angela Merkel. In Austria la partita è molto compromessa. La Spagna è in altre faccende affaccendata.

E in Italia? I partitini della sinistra dura e pura giocano col fuoco e mirano ad indebolire il partito democratico, reo di essere guidato da Matteo Renzi e di voler qualificare in senso fortemente riformista la proposta di governo. Si grida allo scandalo dell’inciucio con Berlusconi, ben sapendo che i problemi sono altri e ben più complessi. A rendere ancor più confusa la situazione c’è la variabile impazzita del movimento cinque stelle, sempre più malauguratamente e sostanzialmente vicino alle strategie della destra estrema.

L’Europa sta alla finestra ad osservare quel che succede in Spagna e a mirare l’orizzonte degli altri Stati-membro, a fiutare l’aria che tira. Temporeggiare serve a poco, perché la situazione slitta automaticamente verso destra.

Dal momento che la politica in Europa, e non solo nel nostro continente, è condizionata da due fenomeni epocali, quali la crisi economica e l’immigrazione, bisognerebbe avere la capacità e la lungimiranza di affrontare seriamente queste partite per riportare il quadro politico alla realtà, lontano dalle illusioni e dalle paure. Ma l’Europa è fatta dagli Stati e quindi tutto ritorna da capo.

 

Arroccati nelle nuvole

Mio padre lasciava volentieri a mia madre il compito di tenere i rapporti con la maestra, poi il maestro, poi i diversi professori della scuola media inferiore e dell’istituto tecnico commerciale. Non se ne disinteressava, ma riteneva che mia madre fosse più adatta a svolgere questo ruolo, per il suo tratto elegante, per il suo carattere molto controllato e per la spiccata virtù di sapere stare al proprio posto. Si era imposto infatti una regola e l’ha sempre rigorosamente applicata: “Mo vót che mi digga quél a un profesór, par poch ch’al nin sapia al nin sarà sempor pu che mi”.

Verso il mondo della scuola vige invece e purtroppo l’inversa regola dell’intromissione: tutti criticano, tutti hanno la ricetta giusta, tutti si sentono protagonisti indiscussi e indiscutibili. È il motivo per cui ritengo “impossibile” riformare la scuola: si sbaglia sempre. Ci hanno provato in tanti. Possibile fossero e siano tutti degli incapaci. Non sarà piuttosto che gli attori cercano di scansare le indicazioni del regista?

Gli insegnanti si sentono intoccabili anche perché si devono difendere dall’invadenza delle famiglie che scaricano sistematicamente su di essi le colpe degli insuccessi dei loro figli.

Gli studenti si ribellano a tutto, sempre e comunque, in tutto vedono lo scavalcamento dei loro diritti e reagiscono scompostamente. È successo nelle piazze italiane contro i progetti scuola-lavoro. Non ho capito la sostanza di queste proteste al di là dei soliti slogan triti e ritriti. Sono stato studente anch’io e come tale ho partecipato a tante proteste miranti a svecchiare il sistema scolastico ed a renderlo aperto e partecipato.

Se rimane qualcosa di superato e di chiuso nell’impostazione scolastica, sicuramente un modo per aprire le porte può essere quello di istituire rapporti di collaborazione tra il mondo della scuola e quello del lavoro: la scuola dovrebbe preparare alla vita e quindi soprattutto ad una professione; il lavoro dovrebbe rappresentare un riferimento imprescindibile anche per lo svolgimento del percorso scolastico. Non capisco quindi questa sorta di ostilità preconcetta, questo comodo scetticismo studentesco, come se le esperienze lavorative fossero una distrazione o una oppressione nelle libere scelte degli indirizzi scolastici. Dovrebbe essere esattamente il contrario.

Certo, si potranno correre rischi di confusione o di sovrapposizione, si potranno creare disfunzioni e illusioni. Si tratta però di una strada da perseguire, checché ne sbraitino gli studenti, che vedo sempre più passivamente arroccati nel loro mondo nuvoloso, tra bamboccionismo, menefreghismo, illusionismo e ribellismo.   Gli studenti possono avere mille ragioni di protesta per le prospettive assai incerte che li aspettano, per le difficoltà di sbocco professionale al termine del loro percorso didattico, ma proprio per questo dovrebbero salutare positivamente i tentativi di collegamento in itinere tra studio e lavoro.

Sulla scuola si gioca una partita fondamentale e decisiva per il futuro della società. Bisogna che tutti si aprano alle novità, agli esperimenti, alle riforme. La politica faccia il suo dovere senza rincorrere i consensi a tutti i costi, i sindacati la smettano di corporativizzare gli insegnanti, le famiglie abbiano l’umiltà e la disponibilità a collaborare con i dirigenti e i docenti della scuola di ogni ordine e grado, gli studenti impieghino al meglio il tempo sfruttando tutte le occasioni che vengono loro offerte. Il tempo della conflittualità è finito, è inutile cercare il nemico che non c’è, è assurdo scendere in piazza solo per fare un po’ di casino in un nauseante mix tra goliardia e politica.

 

 

Ti ritiri tu?

Sarà perché un dato caratteristico della mia personalità è l’essere rinunciatario e quindi sento in me quasi una innata vocazione alle dimissioni, sarà perché la storia, dall’arte allo sport, insegna che quando è ora di ritirarsi occorre farlo senza tentennamenti pena la rovina di tutto quanto di buono si è potuto fare in precedenza, non capisco l’attaccamento alla poltrona dei politici di lungo corso. Non faccio distinzioni di parte, ma certamente Silvio Berlusconi è il campione della resistenza, giustificata in tanti modi, ma sostanzialmente riferibile alla sua smania incomprimibile di protagonismo.

Quando il grande tenore Francesco Merli, dopo aver mietuto allori e successi anche a Parma,   ritornò alla ribalta del Regio, piuttosto anziano e non più in grande forma vocale, non venne trattato con i guanti. In modo pesante ed inaccettabile, dettato più da cattiveria che da inesorabile atteggiamento critico, il loggione nei suoi confronti ruggì di brutto. Si era presentato sul palcoscenico del Regio, nei panni di Manrico nel Trovatore di Verdi, con voce ormai piuttosto traballante, e al suo indirizzo venne gridata la pesantissima espressione: “va’ al canäl” (era l’inutile mestiere che a Parma i tedeschi durante l’occupazione del nostro territorio, per tenere occupata la gente e distoglierla dalla resistenza al nazifascismo, imponevano agli uomini nel greto del torrente, fingendo la realizzazione di opere utili che alla fine venivano regolarmente eliminate con le ruspe).

Mio padre raccontava questo disgustoso episodio per bollare l’esagerata ed esibizionistica verve loggionista, ma anche per significare come qualsiasi persona, quando si accorge di non essere più in grado di svolgere al meglio il proprio compito, sarebbe opportuno che si ritirasse, prima che qualcuno glielo faccia capire in malo modo.

Ho ripensato a questo episodio quando ho letto che Berlusconi, se alle prossime elezioni non otterrà una maggioranza per governare, si ritirerà dalla vita politica attiva (lo ha fatto con la chiara intenzione di dare peso alla riproposizione di un centro-destra politicamente inesistente e strategicamente sfilacciato). Non ho certo tenuto il conto, ma è senza dubbio l’ennesima dichiarazione di questo tipo. Quando una persona vuole rinunciare a qualcosa, lo fa e basta così. Se comincia a dettare dei tempi, delle condizioni, delle previsioni etc., vuol dire che non ha alcuna intenzione di farlo, ma, al contrario, sta cercando disperatamente un ancoraggio per rimanere a galla.

Per l’Italia e per il centro-destra la presenza sulla scena politica di Silvio Berlusconi è stata ed è una pietra d’inciampo: ci ha trascinato tutti nel ridicolo senza che molti di noi se ne accorgessero. Ora sta facendo proprio come Francesco Merli, vuol cantare la stessa opera con voce traballante, intende ripetere l’operazione del 1994 con Lega e Fratelli d’Italia, finirà col fare la brutta copia di se stesso. Non so però se gli Italiani avranno la sufficiente lucidità per capirlo.

Mia madre, in base al sostanziale rigore con cui impartiva i suoi pragmatici ma “dogmatici” insegnamenti, perdonava molto, quasi tutto, ai giovani, mentre era inflessibile con le persone attempate cui assegnava un compito educativo imprescindibile. Mio padre sentenziava: “Con to mädra se un vciot al tira su ‘na gamba le bélle ruvinè” . Ma aggiungeva un consiglio per le persone anziane: avrebbero dovuto appartarsi in “un secatoj da castagni”. Miglior consiglio non si potrebbe dare a Berlusconi.

Parecchi anni or sono andava forte una battuta-scioglilingua di Raimondo Vianello (se non vado errato): “ti ritiri tu?”. La risposta la lasciamo a tutti coloro che sarebbe ora se ne andassero a casa e non si decidono a togliere il disturbo, pena sentirsi urlare dietro in modo pragmaticamente offensivo: “mo va’ al canäl” .

 

Tutto (non) ha un limite

Viviamo in un periodo in cui nei rapporti interpersonali prevale l’arroganza associata alla maleducazione: siamo all’interno di una società dove tutti si sentono autorizzati a sparare a zero su qualsiasi interlocutore o competitore. La politica non so se dia lezione o la subisca, fatto sta che i politici si comportano in modo inaccettabile, confondendo la critica con l’insulto, cambiando parere come si cambia di camicia, considerando l’avversario come un nemico, sostituendo il confronto delle idee con la guerra delle parole.

I media soffiano su questo fuoco, la gente apprezza i toni forti anche perché ognuno tende purtroppo a comportarsi secondo questi canoni, nei rapporti famigliari, scolastici, professionali, condominiali. Vince chi grida più forte, non importa se urla cazzate, l’importante è che copra la voce altrui.

La protesta è incivile, lo scontro è violento: nelle aule parlamentari come nelle piazze. Lo si è visto durante la discussione sulla legge elettorale: sono volate parole grosse in una pericolosa sovrapposizione tra dibattito parlamentare e tumulti di piazza. Dalla piazza si gridava al golpe fascista in un crescendo anti-democratico da far rabbrividire. Era proprio il fascismo ad usare le piazze per delegittimare le istituzioni: la storica definizione della Camera quale aula sorda e grigia. Non c’è malcontento che tenga, queste manifestazioni non dovrebbero trovare posto in un sistema democratico.

Stupisce (?) che un uomo politico navigato come Massimo D’Alema cada in questa trappola, solo ed esclusivamente per riconquistare un misero spazio politico: «Questa legge è una truffa, frutto di un lungo accordo di potere tra Renzi e Berlusconi, mediato dall’ineffabile senatore Verdini. Il testo ha profili di incostituzionalità, come le due precedenti. A questo punto il cittadino penserà che è meglio che il Parlamento non faccia più leggi». Così ha sentenziato D’Alema con la sua solita supponenza.

Per fortuna gli ha risposto per le rime un suo storico compagno di viaggio e di partito, Piero Fassino: «D’Alema, per il quale ho molto rispetto, dice che Renzi vuole l’alleanza con Berlusconi. Ma dico: la Bicamerale chi l’ha fatta? Se c’è un uomo politico che ha cercato di creare un rapporto con il centro-destra e il suo leader perché fosse funzionale alle riforme, questi è D’Alema».

A chi contestava a D’Alema di aver inciuciato per portare, a suo tempo, Ciampi al Quirinale, veniva risposto dall’interessato: «Meno male che c’è Ciampi…».

Ora io prendo a prestito lo schema di battuta e dico: «Meno male che c’è Fassino…». Sì, perché a D’Alema vengono fatti sconti molto generosi pur di polemizzare col Pd: fa gioco infatti la sua verve anche se basata su incoerenze clamorose. Strizza l’occhio al sindacato colui che contribuì a giubilare Sergio Cofferati, reo di incarnare una impostazione troppo piazzaiola e populista; rispolvera l’identità di sinistra alla Jeremy Corbyn chi aveva teorizzato in passato il riformismo, vagheggiando legami internazionali con Blair e Clinton;   punta al ritorno di una sinistra pauperista e barricadiera colui che ha sempre rappresentato quella elitaria in doppio petto burocratico. Potremmo continuare, ma in politica vince la memoria corta. Meno male che c’è Fassino, che non l’ha persa nella affannosa rincorsa a chi è più di sinistra.

Tutto dovrebbe avere un limite, anche la faccia tosta di D’Alema. Non è l’unica e non è la più deleteria, ma viene da una parte a cui sono particolarmente e severamente attento. Per D’Alema ho sempre avuto stima e rispetto, l’ho sempre considerato un politico di razza. Da un po’ di tempo mi sto ricredendo di brutto.

Purtroppo i limiti sono saltati come birilli. Vuoi vedere che ci troveremo di fronte ad alleanze tra D’Alema e Grillo: sono fuori entrambi dal Parlamento e vogliono comandare lo stesso. Il patto della (s)crostata politica italiana. Mi fermo perché la foga del discorso mi sta portando sul terreno che ho appena stigmatizzato.

La deputata Paola Binetti dell’Udc, durante il dibattito parlamentare sulla legge elettorale, ha dichiarato: «Non sappiamo se la legge è meglio o peggio dell’altra, quello che auspichiamo è che i leader possano favorire candidature che portino a un Parlamento migliore». Obiettivamente non è un granché come intervento politico alla Camera dei Deputati in un momento così delicato e complesso. Sempre meglio (è tutto dire) dell’attuale arroganza dalemiana. Accontentiamoci e speriamo che la politica possa ritrovare almeno quei limiti di decenza che ci hanno insegnato i maestri di democrazia.

La bile della glocalizzazione

In questo periodo si fa un gran parlare, peraltro in modo assai superficiale e giocherellone, di Catalogna, la regione che vorrebbe ottenere piena indipendenza dalla Spagna. Sapendo che Catalogna è anche il nome di un’erba commestibile, mi sono preso la briga di verificare su internet le sue caratteristiche: è una varietà di cicoria e, come erba amara, aiuta il lavoro del fegato ed in particolare stimola l’eliminazione della bile ed essendo ricca di fibre aiuta il benessere intestinale con effetto lassativo, tiene bassa la glicemia e contrasta l’assorbimento del colesterolo.

Un toccasana per me alle prese con problemi di smaltimento della bile. Non mi resta che farne largo consumo per verificarne le proprietà curative. Non so se ci sia un nesso fra questa erba quasi miracolosa e la regione della Catalogna: sembra uno scherzo del destino, probabilmente è solo una semplice ma strana coincidenza.

Fatto sta che la Catalogna, al contrario dell’omonima erba, sta creando seri problemi di bile al governo spagnolo e non solo. Non so come ne usciranno: probabilmente tutti indeboliti da una precipitosa e velleitaria vicenda, che parte dalla storia, ma va contro la storia.

Questa del separatismo catalano è una questione che si giustifica come reazione all’immanente globalizzazione in ricerca della cosiddetta glocalizzazzione. È pur vero che la storia viene dettata anche dai sognatori, i quali a distanza di tempo si trovano ad avere ragione delle loro fughe in avanti. Sarà il regionalismo associato al federalismo (due termini apparentemente contrastanti) a segnare il futuro europeo? La Scozia e la Catalogna vogliono l’indipendenza, rispettivamente dalla Gran Bretagna e dalla Spagna, ma desiderano ardentemente rimanere a pieno titolo ed a tutti gli effetti nella Unione Europea.

Il sistema economico vive con grande preoccupazione queste spinte e reagisce piuttosto male: fuga di aziende e di capitali. Il sistema politico si difende un po’ troppo burocraticamente, legge e costituzione alla mano. L’Europa sta a guardare non potendo e non volendo intromettersi nelle faccende interne di uno Stato membro. I media hanno trovato uno spazio in cui sbizzarrirsi nelle solite e superficiali scorribande. La popolazione sembra partecipare a livello di contrapposte tifoserie, che si alternano con oceaniche manifestazioni di piazza. Il Parlamento catalano fa più pena che simpatia, il governo spagnolo crea più perplessità che solidarietà.

Non ha senso disinteressarsi di queste vicende ritenendole un fatto localistico, insignificante e folcloristico. Oltre che essere globale il nostro mondo è molto interdipendente. La Catalogna si è spinta troppo avanti, anche se dimostra di non avere il coraggio di andarci fino in fondo: ha dichiarato l’indipendenza e contemporaneamente l’ha sospesa. Una mezza commedia che speriamo non si trasformi in tragedia. Certo il dittatore Franco avrebbe già risolto il problema: solo i dittatori riescono a tenere coperchiate le pentole del separatismo. Si pensi a Tito in Iugoslavia, all’Urss, ai regimi dell’Est europeo. La democrazia a volte resta vittima delle libertà che ripristina: le pentole si scoperchiano, ma rischiano di debordare…

Nell’opera lirica Bohème di Giacomo Puccini, l’attempato ed occasionale accompagnatore di Musetta, una ragazza ribelle e disinvolta, non sopporta il provocatorio e sensuale valzer cantato dalla stessa. «Quel canto scurrile mi muove la bile» dice con malcelato imbarazzo.

Quella pazza e scriteriata Catalogna sta muovendo la bile un po’ a tutti e ci vorranno caterve di (democratica) erba catalogna per scaricarla.

La penicillina cinematografica

Il potente produttore cinematografico di Hollywood Harvey Weinstein è caduto in disgrazia per le accuse di molestie sessuali rivoltegli da numerose e note star. Sta emergendo un quadro disgustoso di un ambiente da sempre caratterizzato da meccanismi di selezione legati al sesso. Non sono sorpreso di quanto sta emergendo, anche se non sono sicuro che si tratti di stupri in senso stretto. È un po’ come con la mafia: tutti sanno, molti si adeguano, la magistratura scoperchia la pentola quando deborda.

Può ritenersi stuprata un’attrice che per fare carriera si piega ai ricatti sessuali di un produttore? In un certo senso sì. Certamente le donne (e non solo le donne…) subiscono, direttamente o indirettamente, pressioni psicologiche che possono sconfinare in veri e propri ricatti. Per battere questi vomitevoli andazzi bisogna però avere il coraggio di resistere a monte e non limitarsi ad accusare a valle. Capisco benissimo che se si entra in certi meccanismi sia difficile non cadere nel tritacarne sessuale, sia problematico non pagare il “pizzo sessuale” pena l’espulsione dalla graduatoria. Tuttavia il male si combatte a priori, perché dopo è sempre troppo tardi.

Non sono in grado di valutare se Harvey Weinstein sia un vero e proprio maniaco che ha sfruttato la sua posizione dominante per dare libero sfogo ai propri impulsi: lo appurerà la magistratura tentando di dipanare uno scandalo, che imperverserà a livello mediatico vista la notorietà dei personaggi coinvolti. Barak e Michelle Obama si sono detti “disgustati” e lo sono anch’io. La politica americana, di cui questo personaggio era probabilmente un benefattore, sarà imbarazzata (discorso sempre delicato quello dei rapporti tra politica ed affari).

Se devo essere sincero al limite del cinismo, mi sento però molto più sconvolto dalle violenze sessuali a cui sono sottoposte le giovani migranti costrette a prostituirsi pena la loro incolumità e integrità fisica, rispetto alle attricette che cedono ai ricatti sessuali per fare carriera. C’è una certa differenza tra i due fenomeni: da una parte, se una donna si ribella rischia la tortura, se non la morte, per sé e per la propria famiglia; dall’altra, se scappa, rischia di non fare carriera come attrice.

Discorso capovolto per gli sfruttatori del sesso: se possibile, mi fa ancora più orrore il “magnaccia” in guanti bianchi rispetto a quello da strada, anche se ormai, probabilmente le due fattispecie tendono mafiosamente ad integrarsi.

Ripulire l’ambiente dello spettacolo da queste ed altre sozzure sarà molto difficile: si tratta di un mondo che racchiude in sé tutte le peggiori contraddizioni del sistema capitalistico. Quando vedo la gente entusiasmarsi davanti alle passerelle dei festival cinematografici, mi prende un senso di pena per chi sfila (ancor maggiore se penso ai “prezzi” talvolta loro estorti per la carriera) e per chi applaude.

Mio padre, che era un dissacratore nato, prevedeva, ai suoi tempi, che il popolino avrebbe facilmente osannato un divo dello spettacolo e probabilmente snobbato, se non pernacchiato, uno scienziato. Diceva testualmente: «Se a Pärma ven Sofia Loren, i fan i pugn pr’andärla a veddor; sa vén Alexander Fleming i ghh scorezon adrè’…». Sofia Loren veniva tirata in ballo in senso figurato, solo come simbolo. Tutte le morti scampate per merito dell’inventore della penicillina non sono niente di fronte alla fama di un’attrice “sessocchieggiata”, magari dopo essere stata vittima a suo tempo di molestie sessuali.

 

La legge elettorale a rischio Penelope

Sono anni che sul tavolo politico e istituzionale langue la pratica delle legge elettorale. Quando si  fatica ad affrontare un problema, la relativa carpetta istruttoria resta sulla scrivania e non ci si decide ad aprirla. È successo così: prima le riforme istituzionali a cui la legge elettorale avrebbe dovuto adeguarsi; poi la Corte Costituzionale che ha emendato la legislazione vigente creando una sostanziale discrasia tra sistemi elettorali di Camera e Senato; poi diversi tentativi parlamentari di trovare la quadra, falliti sul nascere per il prevalere di interessi di parte.

Più si avvicina la scadenza elettorale e più difficile risulta il tentativo di trovare un compromesso. La Presidenza della Repubblica   ha più volte chiesto al Parlamento di provvedere almeno ad omogeneizzare i meccanismi di votazione per le due Camere in modo da non trovarsi con un Parlamento frastagliato e contraddittorio. La dottrina si è esercitata in un asettico ed inutile dibattito che ha solo aggiunto confusione alla confusione.

Finalmente sembra profilarsi una legge che sulla carta dovrebbe godere di un ampio consenso e che, a scanso di imboscate parlamentari, è stata blindata dal governo con l’apposizione del voto di fiducia, atto a sveltire la manovra e ad evitare numerose votazioni segrete sugli emendamenti vari.

Apriti cielo: attentato alla democrazia, emergenza democratica, proteste di piazza, gazzarre parlamentari, etc. La democrazia non è perfetta e, a maggior ragione, non può esserlo una legge elettorale, che inevitabilmente risente degli interessi di parte. Si tratta di cercare un compromesso, che difficilmente sarà di alto profilo, ma servirà a uscire dall’incertezza e dalla confusione. Tutto qui. Chi si scandalizza non ha capito niente dei meccanismi democratici o tenta di strumentalizzare populisticamente la situazione. La storia insegna che il mettere mano alla legge elettorale ha sempre scatenato un allarmistico putiferio di polemiche: chi vuol cambiare le regole si trova immediatamente imputato di “truffa”.

Due sono attualmente gli attori impegnati nel disfattismo: l’immancabile movimento cinque stelle e l’inquieto fronte delle sinistre. Una forza anti-sistema non può che essere contraria a qualsiasi legge che regolamenti l’elezione del sistema. Una sinistra che ritorna alla tentazione della lotta piazzaiola non può che temere ogni e qualsiasi accordo partitico come un attentato alla democrazia. Sono reazioni scontate.

Ciò che non è scontato è invece il sotterraneo mugugno pronto a trasformarsi in imboscata con la protezione del voto segreto. Il dato preoccupante che emerge è questo: l’inaffidabilità di molti parlamentari che, per svariati motivi, nascondono la mano dopo aver tirato il sasso.

Staremo a vedere. Certamente le leggi elettorali che ci hanno guidato al voto nel recente passato non erano equilibrate e razionali. La bagarre legislativa scatenatasi dopo il fallimento della riforma costituzionale ha complicato il quadro. Si tratta di ritrovare un minimo di serietà istituzionale che consenta la maggior corrispondenza possibile tra la libera espressione del voto,la rappresentanza parlamentare e la governabilità del sistema. Non è facile, ma ci si deve riuscire, senza gridare al golpe, senza scatenare la piazza e, possibilmente, senza inqualificabili giochini parlamentari.