La magistratura cincischiante

Reati gravissimi che cadono in prescrizione nelle more di procedimenti giudiziari ventennali o giù di lì; una giustizia che non arriva mai o giunge quando la vittima è morta e sepolta, magari dopo essersi suicidata; una giustizia che si contraddice spesso e che, dopo avere consentito una gogna mediatica in capo agli indagati, arriva ad assolverli a distanza di anni, quando la frittata della loro dignità è stata cucinata, mangiata e digerita; una giustizia che “assolve” quando l’imputato si è già tolto la vita; una giustizia che crea continuamente corto-circuiti tra indagine e colpevolezza; una giustizia zeppa di errori che incidono pesantemente sulla vita e sulla carriera di persone indagate e/ rinviate a giudizio con leggerezza, per poi vedere le relative inchieste archiviate o i processi terminare con assoluzioni; una giustizia che funziona male o funziona “troppo bene”, che rovina persone innocenti e lascia in pace i colpevoli.

Questa è una innegabile, seppur parziale, realtà, che dovrebbe far riflettere la politica, i giudici e l’informazione: intorno a questi tre poteri si articola il gioco giudiziario nel nostro Paese. Purtroppo il dibattito è storicamente falsato in partenza per la grande responsabilità del berlusconismo che ha messo la politica in guerra con la magistratura: la politica a difendersi fuori dal processo, con attacchi alla categoria ed ai singoli giudici, a sottrarsi ai giudizi tramite il varo di frettolose leggi ad personam, mirate ad ostacolare il normale corso processuale (immunità, prescrizioni, etc.); la magistratura a proteggersi vendicandosi con accanimenti e rivalse e scendendo apertamente sul piano di guerra con i politici nemici più o meno giurati. Ricucire un rapporto talmente deteriorato non è e non sarà cosa facile.

Bisogna tuttavia provare ad uscire dalle reciproche trincee. Come? Prima di ogni e qualsiasi riforma bisogna che gli uomini politici investiti di incarichi pubblici accettino di essere sottoposti ad indagini e a processi, senza gridare immediatamente al complottismo, senza strumentalizzare i “guai” giudiziari degli avversari, senza voler influenzare minimamente il corso della giustizia.

A loro volta i giudici devono essere rigorosamente portati alla difesa della propria irrinunciabile autonomia, ma molto attenti ad evitare anche il minimo sospetto di intromissioni in campo politico, scegliendo tempi e modalità di intervento inattaccabili, accettando che il corso dalla giustizia possa e debba essere riformato senza gridare allo scandalo, senza arroccarsi nel bunker dell’Asociazione Nazionale Magistrati, senza sentirsi vessati e criticati se qualcuno osa sottolineare carenze e manchevolezze piuttosto evidenti se non addirittura macroscopiche, senza dire dei No pregiudiziali a qualsiasi nuova regola si profili all’orizzonte parlamentare o governativo.

I media devono lavorare rispettando la dignità delle persone e la verità, difendendo con le unghie e con i denti il loro diritto-dovere di raccontare i fatti, senza violare segreti, senza falsi scoop, senza calpestare alcuna garanzia per gli indagati, senza condannare immediatamente gli inquisiti sulle prime pagine dei giornali, senza soffiare sul fuoco del giustizialismo, senza fare di ogni erba un fascio, senza giocare sulla pelle della gente con le intercettazioni pubblicate a vanvera.

Ci sono alcuni punti in sacrosanta discussione legislativa: i tempi della giustizia, le carriere più o meno separate, i mezzi e le risorse umane da investire, la regolamentazione dell’uso delle intercettazioni, la segretezza dell’avviso di garanzia, la produttività dei magistrati, l’esercizio dell’azione penale o la richiesta di archiviazione entro un periodo relativamente breve rispetto alla fine delle indagini preliminari, i tempi della prescrizione, le carceri, le pene alternative, etc.

Se si continua a nascondersi dietro la stucchevole contrapposizione tra garantisti e giustizialisti, se ogni potere difende l’orticello in cui coltivare ed innaffiare i propri privilegi, se la politica vuole insegnare ai magistrati a fare le indagini e i processi, se i magistrati intendono parlare continuamente e minacciosamente nella mano del legislatore, se i giornalisti si divertono a fare casino in mezzo all’incrocio pericoloso tra politica e giustizia, non si va da nessuna parte: avremo una giustizia sempre più inefficiente e ingiusta, una politica sempre più politicante e intrigante, un’informazione sempre meno obiettiva e corretta.

Arriveremo cioè alle peggiori riforme costituzionali possibili e immaginabili: un terzo ramo del Parlamento che controlli l’operato dei giudici e dei media; un terzo ramo della magistratura, quello della magistratura cincischiante e invadente che si aggiunga a quella requirente e giudicante;   un quinto potere, quello dell’informazione falsa e taroccata, che si sovrapponga al quarto, quello della stampa tradizionale. Poi faremo un referendum e magari, questa volta, vinceranno i Sì. Così va il mondo…

 

Il canal stretto dei cattolici progressisti

L’indomani dell’elezione a Presidente della Repubblica di Sergio Mattarella scrivevo la seguente riflessione: «Superando di petto l’ironia sulle origini del nuovo Presidente della Repubblica (un democristiano, un personaggio della prima repubblica, un uomo d’altri tempi), se si è voluto trovare qualcuno che rappresentasse veramente gli Italiani, si è dovuto fare ricorso anche e soprattutto alla cultura del cattolicesimo progressista. Resta poco di questa scuola, ma quel poco vale di più del molto (troppo) della vuota scuola moderna. Fa scalpore lo stile sobrio del Presidente: un bagno d’umiltà dopo una sbronza di superbia, una boccata d’ossigeno dopo l’anidride carbonica. Non so bene il perché, ma quando vedo il nuovo Presidente, senza nulla togliere al suo predecessore, mi commuovo. Forse sto invecchiando. Oggi mi è rinata una piccola speranza, come ai tempi di Zaccagnini, di Moro, di Ermanno Gorrieri e di Carlo Buzzi. Mattarella non ha forse detto di guardare alle speranze degli Italiani. Io, fino a prova contraria, sono Italiano e spero…»

Qualche giorno fa Alberto Melloni su la Repubblica si chiedeva, con la sua contorta e sussiegosa lucidità, dove fossero politicamente finiti i cattolici progressisti. Mi sono sentito toccato nel vivo e direttamente interpellato, dal momento che mi sono sempre considerato un cattolico progressista in cerca di una casa politica accogliente e definitiva (per quello che di definitivo ci può essere su questa terra).

Tento di seguito una brevissima e spannometrica ricostruzione storica, mescolando opzioni personali alle fasi storiche degli ultimi cinquant’anni e oltre. Nella DC ci stavo molto stretto: non era affatto, per me e per la sinistra cattolica, una rassicurante sponda (Melloni oggi la considera tale), era l’unico spazio in cui si poteva provare ad impegnarsi cercando di stiracchiare faticosamente un partito di centro verso sinistra o quanto meno costringendolo a guardare a sinistra. Ricordo al riguardo quanto affermava Ermanno Gorrieri, uno dei leader tra i cattolici progressisti, rivolto ai più intemperanti aderenti alla sinistra cattolica, quella sociale in particolare: non illudiamoci, siamo in un partito che non è e non sarà mai di sinistra.

Sono stato, nel mio piccolo ed al mio modesto livello, un fautore del dialogo con i comunisti: quando Aldo Moro sembrava dare uno sbocco politico e programmatico, seppur provvisorio, a tale dialogo, lo hanno ucciso e non certo per caso. A mio giudizio la vedovanza della sinistra cattolica comincia lì, come del resto tutta la precarietà della storia politica italiana ha origine dalla morte di Aldo Moro. Dopo un periodo di collaborazione tra DC e PCI, atto a sdoganare definitivamente i comunisti dal socialismo reale e a trasformare il partito cattolico in una forza laica moderata ma aperta al nuovo, sarebbe dovuto intervenire quel bipolarismo tra questi due partiti capaci di attrarre tutto (o quasi) il resto, quel bipolarismo che ancor oggi cerchiamo disperatamente con “il lanternino”. Era questo il progetto politico di Moro bruscamente interrotto e di cui ancor oggi si sente la mancanza: nella politica italiana si è saltata una fase, quella ipotizzata appunto da Aldo Moro, e tutto ne è risultato scombinato.

Poi venne il craxismo (ho sempre pensato che, in presenza di Moro, Bettino Craxi avrebbe sì e no fatto l’assessore ai lavori pubblici al comune di Milano) in cui non riuscirono a riconoscersi né i comunisti né i cattolici di sinistra, gli uni costretti ad accordi di potere a livello periferico e para-politico con i socialisti, gli altri testardamente legati alla DC, mentre alcuni rispondevano al proprio smarrimento approdando coraggiosamente al Pci e venendone regolarmente delusi. De Mita non riuscì a riprendere il discorso di Moro: ne aveva l’intelligenza, ma non la pazienza, il carisma, la sensibilità e la credibilità. Il suo capolavoro rimane l’elezione di Francesco Cossiga a Presidente della Repubblica, per il resto si impantanò nell’anticraxismo e nella gestione del potere.

Quando terminò la segreteria DC di De Mita, uscii dalla Democrazia Cristiana e fui facile profeta, perché di lì ebbe inizio l’ultima bruttissima fase della cosiddetta prima repubblica.

La sinistra cattolica ebbe un sussulto con il partito popolare nato dalle ceneri della DC, ma a sinistra non c’erano interlocutori e dopo tangentopoli fu leghismo in esplosione, “destrismo” in ristrutturazione, “democristianismo” in libera uscita e berlusconismo in salsa aziendal-mediatica, mescolati abilmente dal cuoco di Arcore nella pentola di un vero e proprio regime.

L’anti-berlusconismo ridiede fiato alla sinistra cattolica che trovò in Prodi, pur con tutti i limiti di un personaggio che non mi ha mai convinto fino in fondo, il tessitore di una nuova alleanza politica a sinistra, che, tra mille vicissitudini ed alcuni aggrovigliati passaggi, approdò al Partito democratico in modo forse un po’ troppo sbrigativo.

Il progetto politico di Moro era un altro: probabilmente lui vedeva che i cattolici non avrebbero potuto convivere con la visione politica di una sinistra seppur pienamente democratica, che il loro canale fondamentale non sarebbe stato questo, ma i cattolici progressisti, senza riferimenti al centro, furono costretti a tentare strade diverse, a rendere definitivo quel che Aldo Moro considerava utile ma provvisorio, rischiando probabilmente di buttare assieme all’acqua sporca delle ideologie anche il bambino delle idealità e della politica intesa come servizio.

Il PD ha indubbiamente superato quel che rimaneva della contrapposizione ideologica tra le sue due componenti fondamentali, ma non ha trovato il giusto collante e alla fine l’ideologismo è rispuntato, non certo fra post-comunismo e post cattolicesimo di sinistra, ma fra conservazione socialista identitaria e sperimentazione liberal, fra tradizione e innovazione.

Il cattolicesimo di sinistra non è riuscito ad inserirsi nell’orchestra, ha fornito alla Repubblica alcuni importanti solisti, che, giustamente, Melloni individua in Leopoldo Elia, Nino Andreatta, Pietro Scoppola, Sergio Mattarella, fino addirittura a comprendervi, con una certa forzatura, Mario Draghi.

Siamo ai giorni nostri. Sono senza partito. Dalla metà degli anni ottanta in poi ho votato in modo diversificato: alle elezioni europee Rifondazione comunista quando candidò il missionario padre Eugenio Melandri, poi i Verdi, ultimamente il PD. Alle elezioni politiche i Popolari con qualche residua illusione, la Margherita con molto sforzo, il PD con tanta speranza, Renzi quale ultima e unica spiaggia. Adesso è venuto il bello. Qualcuno si illude di riportare indietro le lancette dell’orologio. Follia pura, se non fosse anche sete di potere. Torno ad Alberto Melloni. Lui chiede un nuovo canale per la sinistra cattolica e paventa il rischio di dover attendere vent’anni, il tempo utile per rifare una classe dirigente. Io sarò già morto e probabilmente il mio cadavere sarà già stato esumato. Vedrò tutto da un altra angolazione.

 

 

 

 

Quel cartello la dice e la sa lunga

Mentre tutti fanno un gran parlare e scrivere sull’approccio dei giovani alla politica e viceversa, andando, come spesso mi succede, contro corrente, vorrei fare qualche riflessione sul rapporto tra gli anziani e la politica.

Me ne offre lo spunto il cartello esposto da una persona di 84 anni, iscritto al Pci dal 1948 ed ora militante PD, partecipante alla recente manifestazione del Lingotto, a Torino, la kermesse di presentazione del programma sulla base del quale Matteo Renzi si è ricandidato alla guida del PD.

Il cartello, artigianalmente e simpaticamente confezionato, non ci gira intorno e dice così: “D’Alema cospiratore al telefono con Berlusconi. Il capo dei 101 che affossò Prodi alla presidenza. Odioso, viscido e presuntuoso. Sei diventato ricco, io no. Bersani sei anonimo”.

Per un comunista di lungo corso e alto bordo, come D’Alema, sentirsi dire da un ex-compagno, che oltretutto potrebbe essere per età quasi suo padre, cose del genere non dovrebbe essere piacevole. Col suo impareggiabile sarcasmo saprà dialetticamente far fronte al piccolo (?) incidente di percorso, magari con espressioni del tipo: “Renzi è alla ricerca di compagni, ne ha trovato finalmente uno…”. Sì, perché questo anziano e perseverante iscritto è un sostenitore di Renzi. “È il meglio su piazza” afferma e non so dargli torto.

Penso tuttavia che una qualche riflessione D’Alema sarà costretto a farla. Anche perché non è una novità che la base comunista fosse piuttosto insofferente verso di lui, eticamente, prima e più che politicamente, come del resto esprime in modo assai efficace il testo del cartellone sopra riportato testualmente.

Nei lontani anni ottanta il mio carissimo amico Walter Torelli, comunista tutto d’un pezzo, durante una delle solite chiacchierate, mi chiese, dal momento che mi sapeva piuttosto informato sulla cronaca politica, di riferirgli dell’episodio relativo a Massimo D’Alema, il quale, in occasione di una sua presenza in un salotto romano, rimbrottò vivacemente il cane di casa che gli era montato sulle scarpe. Ammise snobbisticamente che gli erano costate una grossa cifra. L’amico Walter innanzitutto mi confessò tutta la sua indignazione e la sua riprovazione per un comportamento eticamente inaccettabile: «Da un dirigent comunista robi dal gènnor an ja soport miga!». Poi aggiunse con tanta convinzione: «Lé propria ora chi vagon a ca tùtti».

Walter Torelli ha fatto in tempo a morire e D’Alema è ancora lì a pontificare ed a spiegarci come si fa ad essere di sinistra, lui che non lo è mai stato. Sono pertanto sicuro che l’indimenticabile Walter si ripeterebbe di fronte alle più recenti prese di posizione di D’Alema, stizzose, altezzose, insopportabili ed incoerenti. D’altra parte, per restare a Parma, anche il grande Mario Tommasini aveva un pessimo concetto di D’Alema e lo liquidava in poche pesantissime battute: «Al neg crèdda miga…».

Vorrei però riportare il discorso dal piano etico a quello più squisitamente politico. D’altra parte il rudimentale cartellone fotografa anche la patente incoerenza del personaggio. Gli anziani ne hanno viste troppe e quindi hanno una marcia in più nel giudicare i politici.

Mi sono ricordato come D’Alema durante la campagna referendaria abbia irriso al fatto che il Sì risultasse maggioritario e vincente nel voto dei cittadini di una certa età, mentre era minoritario nelle fasce di età giovanile. Continui pure a ironizzare (a parte che anche lui non è più giovanissimo), ma sappia che dagli anziani c’è sempre molto da imparare.

Durante il periodo del berlusconismo imperante mi stupivo spesso come proprio le persone più avanzate negli anni non si lasciassero per niente incantare dalle sirene mediatiche del nano di Arcore: sono dotate infatti di quel sano scetticismo, di quella irrinunciabile capacità critica, che consentono loro di giudicare in modo più oggettivo e “documentato”.

Ho letto e riletto più volte il testo di questo cartello. Senza esagerare, lo giudico la migliore analisi politica che ho visionato sull’attuale sinistra italiana. Dice tutto. Provare per credere.

Correggimi, se non sbaglio

Mentre i premier europei stavano balbettando le solite parole di circostanza sul futuro della Ue, esce la notizia che Londra dovrà rispondere all’abbandonanda Europa per circa due miliardi di truffa sulle importazioni cinesi. Piove sul bagnato della brexit.

Cosa succedeva? Da quanto ho potuto capire, la Gran Bretagna faceva da ponte alle esportazioni cinesi nel settore tessile e calzaturiero verso il territorio europeo, che venivano colpite da tassazione molto leggera (0,91 euro per un chilo di prodotto importato, rispetto ai 17 euro della Germania e i 137 del Lussemburgo)   e quindi smistate in tutto il continente a prezzi ulteriormente ribassati con grave pregiudizio per l’industria degli altri Paesi manifatturieri. Gli Inglesi col loro comportamento permissivo hanno lucrato vantaggi dall’aumento del traffico di merci sul loro territorio, hanno indirettamente sottratto fondi alla Ue (i proventi dei dazi vanno infatti per l’80% nelle casse comunitarie e nel caso venivano applicati con tariffe stracciate e addirittura su valori sottostimati), hanno danneggiato le industrie dei Paesi partner produttori di calzature e tessuti (Italia in primis).

Poi gli Italiani sarebbero disonesti e approfittatori. Tutto il mondo è paese, nel nostro caso tutta l’Europa è paese. Vorrei però fare un altro tipo di riflessione meno etica e più politica.

L’Italia è costantemente sul banco degli imputati (forse solo degli indagati) per comportamento trasgressivo verso le regole comunitarie in parecchi campi, dall’economia ai diritti civili, dal bilancio alle carceri. Ben venisse, se fosse uno stimolo positivo a migliorare e a progredire sulla strada dell’integrazione europea. Purtroppo resta una continua e professorale contumelia, politicamente frustrante ed economicamente squalificante.

Più che di Europa a due velocità integrative, si può parlare di Europa a due velocità correttive. Tutti sgarrano, in modo anche pesante, tutti fanno i cazzi loro, solo l’Italia (in compagnia della Grecia) deve sottostare a questa gogna perpetua.

Gli Inglesi nell’Europa non hanno mai creduto, hanno fatti i loro porci comodi, sul più bello hanno deciso di uscirne, hanno creato danni a destra e manca, finiranno col non pagare alcun dazio (in senso proprio e figurato), si atteggiano a più amici tra gli amici degli USA, trattano la brexit come se ne andasse a loro.

I Tedeschi si sentono i primi della classe, hanno un enorme surplus commerciale che danneggia gli altri e che si guardano bene dal reinvestire per la crescita economica complessiva, si sono unificati con l’aiuto dell’Europa, adesso nessuno li schioda dalla cattedra in cui si sono autocollocati.

Se sbaglio…mi corregge Mattarella

I Francesi sono europeisti a targhe alterne, giocano sempre sull’equivoco, si appoggiano opportunisticamente alla Germania, violano bellamente i parametri di bilancio, rischiano politicamente di trascinarci tutti nel loro baratro lepenista, tengono i piedi in due paia di scarpe, quelle del mediterraneo e quelle del nord-europa, combinano disastri a livello internazionale (vedi scriteriata guerra alla Libia di Gheddafi), sono corrotti come e più degli altri, hanno una classe politica di basso profilo, ma…sono la France, tutto il resto conta poco, vive la France.

Non voglio dare ulteriore sfogo a storiche riserve mentali, né scadere a livello di comodi e facili pregiudizi. Quel che è vero, è però vero. Sono curioso, per tornare all’argomento contingente dei dazi sulle importazioni dalla Cina, di vedere alla fine quanto pagherà la Gran Bretagna dei due miliardi di euro accertati a livello di frode dall’autorità competente di Bruxelles.

In un certo senso mi risponde il Presidente della Repubblica, che dice: «Non viene, alle volte, adeguatamente rammentato che, dopo due guerre mondiali devastanti nate in Europa, dopo gli stermini di massa provocati da fanatismi nazionali, da rivalità e contrasti di interessi economici, alcuni statisti illuminati – e i loro popoli che allora li hanno seguiti – hanno scelto la strada della collaborazione e dello sviluppo in comune. Tutto questo ha comportato decenni di pace e di benessere crescente mai verificatosi in Europa nel corso della storia. Questo valore è incommensurabile. Non c’è difetto dell’Unione Europea, non c’è carenza nel suo modo di essere e di vivere che possa giustificare il ritorno alle rivalità, alla diffidenza, ai contrasti e al pericolo che si ritorni a quello che abbiamo voluto lasciarci alle spalle oltre mezzo secolo addietro».

Accetto con grande rispetto la bacchettata. Non ritiro quel che oggi ho scritto: ormai è scritto. Ringrazio il Presidente. Accolgo la lezione, ripasserò la storia, rinnoverò la mia fede europeista come si fa con le promesse battesimali durante la Veglia Pasquale. Il mio grande e indimenticabile amico Giampiero Rubiconi scriveva nei suoi sparpagliati pensierini: «Correggimi, se non sbaglio». Ho l’ardire di ripeterlo a Sergio Mattarella.

Crescete e…non moltiplicatevi

Gli esperti non sono affatto d’accordo sul rapporto tra le risorse del nostro pianeta e le esigenze dei suoi abitanti. Secondo una corrente di pensiero prevalentemente laica gli uomini sulla terra sarebbero troppi e mal distribuiti e bisognerebbe di conseguenza mettere in atto morbide e civili procedure di controllo delle nascite, soprattutto in certe aree sottosviluppate, proprie quelle in cui il tasso di natalità è più alto.

A queste opinioni si contrappongono coloro, prevalentemente di matrice cattolica, che sostengono come le risorse sarebbero più che sufficienti agli abitanti del pianeta, anche in prospettiva, a condizione che fossero equamente e proporzionalmente distribuite, senza alcuna necessità quindi di calare dall’alto meccanismi di contenimento delle nascite.

Sono due approcci molto diversi che partono oltretutto da dati scientifici e statistici contrapposti. Viene spontaneo chiedersi: bastano o no le risorse a coprire adeguatamente le necessità di tutti   i cittadini del mondo? Domanda a cui nessuno, credo, possa dare risposte precise.

Ragion per cui propendo per stare, come si suol dire, nei primi danni. Pur condividendo appieno la tesi di chi auspica un’equa distribuzione dei beni, concentrati in poche mani mentre i molti soffrono e rischiano di morire d’inedia, non mi pare il caso di insistere sul no etico al controllo delle nascite per i popoli in cui tale controllo semmai viene di fatto eseguito a livello di mortalità infantile e dovuta a denutrizione e malattie conseguenti a (per dire poco) precarie condizioni igienico sanitarie.

Ritengo quindi socialmente arretrata e dogmaticamente arroccata la posizione della Chiesa cattolica, allorquando non ammette una seria e ragionata istituzione di procedure anticoncezionali. Ricordo che mia sorella, cattolica convinta e praticante, di fronte alle immagini di popolazioni sofferenti per fame e denutrizione, diceva senza evidenziare dubbio alcuno: «Occorrono vagoni e vagoni di pillole anticoncezionali, altro che balle…».

Tanto come di fronte alla piaga dell’AIDS: si sta a sottilizzare sulla liceità dell’uso del   preservativo, mentre migliaia di persone muoiono distrutte da questo virus. «Vagoni e vagoni di preservativi, altro che balle…» aggiungo io. D’altra parte i missionari, unici portatori credibili di principi cristiani in questi ambienti martoriati, credo non si facciano alcun scrupolo nel distribuire preservativi a difesa dell’integrità fisica di tante persone. Qualcuno, bello come il sole, dice che non basta e che il metodo non è sicuro. Beh, intanto cominciamo così, poi viene il resto…

Certamente viene il discorso politico dell’equa distribuzione delle risorse: problema enorme che li riassume tutti. Quindi non mi sembra possibile affrontarlo in questa sede, se non per auspicare che tutti facciano l’impossibile per superare la vergognosa situazione esistente.

Vorrei invece spendere due parole sui dati della natalità nel nostro Paese, nettamente ed in continuo calo, dovuto, a detta dei soliti sociologi chiacchieroni, alla difficoltà nell’occupazione giovanile, al problema abitativo, alle carenze nei servizi all’infanzia, alle deboli politiche di sostegno alla famiglia e alle coppie giovani.

Si è radicata l’idea che, in poche parole, in Italia si facciano pochi figli, perché le condizioni economiche delle nuove generazioni sono piuttosto critiche. Non ne sono mai stato convinto. A supporto dei miei dubbi ricordo innanzitutto quanto mi diceva un carissimo amico di una certa età: «Se ai miei tempi si fosse aspettato a sposarsi e a fare figli di avere lavoro, casa, condizioni economiche, discrete, stabilità, etc., non si sarebbe sposato nessuno e nessuno avrebbe fatto figli, invece…». Osservazioni molto elementari, sociologia spicciola, a volte molto meglio di quella sbandierata prezzolatamene sui giornali e sui media in genere.

Poi arrivano anche i dati statistici, che, se non erro, dimostrano come ci sia una corrispondenza storica tra aumento del benessere e calo della natalità. E allora? Tutto diverso da quel che si sostiene con tanta enfasi. Può darsi che la verità stia nel mezzo.

Se guardo ai miei genitori ed alla storia della mia famiglia posso raccontarvi che mio padre e mia madre si sposarono senza alcuna copertura economica alle spalle: mio padre era un lavoratore edile e quindi soffriva una disoccupazione stagionale piuttosto prolungata, mia madre aveva l’intenzione di aprire un laboratorietto di maglieria (sapeva l’arte, ma sposandosi l’aveva messa da parte, in attesa di risorse da investire), la casa era una topaia in comune con la famiglia paterna di origine. Mia sorella nacque in questo contesto. Io nacqui a distanza di tempo, quando la situazione era un pochettino migliorata, ma feci in tempo a trascorrere la mia prima infanzia in un ambiente di grande e dignitosa povertà. Poi le cose, pian piano, a furia di enormi sacrifici, migliorarono. Se i miei potenziali genitori avessero adottato le loro scelte esistenziali sulla base dei criteri odierni, io sarei ancora nella mente di Dio. Magari l’umanità ci avrebbe guadagnato, ma questo è un altro discorso.

 

Giovani per gioco

Intervista televisiva su Rai news 24. Si parla della triste morte di un tredicenne travolto, in provincia di Catanzaro, sui binari da un treno in corsa. L’ipotesi è che si sia trattato di un gioco o di una prova di coraggio a livello di gruppo: scattare un selfie con un treno che sta sopraggiungendo, per poi magari circolarizzarne l’immagine a livello internet. Uno ci lascia le penne, gli altri amici si salvano per un pelo oppure osservano inorriditi.

Un tempo si diceva: divertimento innocuo per bambini scemi. Oggi bisognerebbe correggere questo modo di dire: divertimento estremo per ragazzi alienati.

Prima però due parole a commento dell’intervista. La cronista di turno parla con l’avvocatessa di uno dei ragazzi sopravvissuti, la quale esclude categoricamente si sia trattato di un selfie estremo. Sembra più preoccupata della buona riuscita dell’inquadratura su di sé e della propria acconciatura che non del chiarimento sul drammatico caso. Da parte sua l’intervistatrice prende atto burocraticamente delle affermazioni, ma non le passa nemmeno per l’anticamera del cervello di chiedere all’avvocatessa: “Allora, se lei è così sicura su come sono andati i fatti al punto da poter con certezza escludere il tragico gioco, ci dica cosa è successo, ci aiuti a capire”. Nemmeno per sogno, tutto finisce lì. Mi sembra ci sia di che lavorare per Antonio Di Bella, il direttore di questo canale Rai. L’informazione è altra cosa, caro direttore. Lei personalmente la sa fare, gliene do atto con piacere e riconoscenza, ma i suoi collaboratori…

Mi auguro che la dinamica dell’incidente sia diversa rispetto alle prime ipotesi. Ho letto con angosciosa attenzione le ricostruzioni assai poco convincenti dei compagni sotto shock di questo ragazzo, che ridurrebbero l’episodio ad una bullistica escursione finita in tragedia: dal gioco estremo retrocederemmo alla bullata giocosa, ad una scorciatoia improvvisata con un dribbling ferroviario finito con un macabro e tragico autogol. Siamo comunque, credo, alla pura follia trasgressiva giovanile. Sarei ben contento di sbagliarmi, perché, almeno, la tragedia avrebbe motivazioni meno drammatiche e sconvolgenti.

Le cronache dicono tuttavia che non si tratti di episodi inediti: ancor peggio se sta diventando una corrente di “pensiero giovanile”. Il fatto non comporta, a mio avviso, alcun ulteriore commento, rappresenta infatti di per sé la (perfetta) sintesi etica, storica, sociologica, psicologica, politica dello sbando della nostra epoca.

Nello stesso giorno leggo alcuni stralci di un’intervista concessa dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, rilasciata a “La civiltà cattolica” in occasione della pubblicazione del numero 4mila di questa prestigiosa e interessante rivista.

Parlando di impegno sociale e politico il Presidente, con la connaturale profondità di pensiero e la credibile linearità di proposta, dice: «Non soltanto c’è la consapevolezza dell’esigenza di garantire ai giovani una certezza di prospettive, ma si avverte anche l’esigenza che si impegnino in maniera attiva nella vita istituzionale e politica. Tra le lettere dei condannati a morte della Resistenza c’è n’è una molto bella di un giovane di neanche vent’anni, il quale, la sera prima di essere fucilato dai nazifascisti, scrive ai genitori: “Tutto questo avviene perché voi un giorno non avete più voluto saperne di politica”». L’intervista prosegue, ma io mi fermo qui.

Facendo un ardito parallelismo, con grande commozione e forte inquietudine, provo ad immaginare cosa avrebbe potuto scrivere ai genitori quel giovane calabrese prima di mettere a repentaglio la vita per gioco. Ecco le parole della sua (im)probabile lettera: “Tutto questo avviene perché voi, e tutta la vostra generazione, non avete saputo testimoniarci cosa vuol dire vivere e allora noi, non capendo il senso della vita, rimasti bambini, abbiamo giocato a vivere e …a morire”.

Non ho fatto parte, per mia fortuna, ma soprattutto per merito dei miei educatori palesi ed occulti, dei giovani allo sbando esistenziale. Faccio parte però degli uomini che non hanno saputo testimoniare ai giovani un senso della vita o almeno il senso del cercare seriamente di vivere, ne sento tutta la responsabilità e la colpa, assieme a molti altri della mia generazione.

Armiamoci e…morite

Il 15 maggio 2014 Papa Francesco ai diplomatici di tutto il mondo, ricevuti in udienza, disse:   «Sarebbe un’assurda contraddizione parlare di pace, negoziare la pace e, al tempo stesso, promuovere o permettere il commercio delle armi».

Lo hanno preso in parola, al contrario di quanto volesse auspicare, e infatti chi parla più di pace? E coerentemente le spese militari sono cresciute di oltre l’otto per cento in cinque anni. Alcuni Stati, India, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Cina e Algeria, comprano il 34 per cento di tutte le armi presenti sul mercato. Usa e Russia vendono il 56 per cento del totale delle armi trafficate, ma anche Cina, Francia e Germania non scherzano col loro 18 per cento. Le cosiddette grandi potenze insomma infestano letteralmente di armi il mondo intero. L’Italia vende il 2,7 per cento del totale ed è ottava in classifica (niente male…), mentre è al 25esimo posto nella classifica degli importatori (da Usa, Germania, Israele). Tutti dati pubblicati di recente.

La cifra sconvolgente però è quella della spesa globale in armamenti che ha raggiunto 1.676 miliardi di dollari equivalenti al 2,3 per cento del prodotto interno lordo mondiale. In parole povere significa che su cento di beni e servizi prodotti nel mondo, 2,3 se ne vanno in armamenti. Non ho idea quante persone si potrebbero sfamare con questa cifra astronomica, ma non voglio fare demagogia sulla pelle di chi muore di fame e di sete.

Dicevo sopra che nessuno parla più di pace, ma di riarmo, di rafforzare le proprie difese (?), di aumentare la spesa militare: è un macabro botta e risposta innescato ultimamente dalla pazzia del nuovo presidente Usa a cui hanno risposto per le rime la Russia, la Cina etc. etc. Tira aria di corsa agli armamenti, convenzionali e nucleari. I destini nel mondo sono, come non mai, nella mani di personaggi incredibilmente inaffidabili, che oltretutto stanno facendo proseliti a livello di stati e di popoli. Mettete virtualmente intorno a un tavolo l’americano Donal Trump, il russo Vladimir Putin, il cinese Xi Jinping, il nord-coreano Kim Jong-un e magari aggiungete un posto per il turco Recep Tayyip Erdogan e provate a pensare cosa ne potrà sortire.

Si è creato un clima competitivo ed antagonistico tale da spingere la “Casa Nera” di Trump a dispiegare forze speciali per liberare Raqqa, la capitale siriana dello Stato islamico: in realtà solo la scriteriata voglia di invertire la tendenza obamiana del non-intervento e per creare i presupposti del sedersi a pieni titolo ai tavoli di guerra; la Corea del Nord si diverte a lancia a titolo sperimentale ordigni nucleari e gli Usa rispondono dispiegando nella Corea del Sud lo scudo anti-missile, che però non entusiasma gli ospitanti (?) di questo sistema protettivo e dà fastidio, e non poco, alla Cina. Detto fra i denti, l’atteggiamento della Cina sembra il più equilibrato e sensato: è tutto dire. Schermaglie atomiche, fiammiferi accesi che si aggirano intorno a un barile pieno di benzina.

Contemporaneamente si legge che (dati Onu) 100mila persone stanno morendo in Sud Sudan per la carestia. Secondo l’Unicef sono 10,2 milioni gli Etiopi che hanno urgente bisogno di aiuti alimentari. E purtroppo non sono i soli nel mondo.

Da una parte ci sono gli equilibri internazionali ricercati e basati da sempre sulla carne da cannone, dall’altra il pietismo internazionale fatto (spesso) business, in mezzo milioni di uomini che soffrono e muoiono di guerra, fame e sete.

E noi, che ci siamo fatti crescere un bel po’ di pelo sullo stomaco, facciamo finta di niente. Viviamo e speculiamo sulle miserie altrui e, se, per caso, qualcuno (ormai cominciano ad essere molti) ci viene ad interpellare, ci chiediamo e gli chiediamo come si permette di romperci le scatole e lo mettiamo alla porta.

Qualche pseudo-religione fa della fine catastrofica del mondo il proprio leitmotiv. Ma, se alziamo lo sguardo, quella che abbiamo sotto gli occhi non è già potenzialmente la fine del mondo? Cosa ci vuole di più?

Il dubbio atroce riguarda il cosa fare. Dobbiamo rimetterci al volere dei grandi sulla terra, scaricando su di loro le responsabilità, come se fossero degli alieni capitati per caso in mezzo a noi e non i rappresentanti di un (dis)ordine mondiale che ci coinvolge tutti?

Non voglio battere sempre sullo stesso chiodo, ma se andiamo dietro ai Trump collocati nel mondo, cosa pensiamo di ricavarne? Mi si dirà che anche gli Obama non hanno fatto granché. È vero, ma se diamo persa la partita, sarà arduo riuscire a vincerla o almeno a giocarla dignitosamente.

Sono partito dal Papa e passo a mio papà. Nella sua semplicità, quando osservava l’enorme quantità di armi prodotta, rimaneva sconfortato e concludeva per un inevitabile inasprirsi dei conflitti al fine di poter smaltire queste scorte diversamente invendute ed inutilizzate. «S’in fan miga dil guéri, cò nin fani ‘d tùtti chìli ärmi lì?» si chiedeva desolatamente.

Aveva ragione, ma non basta. Quando infatti ci presenteremo al trono dell’Altissimo non ce la potremo cavare al basso prezzo di scaricare sul sistema la responsabilità delle tragedie umane. Non sarà così facile saltarci fuori. Perché chi ci ha collocato su questa terra, affidandoci, fra l’altro, la mission di trattarla come un giardino, chiederà automaticamente: «E tu?». Io mi schifavo, scrivevo, parlavo, gridavo. «E poi?». Criticavo, condannavo, protestavo, mi agitavo. «Meglio di niente…e poi?». Urlavo che era tutto ingiusto e sbagliato. «Ascolta…ho capito non hai fatto niente» concluderà minacciosamente il Giudice dei vivi e dei morti.

Il Padre Eterno mi scuserà ma mi sovviene un gustoso episodio, che serve anche a sdrammatizzare la situazione, senza peraltro minimizzarla o sottovalutarla.

Nel periodo immediatamente successivo alla mia andata in pensione incontrai un arguto e simpatico conoscente, che mi chiese cosa stessi facendo dopo la svolta pensionistica della mia esistenza. Mi affannai a spiegargli come fossi impegnato a scrivere, a leggere, a dialogare, a mettere la mia esperienza a disposizione di Tizio e Caio, etc. Mi guardò e, tra il serio e il faceto mi gelò dicendomi: «Ho capito…non fai un cazzo!». Presi, incartai e portai a casa.

La patologica ordinaria trascuratezza

La fogliazione dei giornali quotidiani di oggi, 10 marzo 2017, concede largo spazio, nelle pagine successive alla prima, a notizie, argomenti e temi diversi, che, tuttavia, pur nel loro diverso rilievo e nella loro diversa natura sono, a mio giudizio, riconducibili ad un’unica singolare lettura e ad una medesima originale riflessione: in Italia si legifera, si governa, si amministra, si giudica con l’occhio rivolto allo straordinario, trascurando sciaguratamente l’ordinario, il quotidiano, la normalità, che diventa banale ma tragica dimenticanza.

Primo drammatico evento: crolla un viadotto sull’autostrada, muoiono schiacciate due persone sulla loro auto che transita occasionalmente e precipitano ferendosi tre operai che stavano lavorando accanto a quel viadotto per sopraelevarlo. Si cercheranno le cause di questo crollo: eventi simili si erano già verificati negli anni scorsi. Si doveva chiudere il transito su quel tratto autostradale sottostante? Si, no, nessuno al momento è in grado di dirlo. Il progetto dei lavori era valido? Risponderanno le perizie tecniche. C’è di mezzo un errore umano? Lo stabilirà la magistratura che determinerà eventuali responsabilità. Una cosa è certa: non si dovrebbe morire a causa di normali lavori di manutenzione. O non erano normali e allora qualcuno ha cannato di grosso o, se erano normali, non ci dovevano essere problemi tali da mettere a repentaglio vite umane. Probabilmente si tratta di lavori normali, eseguiti male e/o in ritardo e/o usando materiali inadatti e/o impiegando mano d’opera inadeguata. Insomma l’ordinarietà male affrontata, che diventa una trappola mortale.

Secondo evento di tutt’altro genere: i voucher d’ora in poi saranno utilizzati solo a certe condizioni e in casi riguardanti rapporti di lavoro indiscutibilmente non a tempo indeterminato e quindi di carattere meramente occasionale. La CGIL con la sua richiesta referendaria voleva eliminarli completamente con uno straordinario Sì all’abrogazione della legge che li regolamenta ed insiste su questa intenzione; il governa tenta di mantenerne in vigore l’uso ordinario volto soprattutto a sburocratizzare i rapporti di lavoro meno strutturati, facendoli tuttavia uscire dall’area nera.   Un altro caso di messa in discussione dell’approccio pragmatico all’ordinarietà della vita lavorativa, rifiutato da chi vuole straordinariamente (referendum) non vedere ed eliminare la quotidianità di lavori precari e temporanei.

Terzo evento in materia di diritti civili: il tribunale di Firenze accoglie le istanze presentate da due coppie gay per il riconoscimento di adozioni di bambini, intervenute all’estero. La legge italiana non ammette questo tipo di adozione, ma la magistratura ne riconosce ed ammette la legittima straordinarietà. Un altro caso di carenza nell’affrontare l’ordinarietà della vita per poi dover sistemare in qualche modo gli effetti straordinari conseguenti a tale carenza.

Quarto evento in materia di spending review: si era deciso straordinariamente di contenere l’uso degli aerei blu (voli di rappresentanza a disposizione delle cariche istituzionali), considerandoli uno spreco inutile e vendendoli di conseguenza, così come era stato deciso di fare per certi beni immobili demaniali inutilizzati. Niente da fare, ciò si è rivelato impossibile (per diversi motivi) e questi beni, usciti dalla ipotetica porta del parsimonioso straordinario, rientrano dalla realistica finestra dello spendaccione ordinario. Quattro esempi che ho posto, a prescindere dal merito delle materie che li sottendono. In poche parole si tende sempre e comunque a rincorrere l’ipotetica perfezione di interventi nuovi e definitivi a scapito degli interventi inquadrabili nella normale routine. Un po’ come succede quando in una famiglia si decide di cambiare casa e in attesa di questo nuovo investimento si tende a sottovalutare gli interventi di ordinaria manutenzione. Può avere un senso se la nuova casa arriva in fretta, diversamente rischia di caderci addosso la vecchia casa senza più bisogno di averne una nuova.

Anche nei programmi politici e nei giudizi sugli stessi tendiamo sempre ad alzare l’asticella in nome del cosiddetto benaltrismo. Voliamo alto e regolarmente non vediamo quel che avviene in basso, salvo poi precipitarci sopra. Persino il governo Gentiloni potrebbe finire cadendo, come nel baseball, in una sorta di “battuta di sacrificio” per ottenere i vantaggi futuri di un governo tutto da “inventare”.

Sarà forse il caso di darsi una regolata, a tutti i livelli, per dedicarsi innanzitutto e soprattutto a impostare e far ben funzionare l’esistente ed a migliorare l’ordinario, prima di rincorrere le sacrosante novità, che tuttavia rischiano di essere campate in aria. Bisognerà sbrigarsi a cambiare mentalità prima che arrivi chi garantisce l’ordinario a tutti i costi (leggi i treni in orario) e che la gente sia “costretta” a credergli. Tanto, se poi le promesse non vengono mantenute, chi se ne frega. Trump è stato eletto presidente degli USA in questo modo e per abbattere le illusioni ordinarie ci vorranno tempi straordinari.

 

Ragion di Stato e…di stadio

Papa Francesco, nell’ambito di una intervista rilasciata a “Scarp de’ tenis”, mensile di strada milanese, ha dichiarato riguardo agli immigrati: «Quelli che arrivano in Europa scappano dalla guerra o dalla fame. E noi siamo in qualche modo colpevoli perché sfruttiamo le loro terre, ma non facciamo alcun tipo di investimento affinché loro possano trarre beneficio. Hanno il diritto di emigrare e hanno diritto ad essere accolti e aiutati».

Angela Merkel, la cancelliera tedesca alla spasmodica ricerca di credibilità e di consenso sul delicato e complesso tema dell’immigrazione in vista delle prossime elezioni in cui si è ricandidata, lo ha preso in parola (si fa per dire) e, dopo essersi sbilanciata, qualche tempo fa, in aperture significative e coraggiose verso i disperati provenienti soprattutto dal martoriato territorio siriano, ha tirato il freno a mano, prima facendo sborsare alla UE un’enorme cifra alla Turchia in cambio di un impegno a contenere il flusso e a tamponare in qualche modo l’emorragia migratoria, attualmente andando in giro per l’Africa, offrendo, questa volta in proprio (le casse tedesche), a Egitto e Tunisia cospicui fondi (in totale sarebbero 750 milioni di euro) per ottenerne l’impegno a combattere gli scafisti, a collaborare ai rimpatri ed ai respingimenti.

Da paladina del diritto all’accoglienza si è trasformata in elemosiniera del “purché stiano a casa loro”. Mi sovviene una battuta che sparava spesso un mio carissimo e simpatico zio allorquando salutava un amico: «Veh, quand at me vôl gnir a catär…sta a ca tòvva».

Non si è investito per tempo in aiuti seri ai Paesi in via di sviluppo ed ora si cerca di correre ai ripari elargendo aiuti a Paesi, in certi casi di provata prassi anti-democratica, disposti a non andare tanto per il sottile con i potenziali migranti pur di incassare fondi che non si sa dove vadano a finire. In poche parole si appalta il lavoro sporco, mettendo formalmente a tacere la propria coscienza. Credo che papa Francesco intendesse qualcosa di diverso.

Una volta arrivati in Europa (almeno così succede spesso in Italia, altrove non so) gli immigrati vengono spesso ammassati in veri e propri ghetti a disposizione del caporalato che li sfrutta e li umilia. Poi quando diventano troppo ingombranti si incendiano le baracche in cui dormono, si procede a frettolosi e agghiaccianti sgomberi mettendo in azione le ruspe. E abbiamo persino il becco di ferro di sostenere che vengono a rubarci il pane e il lavoro. Se non è razzismo, cos’è?

Il razzismo rientra nel pacchetto dei peggiori istinti dell’uomo e lo stadio è un luogo dove si sfogano tali istinti, tra questi in primis l’odio razziale. Fino a qualche tempo fa i penosi governanti del mondo calcistico, che di sport non ha più nulla, mentre ha tutti i difetti possibili e immaginabili della società in cui è perfettamente inquadrato, avevano dichiarato nominalmente guerra allo sfogatoio razzista degli stadi, più minacciando più che comminando sanzioni piuttosto pesanti ai club ed ai protagonisti di episodi inqualificabili.

Ebbene, le multe sono state ultimamente molto alleggerite, la tolleranza si è alzata ben sopra lo zero: nel momento in cui le società calcistiche si sono rese conto del danno ricavabile e del rischio di svuotare ulteriormente gli stadi, hanno ottenuto una spiccata marcia indietro dagli organi federali. Sembra che la nuova logica sia quella del permissivismo: gridate, ma non troppo; offendete, ma fino ad un certo punto; odiatevi, ma con un tocco di ironia. Staremo a vedere se il confermato presidente Tavecchio, libero dai condizionamenti della ricerca del consenso, saprà affrancarsi anche dalle preoccupazioni dei suoi schizofrenici elettori: se vuotiamo gli stadi, chiudiamo le curve, scontentiamo gli ultras, cosa succede?

Le curve degli stadi sono molto importanti nella strategia calcistica. Mi scappa detto che siano più apprezzate, vezzeggiate ed ammirate delle curve delle belle donne. Un tempo, vado al periodo in cui le frequentavo da ragazzino assieme a mio padre (le curve, non le belle donne…), erano i contenitori del pubblico povero ma pulito (come il loggione a teatro), dove si stava in piedi e ci si bagnava, dove si vedeva sì e no metà partita ma la si soffriva tutta, senza gridare perché l’urlo non arrivava a destinazione, dove ci si conosceva e si scherzava. Poi sono diventate il luogo del tifo organizzato, della tentazione violenta, della contestazione cattiva. Oggi sono le padrone dello stadio, dentro e fuori di esso; condizionano le società e le squadre, con scioperi del tifo, striscioni provocatori, contestazioni pacifiche o violente; influenzano l’andamento delle partite imponendo persino scelte tecniche; dialogano con i giocatori da cui ricevono scuse e riconoscimenti; sembra che siano la sede del bagarinaggio di biglietti e abbonamenti; qualcuno le ipotizza come interlocutrici della ’ndrangheta; sono la spina nel fianco, la croce e la delizia dei patron, da cui sono peraltro spesso foraggiate; vengono ricevuti in pompa magna dagli stati maggiori delle società; sono il campo di battaglia per “guerre” che col calcio non hanno nulla a che vedere, lo sfogatoio criminale di un mondo giovanile deviato, il luogo accogliente e dimostrativo per i peggiori istinti socio-politici, dal razzismo al fascismo, dall’omofobia al nazismo. Tutti conoscono queste anomalie, però ci vanno cauti: i media condannano la violenza, ma poi finiscono indirettamente con l’incitarla tramite le loro assurde menate; i presidenti delle società hanno lì, bene o male, il loro retroterra popolare e un loro interesse economico; i giocatori trovano lì i loro assurdi ed esagerati momenti di gloria (pagati a caro prezzo nel momento della sconfitta); gli allenatori hanno il loro destino che dipende anche dagli ultras e quindi…; gli arbitri non si permetterebbero mai di sospendere una partita facendo un dispetto alla curva, semmai sarà la curva che imporrà la sospensione della partita all’arbitro (è già successo).

Sul razzismo possono andare in crisi i governi, ma il calcio no. Lasciateci godere in pace il pallone. Tutt’al più possiamo scandalizzarci e arrabbiarci per i soliti arbitraggi ad usum Delphini (che fa rima con Juventini) e per le classifiche bugiarde. Davanti alla corruzione e al malaffare vigente nel calcio non sappiamo far altro che alzare le spalle. Di fronte alle urla e agli striscioni razzisti facciamo finta di essere sordi e ciechi. Forse li siamo veramente. Che società di merda!

La Cina è vicina

Non ho mai sopportato e non accetto tuttora lo scandalismo costruito strumentalmente intorno al trattamento economico dei parlamentari, dei ministri e dei più alti funzionari pubblici ( magistrati, etc.). Se devo essere sincero mi infastidiscono invece i lauti guadagni dei divi dello sport e dello spettacolo. Mi si dirà che sono una questione privata, che non influisce sulle casse erariali. Sì, anche se alla fine tutto riguarda tutti e restano uno scandalo assai più degli stipendi dei deputati o dei consiglieri regionali.

Anche la polemica sui costi della politica non mi entusiasma. Mio padre di fronte a tali discorsi diceva ironicamente: «Se spendäva meno quand a cmandäva vón e chiètor i dzèvon sémpor äd sì…». Sono del parere che il denaro pubblico impiegato per far funzionare le istituzioni democratiche sia ben speso. Se le istituzioni non funzionano, è un altro discorso: ma il problema non si risolve “minimalizzando” la politica, ma massimizzando la sua efficienza e la sua vicinanza alle istanze dei cittadini.

Qualcuno direbbe che la politica, con i suoi costi, è un male necessario; io vado ben oltre ed esprimo la netta convinzione, nonostante tutto, che sia un bene opportuno ed importante.

Altri discorsi sono la corruzione, la scorrettezza, l’accaparramento scorretto e sleale da parte dei politici. Ricordiamoci che la congruità del compenso dovrebbe essere inversamente proporzionale alla propensione a confondere la politica con gli affari e gli interessi personali.

Lo stesso Matteo Renzi ha sbagliato, a mio giudizio, a legare seccamente la bontà della riforma costituzionale, portata avanti in questi anni e sottoposta al vaglio referendario dei cittadini, con la diminuzione, sic et simpliciter, delle poltrone e del conseguente loro peso economico. Non si tratta di tagliare per tagliare, ma di tarare quantitativamente e qualitativamente la politica e le Istituzioni sulle esigenze di una società in trasformazione continua e sulle sue caratteristiche essenziali. Il Senato non andrebbe abolito per sfoltire e per risparmiare, ma per togliere o ridimensionare un organo istituzionale che con l’andare del tempo si è rivelato alquanto pleonastico e ripetitivo.

Certo, se partiamo col considerare chi fa la scelta di dedicarsi a tempo pieno alla politica come un fannullone, un privilegiato, un profittatore, una sanguisuga, un contaballe, arriviamo a pericolosissime conclusioni, mettendo in discussione i meccanismi della democrazia rappresentativa e della democrazia stessa, e dal momento che non ne è ancora stata escogitata una forma credibile diversa…

Non è nemmeno un discorso serio l’auto-abbattimento dei compensi a significare che sono eccessivi e spropositati rispetto all’impegno e alle responsabilità di chi li percepisce. Si tratta di determinarli in modo equo e tali da garantire una retribuzione dignitosa e corrispondente al tipo di vita richiesto per assolvere al meglio la funzione assegnata. Il pauperismo non è per la politica, così come il volontariato o il vocazionismo etico. Non dobbiamo prenderci in giro con menate demagogiche.

Ciò non toglie che vadano eliminati assurdi privilegi e favoritismi più fastidiosi che costosi. Si faccia una volta per tutte una sana riforma degli emolumenti, dei rimborsi spese e dei trattamenti pensionistici dei componenti delle istituzioni a tutti i livelli, ministri, parlamentari, consiglieri, assessori e governatori regionali, consiglieri ed assessori comunali, sindaci, e poi si smetta una buona volta di fare inutili e fuorvianti polemiche.

Troppo spesso emergono episodi di abusi e scorrettezze e qui occorrerà vigilare e colpire con fermezza e severità, evitando le solite generalizzazioni al peggio.

Il capitolo dei rimborsi spese è forse quello più delicato che si presta ad abusi, frodi e manovre clientelari e familistiche. Si sono registrate in passato vicende decisamente poco simpatiche, alcune delle quali hanno trovato tuttavia un ridimensionamento, se non addirittura una rimozione, a livello giudiziario (sarebbe il caso, da parte degli organi indaganti, di essere un tantino più cauti e circostanziati).

Al riguardo starebbe emergendo un bel vespaio anche a livello europeo in capo ai parlamentari, alcuni dei quali facenti parte di movimenti spiccatamente antieuropei o euroscettici: della serie l’Europa non ci piace, ma i suoi fondi ci fanno comodo. Il curioso dato politico è questo.

Se non erro, a livello storico, i rivoluzionari, per fare guerra ai regimi, si sono serviti anche degli strumenti di regime: inglesi, francesi, polacchi, italiani, sembra che giocassero sull’equivoco dei loro collaboratori fuori sede in tutt’altre faccende affaccendati. Si difenderanno magari dietro un banale “il fine giustifica i mezzi”?. Resterebbe da capire qual è il fine e quali sono i mezzi.

Il condizionale è sempre d’obbligo e, leggendo sui giornali le controdeduzioni dei parlamentari europei coinvolti, rappresentanti dell’Italia, si nota innanzitutto un livello culturale molto modesto e vengono forse a galla molta faciloneria e parecchio pressappochismo più che veri e propri disegni fraudolenti per aggirare le regole.

 

Quel che si capisce è che questi parlamentari europei hanno sicuramente agito con leggerezza nell’usufruire di fondi europei per il rimborso delle loro spese. Solo pasticcioni dunque? Staremo a vedere, senza condannare nessuno anzitempo, ma chiedendo da subito almeno più attenzione e scrupolo nel maneggiare quantità consistenti di soldi pubblici (europei o italiani che siano).

Ho recentemente sentito finalmente affrontare il discorso della remunerazione dei politici con giusto taglio realistico: come si può chiedere competenza, esperienza, dedizione, impegno, responsabilità a persone che devono in tutto o in gran parte abbandonare la loro attività professionale, non garantendo loro una remunerazione che consenta, se non di lucrare, almeno di contenere i danni? Altrimenti rischiamo di rivolgerci ad una platea di incapaci ed incompetenti, per i quali, allora sì, la remunerazione diventa una opportunità di comodo rifugio.

Un problema diverso riguarda il finanziamento pubblico dei partiti. Non credo alle vie di mezzo. Da una parte il finanziamento pubblico si presta a sprechi e utilizzi deviati o devianti; dall’altra parte l’autofinanziamento espone la politica alla indebita pressione di lobby e interessi privati forti. Dal momento che la prima forma non esclude automaticamente e categoricamente la seconda, tanto varrebbe puntare sull’autofinanziamento instaurando efficaci meccanismi di tracciabilità dei fondi che viaggiano da una Fondazione all’altra, da un giornale di partito o di area all’altro, in un mix in cui si rischia di non capire chi dà e chi riceve, chi manovra e chi fa politica, chi vuole sostenere certi partiti e chi vuole lucrare certe protezioni e certi favoritismi, anticamera della corruzione.

Entriamo nella zona grigia in cui il confine tra politica e affari non si coglie. Tutto ciò fa molto più paura degli stipendi e dei vitalizi dei parlamentari a cui torno, in conclusione, per riaffermare come sia controproducente e squalificante la gara populistica per l’abbattimento degli emolumenti ai politici, fino ad arrivare a chi provocatoriamente li vuole eliminare come nella Costituzione cubana (diventiamo cinesi, quando i cinesi si stanno convertendo ai meccanismi occidentali? Magari diamo loro anche una tuta di stoffa grezza, meglio se grigia…), a chi   gioca a fare il primo della classe rinunciando a parte dello stipendio da devolvere a fini di pubblica utilità (devono rimanere ammirevoli scelte personali che non fanno regola), a chi vuole istituire un redditometro per i parlamentari (mi sembra che i meccanismi di trasparenza siano più che sufficienti, anche se non coprono gli introiti illegali), a chi magari se ne frega delle remunerazioni ufficiali con la riserva mentale di arrangiarsi in altro modo (vogliamo continuare a farne la migliore “qualità” del nostro popolo e dei suoi rappresentanti?). Tutte scorciatoie. Cerchiamo la strada principale che rivaluti il ruolo della politica. Ce n’è bisogno. Di buona politica, certo.