Dietro le indulgenze c’era in agguato lo Ior

A 500 anni esatti dalla pubblicazione delle tesi di Wittenberg (31 ottobre 1517) ho fatto la mia personale celebrazione di questo evento e della riforma luterana in genere per quello che di essa sono riuscito a cogliere. Alla domanda se si debba considerare Martin Lutero come un eretico e un contestatore o un profeta vero e proprio capace di rinnovare la vita cristiana alla luce della Parola di Dio, non avrei dubbi a rispondere riconoscendo la portata profetica a questo personaggio, che mi scuote, mi mette in crisi, ma in fin dei conti mi consola.

Ho letto e ascoltato dotte dissertazioni, prevalentemente portate a rivalutare, anche dalle sponde cattoliche, la sua azione fortemente provocatoria, coraggiosa ed innovativa: sul carattere provocatorio, che spesso viene considerato un limite dagli uomini di Chiesa portati a smussare gli angoli, esprimo tutta la mia ammirazione in quanto sono fermamente convinto che Gesù Cristo sia stato il più grande provocatore di tutti i tempi e quindi…

Voglio però riportare semplici notazioni personali e parto dai limitati e superficiali studi storiografici della mia modesta carriera scolastica: i manuali di storia finivano col circoscrivere la riforma luterana alla sacrosanta reazione verso l’abuso delle indulgenze da parte del Vaticano. Pur capendo l’assurdità dell’affarismo legato ad un perdono somministrato tariffario alla mano, pur comprendendo la gravissima violazione religiosa contenuta in questa prassi simoniaca, non riuscivo a comprendere come, da entrambe le parti, su una simile questione si potesse arrivare ad uno scisma vero e proprio. C’era ben altro, prima e dopo, sopra e sotto le indulgenze. Si pensi allo Ior…

Passo ad una storia parentale: una cugina di mia madre, sostanzialmente ripudiata e rinnegata per essere andata sposa ad un protestante e quindi costretta ad abiurare per poter celebrare il suo matrimonio. Oggi questi matrimoni si celebrano in carrozza, senza alcun problema, sono addirittura la punta di diamante dell’incontro fra cattolici e protestanti.

Quando osservo l’inflazione di statue che adornano le chiese cattoliche e il devozionismo deviante ad esse collegato e sconfinante in un vero e proprio pietismo che fa rima con magismo, quando osservo certe ridondanti e debordanti liturgie, quando vedo i Santi e Maria Vergine messi in pol position davanti a Gesù Cristo, mi viene nostalgia dell’austero ed essenziale culto protestante. La centralità di Cristo, a livello teologico e liturgico, come punto cardine per la salvezza di ogni credente non è ormai patrimonio cristiano comune?

Ricordo quando venivano a bussare alla porta di casa mia i propagandisti protestanti che offrivano la Bibbia a noi recalcitranti cattolici, timorosi di leggere la Parola di Dio senza la mediazione clericale. Non siamo arrivati tutti a riconoscere il primato della Parola di Dio nella vita ordinaria dei credenti?

Quando prendo atto della flessibilità luterana in materia di morale sessuale, mi chiedo se i protestanti non abbiano fatto e continuino a fare da battistrada sulla via della deregulation per affermare che, ad esempio, nel matrimonio quello che conta è l’amore degli sposi e poi c’è la procreazione. Ricordo sempre un mio simpatico amico che mi confidò come andandosi a confessare si sentì chiedere quante volte avesse violato la regola ferrea dell’atto sessuale legato alla procreazione. Mi disse: «Se ha poco senso considerare peccato un atto d’amore a prescindere dalla procreazione, è decisamente demenziale contare il numero degli sgarri: infatti una coppia, se vuole evitare la sorpresa, deve adottare stabilmente certe precauzioni…».

La riforma conciliare, per certi versi ancora inattuata, non recuperava forse tante intuizioni luterane, considerate eretiche e causa di separazione tra le Chiese cristiane? Sul celibato sacerdotale e sulla posizione della donna nella Chiesa i protestanti non sono più avanti dei cattolici?

Per fortuna il dialogo ha fatto passi avanti, ma quante difficoltà, quante incertezze, quante paure! Non voglio dire che Martin Lutero avesse tutte le ragioni, ma ne aveva molte e su parecchie il tempo gli ha dato ragione. Mi consolo pensando alla mia vis trasgressiva, alla mia vocazione eretica, alla mia tendenza a far prevalere la coscienza rispetto alle fredde regole morali. Da cattolico forse a volte esagero, forse faccio scelte di comodo… Che Martin Lutero preghi per me!

La torta istituzionale non viene dalla cucina renziana

Fanno sorridere quanti sostengono che Matteo Renzi voglia impossessarsi delle Istituzioni occupandole con uomini a lui particolarmente vicini: infatti, in capo al segretario del Pd, eletto quasi plebiscitariamente con vere elezioni primarie, si sta creando una situazione quasi paradossale, vale a dire un certo isolamento rispetto a coloro che presiedono le istituzioni.

Paolo Gentiloni, capo del governo, mantiene nei confronti di Renzi un’autonomia al limite del separatismo: ciò si è dimostrato in parecchi casi, ultima la conferma del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, verso cui il Pd aveva, seppure indirettamente, manifestato qualche perplessità. Di conseguenza anche la Banca d’Italia non avrà un feeling particolare col segretario del Pd.

La presidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini, di provenienza Sel, ha aderito espressamente a Campo Progressista, la recente formazione politica capeggiata da Giuliano Pisapia e quindi non è certo in rapporti idilliaci con Renzi e lo si capisce spesso.

Il presidente del Senato Pietro Grasso si è chiamato fuori dal Pd senza mezzi termini, segnando un netto disaccordo di merito e di metodo con la segreteria Renzi e con il gruppo senatoriale del partito (la legge elettorale è stata solo l’occasione per ufficializzare la rottura).

Il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano da tempo strizza l’occhio alla minoranza interna al Pd ed ha preso ultimamente e distanze in ordine alla legge elettorale per come è stata approvata, ma anche per il suo contenuto. Non parliamo degli altri ex (Prodi, Monti, Letta, etc) a cui ho già dedicato un acido commentino (non mi ripeto e rimando lettori ad un precedete pezzo).

Se questo vuol dire invadenza renziana… Proviamo a immaginare cosa farebbero e cosa fanno altri leader politici italiani. Il relativo isolamento renziano non può certo essere ascritto ad ostilità preconcetta nei suoi confronti: c’è anche quella, ma pure lui ha le sue responsabilità politiche e caratteriali. Da qui ad essere accusato di collezionismo poltronaro ed invadenza istituzionale ce ne passa.

Pensiamo se Berlusconi avesse un forzista a capo del governo. Tenderebbe a manovrarlo come una marionetta, non si farebbe tanti scrupoli istituzionali. E che dire di Beppe Grillo? Non consentirebbe certo a Luigi Di Maio di nominare un governatore della Banca d’Italia in contrasto col parere suo e della maggioranza del movimento cinque stelle (certi sindaci, consiglieri e deputati grillini sono stati emarginati o espulsi per molto meno).

La forza di Matteo Renzi sta diminuendo non tanto per un calo nei consensi statisticamente pesati, ma per il suo progressivo isolamento istituzionale che non è conseguenza ma causa di debolezza politica.   L’unica istituzione che mantiene una sacrosanta neutralità è la Presidenza della Repubblica: Sergio Mattarella è capace di tenersi fuori dalla mischia e, se interviene, lo fa con stile impeccabile e discrezione invidiabile.

Persino Massimo D’Alema si è accorto che la torta intorno a Renzi si sta facendo smaccata: ha invitato tutti a non tirare per la giacca Pietro Grasso, anche perché probabilmente gliel’hanno già tirata e rischierebbe di rimanere in maniche di camicia.

Troppi salvatori per una patria

Nel nostro Paese assistiamo ad una continua passerella di personaggi politici che si accreditano come salvatori della patria dopo aver avuto la possibilità negli anni passati non dico di salvarla , ma almeno di migliorarla un po’, e non esserci riusciti.

Il centro-destra ha governato dal 1994 al 1996, dal 2001 al 2006, dal 2008 al 2011 per un totale di 12 anni, non certo un periodo breve, pur se non continuativo: Berlusconi con la sua Forza ha portato l’Italia sull’orlo del baratro in collaborazione coi leghisti e con la destra (entrambi cavallerescamente sdoganati), variamente assortiti ma pur sempre alleati nella maggioranza e nel governo.

Il centro-sinistra guidato da Prodi, D’Alema, Amato, Letta, Renzi e Gentiloni ha governato dal 1996 al 2001, dal 2006 al 2008, dal 2013 fino ai giorni nostri, per un totale di quasi 13 anni: ha ottenuto risultati migliori rispetto alla deriva berlusconiana, ma ha sicuramente sprecato parecchie chance.

Mentre il centro-destra punta testardamente ancora su Berlusconi, pur tentando disperatamente e “peggiorativamente” di condizionarlo, il centro-sinistra, come al solito, si lacera al proprio interno e scarica tutte le colpe possibili e immaginabili sugli ultimi presidenti del consiglio, soprattutto su Matteo Renzi reo di avere snaturato la sinistra portandola al fallimento identitario. In questa assurda gara si distinguono Bersani e D’Alema, il primo è stato ministro di primissimo piano e segretario del Pd, il secondo è stato presidente del consiglio e ministro degli Esteri. D’Alema era appoggiato dagli “straccioni” seguaci di Francesco Cossiga e quindi non può certo dare a Renzi e Gentiloni lezioni di purismo parlamentare; presiedette un governo che partecipò alla guerra del Kosovo, non certo una scelta idealista, ma pragmatica, e quindi le sue rimostranze identitarie e valoriali fanno alquanto sorridere. Sono portato a pensare che influisca sulle sue scelte polemiche soprattutto la mancata designazione a ministro degli esteri europeo (che sarebbe comunque stata auspicabile e utile all’Italia ed all’Europa).

Non scherzano nemmeno Romano Prodi ed Enrico Letta. Prodi non riesce a togliersi di bocca il dente avvelenato della perfida bocciatura subita nella corsa alla Presidenza della Repubblica, il secondo non ha ancora ingoiato il rospo della subdola defenestrazione dalla Presidenza del Consiglio.

Se è vero che si vive anche di ricordi, non si può vivere di astio e di rimpianti. Prodi è stato anche a capo della Commissione Europea per diversi anni e non ha lasciato segni importanti del suo operato, tali da consentirgli di fare, in giro per il mondo, il primo della classe degli europeisti, somministrando lezioni a destra e manca.

Purtroppo a questo strano gioco del salvatore della patria è arrivato persino Giorgio Napolitano, presidente emerito della Repubblica: lui che è sempre stato l’autorevole e profetico interprete della linea politica di sinistra in chiave riformista, europeista e pragmatista, si sta riscoprendo, quale padre nobile della sinistra stessa, come garante ante litteram della purezza istituzionale. Mi riferisco alle sue censure di metodo e di merito verso la nuova legge elettorale finalmente approvata dal Parlamento. Non gli sono andati giù i numerosi ricorsi alle questioni di fiducia posti dal governo sulla legge stessa in modo da renderne spedito l’iter parlamentare al prezzo di contenere il dibattito altrimenti fuorviato da lungaggini ed ostruzionismi vari.

Ritengo la scelta governativa accettabile se vista nella logica di raggiungere l’imprescindibile risultato di arrivare all’approvazione delle regole elettorali senza intralciare i lavori camerali fino al termine della legislatura (legge finanziaria ed altri provvedimenti in dirittura d’arrivo). Ma la mia sorpresa è stata quella di trovare Napolitano schierato sul fronte del vuoto garantismo istituzionale: proprio lui che, peraltro giustamente ed opportunamente, non si fece scrupolo di assumere ruoli politici, a livello interno ed internazionale, per chiudere la triste parentesi del governo Berlusconi e riportare il Paese nella normalità dei suoi gravi ed urgenti problemi. Senza parlare degli, altrettanto giusti ed opportuni, interventi riguardanti i rapporti con la Magistratura. Ero dalla sua parte e mi sembrarono pretestuosi e inaccettabili gli attacchi ai suoi presunti sgarbi istituzionali, così come mi sembrano esagerate e grilloparlantesche le sue censure all’operato del governo Gentiloni in occasione della vicenda parlamentare sulla riforma elettorale.

Mentre Bersani e D’Alema escono dalla maggioranza sputando veleno, Napolitano fa il fine dicitore costituzionale, finendo per andare nella stessa sostanziale direzione: quella di delegittimare il governo e attaccare il Pd. A risentirci alla prossima puntata!

 

 

Grasso che cola

La legge elettorale è decisamente un cimento arduo per la politica italiana: tumulti nelle aule parlamentari, si grida la golpe, un partito lascia la maggioranza e scende in piazza così come un movimento di opposizione, il Presidente emerito della Repubblica prende le distanze, il Presidente del Senato si dimette dal gruppo parlamentare di appartenenza, si intravede una lunga coda di polemiche con eventuali ricorsi alla Corte Costituzionale.

Tutto ciò nonostante la legge sia stata approvata con larga maggioranza, sotto la spinta insistente anche se discreta del Quirinale e dopo un lungo e travagliato dibattito sfociato in un accordo che ha coinvolto importanti forze di opposizione.

Qualsiasi meccanismo elettorale è criticabile, la legge perfetta non esiste, era certamente meglio approvarla in un momento politico più tranquillo (quando?), era preferibile, come indica la Ue, parlarne a notevole distanza temporale rispetto alle scadenze elettorali (si sarebbe dovuto rinunciare alla legge per andare al voto con un sistema di regole raffazzonato e irrazionale), era più corretto consentire un dibattito parlamentare di largo respiro (ma la politica ha sempre tempi stretti). La situazione confusa e contraddittoria venutasi a creare sul piano legislativo imponeva comunque di arrivare ad una conclusione.

Credo che la riforma elettorale funzioni da sfogatoio per tutte le frustrazioni istituzionali e politiche (di maggioranza e di opposizione). Se devo essere sincero, penso che a nessuno di coloro che si strappano le vesti interessi più di tanto la rappresentatività, la governabilità, la funzionalità dei meccanismi elettorali: ognuno pensa alla strenua difesa del proprio consenso, cerca di trovare la migliore collocazione possibile in vista dell’imminente consultazione e sonda il terreno per mettere le mani avanti rispetto ad eventuali flop.

Tutto rientra, più o meno, nel gioco politico che rischia di turbare il gioco democratico. Mi metto nei panni dell’elettore medio: un simile casino non lo invoglierà certamente a votare, tutti faranno a gara per confondergli le idee portandolo ben oltre la già inevitabile incertezza dovuta ai meccanismi farraginosi.

La cosa che non mi aspettavo riguarda invece la presa ufficiale di distanza dal gruppo parlamentare Pd operata dal Presidente del Senato Pietro Grasso per dissensi di metodo e di merito sulla legge elettorale: era cioè contrario all’uso dei voti di fiducia per sveltire la manovra e non condivideva i contenuti fondamentali della legge stessa (così almeno si dice).

Non mi permetto di giudicare le idee del Presidente del Senato: è libero di cambiare gruppo, anche se ormai in Parlamento si cambia partito con la stessa facilità con cui si cambia la camicia; come esponente politico è libero di dissentire dalle linee adottate dal suo gruppo di riferimento; come magistrato si sarà fatto un concetto critico del dettato normativo ritenendolo magari incostituzionale e/o in contrasto con i principi di una democrazia parlamentare; avrà visto comportamenti politicamente censurabili da parte del governo e considererà la legge troppo calata dall’alto dei partiti senza lo spazio necessario per il dibattito parlamentare.

Mi permetto però di osservare come Pietro Grasso sia stato eletto alla seconda carica dello Stato per iniziativa di un gruppo politico da cui adesso egli prende nettamente le distanze. Non sarebbe il caso di dimettersi anche da Presidente del Senato, visto il venir meno del rapporto di fiducia con chi lo ha eletto? Sul piano istituzionale le dimissioni non sono dovute, ma dal punto di vista politico… Anche perché non vorrei che questa sua scelta finisse involontariamente per portare acqua al mulino dei dissidenti interni ed esterni al Pd e magari trovarmi Pietro Grasso candidato alle prossime elezioni in qualche lista di partito, candidatura preparata dall’alto scranno di Palazzo Madama ottenuto cinque anni prima grazie all’iniziativa essenziale di un altro partito. In parole povere, senza voler mancare di rispetto, non vorrei che Grasso si fosse ingrassato con i voti del Pd per poi mettersi a tavola con qualcun altro contrario al Pd.

Razzismo: se lo conosci, lo puoi sconfiggere

Bene ha fatto il quotidiano Avvenire a inserire nella stessa pagina del giornale tre fatti, che, pur nella loro diversità, la dicono lunga sul volto odierno del razzismo: lo sfregio ad Anna Frank da parte degli ultrà laziali; le minacce a monsignor Giacomo Martino, direttore di Migrantes a Genova; l’accanimento indagatorio della procura di Trapani verso l’ong “Save the Children”.

Non mi avventuro nel tentare una graduatoria della gravità di questi fatti: hanno portata, significato e conseguenze molto diversi, tuttavia li trovo collegabili a dimostrazione di un clima sostanzialmente razzista, che sta montando a dispetto di tutte le puntute ma stucchevoli condanne di rito.

I vaneggiamenti antisemitici dei tifosi altro non sono che la punta vomitevole dell’iceberg; le proteste anti-immigrati costituiscono la manifestazione esteriore della viscerale paura dello straniero esistente nel clima di intolleranza e di egoismo sociali; le insistenti ed esagerate inchieste sulle ong impegnate nel soccorso ai profughi forniscono la sponda giudiziaria al processo di criminalizzazione generale dell’immigrazione.

Tutti hanno le loro motivazioni da mettere in campo. I fanatici del pallone dicono di voler solo scherzare ed ironizzare sui tifosi avversari, sfogando goliardicamente la loro macabra vis polemica. Coloro che protestano molto vivacemente nelle piazze, a volte con metodi violenti, mettendo nel mirino persino la Caritas, temono che l’accoglienza agli immigrati possa compromettere l’assistenza agli italiani bisognosi. Una certa magistratura inquirente va alla scoperta dei legami tra soccorritori ed affaristi, ipotizzando che dietro le azioni umanitarie si possano celare, direttamente o indirettamente, veri e propri traffici di migranti.

Mi sembrano motivazioni piuttosto deboli e pretestuose. La cloaca calcistica può contenere questo ed altro, ma la goliardia non c’entra proprio niente con gli sfoghi razzisti: durante una partita di cartello un allenatore che va per la maggiore non ha protestato con l’arbitro per le solite questioni di regolarità del gioco, ma per i cori razzisti che si levavano impunemente da una curva. È tutto dire…

È dimostrato che gli immigrati non rubano il lavoro a nessuno, ma coprono spazi occupazionali lasciati liberi dalle scelte di comodo degli italiani; spesso vengono sfruttati, sottopagati, maltrattati dalle imprese che lucrano sulla loro pelle; complessivamente danno al nostro Paese (in tasse e contributi) più di quanto ricevono (in termini di assistenza e servizi vari). Le cifre non hanno nulla di clamorose e i sacrifici chiesti alle comunità locali paiono del tutto sostenibili. Tuttavia la paura fa novanta e si dice un no pregiudiziale.

È altrettanto dimostrato che gli immigrati non delinquono più degli italiani, ma le loro malefatte fanno notizia e creano scandalo e quindi meglio tenerli alla larga. Se poi addirittura c’è chi specula sul loro salvataggio in mare e sulla loro accoglienza…

Inchieste, intimidazioni, ricatti, molotov, attentati: c’è poco da dire, chi è impegnato a favore degli immigrati è sotto attacco.

Un residente di Multedo, quartiere periferico del capoluogo genovese, si è rivolto al sacerdote reo di avere portato dieci migranti nei locali di un ex-asilo della diocesi con queste parole: «Con lei ce l’ho a morte, ma dopo aver visto questi ragazzi in faccia, non verrò più ad urlare sotto l’asilo». Ciò a dimostrazione che il razzismo è irrazionale, mentre l’accoglienza è ragionevole.

Una Chiesa che sa stare in mezzo alla gente

Ricordo come se fosse (per certi versi è) oggi. L’indomani dello scoppio di tangentopoli, incontrando una carissimo amico, mi lanciai in una arrischiata previsione: la credibilità della classe politica usciva talmente compromessa dalla corruzione, diventata   mezzo di autofinanziamento e stile di comportamento della politica, da costringermi a guardare al di là delle forze politiche e sociali. Non si salvava nessuno: anche il Pci si era adeguato al triste andazzo; anche il sindacato si era girato dall’altra parte. Il mio ragionamento era infatti: se un così forte partito di sinistra all’opposizione si fosse tenuto fuori dall’avvolgente meccanismo affaristico, se il sindacato dei lavoratori avesse vigilato attentamente, non si sarebbe arrivati alla lacerazione del tessuto socio-politico ed al punto di rottura della fiducia popolare nei confronti del sistema.

E allora? Non rimaneva che guardare alla Magistratura e alla Chiesa sperando che potessero ripulire e rilanciare la politica. Fu una momentanea illusione perché i giudici, sostanzialmente, videro e cavalcarono la possibilità di condizionare la politica, mentre la Chiesa si limitò, istituzionalmente, ad incassare certi dividendi dalla politica indebolita, che non poteva permettersi il lusso della laicità.

Due tentazioni che rimangono in piedi ancor oggi, anche perché il sistema politico non è riuscito ad affrancarsi dalla zavorra affaristica e rimane quindi sotto scacco della magistratura ed è portato a cercare appoggi clericali persino in presenza di un papa laico ed anticlericale. Quando un soggetto è in difficoltà e rischia di annegare, si attacca a tutto pur di galleggiare, ma non risolve il problema se l’auto-aiuto non scatta e/o il soccorso esterno non è decisivo ed è addirittura interessato.

Ecco perché ho letto con sollievo e interesse quanto dichiarato dal presidente della Conferenza Episcopale Italiana, il cardinale Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia-Città della Pieve: «Il nostro è purtroppo un Paese sfibrato, marcato dagli strappi: basta leggere un giornale o guardare un telegiornale per comprenderlo. Si sono incrinate anche quelle fondamenta che al tempo della stesura della Costituzione avevano riunito le diverse anime della nazione. Se è vero, come è vero, che la Chiesa è ancora uno straordinario barometro delle gioie e dei dolori, delle angosce e dei bisogni del nostro popolo, sono persuaso che i laici cattolici abbiano molto da dire e da offrire all’Italia. Vorrei che una cosa fosse chiara per tutti: questo Paese non sarà mai migliore senza cattolici impegnati in politica e nel sociale».

Il linea con il pensiero bergogliano, il cardinal Bassetti, che, tra l’altro, vuole opportunamente rinunciare alle prolusioni chilometriche e tuttologhe con le quali si aprono solitamente le riunioni della Cei, sostituendole con l’indicazione dei temi da affrontare in stile sinodale, punta a spronare i laici alla partecipazione, sganciandoli dal cordone ombelicale della Chiesa-Istituzione e buttandoli nel mare aperto della politica-servizio.

La questione quindi non è tanto quella se la gerarchia debba interessarsi e parlare di politica o meno – qualcuno la vorrebbe totalmente estraniata dalla realtà mondana e intenta a disquisire di dogmi e di catechismo – ma quella di apprezzare la politica quale autonoma   presa in cura del Paese, spronando i cristiani alla loro vocazione verso la partecipazione e l’impegno concreto. In questo senso si può sperare laicamente nel contributo cristiano alla riscoperta delle fondamenta costituzionali, alla ricucitura degli strappi istituzionali ed alla soluzione dei problemi sociali.

I razzisti in curva e i coccodrilli in tribuna

Mio padre del fascismo mi forniva una lettura di base, tutt’altro che dotta, ma fatta di vita vissuta. Bastava trovarsi a passare in un borgo, dove era stata frettolosamente apposta sul muro una scritta contro il regime, per essere costretti, da un gruppo di camicie nere, a ripulirla con il proprio soprabito (non c’era verso di spiegare la propria estraneità al fatto, la prepotenza voleva così): i graffitari di oggi sarebbero ben serviti, ma se, per tenere puliti i muri, qualcuno fosse mai disposto a cose simili, diventerei graffitaro anch’io. Sì, perché su ordine e pulizia si è intransigenti solo se hanno un fondamento di contestazione politica, diversamente si lascia correre. Era ed è ancora così.

Bisogna quindi fare un discorsetto sulle scritte, sui manifesti, sulle bandiere, etc.: quando sono di stampo fascistoide, con quasi inevitabile punte razzistiche, vengono tollerati, si fanno chiacchiere il giorno dopo, ma sul momento si fa finta di non vedere. Se c’è poi di mezzo il dio-pallone, non si può disturbare il tifo anche se si arriva alla blasfemia nazista contro Anna Frank. È successo a Roma dove gli ultras laziali hanno inscenato una vomitevole kermesse anti-romanista, coinvolgendo l’immagine e la storia di una martire dell’anti-ebraismo.

Nessuno si è sognato di intervenire immediatamente e con le maniere forti, in stile caserma Diaz. Tutti hanno successivamente preso le distanze, hanno condannato, hanno garantito la punizione dei colpevoli, hanno distinto il tifo calcistico dalle manifestazioni di odio razziale, hanno recitato il solito rosario di inutili contumelie.

E se provassimo una buona volta a sottoporre questi giovanotti alle cure che i regimi da essi rimpianti applicavano ai dissidenti, rei di esprimere le loro idee tra l’altro in modo assai più urbano di quanto non facciano oggi i nostalgici nazi-fascisti. Niente violenza, intendiamoci, ma la condanna a certi “umili servigi” verso la collettività non guasterebbe. Invece i facinorosi del tifo razzista vengono spostati da una curva all’altra, magari si inibisce loro l’accesso allo stadio: in fin dei conti sono ragazzate… Andatelo a chiedere alle vittime della macelleria di Genova di parecchi anni or sono…

Quello però che mi disturba di più è la coccodrillesca reazione mediatica: dopo avere vezzeggiato i tifosi, dopo aver soffiato sul fuoco degli eventi calcistici, dopo aver fatto di una partita di calcio una questione di vita o di morte, partono con le solite ramanzine che durano lo spazio di un breve e stucchevole commento al campionato. Poi tutto come prima: questa volta è stato il turno di Anna Frank, la prossima vittima degli insulti razziali chi sarà?

La moviola (adesso si chiama VAR) è passata dai salotti televisivi ai bordi del campo, forse sarebbe il caso di spostarla sugli spalti: ne vedremmo delle belle. Probabilmente non finirebbe nemmeno una partita di calcio: allora meglio sorvolare e far finta di piangere sulle offese ad Anna Frank, che, parafrasando quanto detto da Gesù alle pie donne durante la via Crucis, ci consiglierà di piangere su di noi e sui nostri figli.

 

Il tiro alla fune istituzionale

“Chi fa da sé fa per tre” e poi “L’unione fa la forza”. Mio padre non si rassegnava e si chiedeva con insistenza: «E alóra cme la mètemia?». La stiamo mettendo male, nel senso che di unione non vogliamo più sentirne parlare e puntiamo sull’egoismo a livello personale, sociale ed istituzionale.

La calma è la virtù dei forti. La forza delle idee (democratiche) è inversamente proporzionale al tasso di conflittualità istituzionale. Il miglior attacco è la difesa dei valori (democratici). Oggi non è affatto così.

Se dopo la seconda guerra mondiale, in un Paese distrutto e in una società lacerata, i leader politici non avessero avuto il senso dell’unità nazionale e la seria intenzione di ridisegnare lo Stato, si fossero lasciati andare alla disperata ricerca degli errori nel carniere altrui per il gusto di rinfacciarli, avessero cercato in tutti i modi di portare acqua al proprio mulino, cosa sarebbe successo? Un disastro! Le idee erano divergenti e i valori non combaciavano: si trovò la forza di puntare al compromesso più alto a livello istituzionale.

Si dice “andava meglio quando andava peggio”: è vero anche in politica. Quando i contrasti erano fortissimi, quando la battaglia era feroce, quando la matassa era aggrovigliata si era capaci di trovarne il bandolo per dipanarla nell’interesse comune. Oggi, alle prese con problemi gravi ma comunque assai più piccoli di quelli del dopo-guerra, la buttiamo continuamente in caciara istituzionale, senza accorgerci che così facendo rischiamo di rovinare tutto quanto è stato faticosamente costruito.

Per fare uno straccio di legge elettorale ci sono voluti anni e non siamo ancora arrivati al traguardo. Se discutiamo di banche, siamo solo capaci di rimpallarci responsabilità: cerchiamo di trovare chi ha guidato male la macchina, ma guai a ripassarne costruttivamente il motore o a ipotizzare il cambio del meccanico. Se affrontiamo il problema delle autonomie locali, ci lasciamo prendere dalla smania indipendentista, impostiamo una prova di forza, un tiro alla fune, senza capire che la corda, a tirarla troppo, finisce con lo strapparsi e tutti si va col culo per terra. La scuola richiederebbe profonde riforme, ma guai a chi cerca di cambiare qualcosa: tutti in piazza a difendere ciò che non va bene. Non è successo così anche con le riforme istituzionali: le istituzioni non funzionano, ma non si toccano. La conflittualità è fine a se stessa e, tenuta artificiosamente e strumentalmente alta, diventa l’alimento di un paradossale istinto di conservazione.

Vengo al sodo: i referendum per l’ottenimento di una maggiore autonomia regionale, promossi da Lombardia e Veneto, pur essendo di carattere consultivo, rientrano nella logica di partire all’attacco, di puntare duro, al limite del bluff, per poi giocare da una posizione di forza. In un certo senso hanno fatto così anche in Catalogna e stiamo vedendo il casino che ne è conseguito: non ci saltano più fuori. Discutono a furor di piazze incrociate, gridano al golpe dopo averlo cercato.

O ritroviamo il senso della misura o ci condanniamo a voler cambiare tutto per non cambiare niente. C’è da rabbrividire al pensiero di cosa potrebbe succedere l’indomani delle prossime e ormai vicine elezioni politiche nazionali: se dalle urne non uscirà una maggioranza parlamentare, chi avrà il coraggio di sedersi attorno ad un tavolo per dare un governo al Paese. Si tende già oggi ad escluderlo per la falsa paura di essere reciprocamente contaminati. Se De Gasperi, Togliatti e c. si fossero comportati così, saremmo ancora alla ricerca dell’Italia. Andava meglio quando andava peggio!

 

A proposito di schede e schedine

Non ricordo quale sia il personaggio storico che affermava come la democrazia inizi dal giorno successivo alle elezioni. Teoria provocatoriamente interessante e condivisibile: non è infatti con un voto, seppure liberamente e responsabilmente espresso, che si esaurisce la prassi democratica di un Paese. Altrettanto vero, tuttavia, è che senza il voto non c’è democrazia e che quindi l’esercizio del diritto di voto non deve essere visto come la partecipazione ad un rito vuoto ed insignificante. Se il bello della democrazia viene dopo il voto, mi sembra di poter aggiungere altresì che la partita democratica comincia prima del voto, con la campagna elettorale.

Purtroppo invece si dice “siamo in campagna elettorale” per lasciare intendere che si sta celebrando il funerale della democrazia a suon di parole in libertà, di promesse a vanvera, di argomenti strumentali, di polemiche assurde, di fandonie a go-go. Quando si vuole richiamare alla serietà un politico, gli si dice infatti che la campagna elettorale è finita. Se si vuole svaccare un argomento lo si definisce tout court un tema da campagna elettorale.

Siamo d’accordo che il passare dai programmi alla loro esecuzione è un salto notevole: “dal dire al fare c’è di mezzo il mare” è un detto che vale anche in politica. Di qui a considerare il dibattito pre-elettorale come una farsesca rappresentazione teatrale ci passa una certa differenza. Siamo ormai abituati a vivere la politica come una intrusione fantasiosa rispetto alla realtà dei fatti, a considerare la scheda elettorale alla stregua della schedina del totocalcio.

Stiamo ben attenti a non ridicolizzare il gioco democratico relegandolo su un finto palcoscenico a cui si può tranquillamente voltare le spalle. Da una parte ci sentiamo sempre in campagna elettorale: non appena visti i risultati di una consultazione pensiamo immediatamente a quella successiva, immaginandola anticipata rispetto alla naturale scadenza, quasi a voler auspicare una precarietà liberante e continua. Dall’altra parte ne siamo infastiditi e tendiamo a   viverla con estrema sufficienza: snobbiamo le elezioni. Non è un caso se l’astensionismo aumenta, se la sfiducia serpeggia nella gente, se la protesta si fa globale e anti-sistema, se si parla con insistenza di anti-politica, se trionfano i populismi.

Abbiamo perso il senso della storia, abbiamo dimenticato il prezzo enorme pagato per la conquista della libertà e della democrazia, facciamo gli schizzinosi, irridiamo a chi continua a militare nei partiti politici, a chi si impegna assumendo cariche pubbliche, a chi discute seriamente e costruttivamente, ci vantiamo di essere diventati qualunquisti.

Ricordo di avere ascoltato le giuste rimostranze di un amico, che, di fronte ai fenomeni della corruzione e dell’affarismo infestanti la politica, si chiedeva: “È più qualunquista la gente che è stanca di questo andazzo oppure qualunquisti sono coloro che sporcano la politica facendo i loro interessi?”. Sono perfettamente d’accordo. Ma la rassegnazione, così come la generalizzazione, non aiuta.

Durante il lungo conclave per l’elezione del papa che sfociò nell’elezione di Roncalli quale Giovanni XXIII, in caffè dal televisore si poteva assistere al susseguirsi di fumate nere e qualche furbetto non trovò di meglio che chiedere provocatoriamente a mio padre, di cui era noto il legame, parentale e non, con il mondo clericale (un cognato sacerdote, una cognata suora, amici e conoscenti preti etc….): “Ti ch’a te t’ intend s’ in gh’la cävon miga a mèttros d’acordi cme vala a fnir “. Ci sarebbe stato da rispondere con un trattato di diritto canonico, ma mio padre molto astutamente preferi’ rispondere alla sua maniera e la buttò clamorosamente in politica: “I fan cme in Russia, igh dan la scheda dal sì e basta!“.

 

 

 

I leader di plastica

Quando ci accostiamo ad un qualsiasi professionista – sia medico, commercialista, fiscalista, etc. – da una parte vorremmo che il suo stile fosse improntato alla semplicità ed all’accoglienza, dall’altra, se ciò comporta un’aria dimessa, un’apparenza di normalità, ci sorgono seri dubbi sull’attendibilità di questo soggetto, reo di essere troppo scialbo per essere bravo e competente. Cerchiamo cioè l’abito che non fa il monaco. Siamo soddisfatti quando incontriamo persone che non si danno importanza, che non la fanno cadere dall’alto della loro cultura o posizione sociale, ma poi cominciamo a dubitare che la semplicità nasconda impreparazione, che la immediatezza copra l’insicurezza. Non è tanto e solo questione di phisique du rôle, ma di immagine di cui siamo tutti schiavi attivi e passivi.

La recente querelle sulla Banca d’Italia dimostra la masochistica incapacità, a livello di media e di pubblica opinione, di affrontare i nodi politico-istituzionali senza vedervi necessariamente scontri personali: Renzi critica la Banca centrale per mettere un suo uomo sul seggiolone di governatore; Renzi sfida a duello Ignazio Visco per creare problemi a Paolo Gentiloni; Maria Elena Boschi ha ispirato il documento della diaspora banchitaliota per coprire i suoi conflitti d’interesse; Mario Draghi si è seduto ad ascoltare la relazione di Visco per sponsorizzarne la riconferma; Sergio Mattarella non ne può più di Renzi e della sua imprevedibile vis polemica; Giorgio Napolitano briga nell’ombra per togliere il Pd dalle grinfie renziane. E la Banca d’Italia? Non c’entra! E la politica? Roba da gossip!

Non lamentiamoci quindi se chi ci governa tende ad illuderci somministrandoci, con dosi da cavallo, un’immagine rassicurante e convincente, un vestito al di sotto del quale non c’è niente. La personalizzazione della politica non è da confondersi con il desiderio e la ricerca di leader. Il leader infatti, proprio perché è dotato di un carisma che gli deriva da preparazione, coerenza e capacità dialettica, non ha bisogno dei mezzucci d’immagine, non deve incantare nessuno per farsi ascoltare ed apprezzare.

Prendo quattro personaggi politici del passato per rendere l’idea, li scelgo volutamente dalle due aree popolari, che, volenti o nolenti, hanno fatto la storia del nostro Paese: Palmiro Togliatti ed Enrico Berlinguer del Partito Comunista, Alcide De Gasperi e Aldo Moro per la Democrazia Cristiana. Non avevano bisogno di alzare i toni, di incantare i serpenti, di atteggiarsi a primi della classe. Erano addirittura piuttosto schivi ed austeri nei loro atteggiamenti. Eppure…

La svolta storica, a mio giudizio estremamente negativa, è avvenuta con Bettino Craxi e Silvio Berlusconi: mentre il primo aveva a sua relativa giustificazione lo sdoganamento della politica italiana da un ideologismo datato e superato, il secondo ha teorizzato e incarnato freddamente   la politica come ricerca mediatica del consenso a prescindere dai reali contenuti. Intendiamoci bene: il progredire della cosiddetta società dell’immagine ha contribuito ad accogliere questi messaggi. Si dice che Silvio Berlusconi, prima di scendere in politica, abbia convocato fisicamente un largo campione popolare per testare i messaggi con cui approcciare l’elettorato: ne uscirono ben noti discorsi. Gli esperti però gli avrebbero francamente detto che la sbornia sarebbe durata sei mesi, dopo di che le persone si sarebbero svegliate e il discorso si sarebbe complicato. Purtroppo quegli esperti hanno sbagliato di grosso, perché la sbornia non è ancora stata smaltita, anzi il metodo ha trovato larga risonanza magnetica in tutto la vita politica.

Il dibattito è falsato da questa spasmodica ricerca di un leader a tutti i costi: tutto è personalizzato e chi combatte o finge di combattere il sistema cavalca ancor più la personalizzazione della politica, associandola al populismo in un rapporto diretto e fuorviante per la democrazia. Sembrerebbe non esserci alternativa.

Chi contesta la leadership di Renzi, ritenendola inadeguata e soverchiante, gironzola penosamente alla ricerca di leader logorati dalla storia passata e recente; coloro che si ribellano a Berlusconi mettono in campo delle ridicole seconde o terze file; coloro che dovrebbero sostituire Grillo non sanno fare neanche una “o” con il bicchiere. E allora al momento teniamoci i leader che ci passa il convento: più pragmatico di così… E pensare che qualcuno mi ritiene un radical-chic. L’unico esempio in contro-tendenza ce lo offre il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Non è un caso se alla sua elezione arrivai a commuovermi e se mi viene spontaneo fare continuo riferimento a lui nella forma e nella sostanza della vicenda politica italiana. L’ultimo dei giusti. Chissà che non riesca a invertire la tendenza…