Il tiro alla fune istituzionale

“Chi fa da sé fa per tre” e poi “L’unione fa la forza”. Mio padre non si rassegnava e si chiedeva con insistenza: «E alóra cme la mètemia?». La stiamo mettendo male, nel senso che di unione non vogliamo più sentirne parlare e puntiamo sull’egoismo a livello personale, sociale ed istituzionale.

La calma è la virtù dei forti. La forza delle idee (democratiche) è inversamente proporzionale al tasso di conflittualità istituzionale. Il miglior attacco è la difesa dei valori (democratici). Oggi non è affatto così.

Se dopo la seconda guerra mondiale, in un Paese distrutto e in una società lacerata, i leader politici non avessero avuto il senso dell’unità nazionale e la seria intenzione di ridisegnare lo Stato, si fossero lasciati andare alla disperata ricerca degli errori nel carniere altrui per il gusto di rinfacciarli, avessero cercato in tutti i modi di portare acqua al proprio mulino, cosa sarebbe successo? Un disastro! Le idee erano divergenti e i valori non combaciavano: si trovò la forza di puntare al compromesso più alto a livello istituzionale.

Si dice “andava meglio quando andava peggio”: è vero anche in politica. Quando i contrasti erano fortissimi, quando la battaglia era feroce, quando la matassa era aggrovigliata si era capaci di trovarne il bandolo per dipanarla nell’interesse comune. Oggi, alle prese con problemi gravi ma comunque assai più piccoli di quelli del dopo-guerra, la buttiamo continuamente in caciara istituzionale, senza accorgerci che così facendo rischiamo di rovinare tutto quanto è stato faticosamente costruito.

Per fare uno straccio di legge elettorale ci sono voluti anni e non siamo ancora arrivati al traguardo. Se discutiamo di banche, siamo solo capaci di rimpallarci responsabilità: cerchiamo di trovare chi ha guidato male la macchina, ma guai a ripassarne costruttivamente il motore o a ipotizzare il cambio del meccanico. Se affrontiamo il problema delle autonomie locali, ci lasciamo prendere dalla smania indipendentista, impostiamo una prova di forza, un tiro alla fune, senza capire che la corda, a tirarla troppo, finisce con lo strapparsi e tutti si va col culo per terra. La scuola richiederebbe profonde riforme, ma guai a chi cerca di cambiare qualcosa: tutti in piazza a difendere ciò che non va bene. Non è successo così anche con le riforme istituzionali: le istituzioni non funzionano, ma non si toccano. La conflittualità è fine a se stessa e, tenuta artificiosamente e strumentalmente alta, diventa l’alimento di un paradossale istinto di conservazione.

Vengo al sodo: i referendum per l’ottenimento di una maggiore autonomia regionale, promossi da Lombardia e Veneto, pur essendo di carattere consultivo, rientrano nella logica di partire all’attacco, di puntare duro, al limite del bluff, per poi giocare da una posizione di forza. In un certo senso hanno fatto così anche in Catalogna e stiamo vedendo il casino che ne è conseguito: non ci saltano più fuori. Discutono a furor di piazze incrociate, gridano al golpe dopo averlo cercato.

O ritroviamo il senso della misura o ci condanniamo a voler cambiare tutto per non cambiare niente. C’è da rabbrividire al pensiero di cosa potrebbe succedere l’indomani delle prossime e ormai vicine elezioni politiche nazionali: se dalle urne non uscirà una maggioranza parlamentare, chi avrà il coraggio di sedersi attorno ad un tavolo per dare un governo al Paese. Si tende già oggi ad escluderlo per la falsa paura di essere reciprocamente contaminati. Se De Gasperi, Togliatti e c. si fossero comportati così, saremmo ancora alla ricerca dell’Italia. Andava meglio quando andava peggio!