Il bostik del centro-sinistra

Nell’area politica di centro-sinistra, dopo essersi esercitati nella storica arte del dividersi, si stanno convertendo a quella dell’unirsi o meglio dell’incollare i vari cocci risultanti dalle rotture irresponsabilmente provocate.

Pensano infatti che rimettendo insieme i vari pezzi possa risultare una creatura politica credibile e trascinante per l’elettorato: ho parecchi e seri dubbi che il problema della sinistra stia nel ricreare sic et simpliciter l’unità. Temo che al potenziale elettore interessi poco che ci siano o non ci siano Bersani, D’Alema, Pisapia, Grasso, Boldrini, Prodi, Letta, Civati, Speranza, Fratoianni, Scotto etc. La ricerca degli equilibri lascia del tutto indifferente il popolo della sinistra, forse addirittura lo infastidisce e lo irrita ulteriormente: la gente è interessata assai più ai problemi concreti che alla lucidatura delle identità storiche, vuole valutare proposte e programmi e non il pedigree dei vari personaggi recitanti sulla scena politica.

I nodi e le questioni fondamentali del centro-sinistra riguardano da una parte la coniugazione di legalità e solidarietà e dall’altra la combinazione fra socialità e modernità. In questa fase storica in cui dominano le paure, i cittadini, anche appartenenti ai ceti popolari, hanno l’ansia di difendersi dalla delinquenza e “dall’assalto” dei migranti: la scommessa della sinistra è quella di garantire un tasso accettabile di legalità pur tenendo aperto il discorso verso gli immigrati e gli emarginati in genere. Trattasi di una vera e propria sfida che va ben oltre i pruriti ideologici, i sociologismi datati e gli utopismi fragili.

Il discorso vale anche per rendere compatibili le spinte all’uguaglianza con quelle verso la modernità: l’uguaglianza non può essere ancorata alla pedissequa difesa dei diritti, ma deve essere proiettata in un contesto socio-economico in evoluzione, dove i diritti si difendono con lo sviluppo dell’economia, con l’europeizzazione delle soluzioni e con la mobilità sociale.

Checché se ne dica, la riforma del mercato del lavoro varata in questi anni non è un tradimento degli schemi di carattere pansindacale, ma è un tentativo di aprire le possibilità di lavoro per tutti con il coraggio della flessibilità e della gradualità. Se il ritrovamento dell’unità deve essere la cancellazione delle riforme portate avanti in questi anni, una sorta di “mortus”, non porterà da alcuna parte e creerà solo ulteriori e demagogici equivoci. Se si avrà in tutto o in parte la rivincita dell’impostazione politica tradizionale sui tentativi di svecchiamento, se, in poche parole, ritornerà in auge il sistema superato dell’egualitarismo sociale e del sinistrismo piazzaiolo, la convergenza di facciata farà pagare un prezzo alle possibilità future e inchioderà la sinistra ad un ruolo minoritario di testimonianza con lo sterile consenso dei “duri e puri”.

I padri più o meno nobili della sinistra stanno ritrovando un loro spazio, ma ciò non significa che recuperino consenso sul piano politico e garantiscano spazio di manovra in senso programmatico. È un passaggio molto delicato: mentre a destra è sufficiente trovare un simulacro di unità per recuperare l’elettorato, mentre ai grillini basta alzare i toni della loro presenza per incanalare la protesta, alla sinistra serve un progetto di governo credibile e moderno anche a costo di perdere certi gruppi e certi personaggi anacronistici.

Se si va alla spasmodica e tardiva ricerca dell’unità burocratica e schematica si finirà col riempire le piazze e soprattutto le liste, ma col vuotare le urne.

Il tiro delle vestaglie da Camera

È vero che per i presidenti delle due Camere non è costituzionalmente previsto un profilo apartitico, ma è opportuno che essi si buttino nell’agone politico assumendo ruoli importanti e puntando magari a future candidature nell’ambito di iniziative di partito?

La domanda mi sembra retorica anche se per i diretti interessati evidentemente non lo è. Pietro Grasso e Laura Boldrini si stanno lanciando in un’operazione politica, che da una parte sconvolge gli equilibri su cui erano stati eletti a inizio legislatura e dall’altra parte compromette le loro garanzie di equidistanza procedurale. Laura Boldrini, dopo la standing ovation ricevuta al convegno dei cercatori della nuova sinistra, può ancora assicurare alla Camera dei Deputati di essere super partes? Penso di no.

In Italia l’istituto meno frequentato è quello delle dimissioni. Ci stupiamo perché Gian Piero Ventura ha preferito farsi esonerare piuttosto che dimettersi spontaneamente: i maligni dicono che lo abbia fatto per ragioni di convenienza economia, legittime anche se non troppo eleganti. Non sopportiamo il fatto che Carlo Tavecchio, presidente della Federazione Italiana Gioco Calcio (Figc), rimanga in carica dopo la debacle azzurra: a detta dei più se ne dovrebbe andare per favorire il rinnovamento del sistema.

Le dimissioni non hanno quel potere taumaturgico che molti pensano, ma segnano un benefico distacco dalla “poltrona”, sottolineano la caratteristica di servizio per la carica ricoperta, contribuiscono a ripristinare e semplificare le situazioni: il discorso vale per tutti gli ambienti e per tutti i livelli, vale quindi a maggior ragione anche per le più alte cariche dello Stato.

Si criticano tanto i politici, ma le dimissioni non sono nemmeno nel Dna del mondo sportivo e non sono evidentemente nella mentalità di due personaggi istituzionali eletti alle loro cariche proprio in quanto espressione della società civile più che dei partiti.

Se devo essere sincero non mi ha stupito Ventura: oltre il non cedere giustamente all’insopportabile vezzo di colpevolizzare gli allenatori di calcio, questo signore ha un contratto di lavoro e quindi ha, seppur un po’ troppo sindacalmente, agito di conseguenza in base alla clausola che ne prevedeva il licenziamento.

Non mi ha stupito Tavecchio che presiede un sistema malato e che non ci sta a farne il capro espiatorio: il pianeta calcio italiano soffre di ben altre malattie rispetto all’eliminazione dai campionati mondiali. Se Belotti avesse mandato in porta quel pallone colpito di testa all’inizio della prima gare dei play off con la Svezia , probabilmente l’Italia andrebbe in Russia e nessuno si sognerebbe di chiedere l’azzeramento di una situazione comunque “marcia patocca”.

Mi stupiscono invece Grasso e Boldrini: si sono messi a giocare a fare i probabili (?) leader di partito e non capiscono che non possono più fare gli arbitri con la necessaria credibilità: un tempo si diceva “non si può portare la croce e cantare la messa”. Non so se i due personaggi in questione porteranno o stiano già portando la croce, sicuramente non sono in grado di cantar messa con la dovuta intonazione.

La situazione è delicata. Forse solo il Presidente della Repubblica potrebbe dipanarla con la sua moral suasion. Bersani e c., tanto scandalizzati per il voto parlamentare critico verso la Banca d’Italia ed il suo governatore, non si fanno scrupolo di invischiare nel loro gioco politico i presidenti delle due Camere. Bersani ha dichiarato di non voler tirare per la giacca Pietro Grasso: molto peggio, probabilmente gli sta sfilando i pantaloni. Per Laura Boldrini non adottiamo questa similitudine al fine di evitare gaffe di stampo grillesco.

Sergio Mattarella avrebbe il carisma e l’autorevolezza per rimettere a posto le cose. Non lo pretendo, lo auspico. Auguri!

 

 

Il Papa del buon senso

A mio giudizio papa Francesco non ha detto e scritto nulla di sconvolgente sulla problematica del cosiddetto “fine vita”. In estrema sintesi ha affermato che rispettare la vita non vuol dire spadroneggiarla o tiranneggiarla. In fin dei conti ha solo usato il buon senso, che nei documenti ufficiali vaticani viene chiamato “discernimento”: superare cioè le regole codificate per affrontare i singoli casi con la giusta attenzione e soprattutto col cuore aperto alle persone ed ai loro problemi.

Se questo cambiamento di prospettiva è considerato una rivoluzione vuol proprio dire che esisteva una cristallizzazione dogmatica tale da inchiodare la Chiesa ad un passato assai lontano. Il diniego dei funerali religiosi a Pier Giorgio Welby ne è una sintomatica dimostrazione.

Il volere a tutti i costi confondere il rifiuto dell’accanimento terapeutico con l’eutanasia, il volere confondere l’eutanasia o il suicidio assistito con il suicidio tout court, il volere scomunicare necessariamente chi decide di suicidarsi anziché sforzarsi di rispettarne e capirne le drammatiche motivazioni continua comunque a imperversare. Non so se basterà il buon senso del Papa, spero di sì.

Probabilmente sto forzando l’indirizzo teologico-pastorale di papa Francesco: se discernimento deve esserci, ci sia in ogni caso e, se questo discernimento non saprà o vorrà farlo la Chiesa con i suoi ministri, lo farà comunque il Padre Eterno, che la sa molto più lunga del papa, dei cardinali, dei vescovi, dei preti, dei frati, delle suore e di tutti i credenti.

Ho vissuto di riflesso un caso di suicidio avvenuto nell’ambito della mia famiglia allargata: una meravigliosa e generosa zia, che decise di farla finita sfiancata e terrorizzata da sofferenze indicibili. Ricordo, come potrei dimenticare, il dramma dei familiari nell’immaginare quello vissuto da questa donna coraggiosa: si trattava, a mio avviso, di accanimento terapeutico anche in quel caso. Forse, quando una persona arriva sull’orlo del suicido, in qualche modo c’è sempre un po’ di accanimento: terapeutico, umano, sociale, esistenziale.

Ho sempre rifiutato categoricamente il bigotto giudizio moralistico di chi afferma che ci voglia più coraggio a vivere che a togliersi la vita. Qualcuno arriva a considerare conseguentemente il suicidio come un atto di viltà verso se stesso e verso gli altri. Ma fatemi il piacere!

Finalmente la Chiesa ha trovato un papa che rifugge da queste assurde categorie di ragionamento e di comportamento: una boccata di aria fresca da respirare a pieni polmoni, senza illudersi che possa bastare a disinquinare la Chiesa da errori secolari. I ritardi storici esistono. Il cardinal Martini lo aveva “spregiudicatamente” ammesso. La religione cattolica non è una religione di libro, si basa sulla rivelazione operata dalla persona di Gesù Cristo, il quale non ha scritto nessuna regola, per non farsi ingabbiare nelle disquisizioni teologiche e morali che non valgono niente.

Lo squallido Pinkerton, in uno sprazzo di umanità, dice alla sua giovane sposa Butterfly, piangente in quanto rinnegata dai suoi per motivi religiosi: «Bimba, bimba non pianger per gracchiar di ranocchi…tutta la tua tribù e i Bonzi tutti del Giappone non valgono il pianto di quegli occhi cari e belli». Il discorso valeva per il rinnegamento, ma possiamo farlo valere anche per il suicidio disperato di madama Butterfly, caduta suo malgrado dalla padella dei Bonzi nella brace degli imperialisti cattolici americani.

 

 

Il fantasma dell’Onu

L’Alto commissariato dell’Onu per i diritti umani, dopo aver investigato il contenuto e l’applicazione delle intese, definite disumane, tra Ue e governo Libico in materia di regolazione dei flussi migratori e di lotta agli scafisti, afferma in sintesi: «Non possiamo essere testimoni silenti della schiavitù moderna, di stupri e altre violenze e di uccisioni fuorilegge nel nome della gestione   dell’immigrazione».

Non ci vuol molto a immaginare cosa potrà succedere nei centri di detenzione in cui vengono ammassati i migranti bloccati nel Mediterraneo: sono veri e propri campi di concentramento dove si scateneranno violenze di ogni tipo, vendite all’asta di migranti, mercati degli schiavi, etc. Gli ispettori dell’Onu dicono di essere rimasti scioccati e di avere visto «migliaia di uomini, donne e bambini emaciati e traumatizzati, ammucchiati gli uni sugli altri, imprigionati in hangar senza accesso ai beni di prima necessità più basilari e privati della loro dignità umana». Ue e Italia, ricorda l’Alto commissario per i diritti umani, stanno fornendo assistenza alla guardia costiera libica, nonostante il timore che questa pratica «condanni più migranti a una detenzione arbitraria e illimitata, esponendoli a tortura, stupro, lavori forzati, sfruttamento ed estorsione».

Non so cosa possa fare l’Onu concretamente, ma ho l’impressione che si stia lavando la coscienza buttando la croce addosso all’Unione Europea e quindi anche all’Italia. La Farnesina risponde: «Sono mesi che chiediamo a tutti i governi coinvolti di moltiplicare l’impegno e gli sforzi in Nord Africa per assicurare condizioni accettabili e dignitose».

Il concetto di gestire l’immigrazione tramite accordi e collaborazione con i Paesi Africani, Libia in primis, è teoricamente giusto, ma non trova positivi riscontri in un Paese sostanzialmente senza governo, frazionato in tribù, privo di strutture adeguate e quindi facile terreno di profittatori e sfruttatori. Se manca l’interlocutore diventa impossibile collaborare, aggiungiamoci che i Paesi europei si limitano ad elogiare l’Italia per il suo gran daffare sulla coste libiche e poi se ne fregano bellamente. L’Onu pontifica, parla bene ma razzola male; se arriva, lo fa con enormi ritardi; spesso non arriva affatto ed è più che mai il caso di dire che si limita a predicare nel deserto.

E l’Italia, come al solito, prende botte da tutte le parti, anche perché in situazioni così gravi e complesse chi tenta di fare qualcosa finisce sempre con lo sbagliare. Vale per gli Stati, per le Ong, per gli operatori sociali, per la Chiesa (accusata di perbenismo evangelico associato a concreto menefreghismo: quante volte abbiamo ascoltato i baluba nostrani chiedere al Papa di smetterla con le prediche e di ospitare gli immigrati in Vaticano).

Sono doppiamente indignato: da una parte si stanno permettendo vere e proprie deportazioni di massa e probabilmente, anche giocando di fantasia, non si riesce ad immaginare nemmeno lontanamente la disumanità della situazione; dall’altra parte assistiamo al solito scaricabarile a tutti i livelli, personale, locale, regionale, nazionale, europeo ed internazionale.

Se l’intervento dell’Onu voleva smuovere le acque, può andar bene anche se assomiglia molto al senno di poi. Se la strigliata finisce agli atti e innesca una polemica sull’attribuzione di colpe, ritardi, errori ed omissioni, i migranti non ne avranno alcun beneficio, anzi ne avranno danno e beffe. Speriamo che il pronunciamento ufficiale dell’Alto commissario serva almeno ad aumentare nelle popolazioni europee la consapevolezza della gravità del problema, distogliendole dall’egoistica tentazione dei muri, dei respingimenti facili, delle chiusure nei propri recinti, delle assurde paure e dei facili rifugi nel razzismo riveduto e scorretto.

La Ue ripesca la Pesco

Allora è proprio vero quanto sosteneva mio padre, vale a dire che quando si tratta di mettersi d’accordo per fare una guerra ci si riesce molto velocemente, mentre per fare una politica di pace…

In sede Ue l’unica significativa intesa possibile è attualmente quella relativa alla difesa comune: 23 Stati membri si sono messi d’accordo su investimenti per la difesa, sullo sviluppo di nuove capacità e sulla disponibilità a partecipare a operazioni militari congiunte, con tanto di aumento delle spese militari nazionali.

Per la verità la cooperazione strutturata permanente (Pesco) è stata introdotta dal Trattato di Lisbona, in vigore dal 2009. Quindi siamo in presenza di una concretizzazione in materia di sviluppo delle capacità militari dell’Ue. Non si tratta di un esercito comune, ma comunque sono stati presi impegni vincolanti a differenza di altri accordi da cui ogni Stato può facilmente smarcarsi.

Viene spontaneo pensare al discorso della gestione del fenomeno migratorio per il quale non si riesce a trovare una fattiva collaborazione, all’impossibilità di fare passi avanti in materia di strumenti economico-finanziari comuni, allo scetticismo riguardo alle pur   necessarie riforme istituzionali comunitarie e a diversi altri ambiti in cui la Ue segno il passo.

Non c’è verso di trovare maggiore integrazione sul piano economico-sociale, ci si riesce dal punto di vista militare: è sconfortante e paradossale. Le risorse aggiuntive per gli armamenti si trovano, quelle per accogliere gli immigrati mancano, per non parlare della rigidità con cui si trattano gli Stati membri più deboli.

Questo non è europeismo, ma una caricatura dell’Europa, è un tradimento bello e buono dello spirito dei pionieri che hanno pensato e progettato una forte integrazione fra i Paesi del nostro continente. Uno degli scopi, forse quello principale, era quello di creare i presupposti politici, economici e sociali per evitare guerre dopo le catastrofiche esperienze del passato. Ebbene, il percorso è stato letteralmente ribaltato: anziché partire dai problemi che stanno a monte di possibili conflitti, si parte dai discorsi militari il linea con il famoso e storico postulato “se vuoi la pace, prepara la guerra”.

Fa letteralmente sorridere la contestuale reprimenda all’Italia. La vera comunanza europeistica è probabilmente la follia. Da una parte ci sono Stati e forze politiche che vagheggiano l’indebolimento o addirittura lo smembramento dell’Ue; dall’altra c’è chi fa finta di volere l’Europa, ma ce ne offre una versione talmente pragmatica e spregiudicata da disamorare quei poco o tanti che ancora ci credono.

Si critica tanto la politica italiana in sede Ue: mancherebbe di un progetto. Tutto sommato, forse e da sempre, pur con tutti i limiti e i difetti che ci ritroviamo, siamo i più europeisti di tutti, checché ne pensi Jyrki Katainen, vice-presidente della Commissione Ue, rigorista dei miei stivali. Tanto per stare in tema di schizofrenia europea, da una parte abbiamo Junker che vuole assegnarci il premio Nobel per la pace alla luce del nostro coraggioso comportamento verso i migranti e non perde occasione per garantirci l’appoggio a livello finanziario, mentre il suo vice ci bacchetta pesantemente sul progetto di bilancio per il 2018.

In conclusione qual è la politica europea? La pace la promuoviamo investendo nelle armi, lo sviluppo lo favoriamo ingessando i bilanci e tagliando drasticamente le spese. Evviva l’Europa!!! Poi non chiediamoci perché qualcuno, peraltro ingiustamente, follemente e per motivi di egoismo nazionale, vuole uscire dalla Ue.

L’umanità vince soprattutto quando si perde

I due personaggi simbolo della recente fase della nazionale di calcio, culminata nella eliminazione dai campionati del mondo che si giocheranno in Russia tra alcuni mesi, erano Gian Luigi Buffon e Gian Piero Ventura, rispettivamente capitano e commissario tecnico.

Non mi erano simpatici. Per il primo ero condizionato dal ricordo di alcune narcisistiche dichiarazioni di parecchi anni or sono, che mi sono bastate per ritenerlo un personaggio molto gasato in proprio e per conto terzi. Per il secondo vale quanto si sa da tempo ossia che l’Italia è un paese in cui tutti si sentono in pectore commissari della nazionale di calcio e quindi vedono il selezionatore come una sorta di usurpatore: probabilmente anch’io, almeno a livello di subconscio, sono caduto in questa trappola ed ho considerato Ventura un tecnico inadeguato all’incarico affidatogli.

In quest’ultimo periodo oltre tutto sono stati sovra-esposti a livello mediatico, come del resto tutta la vicenda dei preliminari, culminati nei play-off, per accedere al campionato mondiale. È arrivata l’eliminazione ed è naturalmente iniziata l’assurda lamentazione pallonara: si sono cominciate a spendere espressioni catastrofiche, un’apocalisse, un disastro, un dramma, etc. È fuori discussione che coloro i quali vivono di pallone sentano franare la terra sotto i piedi: il sistema calcio scricchiola e allora via con le analisi critiche e le proposte innovative. Un copione vuoto e scontato.

Non sono un appassionato di calcio (forse lo sono stato e i peccati di gioventù si pagano in vecchiaia…) in quanto di questo sport ammiro sì la bellezza, deturpata però da un professionismo speculativo, da una gestione affaristica e scorretta, dalle scommesse clandestine, dal fanatismo dei tifosi, dalla mensa mediatica. Un tempo tutto aveva una dimensione umana ben lontana dall’anonimo, industriale, artificioso, violento divismo calcistico di oggi.

Mi è comunque dispiaciuto che la nazionale di calcio abbia subito questa sconfitta, su cui peraltro non c’è niente da drammatizzare: non muore nessuno, il fenomeno del calcio continuerà imperterrito e pieno di paradossali contraddizioni.

Qualcuno si è affrettato ad affermare che dalle sconfitte può nascere un roseo futuro all’insegna del rinnovamento: discorsi che lasciano il tempo che trovano, fatti “utilitaristicamente” da chi non intende mollare l’osso.

Personalmente invece ho vissuto la sconfitta come una positiva umanizzazione dei personaggi e in tal senso ritorno ai due big che ho citato all’inizio. Buffon ha saputo piangere e non è poco. Ventura ha saputo chiedere scusa per gli scarsi risultati pur confermando di essersi impegnato con la massima serietà e convinzione: non è poco. Sono un perdente di vocazione, nelle sconfitte trovo una forte auto-gratificazione sul piano umano e quindi, come per miracolo, questi signori che mi stavano antipatici sono diventati miei amici. Evidentemente non erano quegli “stronzi” che immaginavo…Bisogna sempre andare adagio a giudicare la gente.

Quando ho sentito che Ventura è stato coperto di fischi e insulti dal pubblico di San Siro, mi sono ricordato di un certo Canforini, tecnico che dalle formazioni giovanili del Parma era approdato alla prima squadra. Le cose obiettivamente non andavano bene, la squadra era indiscutibilmente in crisi e, succedeva purtroppo anche allora, scattò la contestazione dei tifosi. Ognuno è ovviamente libero di esprimere le proprie critiche, più che mai in un ambiente come lo stadio, ma a tutto c’è un limite. Al termine dell’incontro, finito molto male per il Parma, l’allenatore Canforini fu accolto all’uscita degli spogliatoi da una pioggia di sputi. Mio padre lo imparò il giorno successivo dalle cronache del giornale, ne rimase seriamente turbato dal punto di vista umano e reagì, alla sua maniera, dicendomi: «“E vót che mi, parchè al Pärma l’ à pèrs, spuda adòs a un òmm, a l’alenadór? Mo lu ‘l fa al so mestér cme mi fagh al mèj. Sarìss cme dir che se mi a m’ ven mäl ‘na camra al padrón ‘d ca’ al me dovrìss spudär adòs! Al m’la farà rifär, al me tgnirà zò un po’ ‘d sòld, mo basta acsì».

Mio padre esercitava il mestiere di imbianchino e quegli sputi se li era sentiti addosso. Non poteva concepire un’offesa del genere, soprattutto in conseguenza di un fatto normalissimo anche se spiacevole: perdere una partita di calcio. Peccato che allo sfortunato Canforini non bastò ad evitare l’esonero ma fu sufficiente,   senza saperlo, ad avere la solidarietà di un uomo che lavorava e sbagliava né più né meno come lui. Il discorso vale anche nel caso di Ventura per il quale l’antipatia, in cuor mio, si è trasformata in solidarietà: tutto merito di papà.

Sociologia tra ovvietà e mistificazione

Come ho più volte confessato, nutro poca stima nei confronti di tre categorie di esperti, studiosi (no scienziati): psicologi, sociologi ed economisti. Spero di non offendere o irritare nessuno perché di paradossi si tratta. Gli psicologi hanno sempre ragione in quanto, per il dritto o per il rovescio, in un modo o nell’altro, in un senso o nel suo contrario, trovano sempre una spiegazione, piuttosto campata in aria, e nessuno è in grado di confutarla. I sociologi, come detto più autorevolmente da altri, si dedicano abilmente alla elaborazione sistematica dell’ovvio, fanno cioè una fotografia, più o meno nitida, della situazione. Gli economisti elaborano teorie che si rivelano sempre e sistematicamente sbagliate: in parole povere non ci pigliano mai.

Lasciamo perdere l’economia al cui studio mi sono dedicato ed al cui servizio ho lavorato: ciò non mi esime dal riconoscere i limiti di una disciplina assai precaria ed improbabile. Non voglio infierire sugli psicologi, comodamente assisi negli studi televisivi a spiegare come Gesù Cristo sia morto per il freddo nei piedi.   Punto dritto sui sociologi anche perché, nonostante la fragilità scientifica, sono sempre stato affascinato dallo stretto collegamento che questa disciplina dovrebbe avere con la realtà, evitando fughe culturali fra le nuvole del pensiero teorico: basti dire che sono andato ad una spanna dal frequentare la facoltà universitaria di sociologia a Trento, negli anni sessanta. Forse ne sarei uscito brigatista rosso: a volte basta poco per cambiare radicalmente la vita di un individuo.

Questa lunga e sconclusionata premessa mi porta ad una questione: mi sembra che la sociologia, nei confronti della realtà, stia abbandonando l’intento meramente descrittivo per approdare alla mistificazione. Se la realtà è ovvia, vediamo di renderla più interessante ed appetibile falsificandola, adulterandola,cambiandola, distorcendola.

In questi giorni ho ascoltato, con un certo stupore, un autorevole sociologo, Luca Ricolfi, dividere la realtà sociale italiana in tre fasce: i protetti (gli imboscati), i soggetti a rischio economico (quelli che si battono sul mercato), gli esclusi (gli sfigati). Ognuna di questa categorie avrebbe peraltro il suo protettore politico di riferimento: per i protetti ci sarebbe la sinistra; chi si fa su le maniche si affiderebbe alla destra; chi è fuori gioco sbatterebbe la testa contro i grillini. Quanto a queste elaborazioni, probabilmente estratte dal suo ultimo libro, che mi guarderò bene dal leggere, non siamo nell’ordine di una paradossale semplificazione socio-politica, siamo alle prese con un inganno bello e buono (in buona fede, si intende).

Innanzitutto le tre categorie suddette, se mai esistessero, si intersecano e si scambiano continuamente: un lavoratore dipendente da un momento all’altro può perdere il posto di lavoro e ricade automaticamente nel campo degli esclusi; ad un pensionato di piccolo calibro basta poco per finire sul lastrico; un piccolo imprenditore confina spesso, al limite del suicidio, con i poveri diavoli; il povero diavolo vive di frequente alle spalle dei suoi familiari cosiddetti protetti e sindacalizzati. Potremmo continuare a far saltare i birilli di un giochino innocuo.

Che poi le categorie politiche combacino con questi bacini elettorali fa sinceramente sorridere: ci sono professionisti affermati che votano Beppe Grillo per puro sfizio, esistono dipendenti pubblici che corporativamente si rivolgono alle destre populiste, ci sono poveri diavoli che continuano imperterriti a votare a sinistra. Potremmo continuare a buttare all’aria queste equazioni dove le incognite sono troppe e mutevoli.

La morale della favola sulla sociologia, che vuole insegnare ai politici il da farsi, lascio che la tiri mio padre: «I pàron coi che all’ostaria con un pcon ad gess in sima la tavla i metton a post tutt; po set ve a vedor a ca’ sova i n’en gnan bon ed far un o con un bicer…».

 

Spada di Damocle sulla gente senza speranza

Un tempo i comunisti, quasi con fastidio, lo chiamavano sottoproletariato, oggi le chiamiamo periferie degli esclusi, ma il concetto è sempre lo stesso: gente emarginata da tutti i punti di vista, che non riesce purtroppo a individuare una qualsiasi forma positiva di riscatto e quindi si affida a ricette di stampo neofascista e di carattere mafioso. Si illudono di trovare nella sgangherata nostalgia di un passato nefasto una risposta forte e violenta alla loro miseria e di ottenere dal (dis)ordine mafioso un minimo di protezione per sopravvivere.

La combinazione tra estremismo fascista e mafia non sorprende anche se preoccupa soprattutto per l’ampio consenso che la criminale miscela ottiene dalla gente senza speranza: bisogna proprio essere disperati per buttarsi su Casa Pound, ma certe persone lo sono e si buttano.

Questi fenomeni di devianza socio-politica si combattono con l’azione delle istituzioni e con il recupero della politica. Bisogna cioè dare a tali soggetti, che si crogiolano nell’emarginazione, un segnale di attenzione positiva. La criminalizzazione deve essere fatta su chi strumentalizza queste fasce di popolazione e non su chi viene strumentalizzato.

Anche la descrizione del fenomeno non deve assolutamente assumere il tono della pedante squalifica, perché, così facendo, si ottiene l’effetto contrario, vittimizzando coloro che mestano nel torbido e molestando chi si sente fuori dai giochi. L’attuale vizio della stampa e dei media consiste proprio nella petulante azione di denuncia fine a se stessa, talmente sbrigativa da innervosire tutti e da creare un clima di rissa totale.

La violenta reazione del mafio-fascista di Ostia nei confronti di operatori mediatici si inquadra in questo brutto contesto. Dico la verità: anziché scandalizzarmi, piangere sul naso rotto, strapparmi le vesti, di fronte alla testata inferta al giornalista Rai ho riflettuto. La cosa è gravissima sul piano politico, suscita pessimi ricordi, dimostra a quale punto di insulsa violenza siamo arrivati nell’imbarbarimento dei rapporti sociali.   Ma la gente del quartiere stava e sta dalla parte di Roberto Spada e della sua testa di legno (o di…): è questo che deve far pensare e non bastano le solite tiritere quale risposta seria ad una situazione drammatica.

Ricordo quando da presidente del consiglio di quartiere andai a incontrare gli abitanti del cosiddetto “palazzone del Negus”: un ghetto vero e proprio. Non mi accolsero con rose e fiori, mi coprirono con i loro coloriti racconti di vita grama, ci volle solo il paziente e coraggioso carisma di Mario Tommasini a calmarli, a farli ragionare, a “politicizzarli” in senso positivo. Una giovane donna, esasperata dall’andazzo della vita in quel lugubre palazzone, non si stancava di ripetere che dalle finestre piovevano boccali di escrementi umani: a suo modo rendeva perfettamente l’idea.

La strada è questa, tutta in salita. Anche allora la sinistra faceva fatica ad entrare in quei ghetti, molto più difficili da affrontare rispetto alle fabbriche. Mario Tommasini riusciva a fare il capolavoro. Da lui ho imparato molto. Io, modestamente, rappresentavo una Istituzione: il quartiere che voleva dialogare con questa gente emarginata. Tommasini impersonificava la politica, che, fuori dagli schemi, tentava qualche risposta ai loro problemi. Virginia Raggi, se vuole tradurre il grillismo in una lingua concreta e positiva, non deve protestare (contro se stessa?), ma deve dialogare e fare qualcosa in quel di Roma. Ciò vale anche per gli altri. Per tutti. Il neofascismo e la mafia si combattono così.

 

Se c’ero, dormivo

A volte, per segnare marcatamente il distacco con cui seguiva i programmi TV, mio padre si alzava di soppiatto dalla poltrona e, quatto, quatto, se ne andava. Mia madre allora gli chiedeva: “Vät a lét?”. Lui con aria assonnata rispondeva quasi polemicamente: “No vagh a lét”. Era un modo per ricordare la gustosa chiacchierata tra i due sordi. Uno dice appunto all’altro: “Vät a lét?” ; l’altro risponde: ” No vagh a lét”. E l’altro ribatte: “Ah, a m’ cardäva ch’a t’andiss a lét”.

La gag dei sordi si attaglia abbastanza bene al dialogo-confronto-scontro fra Consob e Bankitalia in materia di crisi delle banche: in Commissione d’inchiesta Parlamentare sono volate accuse reciproche di inadempienza a livello di vigilanza e controllo sulle banche venete (Veneto Banca e Popolare Vicenza).

Non entro nel merito della questione, mi limito a prendere atto dell’atteggiamento delle due Autorità. Secondo Consob, Banca d’Italia non segnalò adeguatamente i “problemi” esistenti; secondo Banca d’Italia le informazioni e gli elementi forniti alla Commissione che vigila sui mercati e la Borsa erano più che sufficienti a far scattare un allarme. Le testimonianze rese dai rappresentanti dei due Istituti consacrano un palleggiamento di responsabilità, che non fa onore al sistema e che irrita oltremodo coloro i quali hanno avuto danni notevoli dagli anomali comportamenti delle banche in questione.

Ricordo come al tribunale di Parma ci fosse un magistrato che respingeva sistematicamente le richieste di confronti diretti fra imputati e/o testimoni: non serve a niente, sosteneva, perché ognuno rimane sulle sue posizioni e chi deve giudicare è ancor più in difficoltà. In Commissione Parlamentare è saltato il confronto, le due parti si sono scambiate accuse a livello di testimonianza sulla crisi delle due banche venete. Chi doveva controllare? Perché non ha funzionato lo scambio di informazioni? C’è qualcosa che non va nel sistema di controllo oppure ci sono state manchevolezze, incomprensioni, errori ed omissioni?

Il discorso si sposta su livelli di alta acrobazia istituzionale e burocratica: la Commissione non ci salterà fuori e probabilmente non riuscirà a determinare colpe e responsabilità. Angelo Apponi di Consob dice: «Non ci indicarono problemi». Carmelo Barbagallo di Bankitalia risponde: «Erano dati sufficienti per allarme». Non sono questioni semplici e facili, ma impantanare i discorsi in questo modo lascia molto perplessi.

Questi due importantissimi istituti evidentemente non dialogano fra di loro, si limitano a scambiarsi fredde comunicazioni ufficiali senza preoccuparsi dell’interlocutore. Nella trasmissione radiofonica di “Tutto il calcio minuto per minuto” i cronisti, quando si scambiano la linea dopo essersi interrotti per eventi importanti, si rifugiano in un comodo “linea al collega che stava parlando”. Della serie “va’ avanti ti ca’m scapa da riddor”.

Siamo solo agli inizi dei lavori della Commissione Parlamentare d’inchiesta. Alla fine succederà come quando non si riesce a trovare l’arma del delitto di un omicidio. Mio padre diceva: «As veda che quälcdón a ga pregä un colp…». Nel caso delle banche: «As veda che quälcdón al ga fat un pislén…».

E poi chi ha osato mettere in discussione l’operato di Bankitalia si è sentito rinfacciare di non avere il senso delle istituzioni e della loro autonomia. Qualcuno, a pochi giorni dalla conferma del governatore Visco, chiede già le sue dimissioni di fronte al quadro desolante che emerge. Forse era meglio pensarci prima, altrimenti cadiamo in un pericoloso gioco al massacro. A scuola, ai vecchi tempi, quando non usciva il colpevole di una marachella, si veniva tutti colpiti dal provvedimento disciplinare del caso. Qui succederà l’esatto contrario. Non sono un giustizialista, ma neanche un allocco…

La sincerità educativa

Le disinibite parole riservate da un sacerdote bolognese ad una ragazza, che ha denunciato di esser stata vittima di stupro, fanno un certo scalpore, vengono strumentalmente considerate come lo sfogo bigotto di chi vuole colpevolizzare le donne a tutti i costi e vissute con un certo imbarazzo dagli ambienti cattolici e non.

Il prete in questione, al di là dei toni piuttosto brutali (anche le espressioni usate hanno un loro peso…), a parte una inaccettabile “puntatina” razzista, ha fatto un ragionamento molto semplice nella sua provocatorietà: attenzione, perché anche la più accorta delle farfalle, volando vicino al fuoco, rischia di bruciarsi le ali. Vecchia saggezza popolare, che non fa una grinza. Se una ragazza frequenta certi ambienti, si accompagna a certi soggetti, cade nella tentazione dello sballo, si ubriaca e sniffa, corre grossi pericoli. Non si tratta di indossare o meno una minigonna, di relegare le donne in casa a fare la calza, ma solo di invitarle ad   adottare qualche utile e sana precauzione di carattere umano e non moralistico.

Probabilmente il sacerdote in questione ha avuto il coraggio di dire apertamente quel che in molti pensano e tacciono per non passare da retrogradi. Poteva esprimersi in termini più delicati, poteva dialogare invece di sparare a raffica, ma la sostanza rimane la stessa. Credo non avesse alcuna intenzione di assolvere, scusare o dare attenuanti agli squallidi e criminali stupratori, voleva mettere in guardia dai pericoli che si corrono andandosi a ficcare in certe situazioni, trasgressive al punto da diventare propedeutiche al fattaccio.

Fin dove l’educatore deve cercare di vietare seccamente certi comportamenti e fin dove invece può puntare sul senso di responsabilità da costruire in capo alla giovane donna? Il sacerdote di Bologna ha inteso trovare l’equilibrio con un’uscita per la verità poco equilibrata, ma puntata, in buona fede, a scuotere i soggetti a rischio anche tramite la denuncia di certi atteggiamenti e comportamenti o quanto meno a rendere, fuori dai denti, l’idea dei rischi che si corrono agendo in un certo modo. Un tempo si diceva “uomo avvisato mezzo salvato”. A maggior ragione può valere per le ragazze che si buttano nel marasma sociale giovanile.

È chiaro che se un giovane rincasa alle sei del mattino, dopo aver ballato e bevuto tutta la notte, rischia l’incidente stradale. Farglielo, magari brutalmente, presente, non penso sia sbagliato. Forse è venuto il momento di dire certe verità scomode da parte dei genitori, degli educatori, degli operatori sociali, andando a toccare nel vivo dell’intero sistema permissivo che abbiamo costruito. Chi sfodera questo coraggio rischia di essere compatito o squalificato come retrogrado. Non mi sembra un buon motivo per tacere.

Amici, parenti e conoscenti mi fanno spesso notare il pericolo che si può correre adottando schemi piuttosto repressivi: l’isolamento del figlio o della figlia rispetto all’andazzo corrente, il contrasto con la mentalità permissiva prevalente. Ammetto che il mestiere di educatore sia il più difficile del mondo, ciò non toglie che ci si debba impegnare con rigore, entusiasmo e disponibilità.

Il dialogo coi giovani mi pare invece un buonista scambio fra sordi e muti, poi quando succede il disastro si scarica la colpa sulla società, che indubbiamente di colpe ne ha tante, ma che è fatta anche di adulti che declinano le loro responsabilità verso i giovani.