L’umanità vince soprattutto quando si perde

I due personaggi simbolo della recente fase della nazionale di calcio, culminata nella eliminazione dai campionati del mondo che si giocheranno in Russia tra alcuni mesi, erano Gian Luigi Buffon e Gian Piero Ventura, rispettivamente capitano e commissario tecnico.

Non mi erano simpatici. Per il primo ero condizionato dal ricordo di alcune narcisistiche dichiarazioni di parecchi anni or sono, che mi sono bastate per ritenerlo un personaggio molto gasato in proprio e per conto terzi. Per il secondo vale quanto si sa da tempo ossia che l’Italia è un paese in cui tutti si sentono in pectore commissari della nazionale di calcio e quindi vedono il selezionatore come una sorta di usurpatore: probabilmente anch’io, almeno a livello di subconscio, sono caduto in questa trappola ed ho considerato Ventura un tecnico inadeguato all’incarico affidatogli.

In quest’ultimo periodo oltre tutto sono stati sovra-esposti a livello mediatico, come del resto tutta la vicenda dei preliminari, culminati nei play-off, per accedere al campionato mondiale. È arrivata l’eliminazione ed è naturalmente iniziata l’assurda lamentazione pallonara: si sono cominciate a spendere espressioni catastrofiche, un’apocalisse, un disastro, un dramma, etc. È fuori discussione che coloro i quali vivono di pallone sentano franare la terra sotto i piedi: il sistema calcio scricchiola e allora via con le analisi critiche e le proposte innovative. Un copione vuoto e scontato.

Non sono un appassionato di calcio (forse lo sono stato e i peccati di gioventù si pagano in vecchiaia…) in quanto di questo sport ammiro sì la bellezza, deturpata però da un professionismo speculativo, da una gestione affaristica e scorretta, dalle scommesse clandestine, dal fanatismo dei tifosi, dalla mensa mediatica. Un tempo tutto aveva una dimensione umana ben lontana dall’anonimo, industriale, artificioso, violento divismo calcistico di oggi.

Mi è comunque dispiaciuto che la nazionale di calcio abbia subito questa sconfitta, su cui peraltro non c’è niente da drammatizzare: non muore nessuno, il fenomeno del calcio continuerà imperterrito e pieno di paradossali contraddizioni.

Qualcuno si è affrettato ad affermare che dalle sconfitte può nascere un roseo futuro all’insegna del rinnovamento: discorsi che lasciano il tempo che trovano, fatti “utilitaristicamente” da chi non intende mollare l’osso.

Personalmente invece ho vissuto la sconfitta come una positiva umanizzazione dei personaggi e in tal senso ritorno ai due big che ho citato all’inizio. Buffon ha saputo piangere e non è poco. Ventura ha saputo chiedere scusa per gli scarsi risultati pur confermando di essersi impegnato con la massima serietà e convinzione: non è poco. Sono un perdente di vocazione, nelle sconfitte trovo una forte auto-gratificazione sul piano umano e quindi, come per miracolo, questi signori che mi stavano antipatici sono diventati miei amici. Evidentemente non erano quegli “stronzi” che immaginavo…Bisogna sempre andare adagio a giudicare la gente.

Quando ho sentito che Ventura è stato coperto di fischi e insulti dal pubblico di San Siro, mi sono ricordato di un certo Canforini, tecnico che dalle formazioni giovanili del Parma era approdato alla prima squadra. Le cose obiettivamente non andavano bene, la squadra era indiscutibilmente in crisi e, succedeva purtroppo anche allora, scattò la contestazione dei tifosi. Ognuno è ovviamente libero di esprimere le proprie critiche, più che mai in un ambiente come lo stadio, ma a tutto c’è un limite. Al termine dell’incontro, finito molto male per il Parma, l’allenatore Canforini fu accolto all’uscita degli spogliatoi da una pioggia di sputi. Mio padre lo imparò il giorno successivo dalle cronache del giornale, ne rimase seriamente turbato dal punto di vista umano e reagì, alla sua maniera, dicendomi: «“E vót che mi, parchè al Pärma l’ à pèrs, spuda adòs a un òmm, a l’alenadór? Mo lu ‘l fa al so mestér cme mi fagh al mèj. Sarìss cme dir che se mi a m’ ven mäl ‘na camra al padrón ‘d ca’ al me dovrìss spudär adòs! Al m’la farà rifär, al me tgnirà zò un po’ ‘d sòld, mo basta acsì».

Mio padre esercitava il mestiere di imbianchino e quegli sputi se li era sentiti addosso. Non poteva concepire un’offesa del genere, soprattutto in conseguenza di un fatto normalissimo anche se spiacevole: perdere una partita di calcio. Peccato che allo sfortunato Canforini non bastò ad evitare l’esonero ma fu sufficiente,   senza saperlo, ad avere la solidarietà di un uomo che lavorava e sbagliava né più né meno come lui. Il discorso vale anche nel caso di Ventura per il quale l’antipatia, in cuor mio, si è trasformata in solidarietà: tutto merito di papà.