La sincerità educativa

Le disinibite parole riservate da un sacerdote bolognese ad una ragazza, che ha denunciato di esser stata vittima di stupro, fanno un certo scalpore, vengono strumentalmente considerate come lo sfogo bigotto di chi vuole colpevolizzare le donne a tutti i costi e vissute con un certo imbarazzo dagli ambienti cattolici e non.

Il prete in questione, al di là dei toni piuttosto brutali (anche le espressioni usate hanno un loro peso…), a parte una inaccettabile “puntatina” razzista, ha fatto un ragionamento molto semplice nella sua provocatorietà: attenzione, perché anche la più accorta delle farfalle, volando vicino al fuoco, rischia di bruciarsi le ali. Vecchia saggezza popolare, che non fa una grinza. Se una ragazza frequenta certi ambienti, si accompagna a certi soggetti, cade nella tentazione dello sballo, si ubriaca e sniffa, corre grossi pericoli. Non si tratta di indossare o meno una minigonna, di relegare le donne in casa a fare la calza, ma solo di invitarle ad   adottare qualche utile e sana precauzione di carattere umano e non moralistico.

Probabilmente il sacerdote in questione ha avuto il coraggio di dire apertamente quel che in molti pensano e tacciono per non passare da retrogradi. Poteva esprimersi in termini più delicati, poteva dialogare invece di sparare a raffica, ma la sostanza rimane la stessa. Credo non avesse alcuna intenzione di assolvere, scusare o dare attenuanti agli squallidi e criminali stupratori, voleva mettere in guardia dai pericoli che si corrono andandosi a ficcare in certe situazioni, trasgressive al punto da diventare propedeutiche al fattaccio.

Fin dove l’educatore deve cercare di vietare seccamente certi comportamenti e fin dove invece può puntare sul senso di responsabilità da costruire in capo alla giovane donna? Il sacerdote di Bologna ha inteso trovare l’equilibrio con un’uscita per la verità poco equilibrata, ma puntata, in buona fede, a scuotere i soggetti a rischio anche tramite la denuncia di certi atteggiamenti e comportamenti o quanto meno a rendere, fuori dai denti, l’idea dei rischi che si corrono agendo in un certo modo. Un tempo si diceva “uomo avvisato mezzo salvato”. A maggior ragione può valere per le ragazze che si buttano nel marasma sociale giovanile.

È chiaro che se un giovane rincasa alle sei del mattino, dopo aver ballato e bevuto tutta la notte, rischia l’incidente stradale. Farglielo, magari brutalmente, presente, non penso sia sbagliato. Forse è venuto il momento di dire certe verità scomode da parte dei genitori, degli educatori, degli operatori sociali, andando a toccare nel vivo dell’intero sistema permissivo che abbiamo costruito. Chi sfodera questo coraggio rischia di essere compatito o squalificato come retrogrado. Non mi sembra un buon motivo per tacere.

Amici, parenti e conoscenti mi fanno spesso notare il pericolo che si può correre adottando schemi piuttosto repressivi: l’isolamento del figlio o della figlia rispetto all’andazzo corrente, il contrasto con la mentalità permissiva prevalente. Ammetto che il mestiere di educatore sia il più difficile del mondo, ciò non toglie che ci si debba impegnare con rigore, entusiasmo e disponibilità.

Il dialogo coi giovani mi pare invece un buonista scambio fra sordi e muti, poi quando succede il disastro si scarica la colpa sulla società, che indubbiamente di colpe ne ha tante, ma che è fatta anche di adulti che declinano le loro responsabilità verso i giovani.