Piove, cittadino ladro

Non sono certo tenero con la corruzione ed il malaffare annidati in politica e quindi sono portato a considerare il   qualunquismo più come un effetto che come una concausa del deterioramento etico della classe dirigente politica e non solo politica.

Però, se la gente ha il diritto di puntare l’indice contro chi la malgoverna, ha anche il dovere di autopuntare l’indice contro se stessa. Mi riferisco alle troppe persone che non fanno il loro dovere, vale a dire che non lavorano, lavorano male o, peggio ancora, commettono veri e propri atti delinquenziali nello svolgimento della loro professione.

Non voglio considerare i comportamenti che vanno contro le casse dello Stato (evasione fiscale) o contro le pubbliche istituzioni (bustarelle, raccomandazioni, etc. etc.), altrimenti la lavagna dei cattivi si farebbe veramente zeppa e tale da sminuire e riscattare quella degli amministratori balordi.

Mi limito a chi col proprio lavoro danneggia direttamente altre persone: gli operatori sociali che maltrattano gli anziani nelle case di riposo, le maestre d’asilo che picchiano i bambini, gli infermieri che se ne fregano dei malati, i medici che non ascoltano e non curano i loro pazienti, i poliziotti che torturano i soggetti indagati, i giornalisti che raccontano balle, i giudici che decidono le cause senza leggere gli atti del processo, etc. etc. C’è persino chi, anziché darsi da fare per tempo, ride sulle disgrazie comuni con un cinismo più unico che raro. Si dirà che non si deve generalizzare. Certo, ma la generalizzazione non deve essere fatta anche per i politici e gli amministratori pubblici.

E allora? Questi illustri signori (e signore) sputtanano tutti e accreditano il corpo sociale come una massa di opportunisti, scansafatiche e privi di valori. Valga al riguardo un episodio, raccontato da mio padre, che la dice lunga sull’etica del lavoro. In un cantiere edile egli assistette alle continue, reiterate, pesanti rimostranze di due operai nei confronti del loro datore di lavoro, assente dalla scena ma non per questo meno osteggiato. Tra un improperio e l’altro i due lavoratori cercavano di preparare una tavola di legno da utilizzare non so come. Dopo un paio d’ore si accorsero di avere sbagliato tutto e che la tavola era inutilizzabile. Mio padre, che aveva una linguaccia irrequieta e importuna, li rimproverò di brutto dicendo: “Al vostor padrón al sarà gram, mo sarà dificcil ch’al s’ faga di gran sòld cól vostor lavór”. Questa, a casa mia, si chiama onestà intellettuale. Era solito dire:“Primma äd tutt fa bén al to’ lavor e po’ a t’ pól fär tutti il batalj sindacäli ch’a t’ vól”.

Vale anche nei rapporti fra cittadini e governanti. Come può una maestra, che alza sistematicamente mani e voce sui bambini affidati a lei, protestare contro la ministra della pubblica istruzione rea di non alzare lo stipendio agli insegnanti. Come può un inserviente che lascia i malati in letti invasi da sporcizia e insetti chiedere che il ministro della salute migliori le strutture ospedaliere. Potrei andare avanti con questo ritornello etico. Mi limito ad aggiungere una frecciata ai sindacati: come possono chiedere un sistema pensionistico migliore, quando hanno favorito assurdi prepensionamenti privilegiati e difeso a tutti i costi chi non lavorava.

Il discorso molto delicato e provocatorio porta ad una domanda conclusiva: meritiamo una classe politica migliore o abbiamo quella che ci meritiamo (forse chi governa è addirittura, in media, migliore di chi è governato)? Domanda da cui non si esce vivi, se non dandosi una regolata. O ricuperiamo un minimo di etica o, come disse Gesù rispondendo ad una pretestuosa domanda sulle vittime dei cataclismi, periremo tutti.

 

Uomo informato, mezzo rovinato

Mio padre mi raccontava come, ai tempi del fascismo, esistesse un popolano del quartiere (più provocatore che matto) che era solito entrare nei locali ed urlare una propaganda contro corrente del tipo: “E’ morto il fascismo! La morte del Duce! Basta con le balle!”. Quel popolano dell’oltretorrente, oltre che avere un coraggio da leone, usava molto bene l’arte della polemica e della satira.   Ci voleva del fegato ad esprimersi in quel modo, in un mondo dove, mi diceva mio padre, non potevi fidarti di nessuno, perché i muri avevano le orecchie. Ricordo che, per sintetizzarmi in poche parole l’aria che tirava durante il fascismo, per delineare con estrema semplicità, ma con altrettanta incisività, il quadro che regnava a livello informativo, mi diceva: se si accendeva la radio “Benito Mussolini ha detto che….”, se si andava al cinema con i filmati luce “il capo del governo ha inaugurato….”, se si leggeva il giornale “il Duce ha dichiarato che…”. Tutto più o meno così.

Ebbene la politica e la democrazia possono morire asfissiate dalla mancanza di informazioni, ma possono soffrire per l’eccesso di notizie, soprattutto se parecchie di esse sono false e sbdolamente divulgate. Il mondo moderno è caratterizzato proprio dalla velocità e dalla quantità di notizie che circolano sul web e sui social media: abbiamo la sensazione di sapere o poter sapere tutto di tutti e quindi di essere in grado di operare scelte di ogni tipo a ragion veduta. Si tratta di una pia illusione, perché dai consumi alla politica c’è chi riesce a pilotare questo circo mediatico. Non voglio fare il retrogrado a tutti i costi, ma non so se fossimo più e meglio informati ai tempi in cui esisteva un solo e pubblico canale televisivo rispetto all’odierna marea che ci investe senza tregua.

Gli stimoli culturali non mancano ed è un gran bene, ma, senza prendere in considerazione i fenomeni patologici dell’informazione, la banalizzazione e la falsificazione sono dietro l’angolo. Non vi è alcun dubbio che la mentalità corrente risenta di questa promiscuità e si formi nella confusione creata ad arte per influenzare l’opinione pubblica.

Le scelte politiche rischiano effettivamente di essere orientate dall’esterno, da una sorta di realtà parallela costruita sul web. Capire chi giochi sporco credo sia come cercare l’ago nel pagliaio, anche se è giusto lanciare l’allarme. Si diceva un tempo: “uomo avvisato, mezzo salvato”. Oggi non saprei sinceramente come modificare questo detto, forse si potrebbe dire: “uomo informato, mezzo rovinato”.

Tutti si sentono e si dichiarano al di sopra di ogni sospetto, le galline cantano e non si capisce quali di esse facciano l’uovo. Auspicare meccanismi di controllo e pensare così di difendersi dalle false notizie è pia illusione. A volte si vedono immagini quasi grottesche di zone alluvionate dove le persone, immerse nell’acqua fino alla cintola, si riparano dalla pioggia con l’ombrello. Il paragone ci può stare. Bisogna imparare a convivere con l’acqua alta delle notizie, come fanno i Veneziani; è necessario imparare a convivere con i venti impetuosi del web come fanno i Triestini con la Bora.

Vengono prima le notizie o la capacità critica di leggerle? Informati o disinformati? Questo è il problema. A volte mia madre, sconfortata dalle notizie di cronaca nera, ammetteva paradossalmente come si vivesse meglio quando certi fatti non si sapevano, magari si immaginavano, ma, come noto, “i ‘d aviz ien cmè j insònni”. Ora invece le certezze diventano sogni e si è costretti ad immaginare la realtà, quella vera non quella delle false notizie.

 

Gli acuti, le mezze-voci e i falsettoni

In una storica e   simpatica trasmissione televisiva su Telereggio, che si occupa di opera lirica, ho sentito riportare, seppure prendendone le distanze, un giudizio colorito e dissacrante sul famoso tenore Mario Del Monaco: un “zbrajalòn”, vale a dire un urlatore. Ci può stare a livello provocatorio, anche se un tantino di cautela non guasterebbe.

Nel salotto di Gianni, così è definito questo settimanale appuntamento di melomani, per difendere la memoria di Del Monaco si è voluto aggiungere un improbabile parallelo col tenore Franco Corelli, il quale in tutta la sua inimitabile e inarrivabile carriera ha rappresentato proprio l’esatto contrario del puro sparatore di acuti alla viva il parroco, tramite una quasi maniacale coniugazione della prestanza vocale con la modulazione dei suoni, la ricerca dello stile e la partecipazione interpretativa.

Ci sono in sostanza due modi diversi di esibire i muscoli vocali: sedersi sugli allori dei do di petto oppure fare della prestanza vocale un trampolino di lancio per cantare come si deve.

La politica italiana, in questa interminabile e insopportabile fase, è caratterizzata dai “zbrajón” (versione parmigiana del succitato zbrajalòn reggiano), vale a dire da chi urla o grida in modo da disturbare l’avversario senza preoccupazioni di stile, equilibrio, rispetto e soprattutto di contenuto. Ce ne sono in tutto l’arco dello schieramento.

L’urlatore principale è indubbiamente Beppe Grillo, seguito a ruota da Matteo Salvini. Nel gruppo entra anche la pattuglia dei sinistrorsi a tutti i costi. Mentre i pentastellati tendono a sbraitare per loro conto, gli altri pretenderebbero di far parte di un coro. Salvini crea grossi grattacapi al maestro (?) Berlusconi, che vorrebbe zittirlo, ma non può: il loggione di destra gradisce infatti più gli acuti sgangherati delle sfumature vocali. I coristi piazzaioli della sinistra stanno alquanto sulle palle a Renzi, che non può permettersi il lusso di mandarli a cantare all’osteria e quindi tenta disperatamente di recuperare almeno le voci più morbide e malleabili.

Da una parte il redivivo cavaliere dell’apocalisse, sempre più carnevalesca maschera di se stesso, tenta di rifare, oltre al proprio viso, l’operazione del 1994: c’è una bella differenza tra il Bossi di allora e il Salvini di oggi, tra il Fini di Alleanza nazionale e la Meloni di Fratelli d’Italia, tra i casiniani centristi di allora e i casinisti moderati di oggi.

Dall’altra parte il guizzante rottamatore, sempre più testarda imitazione di se stesso, tenta di ricominciare il lavoro da dove lo aveva interrotto, vale a dire dalla sconfitta nel referendum costituzionale: c’è una bella differenza tra il PD proiettato nel futuro e quello dilaniato dalle correnti interne ed esterne e ripiegato sulla propria identità.

A Berlusconi propongono persino di stipulare un patto davanti al notaio per la paura che l’indomani delle elezioni possa scantonare verso le larghe intese; stesso pretestuoso timore verso Renzi nutrono i puristi della sinistra. In molti hanno una fifa matta della tardiva caricatura del compromesso storico: quel coro di moderato buon senso che potrebbe strozzare le ugole dei “zbrajalòn” o dei “zbrajón” come dir si voglia. Agli acuti sparati alla viva il parroco si sostituirebbero le mezze-voci, se non addirittura i falsettoni. Per cantar bene però ci vorrebbero uno o più Franco Corelli della politica: questo prestigioso cantante lirico, appena si accorse di non essere più all’altezza della situazione, non esitò a ritirarsi dalle scene. Pensate se facessero così anche i politici italiani…

Aggiungi un posto al cimitero

Quando scoppiò la prima tangentopoli, verso la fine degli anni ottanta in quel di Milano, ricordo come avesse fatto grande scalpore il fatto che la corruzione avesse coinvolto anche il mercanteggiamento dei loculi cimiteriali: si pagavano tangenti per licenze edilizie, per pubblici appalti, per posti di lavoro, per favori di ogni tipo, persino per avere un posto al cimitero. Era tutto dire. Le monetine lanciate a Bettino Craxi risentivano di questo clima di esasperazione: in lui, reo di avere istituzionalizzato il sistema tagentizio, si attaccava il malcostume diffuso, salvo concedere successivamente e frettolosamente fiducia a chi ne era stato complice o a chi era comunque peggio di lui (non c’è bisogno di chiarire a chi mi riferisco). Basti dire che quanti esibivano il cappio in Parlamento finirono per allearsi con chi aveva fatto affari d’oro con Craxi e c.

A distanza di trent’anni la storia si ripete. A Potenza una inchiesta della Polizia ha portato all’arresto di tre persone, due ai domiciliari e una in carcere, per la vendita di loculi nel cimitero monumentale della città. Il Gip, che ha emesso i provvedimenti restrittivi nei confronti degli indagati, ipotizza una serie di reati: falsità materiale commessa da pubblico ufficiale, peculato, induzione indebita a dare o promettere denaro, corruzione e violazione dei sistemi informatici.

Non so come andrà a finire questa inchiesta, molte volte il tutto si sgonfia e resta solo un’eco amara, che contribuisce tuttavia a creare sfiducia e discredito; a volte purtroppo emergono paradossali realtà come punta di un iceberg che non accenna ad essere smaltito. Faccio una certa fatica a immaginare cosa possa essere concretamente successo, fatto sta che l’affarismo deteriore ci accompagna dalla culla alla bara.

Diventa quindi molto difficile ripulire dal qualunquismo l’atteggiamento dei cittadini verso l’amministrazione della cosa pubblica. Il qualunquismo si basa sulla convinzione che tutti rubino e che quindi non ci possa essere via di scampo sul piano etico e politico. Di qui sfiducia, astensionismo, proteste verso tutto e tutti in una generalizzazione che non lascia scampo. Quando emergono questi fatti emblematici di un vero e proprio sistema illegale, la tentazione è di rifugiarsi nel così fan tutti e di eliminare la politica dal proprio orizzonte culturale. Oltre al danno erariale che ne consegue, oltre alle ingiustizie che vengono perpetrate, il fatto più rilevante è il danno d’immagine per l’intera classe politica e per le istituzioni. Il qualunquismo trova terreno fertile e diventa sempre più arduo combatterlo.

Resto sempre impressionato quando la Corte dei Conti sostiene che l’importo totale dell’ammanco dovuto al fenomeno della corruzione sarebbe sufficiente a coprire il disavanzo dei conti pubblici. Mio padre era solito affermare che, se tutti pagassero regolarmente le tasse e nessuno rubasse il denaro pubblico, “ag saris da där al polàstor ai gat”. E giustamente lui metteva insieme chi non porta il dovuto e chi toglie il non dovuto dalle casse dello Stato. Il malcostume a livello politico infatti finisce col giustificare l’evasione fiscale: ma perché io devo pagare le tasse? Perché poi chi governa se le metta nelle proprie tasche? E giù valanghe di qualunquismo a buon mercato.

Ricordo come un giorno un mio acuto e disincantato conoscente mi abbia posto una domanda sibillina di questo tipo: è più qualunquista chi ruba il denaro pubblico a man salva o chi generalizza la propria indignazione fino a farne uno stile di attacco alla classe politica ed ai pubblici amministratori? Non ricordo di preciso, ma penso di avere risposto che chi si fa o si lascia corrompere presuppone comunque la presenza attiva di chi vuole lucrare illegalmente favori e vantaggi.

La storia politica è piena di luminosi esempi di comportamenti corretti e leali, che purtroppo rischiano di essere oscurati dal malaffare emergente e dilagante. I media ci giocano sopra promuovendo spesso lo scandalismo facile. La magistratura interviene spesso sporadicamente e tardivamente, a volte anche strumentalmente. I populisti soffiano sul fuoco sperando di incassare un grottesco dividendo, senza capire che da simili derive tutti hanno tutto da perdere.

Resta comunque una tremenda realtà che grida vendetta. Vai a far capire alla gente che la miglior vendetta non è astenersi dal voto e disinteressarsi di politica, ma scegliere con testardo impegno e partecipare con scrupolosa attenzione. La lunga campagna elettorale che si sta profilando avrà fra i suoi motivi predominanti il fango della pubblica corruzione? Ci sono non poche avvisaglie in tal senso!

 

 

Putost che nient (Grillo) è mej putost (Berlusconi)

Da qualche tempo mi frullava nella mente un’ipotesi paradossale: se malauguratamente si presentasse l’alternativa politica, complice la sciocca automarginalizzazione della sinistra, tra il centro-destra più o meno riberlusconizzato e il movimento cinque stelle più o meno dimaiozzato, cosa si dovrebbe fare senza rifugiarsi in un pericoloso e snobistico pilatismo.

Ed ecco puntualmente materializzarsi questo sondaggio in capo a Eugenio Scalfari. Da lui in prima battuta mi sarei aspettata una risposta ironica del tipo “me ne andrei in Svizzera”, idea peraltro ironicamente già espressa qualche tempo fa in concomitanza con le scorribande di Daniela Santanché.

Ebbene Scalfari ha risposto in modo tutto sommato condivisibile, con una schiettezza che ha scandalizzato: se ho capito bene, in poche parole tra l’avventuristico vuoto pneumatico antisistema dei pentastellati   e il conformistico rigurgito berlusconiano ha scelto, turandosi il naso, il male minore e dalla torre ha buttato giù Di Maio e compagnia recitando.

C’è un modo di dire dialettale che rende assai bene l’idea delle scelte minimalistiche: “putost che nient è mej putost”. Penso che Eugenio Scalfari abbia ragionato così e tutti a dargli addosso dipingendolo quale subdolo voltagabbana rispetto al viscerale antiberlusconismo del passato.

Innanzitutto bisogna considerare che il tempo rende più disincantati i giudizi: Berlusconi a distanza di tempo resta una sciagurata opzione italiana, ma siccome alle disgrazie non c’è mai limite, anzi una tira l’altra, a volte è meglio stare, come si suol dire, nei primi danni.

Questo ragionamento paradossale, ma pragmatico, segna peraltro il fallimento della mission politica del grillismo: tanto hanno contestato e contestano a vanvera da trasformare gli italiani più avveduti negli ultimi giapponesi del sistema. Non c’è che dire, bel risultato davvero: sono riusciti a sdoganare Berlusconi. La vera riabilitazione del cavaliere probabilmente non verrà dalla Corte europea, ma è già arrivata dal velleitarismo inconcludente e pernicioso dei cinque stelle.

Non mi sono curato di seguire la coda polemica alle dichiarazioni di buon senso di Scalfari, ho la presunzione di averne colto il significato provocatoriamente allusivo e intrigante. Se da una parte, come detto, l’ipotesi di una sorta di ballottaggio fra Berlusconi e Grillo segna la clamorosa sconfitta del secondo, dall’altra comporta la constatazione della drammatica debolezza politica della sinistra.

Qualcuno prevede che le elezioni politiche si terranno in marzo del 2018 in modo da avere il tempo per ripeterle immediatamente, ovviando all’ingovernabilità e proponendo con ogni probabilità la scelta uscita per ora dal laboratorio chiacchierone della politica.

In Francia la scelta del male minore si è già verificata in un passato non troppo lontano: Chirac fece argine all’ondata della destra fascista. Alle ultime elezioni francesi ci ha pensato Macron a dribblare queste strane ipotesi minimaliste. Matteo Renzi sarà in grado di prospettare agli italiani una benefica mossa del cavallo? E se tra i due litiganti, Berlusconi e Grillo, godesse il terzo? Ma il terzo ha purtroppo la lite in casa e quindi…

Le bambole violentabili

Siamo alle solite: il sistema attacca se stesso come un soggetto che si guarda allo specchio e si scandalizza delle proprie vergogne. Cosa ha prodotto il nostro sistema in capo alla donna? Un cliché spaventosamente alienante e consumista. Se la donna è considerata una bambola, è consequenziale usarla come un corpo senza vita e senz’anima, per poi buttarla in un angolo o addirittura farla a pezzi. Una sorta di bambola gonfiabile o sgonfiabile a piacimento del sistema e, siccome il sistema è maschilista, la bambola fa una brutta fine. Se non si parte da questa triste realtà, le battaglie a difesa della donna rischiano di essere velleitarie e di facciata.

È perfettamente inutile ed irritante che il mondo televisivo si metta a posto la coscienza dedicando spazio alle storie di donne violentate, abusate, molestate, uccise, quando dai video pubblici e privati esce un’immagine femminile alienante e perfettamente funzionale   ad un certo andazzo di sistema.

Vale lo stesso discorso per il mondo del cinema e dello spettacolo: cosa propongono in materia? Sesso associato a violenza. Uomini e donne assetati di piacere, disposti a tutto pur di placare questa sete.

E la politica? Arriva in ritardo di secoli e pensa di recuperare con i soliti discorsi. Siamo tutti contro la violenza alle donne e allora chi le violenta? Si punta a criminalizzare gli immigrati, poi si scopre che la stragrande maggioranza degli episodi contro le donne è racchiusa in famiglie perbene.

La celebrazione della giornata contro la violenza alle donne lascia purtroppo il tempo che trova. Meglio di niente, siamo d’accordo. Parlarne può essere sempre utile. Ma bisogna affondare il bisturi, altrimenti il male, molto profondo e radicato, non viene estirpato.

Ripropongo un piccolo episodio alquanto emblematico, che ho già citato in parecchie occasioni. Ricordo che, molti anni fa, monsignor Riboldi, battagliero vescovo di Acerra, durante una conferenza all’aula dei filosofi dell’Università di Parma, raccontò come avesse scandalizzato le suore della sua diocesi esprimendo loro una preferenza verso la stampa pornografica rispetto a certe proposte televisive perbeniste nella forma e subdolamente “sporche” nella sostanza. In fin dei conti, voleva dire, la pornografia pura si sa cos’è e la si prende per quello che è, mentre è molto più pericoloso il messaggio nascosto, che colpisce quando non te l’aspetti. In definitiva meglio la pornografia conclamata di quella subdola, meglio gli sporcaccioni e le sporcaccione in prima persona, nudi come mamma li fece, piuttosto degli sporcaccioni e delle sporcaccione in giacca e cravatta o in tailleur rosso sgargiante.

Il discorso vale per la pornografia, ma vale per tutta la cultura maschilista, sessista, antifemminista. I maltrattamenti, le sevizie, le mutilazioni, le uccisioni e gli stupri sono l’ultimo atto di una tragedia lunga in cui molti hanno una parte. Pensiamoci seriamente. Le bambole gonfiabili sono un grottesco diversivo in risposta alla patologia sessuale. Le bambole violentabili sono una colpevole responsabilità di un sistema malato, che non si cura coi pannicelli caldi delle giornate, delle partite, delle manifestazioni, delle cerimonie, dei convegni. Tutto serve, ma tutto ha un limite.

I mangiatori di telegiornali

“Chi vespa mangia le mele, chi non vespa…”: era lo spot pubblicitario, dal vago (?) sapore erotico, messo in pista dalla Piaggio per promuovere l’ultima generazione del suo storico prodotto.

Vespa, oltre che essere il nome di un gran bel mezzo di trasporto è il nome di un noto giornalista, il Bruno nazionale. Nel periodo in cui dirigeva il principale telegiornale della televisione di stato, fecero scalpore alcune sue dichiarazioni pubbliche in cui affermava di considerare il partito della Democrazia Cristiana il suo “editore di riferimento”; venne di conseguenza accusato di non considerare l’informazione un servizio pubblico e di produrre un’informazione subordinata agli interessi della partitocrazia. Vespa disse in realtà che, essendo il Parlamento l’editore della Rai, un accordo fra i partiti aveva assegnato alla DC l’influenza sul primo canale, al PSI quella sul secondo e al PCI quella sul terzo, come fu riconosciuto poi da tutti.

Nonostante tutto considero la Rai erogatrice di un servizio pubblico e quindi a livello di informazione seguo testardamente i suoi telegiornali: una vera e propria inflattiva sarabanda, che sembra orientata a confondere e frastornare lo spettatore. Non c’è verso di mettervi ordine e razionalità: inutili e ripetitivi incarichi, assurdi sprechi, superficialità e impreparazione, presenze invadenti e invasive.

Da questo turbinio di giornalisti emerge un apparente assalto dietro cui si cela un sostanziale chiacchiericcio di comodo: se i giornalisti della Rai (e non solo…) un tempo erano scopertamente di parte, oggi stanno nascostamente e subdolamente dalla parte dello status quo nonostante le intemperanze di facciata. Nel momento in cui appaiono si sa già cosa (non) diranno e cosa chiederanno al politico di turno; si rifugeranno nella superficiale polemica, che in realtà non dà fastidio a nessuno.

Quando vigeva il regime della spartizione istituzionale, gli editori di riferimento almeno cercavano di coprire le loro caselle con giornalisti di notevole professionalità, i quali riuscivano paradossalmente a coniugare parzialità di giudizio e professionalità di metodo. Oggi scarseggiano le professionalità e restano le faziosità. Se devo essere sincero mi disturba più la mancanza di professionalità della faziosità, anche perché la prima direttamente o indirettamente dovrebbe calmierare la seconda, anche perché meglio combattere contro i capaci di tutto che contro i buoni a nulla. Quando la professionalità non fa più da filtro, emerge, anche se in modo coperto ma ancor più fastidioso, la parzialità (sarebbe forse opportuno chiamarla “polemica continua”).

Andava meglio quando andava peggio. Dall’informazione asservita alla politica siamo passati all’informazione scialba padrona della politica a cui tenta addirittura di dettare tempi e modi. In poche parole la Rai risponde a se stessa in una sorta di istituzione parallela di cui il salotto di Bruno Vespa è l’emblema, la terza Camera.

La par condicio esiste per la gestione degli spazi televisivi. Fra chi? Fra i garzoni di bottega che si dividono il video e non sanno nemmeno di cosa stanno parlando. Frotte di ragazzini o ragazzoni sguinzagliati in giro per il mondo o collocati a latere dei palazzi del potere per ripetere le solite menate o per lanciarsi in analisi sbrigative e gratuite. Nessun approfondimento critico, nessuna voglia di scavare, interviste all’acqua di rose, “gossiparizzazione” a tutto spiano : bla-bla o tifo.

Spegnere la televisione? A volte lo faccio! Ripiegare sistematicamente sulle televisioni private? Mi rifiuto di farlo! Mi rifugio nella nostalgia per le tribune politiche di un tempo, per i telegiornali di parte che tuttavia dicevano qualcosa, per un’informazione meno quantitativa e più qualitativa.

“Chi Vespa mangia la politica, chi non Vespa vomita la disinformazione”.

 

 

 

 

La “barizzazione” della politica

Quando si affronta un problema complesso e difficile si è spontaneamente ed irrazionalmente portati ad esaminarne gli aspetti più evidenti, ad occuparsi del particolare a scapito del generale, a rifugiarsi nel banale per evitare la fatica dell’approfondimento. Il discorso vale anche per la politica e per coloro che la spiegano.

Il problema di fondo della politica italiana è il disinteresse e la sfiducia dei cittadini riguardo ai partiti, che rappresentano o dovrebbero rappresentare, volenti o nolenti, il collegamento tra la realtà del Paese e le sue istituzioni. La questione infatti non sta tanto nella perdita di appeal dei partiti, ma nella conseguente debolezza delle istituzioni democratiche.

Cerco di essere concreto. Esistono tre evidenti questioni politiche sul tavolo: quella del tormentone nell’area di centro-sinistra insidiata dalle divisioni, quella del movimento cinque stelle lanciato spericolatamente e dilettantescamente nella contestazione globale e quella del centro-destra che non trova di meglio che avvinghiarsi al suo padre-padrone.

Sarebbe necessario approfondire le cause-effetto di queste anomalie, invece ci si rifugia sugli aspetti di facile presa mediatica, sui più beceri personalismi: il riciclo del fegatoso scetticismo di Tommaso D’Alema, la testarda risurrezione di Lazzaro Berlusconi,   il protagonismo di risulta di Barabba Grillo. Anziché tentare di capire e smascherare le manovre, ci si accontenta di coltivarne gli aspetti più futili e personali.

Per quanto riguarda il centro-sinistra si concede attenzione e credito ai pruriti identitari degli ex-comunisti correndo dietro alle minchiate di D’Alema e Bersani, lasciando in cantina il nodo della coniugazione tra salvaguardia del patrimonio ideale e sua adattabilità ai mutamenti della società.

Relativamente al centro-destra si prende la scorciatoia berlusconiana con le sue asperità divorziste e le sue magagne etico-giudiziarie, senza puntare al nodo del drammatico scontro tra conservazione e reazione, tra europeismo e nazionalismo, tra moderazione e populismo.

In campo pentastellare   si rincorrono gli squallidi personaggi di fila (Raggi, Di Battista, Di Maio etc) per evitare di affrontare il fallimento dell’operazione grillina, vale a dire la incapacità di interpretare lo scontento trasferendolo dalle pance alle urne, dalle piazze alle Camere, dal web ai palazzi del potere.

Un colossale e globale “striscia la notizia” avvolge la politica, satirizzandola, banalizzandola, svuotandola e marginalizzandola. Un tempo di politica si discuteva nelle sezioni di partito, oggi il dibattito si è trasferito nei bar, non quelli veri (il che sarebbe già qualcosa di serio), ma quelli immaginari e mediatici.

Continuiamo pure a interessarci delle due sentenze riguardanti Berlusconi: quella che sembra dargli ragione nei rapporti economici con la ex moglie Veronica Lario e quella europea, che non si sa se gli negherà definitivamente o meno l’ingresso nelle istituzioni. Lui comunque continuerà ad incarnare l’equivoco di una destra impresentabile.

Divertiamoci a intervistare i sinistrorsi di maniera ed a ospitarne i finti pruriti ideologici. Loro proseguiranno nel portare fuori strada la sinistra riducendola ad una conventicola di nostalgici.

Perdiamo il tempo dietro i grillini che giocano a fare politica. Loro giocano e forse si divertono anche, gli italiani rischiano invece di giocare in modo pessimo i residui jolly che hanno in mano.

Nel frattempo i votanti alle elezioni calano e si collocano a mera difesa del territorio, proprio come fanno i gatti e nella notte della democrazia tutti i gatti rischiano di essere bigi.

 

Il duello con le bacchette magiche

Le pensioni sono un tema che attira l’attenzione: di chi già le percepisce per il timore di vedersele messe in discussione o decurtate, di chi si avvicina all’età pensionabile per lamentarsi dello spostamento in avanti del relativo diritto, di chi è lontano dall’anzianità e teme di non raggiungere mai questo traguardo. Va quindi sul velluto chi cavalca l’argomento, come ad esempio la CGIL che vuole scendere in piazza per difendere tutti e rischia di finire col difendere (succede da parecchio tempo) solo i pensionati che la pensione ce l’hanno in tasca, Silvio Berlusconi che, in base al suo solito e irrinunciabile vezzo di promettere l’impossibile, preannuncia di alzare il trattamento minimo pensionistico a 1000 €, la sinistra, che più sinistra non si può, la quale strizza l’occhio alla CGIL e lascia intendere di essere in grado di invertire la tendenza rigorista, la destra, che più populista non si può, la quale continua a sparare contro la riforma Fornero, senza pensare che tale riforma si rese necessaria proprio a causa di una deriva politico-economica di cui era non l’unico, ma certamente un decisivo protagonista il sempre più sconclusionato e incredibile centro-destra.

Il governo Gentiloni ha timidamente e ragionevolmente provato a proporre una mitigazione dell’innalzamento dell’età pensionistica per alcune categorie di lavori usuranti e una prospettica e partecipata gestione del diritto alla pensione in base al rialzo delle aspettative di vita. La CGIL ha risposto con un no, annunciando una mobilitazione, facendo ricorso cioè, come si diceva un tempo, alla lotta di massa. Non so fino a qual punto questo importante sindacato riuscirà a portare in piazza pensionati e lavoratori, giovani ed anziani: fatto sta che questo rigido atteggiamento sembra dettato più da ragioni politiche (appoggio alle sinistre in rottura col PD) e dal recupero di consenso da parte dell’establishment sindacale (sempre più scollegato dalle istanze della gente che cerca un lavoro, che lavora e che ha finito di lavorare) che non da motivazioni di carattere socio-economico.

Il governo si è visto chiudere la porta in faccia: sinceramente credo non lo meritasse, così come non credo che il ricorso a scioperi e manifestazioni di piazza possa aumentare miracolosamente le risorse limitate con cui si devono fare i conti. Infatti ecco puntualmente arrivare l’avvertimento della Ue per la quale il persistere dell’alto debito pubblico, la bassa produttività, la disoccupazione giovanile preoccupano e rendono impraticabile una retromarcia sulla riforma delle pensioni nella manovra 2018, che deve essere attuata in modo rigido e senza sconti. Si dirà: il solito ritornello europeo! In parte è sicuramente vero, ma solo in parte, perché il debito lo abbiamo sul serio ed è riconducibile in gran parte al sistema pensionistico squilibrato.

Quindi da una parte Susanna Camuso, che fa la schizzinosa e dimentica che anche il sindacato in materia pensionistica ha non pochi scheletri nell’armadio, e dall’altra la Ue, che non perde occasione per fare la faccia dura: duellanti a distanza che brandiscono bacchette magiche.

Non invidio Gentiloni e Padoan. Non è il momento di indebolire il governo italiano sperando di sostituirlo a breve con chissà quale nuova compagine. Non è il momento di chinare pedissequamente il capo a Bruxelles. La situazione è difficile. Vogliamo provare tutti ad essere seri?

«I gh’ la fan» diceva mio padre fra sé, seduto davanti al video, ma in seconda fila, come era solito fare, per dare libero sfogo ai suoi commenti al vetriolo senza disturbare eccessivamente. Stavano trasmettendo notizie sulle battaglie sindacali a tappeto. Mi voltai incuriosito, anche perché, forse volutamente, la battuta, al primo sentire piuttosto ermetica, si prestava a contrastanti interpretazioni. «Co’ vot dir? A fär co’?» chiesi, deciso ad approfondire un discorso così provocatorio e intrigante. «A ruvinär l’Italia!» rispose papà in chiave liberatoria, sputando il rospo. Badate bene, mio padre era un antifascista convinto, di mentalità aperta e progressista, un tantino anarchico individualista: tuttavia amava ragionare con la propria testa e si accorgeva, fin dagli anni settanta, che la strategia sindacale stava esagerando in nome del “tutto e subito”.

 

Il gioiello milanese non interessa la Ue

Non sono un detrattore del processo di integrazione europea, anzi ne sono un estimatore, oserei dire un tifoso, quindi a maggior ragione considero la farsa del sorteggio per l’assegnazione della sede all’agenzia del farmaco (e di quella bancaria) una vera e propria dimostrazione di assoluta incapacità decisionale che dà fiato allo scetticismo europeo. Non è possibile: una confederazione di Stati che ambisce a diventare federazione scivola su simili bucce di banana.

Anche volendo prescindere dalla innegabile sostanza   della candidatura di Milano, pur se si fosse trattato, con tutto il rispetto, di Canicattì, la questione sarebbe stata comunque da censurare sul piano politico e istituzionale. Questo succede per volere a tutti i costi dare in pasto ai rappresentanti degli Stati-membro simili scelte, che dovrebbero spettare alla Commissione o al Parlamento europei.

Si è trattato di una vicenda penosa nel merito, ma soprattutto nel metodo. Se si pensa di far progredire l’idea di Europa unita con queste pagliacciate… Non è un fatto campanilistico, però per ingoiare il rospo della bocciatura di Milano occorrevano convincenti motivazioni alternative, mentre è prevalsa una logica meramente spartitoria culminata nella beffa di un sorteggio, consegnando il futuro europeo alla dea bendata. Roba da matti!

Se da un lato ne esce malissimo la Ue, dall’altro emerge un insegnamento anche per l’Italia e per Milano. Occorre più modestia e più pazienza per ottenere certi risultati. Noi pensiamo che Milano sia in pectore la capitale economica d’Europa e forse lo è nei fatti, ma come avviene in tribunale, per vincere una causa non basta avere ragione, ma occorre trovare un giudice che te la riconosca. Le ragioni di carattere economico, scientifico, organizzativo, deponevano tutte a favore di Milano, ma non è bastato.

Il leader della Lega, Salvini, dopo l’assegnazione della nuova sede dell’Ema ad Amsterdam, attraverso il sorteggio con Milano, non ha perso l’occasione per attaccare la Ue: «Pazzesco che una scelta che riguarda migliaia di posti di lavoro e due miliardi di indotto economico venga presa in Europa con il lancio di una monetina, ennesima dimostrazione della follia con cui è governata la Ue. Prioritario per il prossimo governo sarà ridiscutere i 17 miliardi l’anno che gli italiani versano a Bruxelles». Saro sincero fino in fondo: non riesco a dargli torto.

Come non vedere una prevalenza del Nord-Europa sull’Europa mediterranea incapace di fare massa critica, con la Francia a fare il pesce in barile. Tra le poche cose interessanti e acute ascoltate in una conferenza dibattito di Romano Prodi, già recentemente commentata, c’è sicuramente quella di ipotizzare quanto discredito ricadrebbe sull’Italia se uscisse dalle prossime elezioni con una pantomima simile a quella che sta offrendo la Germania: dopo mesi non riesce a formare un governo e si parla di ricorso a nuove elezioni politiche alla faccia della stabilità quale bene essenziale per una seria partecipazione alla Ue. Mentre alla Germania tutto è concesso, l’Italia deve sputare il sangue per rendersi credibile. Nemmeno esporre in vetrina il proprio gioiello milanese è stato sufficiente.

Se il nostro Paese accoglie i migranti, nessuno è disposto a dargli una mano; se tratta con i Paesi africani per regolamentare i traffici degli scafisti, non va bene; se deve fare i conti con devastanti terremoti, può sforare nei propri conti, ma fino ad un certo punto; se ha le banche in difficoltà non può sostenerle, mentre altri Stati in passato lo hanno fatto eccome; se chiede una politica di sviluppo, prima deve mettere in sicurezza il proprio bilancio; se propone passi avanti nell’integrazione, pensano che lo faccia solo per convenienza e così via. Due pesi e due misure: prima o poi bisognerà pur dire all’Ue di darci un taglio. Perché, come diceva il nostro presidente della Repubblica Sandro Pertini l’Italia non è prima, ma nemmeno seconda a nessuno. Non siamo i parenti poveri, men che meno quando ci presentiamo con un gioiello al collo. Milano e poi più, di Milano ce n’è uno solo: così recitano (la traduzione in italiano toglie immediatezza e incisività) certe meneghine espressioni vanagloriose: ce le hanno buttate in gola. Senza voler fare i Calimero di turno, possiamo dire: è un’ingiustizia però!