Gli acuti, le mezze-voci e i falsettoni

In una storica e   simpatica trasmissione televisiva su Telereggio, che si occupa di opera lirica, ho sentito riportare, seppure prendendone le distanze, un giudizio colorito e dissacrante sul famoso tenore Mario Del Monaco: un “zbrajalòn”, vale a dire un urlatore. Ci può stare a livello provocatorio, anche se un tantino di cautela non guasterebbe.

Nel salotto di Gianni, così è definito questo settimanale appuntamento di melomani, per difendere la memoria di Del Monaco si è voluto aggiungere un improbabile parallelo col tenore Franco Corelli, il quale in tutta la sua inimitabile e inarrivabile carriera ha rappresentato proprio l’esatto contrario del puro sparatore di acuti alla viva il parroco, tramite una quasi maniacale coniugazione della prestanza vocale con la modulazione dei suoni, la ricerca dello stile e la partecipazione interpretativa.

Ci sono in sostanza due modi diversi di esibire i muscoli vocali: sedersi sugli allori dei do di petto oppure fare della prestanza vocale un trampolino di lancio per cantare come si deve.

La politica italiana, in questa interminabile e insopportabile fase, è caratterizzata dai “zbrajón” (versione parmigiana del succitato zbrajalòn reggiano), vale a dire da chi urla o grida in modo da disturbare l’avversario senza preoccupazioni di stile, equilibrio, rispetto e soprattutto di contenuto. Ce ne sono in tutto l’arco dello schieramento.

L’urlatore principale è indubbiamente Beppe Grillo, seguito a ruota da Matteo Salvini. Nel gruppo entra anche la pattuglia dei sinistrorsi a tutti i costi. Mentre i pentastellati tendono a sbraitare per loro conto, gli altri pretenderebbero di far parte di un coro. Salvini crea grossi grattacapi al maestro (?) Berlusconi, che vorrebbe zittirlo, ma non può: il loggione di destra gradisce infatti più gli acuti sgangherati delle sfumature vocali. I coristi piazzaioli della sinistra stanno alquanto sulle palle a Renzi, che non può permettersi il lusso di mandarli a cantare all’osteria e quindi tenta disperatamente di recuperare almeno le voci più morbide e malleabili.

Da una parte il redivivo cavaliere dell’apocalisse, sempre più carnevalesca maschera di se stesso, tenta di rifare, oltre al proprio viso, l’operazione del 1994: c’è una bella differenza tra il Bossi di allora e il Salvini di oggi, tra il Fini di Alleanza nazionale e la Meloni di Fratelli d’Italia, tra i casiniani centristi di allora e i casinisti moderati di oggi.

Dall’altra parte il guizzante rottamatore, sempre più testarda imitazione di se stesso, tenta di ricominciare il lavoro da dove lo aveva interrotto, vale a dire dalla sconfitta nel referendum costituzionale: c’è una bella differenza tra il PD proiettato nel futuro e quello dilaniato dalle correnti interne ed esterne e ripiegato sulla propria identità.

A Berlusconi propongono persino di stipulare un patto davanti al notaio per la paura che l’indomani delle elezioni possa scantonare verso le larghe intese; stesso pretestuoso timore verso Renzi nutrono i puristi della sinistra. In molti hanno una fifa matta della tardiva caricatura del compromesso storico: quel coro di moderato buon senso che potrebbe strozzare le ugole dei “zbrajalòn” o dei “zbrajón” come dir si voglia. Agli acuti sparati alla viva il parroco si sostituirebbero le mezze-voci, se non addirittura i falsettoni. Per cantar bene però ci vorrebbero uno o più Franco Corelli della politica: questo prestigioso cantante lirico, appena si accorse di non essere più all’altezza della situazione, non esitò a ritirarsi dalle scene. Pensate se facessero così anche i politici italiani…