Prima le donne, poi Trump

Forse perché ero molto colpito e quasi sbalordito di fronte alla prima e solenne uscita ufficiale di Donald Trump (il diavolo si è subito rivelato peggiore di quanto ci si potesse attendere), ma le reazioni allo choccante primo messaggio presidenziale trumpiano mi sono sembrate troppo contenute e “politicamente troppo corrette”: il coraggio non è mai purtroppo il piatto forte.Ai felpati commenti delle diplomazie hanno fatto contorno le dotte e attendiste dissertazioni politologiche che, tutto sommato, hanno dato un colpo al cerchio obamiano e uno alla botte trumpiana (o viceversa); parecchi superficiali e sconclusionati reportage giornalistici hanno fatto seguito alle gossipare cronache dirette televisive. Mi aspettavo di più e di meglio, non da Trump che ha dato il “meglio” (sic) di sé (la botte dà il vino che ha), ma da politici e commentatori vari. Stiamo ben attenti a non sottovalutare fin dall’inizio i pericoli… Ecco perché mi sono trasferito con lo sguardo e con la mente nelle strade di Washington, non tanto e non solo per solidarizzare con le sacrosante manifestazioni di protesta scoppiate in concomitanza con la cerimonia del giuramento, ma per puntare tutto sulla pacifica Women’s March, la protesta oceanica delle donne, organizzata a Washington, ma dilagata in altre città degli Usa e di tutto il mondo.Sì, perché sono da tempo convinto che il futuro del mondo sia nelle mani della donna. Alla sua sensibilità, alla sua tenacia, alla sua concretezza riservo un grande compito di progresso in tutti i campi: cultura, religione, politica, giustizia, economia.Quando ho visto che la prima seria e pacifica manifestazione popolare contro “l’incoronazione” del re-bullo veniva dalle donne, immediatamente e pacificamente mobilitate per mettere i puntini sulle “i” a questa presidenza sbalorditiva, mi sono rincuorato.Mentre in Italia il suo precursore Silvio Berlusconi le aveva prevalentemente conquistate con le sue caramellose pomeridiane televisioni e con il fascino delle sue “avance” (c’è solo una differenza di forma tra i bunga-bunga di Arcore e le conquiste trumpiane consistenti “nell’afferrare le donne per i genitali a piacere”), in America le donne, a quanto pare, non sono affatto entusiaste del Berlusconi ingigantito, riveduto e (s)corretto.Come mai? Innanzitutto sono passati oltre vent’anni e il mondo ha metabolizzato certi fenomeni da baraccone mediatico sostituendoli magari con altri fenomeni, da circo-informatico. Le donne nel frattempo hanno capito l’imprescindibile esigenza di difendere la propria dignità, hanno preso coscienza del loro ruolo e, pur in mezzo a mille contraddizioni tipiche della nostra società, hanno acquisito un peso notevole sugli andamenti mondiali, lasciando intravedere come i cambiamenti importanti possano avvenire solo con la loro emancipazione ed il loro protagonismo. Vale per l’evoluzione dell’Islam e di tutte le religioni, vale per la democratizzazione del mondo arabo, vale per il riscatto delle popolazioni africane, vale per il discorso interculturale, vale per la solidarietà fra i popoli, vale per ogni e qualsiasi prospettiva di progresso.Non sono più i giovani la speranza del mondo, sono le donne! Non è solo una questione di apertura a loro dei posti di potere, anche quello naturalmente, ma di un cambio radicale di mentalità nella società. A volte resto profondamente deluso nel verificare come le donne, una volta raggiunte posizioni altolocate nelle Istituzioni, finiscano col comportarsi più o meno secondo gli schemi maschilisti. Mi sono quindi convinto che non sia tanto una questione di “quote rosa”, ma di “quote cultura” in quanto la donna è portatrice di valori fondamentali che devono essere immessi nel circuito culturale e nel sangue sociale.Per tornare agli USA, non si tratta di creare una potente lobby femminile da accostare a quelle collaudate degli ebrei, dei finanzieri, financo degli omosessuali (è una realtà americana ed è un errore comprensibile, ma pur sempre un errore), si tratta di “contaminare” al femminile i meccanismi di elaborazione culturale, gli equilibri sociali, i rapporti economici, i processi politici ed istituzionali. Non si tratta di risvegliare il “femminismo”, ma di fare in modo che nella società non ci sia più bisogno di femminismo. Probabilmente il flop della candidatura di Hillary Clinton è dovuto anche all’essersi presentata come donna arrivata al potere senza dare l’impressione di cambiare il potere.Non ho idea di quanto le donne potranno incidere nell’immediato della presidenza Trump: non mi aspetto certo le fate che demoliscono l’orco. Tuttavia ho l’impressione che Trump non avrà vita facile di fronte ad una forte resistenza femminile: può darsi che lo slogan “Prima l’America, ora cambia tutto” gli rimanga in gola e gli venga scippato dalle donne che lo correggeranno e ne faranno ben altro uso.

La valanga dello sciacallaggio

Generalmente, nelle più tristi occasioni, è la politica a rendersi incredibile al limite del fastidioso: in effetti mentre il dopo-terremoto estivo aveva visto da parte di istituzioni politiche e partitiche una certa dimostrazione di sobrietà, equilibrio e discrezione, nel dopo-terremoto invernale, accompagnato dall’emergenza neve e dalla disastrosa valanga sull’albergo di Ricopiano sulle montagne abruzzesi, si è scatenata, forse a scoppio ritardato, la polemica politica debordante a tratti in vero e proprio sciacallaggio: il malcontento per i ritardi della ricostruzione emergenziale, che forse rimaneva sottotraccia, è venuto a galla col freddo, la neve e le nuove scosse telluriche ed è esploso con l’effetto valanga.Non riesco a capire fin dove la situazione difficile risenta del degrado ambientale e della insufficiente opera di prevenzione, fin dove sia conseguenza dell’oggettiva straordinarietà dei fenomeni naturali tra di essi combinati in modo devastante, fin dove dipenda dalle solite lungaggini burocratiche che caratterizzano da sempre la vita delle nostre istituzioni, fin dove l’ansia, la preoccupazione e la disperazione dei soggetti colpiti tendano a scaricarsi psicologicamente sulle pubbliche istituzioni, fin dove ritardi e inefficienze siano effettivamente da addebitare a incuria o inettitudine dei responsabili ai vari livelli, fin dove influisca chi si dedica al facile e comodo esercizio di soffiare sul fuoco del malcontento.Forse di tutto un po’. Che mi sorprende non è la polemica – ero infatti molto più sorpreso della sua assenza nei mesi scorsi – ma l’improvviso scoppio della stessa, alimentata dai media, che, spesso e volentieri, raccontano solo la parte peggiore della medaglia. Lo scorso agosto mi sembrava che tutti riconoscessero la tempestività e la capacità di intervento della protezione civile: negli ultimi giorni l’aria è cambiata e se ne mette in discussione struttura, funzionalità, consistenza e adeguatezza. Fino a qualche giorno fa sembrava che le Istituzioni avessero svolto e stessero svolgendo il loro compito di vicinanza alle popolazioni colpite e di risposta concreta alle loro esigenze, seppure in un programma non di brevissimo periodo: oggi sono ritornati ad essere tutti “ladri e stupidi”. È scoppiata persino la polemica sull’utilizzo dei fondi raccolti a livello di beneficenza: a cosa serve raccogliere questi soldi se poi non si riesce a intervenire tempestivamente? Siamo alle solite e scontate sparate contro la burocrazia che non spende o spende fuori tempo o spende male i fondi contro i danni e i rischi del terremoto. Al riguardo bisogna ammettere che da una parte si invoca la speditezza delle procedure nell’assegnazione e nella realizzazione dei lavori, salvo poi scandalizzarsi se nella fretta e nella concitazione qualcuno si sia potuto avvantaggiare: la trasparenza negli appalti va sempre d’accordo conla velocità realizzativi? Ho qualche dubbio. Ricordiamoci di tangentopoli e della successiva e formale indizione delle gare di appalto al massimo ribasso con il conseguente scadimento qualitativo dei vincitori degli appalti stessi, delle loro gestioni (inquadramenti previdenziali e fiscali alla viva il parroco) e delle opere realizzate, magari interrotte a metà per il fallimento degli appaltatori.Ho una mia triste idea: credo che il clima sia avvelenato più dal dopo-referendum che dal dopo-terremoto, che la neve copiosa stia seppellendo sotto una coltre piuttosto consistente le prospettive politiche più che le speranze dei terremotati, che il nervosismo imperante sia più da ascrivere alla smania di elezioni anticipate che all’insofferenza verso le lentezze ricostruttive.Non c’è più Renzi e la leadership di governo è molto indebolita; il PD discute sul “sesso” del partito e tende a trascurare le emergenze governative; gli altri partiti sono presi dai loro calcoli di convenienza elettorale più che dalla gravità dei problemi reali. Il clima politico si è allontanato da quello reale del Paese. Era facile immaginarlo, ma dopo Renzi c’è stata la valanga, non solo quella che ha cancellato un albergo seppellendovi sotto i malcapitati ospiti e lavoratori, ma anche quella dell’incertezza politica futura che sta condizionando tutto e tutti.Che sbanda però sono anche altri e parecchi soggetti. Innanzitutto i media con le loro ubriacature e con i loro sbalzi d’umore: Renzi, bene o male li teneva in soggezione, non per sua invadenza ma per loro piaggeria, una volta fattosi, seppure momentaneamente da parte, li ha indirettamente messi in libera uscita; quindi si sono sfogati politicamente sul terremoto e si sono scatenati editorialmente con chiacchierate non stop, ben lontane da una informazione tempestiva e corretta, da un serio approfondimento dei problemi e da un servizio effettivo dovuto alla comunità nazionale. Colpisce la generalizzata e spettacolare superficialità con cui affrontano la situazione: sguinzagliano turbe di giornalisti (?) alla rincorsa della propria inesistente professionalità (queste delicate occasioni mettono a nudo un po’ tutti…). Si parte con la stucchevole e macabra conta del numero delle vittime; dopo avere detto pesta e corna dei soccorsi, ci trascinano nella retorica e lacrimosa celebrazione di quanti danno una concreta mano e mentre questi scavano sotto la neve e le macerie alla ricerca dei sopravvissuti, i media vanno alla spasmodica ricerca dell’effettaccio sentimentaloide fine a se stesso o della reazione sconvolta di parenti e amici. Mentre si è ancora storditi dalla catastrofe partono i salotti dei grilli parlanti, di quanti si sbizzarriscono nella comoda e spannometrica individuazione dei capri espiatori: tutti sputano sentenze, gli esperti in primis, capaci di prevedere, prevenire, programmare, costruire e ricostruire; tutti lo avevano detto, tutti lo sapevano, tutti sarebbero stati capaci di evitare il disastro. “Méstor mi, méstor vu e la zana d’indò vala su?” direbbe mia nonna: erano due ingegneri che si scambiavano complimenti, ma che si erano dimenticati l’uscio nella porcilaia. Le catastrofi naturali fanno spettacolo e audience mentre la fame e le miserie fanno pubblicità: non voglio essere troppo dissacrante, ma guardando la TV si passa continuamente dalle immagini di macerie da terremoti, tormente di neve, valanghe e slavine alle immagini di bambini sofferenti o agonizzanti per denutrizione e malattie contenute negli spot a favore delle varie organizzazioni umanitarie (?). Non si tratta di seri impegni divulgativi orientati alla cultura della solidarietà, ma di pietistiche manifestazioni spettacolari e chiacchierone. Tutto quanto fa spettacolo, audience e cassetta: dai femminicidi ai fatti di sangue in genere, dai disastri naturali ai soccorsi umanitari.Poi la magistratura tira fuori la bacchetta magica delle inchieste, che non portano a nulla di concreto. Si aprono fascicoli più per battere un colpo che per dovere d’ufficio. Si tratterebbe di inadempienze a livello di allerta, di omissione di soccorso, di comportamenti omissivi colposi. Mio padre che, nel caso di alluvioni, ironicamente derubricava ironicamente simili reati a mancata installazione “ed j èrzon äd cärta suganta”, nel caso in questione avrebbe forse ipotizzato il reato di mancata costruzione dei muri di gomma contro cui rimbalzerebbero anche le valanghe. Abbiamo perso ogni e qualsiasi capacità di piegare il capo di fronte a certe calamità non per subirle passivamente ma per affrontarle seriamente e non dedicandosi al facile sport dell’assegnazione delle colpe: tutti hanno le loro responsabilità, ma questa spasmodica ricerca non mi convince e non mi interessa perché la ritengo uno sterile esercizio del senno di poi, se non un facile e penoso gioco allo scaricabarile. Leggendo gli editoriali del giorno dopo (mi interesserebbero molto di più quelli del giorno prima) si intuisce chiaramente che non si sforzano di interpretare culturalmente il senso di un avvenimento tragico, ma hanno solo la preoccupazione di buttare la croce addosso a qualcuno, possibilmente al loro nemico politico, facendo rientrare il tutto nella loro faziosa tattica editoriale. Si è detto che l’Italia ha reagito con grande dignità a questi eventi catastrofici purtroppo ricorrenti: sì, nonostante molti abbiano fatto e facciano di tutto per soffiare sul fuoco delle sterili polemiche e delle assurde ricostruzioni. Oltretutto siamo davanti a una materia che non si sa obiettivamente da che parte prendere: la scienza parolaia, la politica balbettante, la storia con i suoi errori, la necessità di mezzi finanziari enormi non mi convincono sulle effettive possibilità di prevenire veramente gli effetti calamitosi. Sarò un fatalista…

Il grande dittatore

Subito dopo il referendum sulla Brexit si cominciò a parlare di trumpismo: se ne discuteva in teoria, si pensava ad un fenomeno in gestazione, lo si vedeva però in lontananza avvertendone rischi e possibili conseguenze. Adesso ci siamo: la teoria è diventata pratica, il rischio è diventato certezza, le conseguenze cominciano a farsi sentire anche se il “bello” deve ancora venire.Il discorso spaventoso di insediamento, gridato, con egoistica cattiveria, in faccia al mondo, è stato una rozza dichiarazione populista, autoritaria, nazionalista, protezionista, isolazionista, divisiva, aggressiva, al limite dell’incredibile. Se il buon giorno, si vede dal mattino, stiamo freschi. Chi vuole capire cosa significhino i peggiori “ismi” della storia occidentale, se lo legga attentamente (è il Bignami per ripassare le derive del passato). Siamo di fronte ad una America in totale discontinuità con la storia: un salto nel buio che ha dell’incredibile.Trump ha però giurato in mezzo a tante manifestazioni a lui contrarie, in mezzo ai sindaci americani che intendono fargli resistenza, in mezzo alle donne che non lo possono digerire, in mezzo al mondo della cultura che lo detesta, in assenza di 50 deputati democratici. Mi chiedo alla fine chi l’abbia votato: una minoranza, d’accordo, ma pur sempre una enorme quantità di americani gli hanno dato fiducia.Negli Usa, forse da sempre, siamo stati abituati a vedere la politica ridotta a mero palcoscenico, ad un insopportabile susseguirsi di “americanate”, a una passerella di personaggi coinvolti in eventi in cui la fantasmagoria della scena è direttamente proporzionale alla debolezza dei contenuti. Abbiamo tutti imparato la lezione, adottando in lungo e in largo questo schema fuorviante della politica ridotta a spettacolo di bassa lega. Ma in passato, negli Usa, oltre le trombonate narcisistiche delle campagne elettorali, si coglieva, e si poteva percepire e financo gustare, un certo richiamo ai valori democratici e alla politica alta: siamo arrivati al nulla, cercato, dichiarato e (non) percepito. È vero che le promesse e le verità fasulle molto spesso funzionano da allucinogeni per distogliere la gente dai problemi reali, ma il trumpismo, che ha avuto sciagurati prodromi nel recente passato italiano e che trova inquietanti e disponibili interlocutori in tutto il mondo, somministra una terapia che è ben peggio del male: all’oppio di sistema sostituisce l’eroina di regime in una strabiliante escalation di tossicodipendenza culturale.Mi sono fatto una seconda domanda: cosa sta succedendo nel mondo? Gran parte della gente ha rinunciato a combattere per un’idea, perfino per un interesse e corre dietro a chi le propina vecchie ricette buone per tutti i mali, “legge e ordine”, ma quale legge e quale ordine… Penso a Robert Kennedy, a Martin Luther King, al mito kennediano della Nuova Frontiera, alle speranze della mia gioventù. Che sia tutto finito? Non ci posso e non ci voglio credere.Un uomo ha tentato di darsi fuoco davanti al Trump Hotel di Washington, l’albergo a due passi dalla Casa Bianca diventato il centro operativo del lobbysti pro-Trump. Prima di tentare questo gesto, che fortunatamente gli ha procurato solo ferite lievi, ha detto: «Abbiamo eletto un dittatore». Temo abbia detto tutta la verità.Lo scrittore nigeriano Wole Soyinka, africano, premio Nobel per la letteratura nel 1986, riparato negli Usa in quanto condannato a morte dal dittatore Sani Abacha, dopo trent’anni di protettivo esilio, se ne torna in Nigeria dove nel frattempo il dittatore è morto, stracciando i suoi documenti americani, come aveva promesso agli studenti della Oxford University in caso di vittoria di Trump. Ha spiegato così la sua partenza: «Il muro di Trump è già in costruzione: è un muro che si sta facendo spazio nella testa delle persone. Non solo in America, ma in tutto il mondo. Un personalissimo modo di protestare contro la retorica xenofoba di Trump. E anche la presa di posizione di un uomo che già in passato ha vissuto sulla sua pelle la terribile tendenza di una parte di umanità ad attaccare chi viene ritenuto diverso o inferiore a loro. Sono anziano, sono stanco. Queste cose non voglio vederle oltre».Barak Obama, presente all’Inauguration Day, aveva però detto in precedenza: «Voglio leggere, scrivere, smetterla di ascoltare me stesso che parlo, passare tempo prezioso con Michelle e le mie figlie. Ma parlerò, da cittadino, se i nostri valori fondamentali saranno minacciati: convivenza razziale, diritti degli immigrati, libertà di stampa e di espressione, diritti di voto per tutti, minoranze etniche incluse».Ho raccolto queste tre voci perché mi sembrano significative di uno smarrimento di fronte ad un vero e proprio ciclone politico. I brividi mi sono corsi lungo la schiena. In politica è utile fasciarsi la testa prima di cadere. Ora che siamo caduti è inutile fasciarsela. Sarà dura, diceva Nicolò Carosio prima dell’inizio di certe partite della nostra nazionale di calcio. Sì, sarà dura. Accetto il paterno suggerimento che Obama ha rivolto alle sue figlie, preparandole a vivere nell’America di Trump: «La fine del mondo è solo quando il mondo finisce davvero». Grazie a Dio, il tykoon, fatto presidente, questo potere non ce l’ha.

Le debolezze dell’ordine

E così, dopo quasi otto anni, per la morte di Stefano Cucchi andranno sotto processo tre carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale.Che il giovane, arrestato dai carabinieri nell’ottobre del 2009 dopo essere stato visto cedere ad un uomo delle confezioni trasparenti in cambio di una banconota e trovato in possesso di 12 confezioni di hashish, morto in circostanze misteriose durante la custodia cautelare, non fosse deceduto per cause naturali (attacco di epilessia) si era capito: bastava guardare le raccapriccianti fotografie del suo corpo letteralmente distrutto. Finora tutti assolti: medici e infermieri dell’ospedale militare Sandro Pertini (si capovolgerà nella tomba), agenti di custodia. Adesso, stando alle ultime indagini condotte dalla procura di Roma, Cucchi sarebbe stato pestato con pugni e calci e quindi sarebbe deceduto in conseguenza di questo trattamento speciale riservatogli da alcuni carabinieri (in ospedale però come minimo ci sarebbe stata omissione di soccorso, ma ormai chi è stato assolto non può più essere processato).Finora abbiamo assistito al solito balletto di reticenze, omertà, depistaggi, tipici delle vicende in cui si trovano protagonisti appartenenti alle forze dell’ordine: non è la prima volta ed è gravissimo che la giustizia non riesca ad essere tale nei confronti di persone (specialmente se collocabile ad alto livello), che dovrebbero sovrintendere, direttamente o indirettamente, all’ordine pubblico e all’incolumità altrui.Questi reati, che quasi sempre restano impuniti, riguardano comportamenti doppiamente inaccettabili: in sé e per sé in quanto riconducibili a condotte in cui la violenza non è giustificata, ma ancor di più perché stupri e massacri vengono proprio da persone che dovrebbero difendere i cittadini da questi reati. Che una donna sia stuprata da un poliziotto è doppiamente grave perché il poliziotto non solo non la deve stuprare, ma dovrebbe difenderla da eventuali rischi di stupro. Che un tossicodipendente (magari anche un piccolo spacciatore di droga) venga massacrato di botte da carabinieri in servizio è doppiamente grave, perché i carabinieri non solo dovrebbero fare la guerra allo spaccio (quella a ben altro livello), ma dovrebbero difendere il tossicodipendente dal rischio di morire di overdose, mentre invece lo si fa morire con una overdose di pugni e calci.Che le forze dell’ordine siano soggette ad impegni rischiosi, stressanti e pesanti e che ad esse debba andare tutto il rispetto possibile è fuori discussione, ma ciò non può essere motivo per sopportare coloro che giocano a fare i giustizieri della notte.Dopo la diretta responsabilità di chi ha commesso gli abusi, dopo quella di chi li comanda, funzionalmente e politicamente, e dovrebbe controllarli o almeno non promuoverli, dopo quella dei magistrati che amministrano una giustizia blanda e morbida verso gli “abusatori” di turno, dopo quella riconducibile ad una certa omertà di sistema (lo Stato fa molta fatica a riconoscere i propri reati), viene una responsabilità culturale della società e dei suoi singoli componenti. Come scrive Michele Serra, “l’idea che per lo Stato il corpo di chiunque, anche del peggiore dei criminali, sia inviolabile, rischia di essere un’astrazione”. Non ne siamo convinti, non riusciamo a capire e soprattutto ad accettare che dietro gli ultimi della pista ci sia sempre un po’ colpa (piccola o grande) a carico di queste persone. Cio non toglie che mantengono tutti i loro sacrosanti diritti di essere rispettati ed anche assistiti nei limiti del possibile. Proviamo a farne un breve provocatorio elenco con relativo addebito.I tossicodipendenti sono certamente responsabili della loro scelta anticonvenzionale, ribelle e trasgressiva (e allora, li massacriamo di botte?); i “barboni” hanno sicuramente commesso errori prima di ridursi a vivere in quello stato e, se lo fanno per libera scelta, a maggior ragione ne sono responsabili (e allora, li lasciamo morire di freddo e di stenti?); gli imprenditori falliti, finiti sul lastrico avranno sicuramente commesso errori nella gestione delle loro aziende (e allora, li condanniamo alla fame?); i divorziati, soli, privati della compagnia dei loro figli, che vanno alle mense della Caritas, avranno probabilmente vissuto in modo non esemplare la loro vita famigliare (e allora li trattiamo come persone di serie B?); le donne torturate ed uccise dai loro uomini avranno sicuramente accettato situazioni inaccettabili e non avranno avuto il coraggio di chiudere rapporti problematici al limite dell’impossibile (e allora, facciamo l’abitudine ai femminicidi?); coloro che sono costretti a vivere sotto la soglia di povertà magari non saranno stati sufficientemente previdenti e laboriosi se e quando potevano esserlo (e allora, diciamo loro di arrangiarsi?); i carcerati (salvo quelli in galera per errori giudiziari: non sono pochi) avranno pur commesso qualche reato che li ha portati a subire condanne penali (e allora, li chiudiamo nelle celle e buttiamo via la chiave?); i malati avranno magari fumato come i turchi o bevuto come le spugne (e allora li facciamo dormire in terra al pronto soccorso e nei reparti ospedalieri?). L’elenco potrebbe continuare, ma penso sarebbe di cattivo gusto. Il concetto però è chiaro e riguarda i cosiddetti ultimi, quelli davanti ai quali spesso chiacchieriamo di solidarietà, di giustizia, di eguaglianza e poi quando arriviamo al dunque ne vorremmo fare un mazzo da buttare nella spazzatura, dopo esserci eretti a giudici implacabili nel chiuso della nostra mente, nel bar all’angolo, coi colleghi di lavoro, nei talk-show televisivi, su internet, a scuola, financo in parrocchia.I tossicodipendenti sono i soggetti più tartassati a livello di mentalità corrente, tendiamo a escluderli dal momento che loro stessi hanno comunque iniziato un cammino di esclusione. Facciamo tanto bigotto baccano sulla difesa della vita dei malati terminali e non troviamo una parola “buona” per un drogato, anzi lo consideriamo un “drogato di merda”, meritevole di essere fatto fuori. Attenzione perché questi discorsi sono di stampo chiaramente nazista e forse ha ragione la suprema corte tedesca a non voler mettere fuori legge il partito neo-nazista: mi ha stupito l’assurda motivazione della non pericolosità riconducibile al poco consenso che raccoglierebbe. Probabilmente i magistrati volevano dire che il nazismo scorre ancora nelle vene di tanti cittadini europei e quindi non sono pericolose tanto le nostalgiche svastiche quanto le correnti discriminazioni sociali.Restando in Italia mi chiedo: è peggio oltraggiare fascisticamente il cippo monumentale di Giacomo Matteotti (atto disgustoso commesso a Roma di cui vergognarsi profondamente) o chiamare “Radio anch’io” per dire che Stefano Cucchi era un drogato di merda e quindi i suoi familiari non possono pretendere giustizia? Penso che un filo nero leghi perfettamente i due comportamenti. Il cerchio si chiude pericolosamente in una deriva pseudo-culturale niente affatto riconducibile a frange di nostalgici o fanatici.Quanto alla vicenda giudiziaria inerente la morte di Cucchi, staremo a vedere cosa succederà al prossimo processo: non mi aspetto una vendetta o una giustizia preconfezionata (in un senso o nell’altro: nessun colpevole o condanna di un capro espiatorio sono la stessa solfa), ma nemmeno la solita faziosa e subdola discolpa degli uomini in divisa.Quando mio padre assisteva alla morte di una persona per cui non si riusciva a trovare la causa e l’esecutore materiale dell’eventuale delitto, concludeva sarcasticamente: «As véde che quälcdòn al gà preghè un cólp…».Speriamo che non si debba sconsolatamente concludere così l’ultimo atto della vicenda giudiziaria relativa alla morte di Stefano Cucchi.

La parabola del figliol Mardona

La fragorosa rimpatriata napoletana di Diego Armando Maradona ha suscitato un facile e retorico entusiasmo assieme ad una stucchevole polemica.Liquido la seconda, inerente la location della celebrazione, vale a dire il teatro San Carlo di Napoli, in poche parole: l’arte e la cultura non sono da ammirare e relegare in una sorta di bigotto empireo per evitarne la contaminazione con la realtà quotidiana. Sono nate e cresciute dentro la storia e come tali devono continuare a vivere. In fin dei conti la cultura non è forse il modo di porsi di fronte alla realtà? E la realtà napoletana comporta (purtroppo) anche il ritorno trionfale di Maradona.Mi disturba invece l’enfasi culturale (questa sì fuori luogo) sul fatto: Maradona venerato come simbolo del riscatto della città, Maradona accolto come liberatore di Napoli dal suo inferno malavitoso, insomma Maradona re di Napoli.Già l’assunto che un supermiliardario ex-campione sportivo possa impersonificare questo taumaturgico ruolo mi lascia molti dubbi e perplessità. Oltretutto, se è stato indiscutibilmente un fuoriclasse della pedata (anche della manata, ma lasciamo perdere…), non lo è stato sul piano della correttezza sociale (evasione fiscale a tutto spiano), dell’etica umana (cocaina a fiumi), del rispetto di certi valori (una paternità irresponsabile): un campione di calcio e di trasgressione, simpatico ma discutibilissimo fuori dal campo. E da lui dovrebbe venire un importante e gioioso impulso al riscatto della città? Riscatto da cosa? Da molte cose in cui Maradona non ha storicamente le carte in regola.Napoli è una città dal gusto iperbolico per eccellenza: ebbene, forse sta portando all’ennesima potenza la portata civica della parabola del figliol prodigo? Ma attenzione, il padre misericordioso ha fatto festa, ma non ha detto a tutti di imitare il figlio trasgressivo, non lo ha messo a capo della famiglia, gli ha solo restituito la piena dignità (e non era poco).Non credo troppo ai miracoli, ma se proprio devo, preferisco credere a quello di San Gennaro piuttosto che contemplare quello di…Maradona.Mio padre, che era un dissacratore nato, prevedeva, ai suoi tempi, che il popolino avrebbe facilmente osannato Sophia Loren e probabilmente snobbato, se non pernacchiato, Alexander Fleming (quello della penicillina). Il discorso non è molto cambiato: “cambia molinär, cambia lädor…”.A proposito di mio padre, non ho mai capito se lo facesse per puro errore o in senso ironico (ne aveva da vendere), ricordo comunque che al campione argentino, ai tempi in cui giocava in Italia, storpiava il nome: “Mardona” (molto simile al dialettale “mardónna”: una grossa cacca o una donna che si dà troppa importanza). Diceva: «Mo co’ gh’ani d’andär sémpor adrè con col Mardona lì?». Papà rassegnati, continuano a osannarlo ancora oggi, dopo che ne ha combinate una più di Bertoldo.

Qui si fa l’Europa o si muore

Chi diceva che la Brexit avrebbe aperto inesorabilmente la strada al tentativo di disintegrare l’Europa, aveva visto giusto. Si sta profilando un uscita totale, contrattata a suon di ricatti da una Gran Bretagna in retromarcia dalla globalizzazione: di questo assetto punterebbe a salvare, per ora solo a livello di minaccia (un attrattivo paradiso tributario ai confini della Ue), il difetto più grave, il privilegio feudale-fiscale del turbo capitalismo, causa primaria di disuguaglianze e impoverimento del ceto medio. Siamo ben oltre il tatcherismo, si intravede una sorta di guerra fredda non più tra Usa e Russia, ma tra Gran Bretagna (appoggiata da Trump) ed Europa (divisa, litigiosa, zavorrata).Questo approccio duro alla Brexit da una parte sta dando un ulteriore “la” a tutti i movimenti e gli Stati populisticamente euroscettici rafforzandone il consenso e rendendo legittime le loro aspirazioni; dall’altra sta dando a Trump, sul piatto d’argento anglosassone, una occasione e una sponda cavalcabili fino al punto da spingerlo a lavorare per la fine dell’Europa, offrendo a Londra, in quanto secessionista, un rapporto privilegiato a condizioni di favore, auspicando che gli altri Stati europei seguano il virtuoso esempio inglese, rimettendo financo in discussione la Nato e chiedendo di conseguenza ai partner europei di provvedere progressivamente, nella maggior autonomia possibile, all’autodifesa e alla sicurezza. Le due conseguenze suddette (euroscetticismo e asse GB-USA) si sostengono reciprocamente in un inquietante connubio antieuropeo condito dall’antiglobalizzazione, dal populismo, dal nazionalismo e dal protezionismo. Come acutamente sostiene Corrado Augias, “la desinenza in ‘ismo’ indica l’esasperazione di un fenomeno o un’ideologia che portata al suo estremo genera disastri.E l’Europa? Non trova di meglio che litigare al suo interno. Il punto dolente, a cui tutte le schermaglie sono riconducibili, può essere individuato nel trattato del 2012 che imprigiona l’eurozona in una trappola mortifera, costringendo gli Stati membri alla cosiddetta politica dell’austerità, vale a dire una politica restrittivamente volta alle esigenze di quadratura dei bilanci e di riduzione del debito pubblico, che impedisce di investire sul futuro e di imprimere le giuste spinte alla sviluppo dell’economia e dell’occupazione. Il fiscal compact rischia di essere la cura che ammazza l’ammalato, costringendolo a dimagrire, indebolendo il suo organismo e finendo col rendere letale l’intervento sanitario: l’operazione è riuscita, ma l’ammalato è morto.L’Italia è sotto stretta osservazione da parte dei “sanitari europei”, viene pressata affinché rientri nei parametri: questi signori (sappiamo bene a quale area geografica appartengono) continuano imperterriti a chiedere sacrifici a chi non li può fare, pena un progressivo ristagno dell’economia con tutte le conseguenze del caso. Non c’è verso di ragionare: bisogna osservare le regole che vengono prima dell’Europa, degli Stati e dei cittadini. Una mentalità tipicamente tedesca, che, se fosse stata applicata con simile severità alla Germania del dopoguerra, l’avrebbe relegata per secoli nel sottoscala del mondo. Ma sono passati più di settant’anni e chi ha avuto ha avuto…Tutta la vita politica europea gira attorno a questo nodo, senza alcun impegno serio di affrontarlo e scioglierlo. Anche il rinnovo della Presidenza del Parlamento di Strasburgo poteva essere l’occasione per segnare la contrapposizione fra due diverse impostazioni finora nascoste sotto la finta copertura della grande coalizione tra le due principali famiglie europee, i socialisti e i popolari, in nome della resistenza verso l’antieuropeismo, senza capire che l’equivoco accordo, che lascia irrisolto il problema di fondo “austerità-sviluppo”, finisce proprio col fare il gioco del populismo antieuropeista. Si è preferito volare basso con accordicchi spartitori: presidenze, vicepresidenze, commissioni etc. etc. Vizi, che, portati in sede Ue, suonano ancor più beffardamente a squalifica della politica intesa in senso lato.Angela Merkel fa la voce grossa con Trump affermando che”noi europei siamo padroni del nostro destino”, salvo cedere regolarmente il pallino ai suoi connazionali e colleghi di partito più inflessibili in materia di fiscal compact con tutto quel che segue, disposta a sacrificare tatticamente la grande coalizione in Germania ed in Europa (ma forse tutto il mal non vien per nuocere, come diremo fra poco).In Francia non si ha il coraggio di reagire alle imposizioni nord-europee e si preferisce fare un penoso balletto di contorno alla Germania. Anche le prossime elezioni presidenziali si profilano nel senso di una difesa acritica dei meccanismi europei, rischiando un perfetto assist ai populisti della Le Pen.In Italia l’uscita, seppur momentanea (?), di scena di Matteo Renzi – non certo compensata dalla salita alla presidenza del Parlamento dell’italiano e popolare (nel senso di partito) Antonio Tajani, un berlusconiano camuffato, che nel suo sito web personale non cita Forza Italia e non fa alcun cenno al Cavaliere a cui tutto deve – ha significato un passo indietro rispetto alle spinte impresse alla politica italiana in ambito europeo volte ad ottenere flessibilità (in materia di conti), sostegno (in materia di immigrazione) e rispetto (in materia di classe dirigente). Non è un caso che all’indomani della sconfitta renziana al referendum (è stata concessa solo una pausa natalizia) dalla Commissione europea siano arrivati all’Italia degli out-out in materia di deficit con decise richieste di ridimensionamento della politica di bilancio recentemente approvata. Persino sul presunto inquinamento delle auto Fca è scoppiata una vera guerra diplomatica tra Germania (scottata dallo scandalo dieselgate della Ww) e Italia, nella quale si è inserita la Commissione di Bruxelles schierandosi di fatto con i tedeschi. Cosa può fare una superficiale croce su uno strumentale No…E i socialisti europei? Un giorno sembrano capire (Sigmar Gabriel, leader della Spd) che l’intransigenza tedesca sulla linea del rigorismo contabile rischia di avere effetti disgreganti sui Paesi dell’Unione perché favorisce il successo elettorale di quei movimenti che puntano al collasso della costruzione continentale: sembrerebbe farsi cioè strada l’orientamento di accantonare le grandi coalizioni in Germania e in sede Europea, reagendo politicamente all’insopportabile arroganza dei tolemaici dell’austerità. Il giorno successivo, forse dopo aver fatto i conti con una debolezza elettorale notevole, i socialisti si ricredono e ripiombano nella logica del compromesso, cercando magari di spostarlo più a loro favore in termini di poltrone. I democratici italiani, facenti parte della famiglia socialista, hanno giocato un ruolo di spinta, seppure talora in stile “gianburraschesco”, ma ora il Pd ha perso peso e considerazione.Chi ha la forza morale, il coraggio istituzionale e l’equilibrio esperienziale per affrontare il nodo rigore/sviluppo è il Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, il quale riesce a dipanare la matassa ingarbugliata, prospettando candidamente che Bruxelles sia rigorosa a trecentosessanta gradi: «Il rigore non può valere solo per i conti pubblici, ma anche sugli altri parametri che la stessa Unione si è data, a cominciare dalle misure per la ripresa economica, il rilancio dell’occupazione e l’accoglienza dei rifugiati». Ci sono altre infrazioni infatti che a Bruxelles passano sotto silenzio: il surplus commerciale della Germania, il rifiuto dell’ala dura della Ue di farsi carico delle quote di immigrati, il piano Juncker per il rilancio economico che non trova i necessari e reali finanziamenti.A livello mondiale, come scrive Federico Rampini, assistiamo ad un capovolgimento senza precedenti: i cinesi sono liberisti mentre gli occidentali, capeggiati dal pokerista Donald, denunciano la globalizzazione.Allora paradossalmente non rimane che sperare in Trump, ma esattamente in senso opposto alle sue imminenti direttive presidenziali: forse farà (ri)nascere per reazione un po’ di orgoglio europeo.”E non finirà qui” gongolava Donald Trump dalle dune della Scozia dove ha aspettato giocando a golf l’esito del referendum britannico, assaporando l’euro-harakiri britannico come l’auspicio del proprio possibile trionfo in America dopo sei mesi». Ed è stato un facile auto-profeta. Sulle ali del successo continuerà a tendere trappole mortali all’Europa? Sembra proprio di sì.Alle sciocche dichiarazioni trumpiane dell’immediato dopo-Brexit ci fu la “gustosa”reazione di base degli scozzesi, i quali non sopportarono le parole demagogiche e le strumentalizzazioni di Trump. Nel pub di John Muir a Edimburgo, quando Trump è apparso in tv, tutti i clienti si avvicinarono allo schermo. Poi, tutti assieme, cominciarono a urlargli insulti di ogni genere, il cui meno offensivo fu senz’altro pig, porco. Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere… Consiglierei a Juncker di riunire la Commissione europea in quel pub di Edimburgo. Chissà che gli scozzesi, interessati ad entrare nella Ue, non sappiano darle una benefica sferzata.

Mo va a cägar…

Sono stato per anni all’interno della Democrazia Cristiana in posizione di minoranza: aderivo alla corrente di sinistra, sindacal-aclista di Forze Nuove, e quindi non mi fa certo impressione l’asprezza del confronto interno al partito Democratico. Quel che trovo insopportabile e censurabile è la velleitaria scarsità degli argomenti della cosiddetta sinistra dem, che si atteggia al nuovo che avanza mettendo in mostra leader da museo, non per l’età ma per le enormi responsabilità riguardo al passato e per il vuoto pneumatico delle loro proposte attuali.Mi riferisco, tanto per non fare nomi, a Pier Luigi Bersani ed alle sue sparate a vanvera, oscillanti fra la puzza di muffa del vetero-comunismo mai sufficientemente digerito e il penoso imbellettamento di una generazione politica che ha fatto disastri ed inesorabilmente il suo tempo e che dovrebbe avere il buongusto di togliersi dai piedi (Massimo Cacciari docet).Invece eccolo lì a pontificare con un accanimento che di terapeutico ha ben poco. Egli mette nel frullatore tutti i luoghi comuni della critica alla sinistra italiana, europea e mondiale e ne tira fuori l’auspicio di un giovane Prodi alla cui ricerca si starebbe impegnando, dando peraltro il ben servito frettoloso al suo amico Roberto Speranza che da tempo scalpita in panchina.La crisi del ceto medio, le scorie velenose della globalizzazione, le disuguaglianze galoppanti, il ciclo tecnologico che toglie lavoro, la riscoperta dei valori protettivi della sinistra, più Stato e meno mercato, abbandono dell’establishment, il ritorno ai diritti del lavoro troppo umiliati, inversione a U rispetto alla vocazione maggioritaria del PD, rilancio del welfare, fine del personalismo leaderistico: questi gli ingredienti della ricetta di Bersani, che gioca a fare il sociologo, toglie il mestiere ai sindacalisti, si pavoneggia ad economista di grido, si lascia andare alla politologia spicciola.Tutto meno che la politica: ho provato a mettere in corrispondenza parallela il contenuto delle due interviste ospitate da la Repubblica, quella a Matteo Renzi e quella a Bersani. La prima discutibilissima (mancherebbe altro…), ma abbastanza concreta ed auto-critica, la seconda vuota ed auto-celebrativa.Bersani dice di essere preoccupato per l’inseguimento di Renzi al centro che non esiste più e lui rincorre una sinistra parolaia ed anacronistica, candidandosi forse a coagulare il sangue sparso nelle storiche emorragie di un massimalismo di sinistra andato tranquillamente a passeggio con i poteri più retrivi, clientelari e sconclusionati (MPS docet), burocratizzato negli enti locali (emilia-romagna e non solo), appiattito sui sindacati (CGIL), imborghesito nei salotti buoni.A proposito di salotti buoni, il mio carissimo amico Walter Torelli, comunista tutto d’un pezzo, durante una delle solite chiacchierate, mi chiese, dal momento che mi sapeva piuttosto informato sulla cronaca politica, di riferirgli dell’episodio relativo a Massimo D’Alema, il quale, in occasione di una sua presenza in un salotto romano, rimbrottò vivacemente il cane di casa che gli era montato sulle scarpe. Ammise snobisticamente che gli erano costate una grossa cifra. L’amico Walter, dopo avermi confessato tutta la sua indignazione, disse con tanta convinzione: «Lé óra chi vagon a ca tùtti». Sono sicuro che lo ripeterebbe di fronte alle più recenti prese di posizione di D’Alema e c., stizzose, altezzose, insopportabili ed incoerenti. Sì, caro Walter avevi ragione tu…e non eri certo un qualunquista di destra.Se Matteo Renzi fa fatica ad interpretare una sinistra moderna ed efficace, Pier Luigi Bersani non fa fatica, proprio non è in grado di candidarsi alla leadership del PD (abbia tale partito una vocazione maggioritaria o una tendenza al rassemblement della incasinata galassia sinistrorsa).Checché ne dicano Bersani e i suoi pochi amici (contano forse ancora qualcosa a livello di iscritti, ma tendono a zero a livello elettorale), a Renzi non c’è alternativa: non so se sia un bene o un male, ma è così. Ma forse a questi signori, che lo sanno benissimo, interessa solo difendere una posizione di potere che in uno scontro duro verrebbe messa in discussione prima a livello di partito e poi a livello delle urne: meglio quindi guadagnare tempo, indebolire la segreteria del partito, arrivare alle elezioni con una legge non troppo drastica, riaprire un’ interminabile avventura ulivista, andare indietro insomma facendo finta di andare avanti.Se devo essere sincero in merito a questi signori la penso esattamente come Roberto Giachetti quando ha detto la verità indirizzando alla minoranza dem una colorita espressione, “avete la faccia come il culo”.Ricordate il film “Bianco, rosso e Verdone” in cui il pedante e pignolo protagonista, lo stressante Furio, telefona al servizio meteorologico al fine di avere informazioni utili per mettersi in viaggio a ragion veduta. Copre l’interlocutore di tali e tante sciocche e assurde domande che, ad un certo punto, questi sbotta alla grande: «Mo va a cagär…». Chissà perché mi è venuta in mente questa gag leggendo l’intervista a Bersani?

Parchè il banchi, at capì…

Banche sull’orlo del precipizio? Risparmiatori gabbati? Governi inetti? Banchieri disonesti o incapaci? Politica succube della finanza? Finanza impoverita dalla politica? Europa pronta a farci le pulci sulle nostre banche e a sorvolare su quelle degli Stati europei considerati forti? È giusto salvare le banche utilizzando fondi pubblici? Il sistema di controllo sugli istituti di credito ha funzionato? Tutti quesiti all’ordine del giorno, con la solita aggiunta di enfasi e l’induzione al panico che i media usano quando vogliono creare audience in materia economica. Basti pensare che quando le borse registrano andamenti negativi si parla di “bruciatura di miliardi di euro di capitale”, mentre quando volano, la parola stessa lo dice, creano solo l’illusione di miliardi di euro. Nessuno spiega che trattasi di ipotesi virtuali con la speculazione in agguato e i reali andamenti economici solo sullo sfondo. Ma torniamo alle banche.Parecchio tempo fa mi raccontavano di un incontro informale tra amministratori pubblici della provincia di Parma: un pianto cinese sulle difficoltà finanziarie dei comuni e sulle ristrettezze delle loro comunità. Ad un certo punto uno dei partecipanti sbottò e cominciò ad esprimersi in dialetto, adottando uno spontaneo e simpatico intercalare, scaricando colpe a più non posso sul sistema bancario reo di compromettere sul nascere ogni e qualsiasi intento di ripresa: «Parchè il banchi, ät capi…» diceva a raffica e giù accuse agli istituti di credito. A volte la politica tende a scaricare sue responsabilità su altri soggetti, ma è pur vero che i detentori del potere finanziario tendono a condizionare scorrettamente la politica, magari dopo avere creato disastri (gli esempi sono numerosi a tutti i livelli, Vaticano compreso). Succede in Europa, in Italia, a Parma.Le difficoltà presenti nel sistema bancario italiano sono note: la presenza nei bilanci delle banche di crediti deteriorati, vale a dire di difficile recupero a causa dell’annosa crisi economica che ha investito soprattutto alcuni settori; la debolezza del capitale e la necessità del rafforzamento richiesto a gran voce in tutte le sedi competenti; l’alta esposizione bancaria verso i titoli del debito pubblico; la debolezza strutturale di molti istituti di credito per i quali sono necessarie cure dimagranti a livello di costi e di sportelli in eccesso e processi di ristrutturazione societaria e aziendale. Queste croniche deficienze bancarie hanno già creato e continuano a creare enormi contraccolpi sui soci finanziatori, frenano la concessione del credito alle imprese, tengono col fiato sospeso i mercati finanziari, creano grossi problemi ai governanti italiani alla spasmodica ricerca di eccezioni alle regole, vale a dire di flessibilità nella loro applicazione e di straordinarie possibilità di intervento pubblico. Le banche in buona sostanza hanno poco capitale e molte sofferenze, oltretutto non sempre sono state gestite con la necessaria correttezza e con la dovuta professionalità, in troppi casi hanno prevalso conflitti d’interesse, decisioni clientelari, controlli leggeri.Il forte deterioramento dei crediti bancari italiani non è giustificato solo dall’andamento economico generale particolarmente negativo nel nostro Paese. Alcuni pensano male e, come al solito, probabilmente indovinano: dipende, dicono, dall’alto tasso di clientelismo annidato nella gestione del credito bancario. Non mi illudo che la commissione d’indagine varata dal Parlamento sulle magagne delle banche e sul comportamento dei banchieri possa chiarire granchè. Staremo a vedere…Mi è capitato poche volte, a titolo professionale, di seguire pratiche per la concessione di crediti alle imprese: ho tuttavia sempre trovato un atteggiamento bancario estremamente rigoroso, un sistema istruttorio rigido, una eccessiva pretesa di garanzie reali e/o personali, una pignola valutazione dei progetti a monte delle richieste di finanziamento. Forse c’erano due pesi e due misure, forse anche le garanzie reali si sono sciolte come neve al sole, forse qualcuno ha giocato sporco sul fronte bancario e anche su quello imprenditoriale. Sul punto della correttezza e professionalità dei banchieri italiani vorrei spendere due parole per andare (quasi) controcorrente: un tempo ormai abbastanza lontano gli amministratori di parecchie banche erano di diretta nomina partitica, i loro comportamenti erano ovviamente e direttamente influenzati dalle forze politiche, la clientela poteva essere all’ordine del giorno, ma prima o poi questi signori rispondevano politicamente alla matrice elettorale da cui provenivano. Oggi i banchieri non rispondono più a nessuno: ai soci? alla Consob? alla Banca d’Italia? alla Bce? ai mercati? alla magistratura? A tutti e a nessuno! Aggiungiamoci il peggioramento del quadro etico complessivo e allora…forse andava meglio quando andava peggio. Fuori la politica dalle banche, si disse. Sì, fuori la politica e dentro? Il sistema delle fondazioni, il sistema cooperativo, il sistema capitalistico puro non hanno offerto un quadro alternativo di riferimento attendibile e tranquillizzante. Fatto sta che le banche italiane vantano crediti, in misura molto significativa e pesante, verso realtà imprenditoriali tutt’altro che solvibili.Una seconda questione riguarda il comportamento dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni: perché ci si è intestarditi a non intervenire a sostegno delle banche nel periodo in cui gli altri paesi europei, Germania in testa, lo hanno fatto, enfatizzando quella salute bancaria che col tempo si è rivelata assai precaria. Forse, coi fondi pubblici, eravamo troppo esposti su altri fronti (pensioni etc.); forse non avevamo quel minimo di credibilità che ce lo potesse consentire (eravamo già troppo derogati); forse qualcuno non è stato troppo lungimirante e ha operato scelte di mera sopravvivenza (adesso può essere facile dirlo). Abbiamo perso il treno dell’aiuto alle banche quando era relativamente più facile salirci sopra (ora il biglietto è salato, soprattutto per azionisti e obbligazionisti degli istituti di credito). È pur vero che, se il governo italiano fosse intervenuto negli anni scorsi, si sarebbe gridato allo scandalo: si chiedono sacrifici ai poveri per dare aiuto ai ricchi. Discorso che, qua e là, viene fatto, non senza qualche obiettiva validità, anche oggi. Bisogna pur chiarire che il sostegno alle banche in difficoltà non comporta da parte dell’erario un esborso a fondo perduto, è una sorta di investimento ad alto rischio che crea problemi di liquidità ma sul momento non di compatibilità economica.Come al solito tocca a Mario Draghi togliere le castagne dal fuoco: il presidente Bce opera con impareggiabile tempismo, con la solita prudenza e con perfetta consapevolezza del proprio ruolo. Innanzitutto ha detto che il nodo da affrontare è quello della redditività del sistema creditizio: le banche cioè devono essere gestite con criteri economici e, se lo spread fra tassi attivi e passivi tende a ridursi, sarà un oculato e assennato allargamento dei cordoni della borsa a garantire maggiori ricavi complessivi. Ma il presidente della Bce ha anche affermato che a Francoforte non esiste più alcun tabù su un eventuale intervento pubblico a sostegno delle banche in difficoltà. È una misura molto utile finché è gestita nel rispetto delle regole europee, che prevedono tutta la flessibilità necessaria per gestire circostanze d’emergenza e la montagna di crediti deteriorati, e negoziata con la Commisione Ue. L’importante è agire più in fretta che si può per far sì che le misure di politica monetaria si trasmettano meglio all’economia reale.Meno male che c’è Draghi! Riesce ad aiutare l’Italia senza favoritismi; non difende a spada tratta la Bce e tanto meno il proprio ruolo all’interno della stessa, ma addirittura auspica l’istituzione di un ministro del Tesoro europeo che ridimensionerebbe il ruolo politico di supplenza svolto dalla Banca Centrale; crede nell’Europa federale ed è convinto del ruolo preminente della politica e delle istituzioni politiche rispetto alla finanza; sostiene, nei limiti delle sue possibilità, una linea creditizia espansiva a favore della ripresa economica.«Parchè il banchi, ät capi…». «Sì, mo Draghi…».

Chi fa la spia…

Non sono appassionato di cinema; è uno dei miei tanti buchi culturali, forse il più clamoroso. Per i film di spionaggio inoltre ho sempre avuto una sorta di ripulsa aprioristica: non ci si capisce dentro niente, i colpi di scena si susseguono senza filo logico, la trama è fine a se stessa.È quindi doppiamente normale che le attuali vicende spionistiche, in cui sembriamo immersi, mi siano piuttosto indifferenti e fastidiose. Mi riferisco agli hacker russi che sembra abbiano messo a soqquadro gli equilibri internazionali intrufolandosi addirittura nella recente campagna elettorale americana e strizzando l’occhio a Donald Trump. Penso al fenomeno delle cyberspie, che mette in bilico tutta la credibilità del sistema informatico su cui viaggiamo e che in Italia, come spesso accade, si tinge di massoneria e di poteri occulti. Faccio riferimento al datagate americano e al fenomeno WikiLeaks con la divulgazione a livello mondiale di segreti e relativa messa a soqquadro di tante (in)certezze negli assetti di potere a livello mondiale.Si ha la sensazione che esista una realtà virtuale sovrapposta e/o infiltrata rispetto a quella reale e non si riesce a capire in quale delle due noi effettivamente viviamo e ci muoviamo con la rischiosa conseguenza di veder precarizzati continuamente giudizi e comportamenti nostri e altrui.Le spie da che mondo è mondo ci sono sempre state, ne abbiamo fatto esperienza diretta a partire dalle primissime esperienze scolastiche, durante le quali a volte ci trovavamo di fronte ai voltafaccia di coetanei ritenuti amici ma pronti a tradire per ingraziarsi il maestro e la maestra di turno.Solo una volta mio padre si prese la libertà di esprimere il suo dissenso rispetto al mio maestro di 4° e 5° elementare (persona che peraltro ricordo con tanto affetto e riconoscenza). Riferivo in famiglia, come sono soliti fare i bambini, che il maestro chiamava alla lavagna un alunno per segnare i nomi dei compagni buoni e cattivi, si diceva e si scriveva proprio così, vale a dire per segnalare chi, magari durante la momentanea assenza del maestro, si comportava in modo più o meno indisciplinato. Era una prassi decisamente discutibile sul piano etico, educativo ed umano e mio padre, senza dirlo apertamente e, quindi, senza censurare direttamente la caduta di stile del maestro (peraltro bravo, aperto e moderno), mi consigliò, in modo pacato ma convincente, di opporre, nel caso mi fosse rivolto l’invito, il mio rifiuto a contribuire a quella sciocca schedatura spionistica dei compagni di classe. Rispondi educatamente così: “Signor maestro Le chiedo di poter rimanere al mio posto e, se possibile, di non avere questo incarico”. Si trattava di una piccola, bella e buona, obiezione di coscienza, volta ad evitare confusione di ruoli, a rispettare la dignità degli altri ragazzi, a rifiutare ogni e qualsiasi tentazione per forme più o meno velate di delazione e di spionaggio. Capii abbastanza bene il suggerimento paterno e non mancai di metterlo in pratica alla prima occasione: il maestro, persona molta intelligente, girò in positivo il rifiuto di fronte alla classe, quasi sicuramente capì che non si trattava di farina del mio sacco, trovò subito chi era disposto a sostituirmi, assorbì, è il caso di dire in modo magistrale, il colpo che non gli bastò per interrompere una prassi piuttosto generale ma non per questo meno sbagliata e insulsa, probabilmente rifletté sull’accaduto: il risultato era stato raggiunto. Da mio padre s’intende.Archiviato questo significativo ricordo della mia infanzia mi trasferisco in periodo più avanzato ed in ambito molto diverso: i rapporti tra politica e servizi segreti. Due sono i riferimenti semplici al limite dell’ovvietà che mi orientano. Da una parte il grande giornalista, prestato per un certo periodo alla politica, Gugliemo Zucconi, che, con la sua simpatica verve ironica, sosteneva come in Italia avessimo l’ardire di pretendere “i servizi segreti pubblici”. Dall’altra il grande statista Aldo Moro, il quale a chi gli chiedeva un giudizio sul nostro ed altrui sistema di intelligence, rispondeva laconicamente che le spie servono anche se sono le peggiori persone esistenti sulla faccia della terra.Quindi è inutile nasconderlo: siamo alle prese con un male necessario, l’importante però sarebbe evitare che questo male, anziché allontanarne altri ben più gravi (guerre, conflitti e drammi vari) ci porti a vita apparente e morte clinica.Credo sia questo il limite invalicabile e irrinunciabile da mettere alle spie di ogni tempo, ordine e grado. Imparare a convivere con una malattia non vuol dire non curarsi, non premunirsi, non combatterla.Tanto per essere chiaro ed estremamente attuale, qual è la differenza tra Obama e Trump di fronte al fenomeno dello spionaggio. Obama non ha mai detto: «Chi fa la spia non è figlio di Maria, non è figlio di Gesù, quando muore va laggiù…». Ha tuttavia cercato di controllare se non governare il fenomeno. Trump rischia di essere invece talmente funzionale al fenomeno da esserne un frutto proibito e pertanto un fruitore inaffidabile.Come un politico di alto livello riesca a conciliare una certa etica di comportamento con l’accettazione dello spionaggio quale presupposto di governo è un discorso molto delicato che lascio alla coscienza degli interessati. Resta tuttavia, leggendo le cronache (non si sa fino a qual punto attendibili o romanzesche) delle vicende relative alla matassa ingarbugliata dei fili segreti del potere, un senso di profondo disagio che minimalizza o addirittura annulla la voglia di combattere per un mondo migliore. Se è vero che Julian Assange non ci aiuterà a capire il mondo e a migliorarlo, altrettanto vero è che non possiamo mettere la testa nella sabbia. E allora? Auguri e figli di ambo i sessi, con la speranza che non diventino mai le spie dei loro simili, ma che siano la spia della voglia di cambiare il mondo.

Il demonio esiste!?

Sono passati parecchi anni da una sera in cui volli leggere la ricostruzione, così come pubblicata dai giornali ed emergente dagli atti processuali, dell’orrendo delitto di Novi Ligure: l’uccisione a coltellate, da parte di Erika (16 anni) e del fidanzato Omar (17 anni), della madre della ragazza e del fratello di 11 anni, un piano criminale in cui era prevista anche la soppressione del padre di Erika.Ad un certo punto dovetti interrompere la lettura: emergevano elementi di tale ferocia da sconvolgere anche il più imperturbabile appassionato di racconti horror e io non ero e non sono imperturbabile e tanto meno amante dell’horror.La crudeltà totalmente immotivata, la bestiale violenza omicida ridotta a mero esercizio della propria (im)maturità, l’efferata uccisione dei propri famigliari considerata come rimozione di una pietra d’inciampo: cosa può succedere nell’animo di adolescenti per portarli a simili catastrofi umane?Sono le domande che anche in questi giorni mi sono rifatto leggendo le cronache del delitto di Pontelagorino, una frazione di Codigoro (Ferrara): un ragazzo di 16 anni, con l’attiva complicità di un amico di 17 anni, massacra i suoi genitori e confessa, senza una lacrima, senza un rimorso, di avere pianificato ed eseguito questo duplice omicidio forse perché infastidito dai ricorrenti rimproveri per il suo scarso impegno scolastico e la sua vuota adolescenza. Emergono quindi motivazioni risibili, molto simili rispetto a quelle presenti nel caso di Novi Ligure.Forse sarebbe opportuno fare silenzio, non cercare spiegazioni, provare solamente grande pietà senza imbarcarsi in giudizi temerari.Allora come ora invece mi sono dato due (non) risposte, legate tra di loro: una di carattere religioso e una di tipo etico. Non sono un fanatico portato a drammatizzare e schematizzare la lotta fra il bene e il male, ma davanti a questi fatti ammetto di pensare con una certa insistenza alla presenza del demonio, che approfitta della debolezza di certi soggetti arrivando ad impersonificarsi in essi e ad agire con una forza distruttiva arginabile solo a monte e non a valle. La seconda risposta, causa/effetto rispetto alla prima, mi porta a ritenere che nel vuoto assoluto valoriale e ideale un adolescente possa rischiare di essere posseduto dal demonio ed essere sopraffatto da vampate maligne di ribellione estrema contro chi simboleggia le regole di vita e magari osa ricordargliele.L’elemento che rende più umanamente inspiegabile questi comportamenti delittuosi, non è tuttavia tanto la crudeltà (un dato presente in molte vicende umane personali e collettive), non è tanto la futilità dei motivi scatenanti, né la giovane età dei protagonisti, né i legami stretti con i destinatari della violenza, ma l’ostentata indifferenza del dopo-delitto (vanno in discoteca, a giocare, a scherzare al bar, restano nel loro squallido ambiente giovanile), che si accompagna alla mancanza di rimorso e di ravvedimento (all’atto della confessione del delitto stesso). È vero che nella coscienza di un individuo non si riesce a leggere, ma tutto lascia pensare alla mancanza di coscienza (qualcuno dice mancanza del senso di colpa). Se un uomo è senza coscienza, non è una bestia perché gli rimane l’intelligenza, è un demonio. È questo che mi induce a considerare demoniaci questi comportamenti, non in senso figurato ma in senso proprio.Il recupero è sempre possibile e deve essere tentato. «È come se si stessero svegliando solo adesso dopo un lungo letargo. Intorpiditi, scarsamente reattivi. Stanno realizzando in questi momenti quello che hanno fatto ed è per loro sconvolgente. Non toccano cibo e trascorrono le ore senza dire una parola, tra lacrime e sguardi persi nel nulla», li descrive così chi ha avuto modo di interagire con questi ragazzi all’interno del centro di prima accoglienza del carcere minorile. Speriamo siano i primi segni di ravvedimento e non la pura presa d’atto di un totale fallimento, come guardarsi allo specchio e scoprirsi irrimediabilmente mostro, il che potrebbe preludere persino ad un suicidio, dramma nel dramma.Il cammino per il recupero di questi soggetti si presenta molto arduo: qualcuno sostiene che l’unica medicina efficace sia il lavoro, un lavoro duro, faticoso, non una tortura ma nemmeno un breve stage pseudo-professionale. Creare la coscienza in un individuo è molto più difficile che aiutarlo a pulirla, se esiste.La psicologia, la sociologia, la scienza medica possono trovare per questi episodi tante motivazioni sociali, familiari, ambientali, educative: le conosco, le rispetto, ma non mi convincono. Queste analisi possono servire a responsabilizzare tutti coloro che operano a contatto con i giovani. Ho letto le reazioni del gruppo a cui questi due giovani appartenevano: uno squallore la loro impostazione di vita, senza valori, senza riferimenti al di là di play-station, coca cola, sigarette e qualche canna, ragazze che si accostano, si frequentano e si cambiano come se fossero felpe da riciclare (o corpi da bruciare dopo l’uso). Uno di loro ha così commentato l’accaduto con la voce tremante: «Ci chiamano ragazzi terribili, ma non sapevamo niente, quei due non ci hanno mai detto cosa avevano deciso di fare. Io, se me lo avessero confidato, avrei detto di lasciar perdere, lo giuro». Non hanno capito niente della gravità del fatto, forse non sono in grado di capire e questo allarga a dismisura il problema.La barista del piccolo circolo frequentato da questi ragazzi dice: «Sono mamma anch’io, questo era il loro bar, li conosco tutti bene. Ma cosa hanno dentro davvero i ragazzi, chi lo sa?».Non lo so nemmeno io, rimane comunque un comportamento che temo possa essere riconducibile direttamente al demonio (se la vogliamo dire in senso laico, al gusto di fare il male per il male).Racconta Vittorino Andreoli, il noto esperto e studioso di psichiatria criminale, di avere avuto un importante e toccante incontro con papa Paolo VI, durante il quale avranno sicuramente parlato non di meteorologia ma di rapporto tra scienza e religione nel campo della psichiatria e dello studio dei comportamenti delinquenziali. Al termine del colloquio il pontefice lo accompagnò gentilmente all’uscita, gli strinse calorosamente la mano e gli disse, con quel tono a metà tra il deciso e il delicato, tipico di questo incommensurabile papa: «Si ricordi comunque, professore, che il demonio esiste!».Il caso vuole che il vangelo di domani, domenica, presenti Gesù, ad opera di Giovanni Battista, come “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”. Scrive p. Ermes Ronchi a commento: «Toglie il peccato del mondo, il peccato al singolare, non i mille gesti sbagliati con cui continuamente laceriamo il tessuto del mondo, ne sfilacciamo la bellezza. Ma il peccato profondo, la radice malata che inquina tutto. In una parola il disamore. Che è indifferenza, violenza, menzogna, chiusure, fratture, vite spente…».Gira e rigira, sì tutto serve, la sociologia, la criminologia, la psicologia, la psichiatria (ho letto gli esperti: bravissimi…), ma niente risolve. Che risolve tutto è un Agnello, un Dio, scrive sempre p. Ronchi, “che non si impone, si propone, che non può, non vuole far paura a nessuno”.Ho cominciato la mia riflessione con una disperata ammissione di presenza maligna, la termino con la delicata “rivoluzione della tenerezza” di Dio in Gesù Cristo (papa Francesco).C’era una volta una mamma con suo figlio, un bellissimo bambino che cresceva tra le amorevoli cure della sua mamma. Il bambino divenne presto ragazzo ma crescendo diventò cattivo. Il ragazzo diventò uomo ed era sempre più cattivo; cominciò a rubare ed un giorno commise l’atto più crudele, uccise! Nella disperazione della mamma, l’uomo continuò così per diversi anni, finché un giorno, dopo aver ucciso un uomo, fu arrestato.Per la sua cattiveria e per i suoi crimini fu condannato a morte. La notte prima dell’esecuzione, gli apparve in sogno il diavolo, che gli propose un patto. “Posso renderti la libertà ma tu devi fare una cosa per me, disse il diavolo, devi portarmi il cuore di tua madre”. L’uomo rimase per un secondo muto, poi accettò e, uscito di prigione grazie al patto appena fatto, andò a casa della madre. Non disse nulla, non esitò, estrasse il coltello ed uccise la madre. Avvolse il cuore in un fazzoletto e cominciò a correre verso l’appuntamento con il diavolo. Cominciò a piovere e l’uomo correva sempre più forte. Ad un tratto inciampò, cadde a terra! ed il cuore uscì fuori dal fazzoletto rotolando nel fango.L’uomo stava per rialzarsi, quando il cuore della mamma, pieno di fango, lo guardò e gli disse: “Ti sei fatto male figlio mio?”.Nunzia Di Gianni, la madre che osava rimproverare il figlio sfaticato, all’atto della propria uccisione, non ha potuto comportarsi come la mamma della commovente leggenda: è stata massacrata non dal figlio, ma da un amico del figlio, uno strano e paradossale sicario. Chissà che in futuro il figlio…e sua madre…Ma il Vangelo non è una leggenda e tutto ritorna a pieno titolo alla Croce di Cristo: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. E lo diceva sul serio, per quelli che lo stavano crocifiggendo, ma anche per tutti i loro successori (in un certo senso mi ci sento dentro pure io), anche per i due massacratori di Codigoro.