E così, dopo quasi otto anni, per la morte di Stefano Cucchi andranno sotto processo tre carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale.Che il giovane, arrestato dai carabinieri nell’ottobre del 2009 dopo essere stato visto cedere ad un uomo delle confezioni trasparenti in cambio di una banconota e trovato in possesso di 12 confezioni di hashish, morto in circostanze misteriose durante la custodia cautelare, non fosse deceduto per cause naturali (attacco di epilessia) si era capito: bastava guardare le raccapriccianti fotografie del suo corpo letteralmente distrutto. Finora tutti assolti: medici e infermieri dell’ospedale militare Sandro Pertini (si capovolgerà nella tomba), agenti di custodia. Adesso, stando alle ultime indagini condotte dalla procura di Roma, Cucchi sarebbe stato pestato con pugni e calci e quindi sarebbe deceduto in conseguenza di questo trattamento speciale riservatogli da alcuni carabinieri (in ospedale però come minimo ci sarebbe stata omissione di soccorso, ma ormai chi è stato assolto non può più essere processato).Finora abbiamo assistito al solito balletto di reticenze, omertà, depistaggi, tipici delle vicende in cui si trovano protagonisti appartenenti alle forze dell’ordine: non è la prima volta ed è gravissimo che la giustizia non riesca ad essere tale nei confronti di persone (specialmente se collocabile ad alto livello), che dovrebbero sovrintendere, direttamente o indirettamente, all’ordine pubblico e all’incolumità altrui.Questi reati, che quasi sempre restano impuniti, riguardano comportamenti doppiamente inaccettabili: in sé e per sé in quanto riconducibili a condotte in cui la violenza non è giustificata, ma ancor di più perché stupri e massacri vengono proprio da persone che dovrebbero difendere i cittadini da questi reati. Che una donna sia stuprata da un poliziotto è doppiamente grave perché il poliziotto non solo non la deve stuprare, ma dovrebbe difenderla da eventuali rischi di stupro. Che un tossicodipendente (magari anche un piccolo spacciatore di droga) venga massacrato di botte da carabinieri in servizio è doppiamente grave, perché i carabinieri non solo dovrebbero fare la guerra allo spaccio (quella a ben altro livello), ma dovrebbero difendere il tossicodipendente dal rischio di morire di overdose, mentre invece lo si fa morire con una overdose di pugni e calci.Che le forze dell’ordine siano soggette ad impegni rischiosi, stressanti e pesanti e che ad esse debba andare tutto il rispetto possibile è fuori discussione, ma ciò non può essere motivo per sopportare coloro che giocano a fare i giustizieri della notte.Dopo la diretta responsabilità di chi ha commesso gli abusi, dopo quella di chi li comanda, funzionalmente e politicamente, e dovrebbe controllarli o almeno non promuoverli, dopo quella dei magistrati che amministrano una giustizia blanda e morbida verso gli “abusatori” di turno, dopo quella riconducibile ad una certa omertà di sistema (lo Stato fa molta fatica a riconoscere i propri reati), viene una responsabilità culturale della società e dei suoi singoli componenti. Come scrive Michele Serra, “l’idea che per lo Stato il corpo di chiunque, anche del peggiore dei criminali, sia inviolabile, rischia di essere un’astrazione”. Non ne siamo convinti, non riusciamo a capire e soprattutto ad accettare che dietro gli ultimi della pista ci sia sempre un po’ colpa (piccola o grande) a carico di queste persone. Cio non toglie che mantengono tutti i loro sacrosanti diritti di essere rispettati ed anche assistiti nei limiti del possibile. Proviamo a farne un breve provocatorio elenco con relativo addebito.I tossicodipendenti sono certamente responsabili della loro scelta anticonvenzionale, ribelle e trasgressiva (e allora, li massacriamo di botte?); i “barboni” hanno sicuramente commesso errori prima di ridursi a vivere in quello stato e, se lo fanno per libera scelta, a maggior ragione ne sono responsabili (e allora, li lasciamo morire di freddo e di stenti?); gli imprenditori falliti, finiti sul lastrico avranno sicuramente commesso errori nella gestione delle loro aziende (e allora, li condanniamo alla fame?); i divorziati, soli, privati della compagnia dei loro figli, che vanno alle mense della Caritas, avranno probabilmente vissuto in modo non esemplare la loro vita famigliare (e allora li trattiamo come persone di serie B?); le donne torturate ed uccise dai loro uomini avranno sicuramente accettato situazioni inaccettabili e non avranno avuto il coraggio di chiudere rapporti problematici al limite dell’impossibile (e allora, facciamo l’abitudine ai femminicidi?); coloro che sono costretti a vivere sotto la soglia di povertà magari non saranno stati sufficientemente previdenti e laboriosi se e quando potevano esserlo (e allora, diciamo loro di arrangiarsi?); i carcerati (salvo quelli in galera per errori giudiziari: non sono pochi) avranno pur commesso qualche reato che li ha portati a subire condanne penali (e allora, li chiudiamo nelle celle e buttiamo via la chiave?); i malati avranno magari fumato come i turchi o bevuto come le spugne (e allora li facciamo dormire in terra al pronto soccorso e nei reparti ospedalieri?). L’elenco potrebbe continuare, ma penso sarebbe di cattivo gusto. Il concetto però è chiaro e riguarda i cosiddetti ultimi, quelli davanti ai quali spesso chiacchieriamo di solidarietà, di giustizia, di eguaglianza e poi quando arriviamo al dunque ne vorremmo fare un mazzo da buttare nella spazzatura, dopo esserci eretti a giudici implacabili nel chiuso della nostra mente, nel bar all’angolo, coi colleghi di lavoro, nei talk-show televisivi, su internet, a scuola, financo in parrocchia.I tossicodipendenti sono i soggetti più tartassati a livello di mentalità corrente, tendiamo a escluderli dal momento che loro stessi hanno comunque iniziato un cammino di esclusione. Facciamo tanto bigotto baccano sulla difesa della vita dei malati terminali e non troviamo una parola “buona” per un drogato, anzi lo consideriamo un “drogato di merda”, meritevole di essere fatto fuori. Attenzione perché questi discorsi sono di stampo chiaramente nazista e forse ha ragione la suprema corte tedesca a non voler mettere fuori legge il partito neo-nazista: mi ha stupito l’assurda motivazione della non pericolosità riconducibile al poco consenso che raccoglierebbe. Probabilmente i magistrati volevano dire che il nazismo scorre ancora nelle vene di tanti cittadini europei e quindi non sono pericolose tanto le nostalgiche svastiche quanto le correnti discriminazioni sociali.Restando in Italia mi chiedo: è peggio oltraggiare fascisticamente il cippo monumentale di Giacomo Matteotti (atto disgustoso commesso a Roma di cui vergognarsi profondamente) o chiamare “Radio anch’io” per dire che Stefano Cucchi era un drogato di merda e quindi i suoi familiari non possono pretendere giustizia? Penso che un filo nero leghi perfettamente i due comportamenti. Il cerchio si chiude pericolosamente in una deriva pseudo-culturale niente affatto riconducibile a frange di nostalgici o fanatici.Quanto alla vicenda giudiziaria inerente la morte di Cucchi, staremo a vedere cosa succederà al prossimo processo: non mi aspetto una vendetta o una giustizia preconfezionata (in un senso o nell’altro: nessun colpevole o condanna di un capro espiatorio sono la stessa solfa), ma nemmeno la solita faziosa e subdola discolpa degli uomini in divisa.Quando mio padre assisteva alla morte di una persona per cui non si riusciva a trovare la causa e l’esecutore materiale dell’eventuale delitto, concludeva sarcasticamente: «As véde che quälcdòn al gà preghè un cólp…».Speriamo che non si debba sconsolatamente concludere così l’ultimo atto della vicenda giudiziaria relativa alla morte di Stefano Cucchi.