Puttani o Lord?

La Camera dei Deputati italiana, nelle more della legge, ha tagliato la testa al toro. Ha introdotto, seppure in via sperimentale, la legalizzazione dei lobbisti, istituendo un albo vero e proprio dei soggetti dichiaratamente dediti a rappresentare gli interessi di imprese, sindacati e associazioni. Si chiamano appunto lobbisti, cioè portatori delle istanze delle lobby (categorie), che opererebbero ai fini di ottenere interventi legislativi ad esse favorevoli; iscritti con tanto di tesserino ad un apposito registro, stazionerebbero in una sala riservata da cui tenere sott’occhio   i lavori della Camera ed in cui lavorare, cioè “interferire” nella vita parlamentare.

Chi avrà la bontà di leggere queste mie riflessioni mi perdonerà, ma il primo ardito parallelismo che mi è venuto in mente è stato quello con il ripristino delle case di tolleranza, dei casini per essere ancora più chiaro. Considerato che la prostituzione esiste da sempre, che non la si può eliminare, che è ipocrita far finta che non esista, varrebbe la pena di regolamentarla e controllarla da tutti i punti di vista: sarei perfettamente d’accordo.

Il caso vuole però che i lobbisti non vendano direttamente o indirettamente il proprio corpo, ma forse solo il voto dei loro rappresentati. Il loro negozio giuridico consiste poi sostanzialmente nel comprare (a quale prezzo non è dato sapere) una legge, può bastare anche un articolo di una legge, talvolta un comma o addirittura un capoverso, trattando alla stregua di meri venditori i parlamentari, i quali diventerebbero una sorta di “puttani” della Repubblica. Sono stato poco complimentoso? Senz’altro, ma almeno spero di essermi spiegato.

Viene legalizzata ed autorizzata una sorta di mercato a latere delle istituzioni, un meccanismo parallelo a quello democratico: più che di convergenze si tratterebbe di divergenze parallele. Mi si dirà che è già così, che nei corridoi di Montecitorio e Palazzo Madama si aggirano questi personaggi, noti a tutti, e che probabilmente influiscono sulla vita parlamentare molto più di quanto si possa immaginare. Tanto vale introdurre delle regole sulla loro professionalità, sulla loro fedina penale e sulle modalità del loro operato. Mentre le puttane classiche e canoniche hanno tutto il mio rispetto e talvolta financo la mia ammirazione, questo sputtanamento parlamentare non mi piace affatto, non per motivi di decenza, ma per questioni di democrazia.

Il nostro sistema di democrazia rappresentativa si fonda su due pilastri fondamentali: le forze politiche e le forze intermedie. I partiti rappresentano i cittadini da cui ottengono un mandato senza vincoli, ma pur sempre un mandato a rappresentare l’intera nazione. Dal momento che gli interessi però non sono solo individuali e quindi non si esprimono solo a tale livello, esistono le forze economiche e sociali, riconosciute dalla legge o quanto meno dalla dinamica sociale, che rappresentano le istanze di categoria a livello dei lavoratori e dei vari tipi di impresa. A queste si è aggiunto nel tempo, in conseguenza dell’evoluzione nella compagine sociale, tutta la galassia dell’associazionismo e del volontariato, più o meno riconosciuta e riconoscibile.

Evidentemente si pensa che questo tavolo a due gambe sia diventato, o addirittura sia sempre stato, zoppo e allora si cerca di inserire o di sopportare una terza gamba per rassodare i meccanismi democratici. Mi pare che la toppa sia peggio del buco. Significa infatti delegittimare le strade maestre per sostituirle con le scorciatoie.

Cosa ci stanno a fare i parlamentari se non sono capaci di dialogare con i cittadini e con le forze sociali? Se non sono capaci di svolgere questo fondamentale ruolo di saldatura, allora sì che rubano lo stipendio.

E a cosa servono tutti i sindacati e le varie associazioni se non sono in grado di rappresentare e portare avanti le istanze dei loro iscritti? Si sciolgano e la smettano di prendere in giro i loro seguaci.

I concorrenti al gioco televisivo dell’eredità dimostrano una ignoranza sconvolgente in materia religiosa (al punto da non sapere cosa sia la Bibbia) e in materia costituzionale (al punto da confondere il presidente della Repubblica col Presidente del Consiglio). Qui sarà il caso però di fare un po’ tutti un bel ripasso sui fondamenti e sui meccanismi della democrazia rappresentativa. Anche i parlamentari. Questi ultimi sappiano inoltre che prestare scopertamente il fianco al lobbismo può voler dire tirare un’ulteriore volata al populismo. Il ragionamento dei cittadini-elettori, infatti, potrebbe essere: se chi riceve il nostro voto non è in grado di rapportarsi con noi, allora tanto vale semplificare e trovare qualcuno (pochi, meglio se uno solo) che sappia farlo indipendentemente dalle istituzioni e che, di tanto in tanto, chieda direttamente il nostro parere.

Come ho già avuto modo di scrivere, una strana lezioncina di democrazia ci viene dalla Gran Bretagna, nonostante Brexit, anzi proprio in conseguenza di Brexit. In quel Paese c’è un rigurgito di responsabilità da parte della Camera dei Lord: una istituzione nata per rappresentare, in senso dinastico e per diritto ereditario, l’aristocrazia inglese. Strada facendo, questa Camera si è trasformata prevalentemente in una specie di “Senato a vita”: 804 Lord, soprattutto grandi vecchi della politica, ricchi imprenditori, illustri scienziati, economisti, esperti in ogni campo. Questi signori, indipendentemente dalla loro collocazione partitica, hanno trovato il coraggio di dare due importantissimi alt, non tanto alla Brexit, perché ormai purtroppo cosa fatta capo ha, ma al percorso di uscita dall’Europa, dicendo un netto no al mercanteggiamento delle presenze degli europei in Inghilterra con le presenze degli Inglesi in Europa e fissando dei paletti al governo, costringendolo a sottoporre al Parlamento il divorzio dalla Ue (rompendo non poco le uova nel paniere a Theresa May, che intendeva gestire questa contingenza delicatissima e importantissima nel chiuso di Downing Street).

Non a caso gli Inglesi sono i primi della classe in materia di democrazia formale, ma in questi casi la forma diventa sostanza. Altro che lobbisti, i Lord vogliono capire e dire la loro. Non si tratta quindi tanto di voto popolare, perché quello purtroppo è già avvenuto e lo dovranno rispettare, ma la democrazia non finisce col voto, comincia dal voto.

Signori Parlamentari Italiani, fatevi quindi su le maniche, lasciate perdere i lobbisti, non sprecate tempo con questi mediatori da strapazzo, dialogate coi cittadini e con le forze sociali, studiate i problemi e non fateveli raccontare da gente senza scrupoli, discutete e litigate fra di voi legittimi rappresentati dei cittadini e respingete le intromissioni, decidete in coscienza senza paura di sbagliare e di perdere voti, mettete alla porta i questuanti e guardate ai veri bisogni di chi soffre e di chi fa fatica, fate bene il vostro mestiere, guadagnatevi la pagnotta che, a quel punto, dovrà essere consistente ed adeguata al vostro “rango”. Grazie dell’attenzione.

 

Le risorse diaboliche della curia lumaca

Il rapporto tra la curia vaticana e i papi ha storicamente riservato contrasti, frizioni, intrighi, complotti etc. È un triste classico della Chiesa Istituzione. Sto agli ultimi papati dei quali farò, di seguito, un brevissimo excursus tutto personale e ben poco canonico .

Papa Pacelli, Pio XII, è stato l’ultimo pontefice di stretta provenienza e formazione curiale: era un raffinato, intelligentissimo e abilissimo uomo d’apparato di cui conosceva tutti i passaggi, anche i più segreti, e che riusciva pertanto a governare con relativa disinvoltura l’assetto centralistico della Chiesa dell’epoca.

Papa Roncalli, Giovanni XXIII, gradito inizialmente agli ambienti curiali che si illudevano di poterlo condizionare e manovrare, pur senza aprire drammatici contenziosi, riuscì carismaticamente a dominare le situazioni. Il gossip vaticano racconta che una volta eletto papa, ebbe uno strano colloquio con il cardinale Domenico Tardini, un suo detrattore che su alcuni fascicoli, riguardanti l’attività di questo allora collega, diplomatico e pastore, aveva riportato di suo pugno l’annotazione “è una roncallata”. Ebbene il Papa, pur sapendo di questo atteggiamento dell’alto esponente della diplomazia vaticana, non se ne fece influenzare e, di fronte alle resistenze e titubanze di Tardini, lo obbligò letteralmente ad accettare la carica di Segretario di Stato : «Si inginocchi e accetti la nomina assieme alla mia benedizione». Altro che papa bonaccione…

Papa Montini, Paolo VI, ad un certo punto della sua vita, fu allontanato dalla Curia romana a motivo delle sue vedute piuttosto avanzate in merito alla politica italiana e “confinato” a Milano quale vescovo (promoveatur ut amoveatur) e da qui spiccò il suo volo pastorale fino a raggiungere un papato caratterizzato da stratosferica intelligenza e sensibilità, ma da eccessiva e sofferta prudenza, anche proprio per i condizionamenti di stampo e carattere curiale che non riuscì a scrollarsi di dosso.

Papa Luciani, Giovanni Paolo I, nel suo breve, ingenuo ma rivoluzionario approccio al papato, fece appena in tempo a rendersi conto del marciume curiale al punto da rimanerne letteralmente stecchito.

Papa Wojtyla, Giovanni Paolo II, si affaccendò proficuamente in tutt’altre faccende rispetto alle beghe curiali: lui girava il mondo, arringava le folle, mentre nelle stanze vaticane i vari cardinali facevano i loro comodi. Un Papa dedito interamente alla pastorale delle masse e “menefreghisticamente” assente sul piano degli assetti istituzionali e burocratici della Chiesa.

Papa Ratzinger, Benedetto XVI, si concentrò sull’identità cristiana, parlò, scrisse, pontificò e quando si accorse di non avere in mano la situazione, peraltro carica di vicende scabrose e intrighi avvolgenti e sconvolgenti, lanciò opportunamente la spugna per favorire un rinnovamento di cui, nella sua straripante intelligenza e cultura, vedeva la necessità senza avere la forza di promuoverlo.

Arrivo al dunque che si chiama Papa Bergoglio, Francesco. La sua netta frattura con la tradizione (si racconta come al monsignore, che gli voleva far indossare gli abiti e i gingilli di lusso per la prima apparizione dalla balconata di San Pietro, disse bonariamente stizzito: «Questo roba se la metta lei…»), la sua chiara presa di distanza dall’apparato clerical-curiale (si riporta l’episodio eloquente e simpatico di questo papa che risponde così alle intemperanze anticlericali di un suo interlocutore: «Se è per quello sono anti-clericale anch’io…»), la sua sferzante critica a certi stili e metodi più volte presi di mira («Nella Chiesa vi è chi, invece di servire, di pensare agli altri, si serve della Chiesa per i propri interesse: sono gli arrampicatori, gli attaccati ai soldi»), la dicono lunga sul suo rapporto difficile al limite del conflittuale con gli ambienti vaticani quali punta di diamante di una certa inconfondibile voglia di reazione.

Il noto teologo Vito Mancuso scrive: «In gioco c’è il cambio di rotta iniziato dalla Chiesa   cattolica con il Vaticano II e rimasto incompiuto, volto a disegnare un cattolicesimo non più nemico del mondo moderno, come lo è stato per secoli, ma a fianco della vita degli uomini. In un mondo sempre più piccolo il compimento del processo iniziato con Giovanni XXIII è la condizione sine qua non perché la Chiesa cattolica sia fattore di pace e non di divisione. Papa Francesco lo sa e agisce di conseguenza. Molti però dentro la Chiesa o non lo sanno o non lo desiderano. Essi non esitano a unirsi ai numerosi gruppi di potere economico e politico fuori della Chiesa che hanno visto la recente enciclica sull’ecologia come una seria minaccia ai loro affari. E tra nemici interni e nemici esterni vi sono addirittura alcuni che non esitano a trasformarsi in avvoltoi e a volteggiare sinistramente sul corpo del Papa».

Le recentissime dichiarazioni di Marie Collins, componente dimissionaria della Commissione anti pedofilia voluta nel 2014 da papa Francesco ci danno l’idea di un Papa piuttosto isolato e osteggiato dal “potere curiale”. Afferma questa donna, che ha subito abusi clericali nella sua infanzia e adolescenza: «(…) Non smetto di credere nella tolleranza zero voluta da Francesco, ma altri ci boicottano (…) Esiste il fatto che spesso si sentono dichiarazioni pubbliche intorno alla profonda preoccupazione della Chiesa per le vittime di abusi, ma poi nel privato il dato è che in Vaticano c’è chi si rifiuta anche solo di riconoscere le lettere inviategli per provare a risolvere questa preoccupazione. Il dato è che le resistenze non mancano e tutto questo per me non è accettabile».

Intravedo un pericolo per papa Francesco e per la Chiesa di cui è guida innovativa: esiste il rischio di un suo confinamento nella sfera sociale, nel suo “orto pastorale” della misericordia, nel “recinto francescano” della povertà e dell’ambientalismo. Al resto ci pensano i soliti marpioni del dogmatismo facile e fasullo, della gattopardesca resistenza al nuovo evangelico in nome della continuità tradizionalistica. Una sorta di Celestino V, riveduto e corretto, che non ha fatto, almeno per il momento il gran rifiuto, ma che è subdolamente rifiutato dai troppi che ne temono lo sconvolgente messaggio pastorale.

Tuttavia, anche senza voler enfatizzare certi segnali, bisogna ammettere che l’aria è cambiata: il vento pastorale bergogliano dissipa lo “smog” della nebbia dogmatica combinata con l’aria inquinata del potere istituzionale vaticano. L’apertura delle porte di un tempio cattolico milanese alla preghiera di suffragio per Fabiano Antoniani protagonista di un suicidio assistito in Svizzera è un segnale di condivisione verso la sofferenza umana che prevarica le fredde regole del catechismo. Il fatto che qualcuno si preoccupi di chiarire la differenza tra una preghiera e una messa copre di ridicolo fariseismo i minimalizzatori di professione e i continuisti a tutti i costi. Resta una netta frattura pastorale tra il “niet ruiniano” del 2006 al funerale religioso di Piergiorgio Welby che aveva rinunciato alle cure spropositate e il “si può fare scoliano” di questi giorni per Dj Fabo che si è fatto suicidare per interrompere una sofferenza impossibile da sopportare.

Mentre non vedo differenze umane sostanziali tra i due episodi, al di sotto dei quali ci sono altre numerose persone in predicato di operare scelte per scacciare la disperazione con una dignitosa anche se pur drammatica decisione, tra i diversi atteggiamenti ecclesiali c’è di mezzo il mare della misericordia mosso da Papa Francesco.

“Eppur si muove” si potrebbe dire in riferimento alla Chiesa: con passo lento, col rischio di fare un passo avanti e due indietro, ma è sempre meglio dell’immobilità assoluta.

Resta la grande paura che alla benefica rottura di certi equilibri della Chiesa paralizzata dal dualismo istituzione-comunità, possa corrispondere una insana saldatura tra poteri laico-religiosi per mettere fine in diversi modi al rinnovamento che la vera Chiesa può operare “nel mondo” senza essere “del mondo”.

Ricordo l’inquietante battuta di un carissimo amico di fronte alle prime posizioni emergenti dal papato bergogliano: «Secondo me, lo fanno fuori…». E purtroppo ci sono tanti modi per farlo fuori. Io, quando sento i suoi insistenti inviti a pregare per lui, ho un brivido lungo la schiena, temo si senta oltremodo isolato e scoperto, solo con il suo Dio di Gesù. Su di lui veglierà il cardinal Martini suo playmaker in terra e in cielo. Ma non lasciamolo solo, pregando sì, ma facendo qualcosa in più. Non voglio introdurre una sorta di vittimismo papale da contrapporre allo strapotere curiale, ma…le lumache vaticane si sentono toccate nel vivo e stanno reagendo. Attenzione, perché ne sanno una più del diavolo.

 

La religione è…donna

Non voglio assolutamente (s)cadere nella diatriba sciopero sì – sciopero no per celebrare l’08 marzo, mi preme invece ribadire la mia forte fiducia nella donna e nella sua capacità di cambiare il mondo: la violenza su di esse vuole, più o meno consapevolmente, arrestare o frenare questa novità di vita di cui la donna è portatrice a tutti i livelli, personale, famigliare, culturale, sociale, politica, religiosa.

Le donne sono un fondamentale agente di cambiamento, la loro mobilitazione non ha più il pur rispettabile carattere del femminismo anni Settanta, la loro capacità di scendere in campo si allarga a tutte le dimensioni problematiche del mondo odierno, il loro carisma è la garanzia di un sicuro ma diverso avvenire. Quando viene brutalizzata una bambina (con la ferocia bestiale dello stupro o con l’agghiacciante stregoneria della mutilazione genitale), quando una donna viene ridotta a puro strumento di piacere, quando la compagna della vita viene schiavizzata, quando la sua libertà viene calpestata fino alla devastazione fisica e morale, quando il femminicidio diventa una prassi, quando i diritti della donna vengono calpestati, quando la donna viene discriminata o relegata in un ruolo subalterno, in tutti i casi in cui oggetto di violenza è una donna scatta un meccanismo moltiplicatore dell’orrore e della gravità. Il mondo viene depauperato nel suo potenziale di miglioramento e di progresso.

Ma vengo per rapidi cenni al discorso religioso, non perché io sia un patito di questa dimensione esistenziale, ma perché la sua portata è molto grande e tale da influenzare tutto il resto. Se la religione non parte dal rigoroso rispetto della dignità femminile tradisce radicalmente se stessa e riesce a privare il mondo di una ricchezza indispensabile e incalcolabile.   Ecco perché la laicità della politica e la “modernità” delle religioni sono le due facce della stessa medaglia.

Parto da una notizia confinata nell’angolo dai media. Il Ministero per gli Affari religiosi del Cairo ha “ordinato” 144 Imam donne, figure chiamate a interpretare e diffondere il credo tra i fedeli musulmani. Pessima notizia che la nomina sia avvenuta ad opera dell’autorità politica: la laicità non è auspicata dai musulmani, che addirittura cercano nel potere civile una pericolosa e deviante sponda per il loro proselitismo.

Bellissima notizia invece che la nomina abbia riguardato decine di donne ammesse ad un ruolo solitamente riservato agli uomini: potremmo quasi dire che, con questo fatto, l’Islam ha battuto il Cristianesimo due a zero, in questo parziale ma significativo confronto.

Non voglio banalizzare il discorso anche perché vorrei tentare di portare il mio modesto contributo culturale alla festa della donna partendo proprio dal ruolo femminile all’interno delle religioni.

Lo scrittore, poeta e saggista marocchino Tahar Ben Jelloun sostiene schierandosi a favore di un Islam veramente moderato e dialogante: «Non abbiamo bisogno di obbligare le nostre donne a coprirsi come fantasmi neri che per strada spaventano i bambini. Non abbiamo il diritto di impedire a un medico di auscultare una donna musulmana, né di pretendere piscine per sole donne».

Il problema del ruolo della donna nelle religioni è questione indubbiamente centrale e che, nelle prassi secolari, evidenzia una certa analogia di impostazione tra le diverse teologie. La posizione della donna a livello di dottrina dimostra che il cristianesimo parte in quarta con un Vangelo spudoratamente femminista per poi ripiegare sul pazzesco maschilismo paolino, da cui ci sono voluti secoli per tentare di uscire e il cammino è tutt’altro che terminato. Con tutto il rispetto per la predicazione di Paolo, un cristiano dovrebbe comunque sempre rifarsi al dettato evangelico, alle parole e agli esempi di Gesù, ma purtroppo il Vangelo spesso è finito in soffitta coperto da una moltitudine di polverose scartoffie teologiche e dottrinali.

Volendo concedere all’attuale dottrina cristiana un giudizio obiettivo, mi sentirei di ammettere che sulla questione femminile non siamo ancora tornati a Gesù, ma ci siamo significativamente allontanati dal pensiero paolino. Purtroppo non è così per l’Islam che rimane saldamente ancorato ad una impostazione coranica scriteriatamente maschilista e antifemminista da cui non riesce a schiodarsi.

Mentre il cristianesimo è riuscito gradualmente ad affrancarsi da una tradizione pesante e alienante, l’islamismo ne rimane tuttora vittima, anche perché non ha il riferimento evangelico (e non è poca cosa) a fargli da sponda.

Solo superando questa discriminazione verso il mondo femminile si potrà creare un clima nuovo e diverso a livello religioso e financo politico: credo fermamente che siano le donne le potenziali portatrici delle svolte culturali auspicabili. Se i musulmani non superano questo tabù, temo che la loro fede resti compromessa da regole religiose assurde e discriminatorie (è così per tutte le religioni!).

Papa Francesco ha trovato il tragico e deviante denominatore comune fra cattolicesimo e islamismo nella violenza contro le donne. La portata della questione femminile e sessuale è veramente grande e decisiva nella nostra cultura, ma anche e soprattutto in quella islamica, non solo quella dei fanatici fondamentalisti, ma di tutto l’Islam a cominciare dai cosiddetti musulmani moderati: la loro moderazione vuol dire rispetto per la donna, la sua dignità, il suo ruolo, la sua persona, la sua libertà? Se sì, dopo esserci dati anche noi una bella e sana regolata in materia, possiamo ragionare e percorrere un tratto di strada insieme; se no, tutto diventa un ipocrita gioco delle parti.

Cosa vorrà dire il fatto che a Ventimiglia una donna musulmana, entrando in chiesa, si sia tolta il velo in segno di rispetto, pur soffrendo quando cammina per strada e la chiamano terrorista? Da una parte sarà importante per le donne islamiche avere il diritto di nascondersi in tutto o in parte sotto un velo o sotto il burkini quasi a sottrarsi dal manifestare apertamente la loro corporeità femminile? Dall’altra sarà una cosa seria impuntarci laicamente a vietare questi usi che peraltro stanno assumendo persino un pizzico di sana civetteria islamica?

Tornando in conclusione al Vangelo, dobbiamo credere che il maschilismo sembra vincente, ma in realtà è perdente. C’è un epilogo che ci riempie di speranza e ci dà la forza di andare oltre le apparenze. Gesù ce lo ha dimostrato. Ricordiamo tutti, cristiani, ma lo chiedo anche ai musulmani, che la prima persona a capire la novità assoluta della fede fu una donna. Non i membri di qualsiasi sinedrio, non i preti comunque chiamati, non gli zelanti osservanti di tutte le religione, non gli intellettuali di qualsiasi epoca. Una donna! Mi riferisco a Maria di Magdala. E noi? Delle donne sappiamo solo fare scempio: su questo ci troviamo (quasi) tutti d’accordo.

 

Il terrorismo dell’anti-politica

La bagarre politica italiana sta raggiungendo livelli di guardia: non si riesce più a ragionare, l’insulto è diventato la norma, gli argomenti non contano nulla, vale solo la sputtanata personale. Non volano manciate, ma secchiate di fango (per non dire di peggio).

Ammetto che ci possa essere un clima di sfiducia, non ammetto che da dentro le istituzioni e i partiti si alimenti questo clima dando ai cittadini l’illusione che il politically scorrett possa servire a qualcosa. Come quando i tifosi di una squadra di calcio, a risultato negativo acquisito, si sfogano a gridare insulti ai giocatori avversari, pareggiando il conto dei goal subiti con quello delle offese rivolte ai contendenti.

Qualcuno (Matteo Salvini) dice apertamente che sarebbe disposto a “tutto” pur di costringere il Presidente della Repubblica a sciogliere le Camere e a mandare tutti alle urne: non so cosa comprenda il termine “tutto”, sicuramente allearsi con il peggior nemico, tradire il miglior amico, sputtanare a casaccio chi detiene il potere, soffiare sul fuoco di tutte le proteste, spargere veleni a destra e manca, andare contro la storia e la geografia, ridurre la politica ad una rissa continua.

Qualcun altro (Beppe Grillo) riduce la scena politica allo sberleffo continuo e di cattivo gusto, alle linguacce di alto impatto mediatico, alla gara a chi la spara più grossa. Ricordo come, per un insegnante estremamente trasgressivo nel linguaggio a cui gli studenti la davano sù, scoppiò un tale casino da travolgere la credibilità dell’intero istituto scolastico. Uno studente fra i più seri commentò amaramente: «Sparlare e sproloquiare è indubbiamente un modo per dialogare: il peggiore che ci sia…».

Attenzione perché, chi semina vento oggi, domani, dopodomani, va a finire che   raccoglie violenza per tutti: non mi stupirei che qualche esaltato prendesse in mano un’arma e cominciasse a sparare. Il clima c’è, il resto alla prima occasione.

Bisogna reagire e tento di farlo occupandomi degli aspetti più sostanziosi del dibattito (?) in corso, astraendomi, per un attimo almeno, dall’insultificio dilagante. Gli errori del governo Renzi e del renzismo in genere. Faccio riferimento all’analisi apparsa nei giorni scorsi su la Repubblica a firma di Emanuele Felice: discutibile, ma indubbiamente interessante.

Da una parte, a suo scrivere, le meritorie riforme avviate (pubblica amministrazione, giustizia, settore del credito, istruzione, riduzione delle imposte alle imprese, nuovo codice degli appalti, ordinamento costituzionale), dall’altra le scelte demagogiche e dispersive (abolizione tasse sulla prima casa, rottamazione di Equitalia, precarizzazione del mercato del lavoro, aiuti a pioggia, interventi clientelari nel Mezzogiorno, politica degli annunci, ottimismo a tutti i costi).

A parte il fatto che non penso abbia fatto dispiacere a parecchi Italiani ricevere un bonus, non pagare tasse sulla casa in cui si abita, passare in ruolo nell’impiego scolastico, trovare un lavoro, seppur a tempo determinato, tuttavia c’è sicuramente una parte di verità nella suddetta analisi, anche perché quando si mette molta carne al fuoco è quasi inevitabile che qualche pezzo vada bruciato. E allora cosa facciamo? Votiamo No e buttiamo tutto a mare. I cittadini, si badi bene, hanno fatto così, non hanno purtroppo respinto l’ottimismo a tutti i costi, ma, spinti dal pessimismo inoculato dai profeti di sventura, hanno respinto le riforme, quelle buone, dalla costituzione in giù. Hanno buttato, come si suol dire, il bambino delle riforme assieme all’acqua sporca delle scelte dispersive.

Poi arriva il problema della classe dirigente. Renzi avrebbe ceduto alla tentazione dell’uomo solo al comando contro tutti, senza cinghie di trasmissione nella società e nel suo partito, cercando un rapporto diretto con l’elettorato. Anche qui c’è del vero. Come ha più volte affermato Massimo Cacciari, non si può governare contro tutti: magistrati, insegnanti, pubblici dipendenti, sindacati, politici di vecchia data, etc.

L’Italia è imprigionata da un meccanismo corporativo di conservazione, che deve essere preventivamente   e necessariamente messo in discussione. In base a questo meccanismo viene inoltre selezionata e formata la classe dirigente e quindi la situazione tende a perpetuarsi e a impaludare tutto il Paese. Se guardiamo indietro, non dico certo che non sia stato fatto nulla, ma sicuramente non si è fatto molto.

Se stiamo ad aspettare, prima di partire, una nuova classe dirigente, aspettiamo per vent’anni   Godot. Meglio provare a partire a costo di sbagliare parecchie cose, con la possibilità di aggiustarle strada facendo, piuttosto che discutere all’infinito per trovare continuamente motivi plausibili di rinvio. È la solita storia: a chi ha governato per tempi biblici si perdona molto, a chi ha appena iniziato a governare non si perdona nulla.

In questi giorni si fa un gran scrivere su Emmanuel Macron, il candidato all’Eliseo che assomiglia al Tony Blair degli esordi; secondo me assomiglia molto anche a Matteo Renzi. Allora non eravamo e non siamo, con Renzi, così fuori dal mondo e dalla realtà. Qualcuno sostiene che la via di Macron sia l’unica in grado di preservare la Francia dalla sciagurata deriva lepenista.

Il governo Renzi non era sottovalutato in sede europea, anzi. Qualcosa vorrà pur dire. Qualcuno dice che questo chiamare a raccolta i progressisti di destra e sinistra su riforme liberali, garantendo alcuni capisaldi del modello sociale, sulla base di due parole chiave, libertà e protezione, possa essere il futuro del riformismo. Alcuni a sinistra fanno finta di scandalizzarsi si strappano le vesti, spaccano i partiti, spostano indietro le lancette della sinistra. Questioni importanti e apertissime.

Ben vengano simili sostanziose discussioni, sarebbe già tanto che le prossime elezioni politiche avvenissero sulla base di valutazioni di questo livello. Temo invece che si vada o si andrà al voto in un clima banalizzato e drogato, se non addirittura falsato.

Diritti: toccata e fuga della democrazia

Alla sacrosanta ansia di vedere finalmente riconosciuti dalla legge alcuni diritti fondamentali della persona fa riscontro una scarsa attenzione mista a paure ancestrali e tatticismi strumentali da parte del Parlamento e delle forze politiche: in mezzo, bisogna ammetterlo, un po’ per necessità un po’ per esagerazione, ci sta un confuso panorama, talora caratterizzato da pericolose fughe in avanti, che finisce inopinatamente col ritardare ulteriormente l’intervento del legislatore.

È il caso dei bimbi figli di due papà, nati con l’utero in affitto e riconosciuti tali da certi magistrati in vena di sentenze creative. Queste spinte giudiziarie possono avere il sotterraneo e provocatorio intento di smuovere l’inerzia del Parlamento, ma possono finire col creare un clima sbagliato in cui si può avere la sensazione che qualcuno stia cercando di esagerare, abusando dei diritti prima ancora che vengano legalmente riconosciuti.

Il panorama è piuttosto complesso: si va dalle nozze gay alla maternità surrogata, dalla fecondazione in vitro al suicidio assistito, dal testamento biologico all’eutanasia vera e propria.

Il nostro Paese è assai limitato su queste materie: anche i più critici osservatori del Renzismo devono ammettere tuttavia che, nel campo dei diritti civili, i pochi passi avanti fatti (unioni civili e non solo…) sono merito di questo tanto bistrattato governo.

Se i diritti non vanno alla persona, la persona va ai diritti. E allora ecco un vero e proprio pendolarismo, messo in atto da chi si può permettere di aggirare l’ostacolo approdando in quegli Stati in cui la legislazione è molto più “permissiva”. In questi giorni sono state pubblicate vere e proprie mappe geografiche dei diritti civili, entro cui muoversi alla ricerca, in certi casi drammatica, di uno sbocco positivo alle proprie esigenze vitali.

Perché il legislatore italiano fa tanta fatica ad affrontare positivamente queste delicate ma imprescindibili materie? Domanda legittima per rispondere alla quale è necessario sprofondare in una storia fatta di scarsa laicità della politica, dovuta soprattutto ad una scelta strategica errata del PCI, che barattò, in un impossibile ed assurdo compromesso con la Chiesa e con l’elettorato cattolico, la rinuncia ai diritti civili in cambio di attenzione e appoggio sui diritti sociali (l’interclassismo DC però coprì questo campo) e sulla possibilità (ben presto rivelatasi illusoria) di partecipare al governo del Paese. Persino in vista del divorzio si replicò questo schema che venne definitivamente (?) sconfitto. Rimase tuttavia sulla politica italiana il riflesso di questa laicità condizionata, che permane tuttora, nonostante l’atteggiamento assai meno invasivo del Vaticano in clima bergogliano.

Stringi stringi il dibattito parlamentare resta imprigionato fra il bigottismo leale delle Paola Binetti, il puritanesimo strumentale delle Eugenia Roccella, il “crociatismo” populistico della Lega, il solito contrattualistico approccio dei berlusconiani, i tentennamenti pseudo-coscienziosi dei piddini e il velleitarismo dei grillini. Ne sortisce, in Parlamento, un diluvio di bozze, di emendamenti, di discussioni sterili e inconcludenti. A livello giudiziario un maldestro tentativo di coprire gli spazi vuoti. A livello popolare una sostanziale indifferenza all’insegna “dell’ognuno si tenga i suoi problemi, ché io ne ho già abbastanza dei miei”. Il permanente e coraggioso occhio vigile dei radicali non riesce a tener viva l’attenzione nemmeno trasgredendo con l’adozione e l’appoggio di iniziative ai limiti della legalità.

A proposito di Eugenia Roccella, deputata e allora sottosegretaria al Welfare nel governo Berlusconi, che si schierò, a fini meramente demagogici, contro la sentenza sull’interruzione dei trattamenti sanitari a Eluana Englaro, dirò che, durante la mia breve frequentazione di una casa di riposo in cui era ricoverata mia sorella, di fronte a certi drammatici casi di sopravvivenza forzata, mi venne spontaneo esclamare ripetutamente, rivolto alle operatrici impegnate in queste pratiche assistenziali e alle prese con difficoltà enormi: «Andate a chiamare Eugenia Roccella, lei sì che se ne intende e vi può aiutare…». Mi guardavano e non capivano. Forse pensavano che l’ambiente mi stesse contagiando.

Le persone più gravemente malate di quella casa di riposo saranno probabilmente nel frattempo decedute, ma Eugenia Roccella è ancora lì sui banchi parlamentari a pontificare ed a sparare cazzate sul testamento biologico: «È una legge ideologica, che apre all’eutanasia. L’alimentazione artificiale serve a mantenere in vita chiunque, non è una terapia. Se gliel’avessero tolta, Fabo avrebbe potuto morire anche in Italia». Andasse a quel paese, lei e tutte le Roccelle del mondo!

Tornando ai discorsi seri, la legge sul biotestamento sarà nelle aule parlamentari il prossimo 13 marzo: ciò non vuol dire che il discorso si sbloccherà definitivamente. Speriamo in un rigurgito di senso di responsabilità e di coscienza democratica.

Se parliamo di coscienza democratica se ne vedono di tutti i colori. Le stranezze per la democrazia non so se siano il suo bello, ma sicuramente non mancano. Mi riferisco ad esempio al dibattito parlamentare in Gran Bretagna sulla brexit. Ebbene, il governo conservatore di Theresa May ha varato un certo percorso di uscita tendente a contrattare con l’Unione Europea la permanenza dei tre milioni di cittadini europei in territorio inglese a condizioni di ottenere analoghe garanzie per il milione di britannici residenti negli altri Paesi della Ue. Questa procedura compromissoria è stata ampiamente approvata dalla Camera dei Comuni, il rampo parlamentare di elezione popolare e democratica, mentre ha trovato un imprevisto alt nella Camera dei Lord, la camera alta del parlamento britannico, i cui membri non sono eletti bensì nominati, un’assemblea calata dall’alto, rimasuglio di una impostazione istituzionale monarchica e nobiliare. Ebbene i lord hanno votato contro con   ampio scarto. La baronessa laburista   Hayter ha così motivato il suo orientamento rivelatosi maggioritario: «Sarebbe disumano considerare gli Europei che vivono e lavorano tra noi alla stregua di merce di scambio nelle trattative». Un’autentica lezione di democrazia, di accoglienza, di rispetto per le minoranze, di europeismo. Non si sa come andrà a finire la questione specifica, peraltro di grande rilevanza internazionale. Ma l’episodio mi ha fatto riflettere. Ci voleva una baronessa inglese a spiegarci e ricordarci cos’è la democrazia?! Meditate parlamentari italiani, meditate…

La cavalcata delle Valchirie antirenziane

La vicenda giudiziaria che sta avvolgendo Matteo Renzi puzza di prefabbricato lontano un miglio. C’erano le avvisaglie da tempo al punto da far profetizzare a Stefano Folli, opinionista de la Repubblica, parecchio tempo fa, “l’avvio di una fase di ostilità i cui riflessi sono difficili da valutare oggi”. E proseguiva con “Il problema è: Renzi e il suo governo sono in grado di reggere una ripresa di iniziative giudiziarie ad ampio spettro? L’effetto destabilizzante di una tale offensiva non ha bisogno di essere illustrato”.

Ebbene potremmo dire che siamo arrivati al dunque: proprio nel momento di maggior debolezza renziana, dopo la sconfitta al referendum costituzionale, dopo le dimissioni da premier, dopo la spaccatura del partito democratico, dopo l’indizione di un congresso difficile e contrastato, ritornano a galla, con ulteriori elementi, tutti da valutare giudizialmente, ma comunque sbattuti in prima pagina, indagini – con il coinvolgimento, a diverso titolo, del padre, di uno stretto collaboratore nonché ministro e di alcuni amici di Renzi – inerenti un possibile inquinamento affaristico nelle procedure di assegnazione degli appalti da parte della Consip, la centrale unica degli acquisti delle Pubbliche amministrazioni, controllata dal Tesoro e protagonista della metà dello shopping di beni e servizi nel settore pubblico.

Il fatto insospettisce per la cronometrica dinamica innescata, per l’ovvia e immediata cavalcata delle Valchirie politiche nemiche, per il clamore mediatico abilmente confezionato, per il clima da spallata definitiva al tanto odiato personaggio, che ha osato rompere le uova in troppi panieri.

Renzi è indubbiamente stretto d’assedio da due punti di vista: giudiziario e politico.

Sul piano legale fa benissimo a rimettersi totalmente al corso della giustizia, a confermare piena fiducia nell’operato della magistratura, accantonando ogni e qualsiasi dubbio sul protagonismo dei giudici, senza cedere alla tentazione dell’asse antigiudiziario, senza ricadere minimamente nell’errore caratteristico del berlusconismo di cui porteremo le nefaste conseguenze per sempre.

Resta tuttavia, sul piano politico, il dubbio atroce, abilmente sollecitato e coltivato dagli antirenziani sparsi dappertutto, che possa essersi venuto a creare, direttamente o indirettamente, in capo a Matteo Renzi un ganglio affaristico condizionante certi importanti rapporti tra politica e mondo imprenditoriale. Questa situazione non so se sia affrontabile e dipanabile facendo solo ricorso al (giusto) garantismo universale o se necessiti di qualche altro intervento. E se sì, quale.

Occorre, a mio giudizio, fare una cospicua premessa. La Costituzione Italiana all’articolo 54 recita testualmente: «I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge». Siccome i costituenti erano bravi e lungimiranti, ma non capaci di fare miracoli, non potevano prevedere chi e come si sarebbe potuta operare una verifica al riguardo.

Vedo, quindi, sostanzialmente, due strade percorribili: una in salita e una in discesa. La prima, quella più impervia e difficile, consiste nel chiarire per filo e per segno, nei limiti del possibile, le situazioni, non tanto quelle oggetto di inchieste giudiziarie, ma quelle di base: quali rapporti esistevano con questi personaggi e questi mondi presi di mira dalle inchieste; quali precauzioni sono state adottate per evitare intromissioni e deviazioni; quali regole vigevano nei rapporti con i collaboratori più stretti e con la struttura burocratica del governo; c’erano e, se c’erano, quali sforzi si sono fatti per illuminare il più possibile le zone d’ombra che potevano e possono sussistere nei rapporti tra il governo del Paese e i più forti interessi economici. Domande tutt’altro che retoriche e scontate. Credo che i cittadini, al di là delle indotte tentazioni dell’anti-politica, abbiano il diritto-dovere e forse anche il desiderio di capire, prima di giudicare. Aiutiamoli a farlo.

Vengo alla seconda strada, quella in discesa, quella che taglierebbe la testa al toro, quella dell’aprire improvvisamente la porta quando in molti spingono per abbatterla. Farsi da parte in attesa che la magistratura chiarisca e ristabilisca la verità. Non un atto di resa, ma di rispetto verso i cittadini e le istituzioni. Si dirà che così facendo si finisce con l’ammettere errori od omissioni, col dare soddisfazione a chi aveva l’esclusivo intento di distruggere una prospettiva politica: può essere vero, ma sarebbe anche il modo per spostare (innalzare) il discorso dallo scontro politico avvelenato, dalla palude delle contestazioni reciproche al senso di responsabilità del mettere in primo piano gli interessi del Paese e le difficoltà che sta vivendo.

Sono personalmente un “dimissionista” spinto e quindi perfettamente consapevole di aggiungere e sovrapporre una mia predisposizione psicologica all’analisi obiettiva di una situazione delicata e complessa. D’altra parte ho affrontato con sano realismo il discorso in tutti i suoi possibili sbocchi.

Non nascondo di essere ancor più infastidito dal clima di grilloparlantismo che si è venuto a creare sull’operato del governo Renzi in questi tre anni: in troppi tranciano giudizi sommari, superficiali e parziali. In poche parole Renzi doveva fare tutto, presto e bene, mentre i suoi predecessori hanno fatto poco, spesso lentamente e talora male. Ma di questo, semmai, parleremo in una prossima ravvicinata occasione. Ad ogni giorno basta la sua pena.

Le ossessioni europee

Di fronte a un problema importante, delicato e complesso, come quello dei rapporti con l’Unione Europea, si stanno consolidando due atteggiamenti radicalmente negativi e pericolosi: da una parte l’ostilità dell’antieuropeismo sostanzialmente motivato dal vivere il legame con la Ue come una cappa burocratica opprimente; dall’altra la rassegnata e sofferta autocolpevolizzazione per i conti pubblici in disordine, soprattutto rispetto ai parametri fissati in sede europea.

A ben pensarci, sono le due facce della stessa medaglia, che ci confina ai margini della comunità europea col rischio di vivere fermi sulla soglia pronti ad uscire o ad essere buttati fuori.

In questo periodo, al di là del pilatesco “libro bianco” delle buone intenzioni di Jean-Claude Juncker, troppi personaggi, commissari, tecnici, economisti, quasi sempre in evidente contrasto fra di loro, ci offrono le loro ripetizioni dopo averci continuamente rimandato al prossimo e ravvicinato esame: chi muore rigoristicamente dalla voglia di bacchettarci, chi cerca flessibilisticamente e paternalisticamente di allungarci una mano, pochi rispettano i nostri problemi e le nostre capacità.

Tutto sommato penso a volte che il nostro obiettivo “sgarrare” rispetto ai parametri del debito pubblico e del deficit di bilancio sia non solo l’occasione per contenerci entro i limiti della convivenza economico-finanziaria, ma il pretesto (?) per giudicarci e relegarci nella fascia dei partner inaffidabili e pericolosi.

La nostra immediata e orgogliosa reazione dovrebbe essere quella che ci suggeriva spesso il presidente Sandro Pertini: l’Italia non è prima né seconda a nessuno! Poi però bisogna anche ammettere che chi è causa del suo mal deve piangere su se stesso.

Mi riferisco all’esito del recente referendum sulle riforme costituzionali. Ci eravamo faticosamente costruiti una certa e ragionata credibilità avviando un virtuoso percorso di rinnovamento strutturale del nostro Paese, dal mercato del lavoro alla pubblica amministrazione, dalla giustizia ai diritti individuali, dall’economia alle istituzioni. Lo abbiamo bruscamente e scriteriatamente interrotto e riprenderlo non sarà facile, pur con tutto il rispetto per Paolo Gentiloni ed il suo governo (che non è affatto una fotocopia del precedente).

Abbiamo altresì dissipato, con quello sbrigativo ed irrazionale No, un piccolo patrimonio di autorevolezza riferibile anche “all’euforico carisma renziano” ed alla sua capacità di rapportarsi alla pari con i partner europei, persino i più sussiegosi, e con le forze politiche del socialismo a livello continentale.

Tutto si è fatto più difficile, ci siamo messi in stand by e ne soffriamo le conseguenze. A livello europeo si stanno sicuramente chiedendo: dove va l’Italia del (quasi) dopo-Renzi? E noi cosa rispondiamo? Per il momento siamo stati in grado di garantire una minimale continuità di governo (Gentiloni, ma soprattutto Padoan), un rigoroso rispetto istituzionale e costituzionale (Mattarella) assieme ad una situazione politica estremamente incerta (le divisioni e fratture del PD) e con prospettive inquietanti (i lepenisti nostrani si chiamino Salvini o Grillo).

Questa situazione dovrebbe o potrebbe teoricamente perdurare fino alla scadenza naturale della legislatura: oltre un anno di problematica continuità all’insegna dell’instabilità. Può bastare? Comincio seriamente a dubitarne.

Dobbiamo ammettere quindi che sulla data delle prossime elezioni politiche non influisce solo la necessità di avere una seria legge elettorale, di affrontare i problemi e gli appuntamenti urgenti, di decantare le scaramucce politiche di vario tipo, di superare i malumori del dopo-referendum cercando magari di evitare i referendum che si profilano all’orizzonte. Teniamo conto anche dell’Europa. È pur vero che altri Stati Europei sono in stand by in attesa dell’esito di incertissime consultazioni elettorali (Olanda, Francia, Germania), ma l’Italia all’incertezza del suo quadro politico aggiunge quella della sua situazione economico-finanziaria. Una zeppa che probabilmente non ci possiamo permettere.

Sono sempre stato piuttosto perplesso sul ricorso anticipato alle urne, perché ho sempre ritenuto che comportasse un aggravamento dei problemi assieme ad una complicazione nella loro soluzione: la democrazia non è solo votare e rivotare. Questa volta ammetto di essere molto più possibilista sul voto anticipato, complice l’Europa con le sue provocatorie ma ineludibili reprimende.

 

 

Il fine-vita e la fine di una certa Chiesa

Il cardinale Carlo Maria Martini non era certo un porporato che amasse il proscenio e che sparasse giudizi avventati o immotivati: era uomo di grande equilibrio, ma coraggiosamente profetico. Quando diceva che la Chiesa era indietro di cento anni rispetto al mondo contemporaneo, rendeva perfettamente l’idea dei ritardi culturali, teologici e pastorali che ne zavorrano la vita.

Durante il papato di Ratzinger, alla cui elezione aveva probabilmente contribuito sulla base di un patto di compromesso che almeno smussasse gli angoli più acuti e pericolosi della dottrina e della prassi cattolica (qualcuno parlò di un vero e proprio lodo, redatto da padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia), il cardinal Martini ogni tanto, soprattutto in corrispondenza di certi atteggiamenti retrogradi emergenti nelle alte sfere vaticane, si sentiva in libera uscita e diceva la sua, senza troppi freni con interviste e interventi sulla stampa laica.

Ricordo che, quando venivo confortato da questi pronunciamenti autorevoli, immaginavo il dramma interiore di questo ammirevole ed autorevole uomo di Chiesa: davanti a certi rigurgiti reazionari, a certe posizioni assurdamente dogmatiche, per non dire burocratiche, probabilmente adempiva al dovere di tenere accesa la lampada conciliare, dimostrando l’esistenza di un sano pluralismo ed evidenziando l’esigenza di un profondo rinnovamento (se non erro non escludeva neppure la celebrazione di un nuovo concilio).

È vero che il cammino del popolo di Dio, emergente dalla Bibbia e dalla tradizione cristiana, è illuminato dai profeti, i quali hanno fatto tutti, più o meno, una brutta fine ed hanno visto le loro ragioni riconosciute a distanza di parecchio tempo. Niente di nuovo quindi sotto la cupola e sopra la cattedra di S. Pietro. I ritardi sono, oserei dire, connaturali alla Chiesa Istituzione, alla religione quando si allontana dall’ispirazione della fede (il Vangelo) per battere i sentieri dei principi e delle regole, ai cristiani quando intendono saperne e dirne più di Cristo stesso.

Lavorando di fantasia mi piace pensare al cardinal Martini che dall’aldilà, nel 2013, dialoga fittamente niente meno che con lo Spirito Santo e lo convince ad intervenire: la misura della necessità di rinnovamento è colma. Arrivano le improvvise, ma meditate e lungimiranti, dimissioni di Benedetto XVI e poi la nomina a papa di Bergoglio, il quale già con la scelta del nome e coi primi gesti dà l’idea dell’inizio di una nuova fase nella vita della Chiesa cattolica.

Dagli approfondimenti in cui mi sono cimentato, in materia di sessualità e di etica in genere, mi sono creato un’idea sul significato del pontificato bergogliano e sulla svolta da lui impressa. I passi avanti ci sono stati, non tanto nel merito delle questioni delicatissime tuttora aperte, ma nello stile per affrontarle e viverle. Faccio due esempi.

La pratica omosessuale e le unioni fra omosessuali non sono state sdoganate da millenni di oscurantismo, ma è cambiato tuttavia l’approccio della Chiesa verso queste sorelle e questi fratelli, che non vengono più giudicati ma accolti, condannati ma compresi, emarginati ma inseriti.

Oggi, in pieno pontificato di Francesco, a Piergiorgio Welby non sarebbe stato negato il sacrosanto diritto di un funerale religioso in nome di un fantomatico e farisaico rispetto della vita.

Potrei continuare con i divorziati, per i quali non si ha ancora il coraggio di una promozione piena e totale nelle loro nuove esperienze sentimentali, ma si è rispolverata una prassi (quasi) uscita dalla porta scolastica e rientrata dalla finestra curiale, vale a dire una sorta di giudizio d’appello dopo apposito corso di recupero. Almeno, questi cristiani non si sentiranno più bollati e segnati a dito come avveniva in un passato anche recente.

Non siamo ancora arrivati alla meta, resta sempre quel non so che di calato dall’alto, proprio l’esatto contrario dell’essenza del cristianesimo, che non è una gentile concessione di un Dio giudice, ma la totale incarnazione di Dio nella vita umana.

Provate a pensare tuttavia cosa sarebbe probabilmente successo prima del pontificato di Francesco, davanti all’episodio drammatico e sconvolgente di Fabiano Antoniani. Oggi il Papa ha taciuto sul punto, mentre gli esponenti più in vista della CEI si sono esercitati in felpate dichiarazioni: nessuna aperta condanna, ma solo il richiamo al dono della vita (che vuol dire tutto e niente). Anche il cosiddetto giornale dei vescovi, Avvenire, sta tenendo un atteggiamento dialogante ed equilibrato.

Il teologo e giornalista Gianni Gennari, non certo un rivoluzionario in materia ecclesiale e religiosa, ha dichiarato: «Che ci sia un clima nuovo nella Chiesa mi pare evidente. Il clima è quello dell’integrare, del dare assistenza, dell’essere vicini anche a chi eventualmente avesse deciso di morire, come ha detto Papa Francesco pochi giorni fa riferendosi all’accoglienza che i sacerdoti devono riservare alle coppie che convivono. Non scordiamoci che Gesù si è fatto dare un bacio da Giuda. Per quale motivo? Perché non giudicava, ma amava. È un clima che Francesco ha portato nella Chiesa ereditandolo da Papa Giovanni, dal Concilio, in ultima analisi dallo stesso Vangelo. Risiede qui, anche, il motivo delle resistenze mossegli da coloro che pensano di avere il diritto di decidere chi deve stare dentro e chi fuori della Chiesa. Mentre il Signore è venuto per i peccatori e la salvezza è aperta a tutti».

Si tratta sicuramente di un bel passo avanti, che però non mi soddisfa pienamente. Per spiegarmi meglio riporterò un episodio accadutomi molti anni or sono. Ai tempi del referendum sul divorzio, come redattori del settimanale diocesano “Vita Nuova”, chiedemmo un incontro al Vescovo e ci fu concesso: fu chiarificatore ma in senso negativo. Il Vescovo ribadì che a suo giudizio noi (favorevoli all’istituzione del divorzio) eravamo totalmente fuori strada e, pur concedendoci la buona fede, ci considerava ai limiti della comunione ecclesiale: stavamo sbagliando, dovevamo riconoscerlo. A quel punto ricordo di essere intervenuto rincarando la dose ed affermando come ritenessi di avere diritto ad esprimere il mio parere anche su questioni di carattere ecclesiale, più che mai su questioni politiche anche se collegate a problemi etici e come non tutta la gerarchia fosse schierata sulle posizioni assunte così rigidamente dal Vescovo. Gli dissi precisamente: “Sappia monsignore che non tutti i suoi confratelli nell’episcopato la pensano esattamente come Lei!”. La riposta fu: “Non è vero!”. Si chiuse negativamente l’incontro anche e soprattutto perché non si era creato un vero clima di dialogo.

Dal 1974 ad oggi, dal vescovo di Parma mons. Amilcare Pasini all’ odierno mons. Enrico Solmi, da papa Montini a papa Bergoglio, in materia di sessualità e di etica con tutti gli annessi e connessi, è cambiato qualcosa? Nello stile di dialogo e nell’approccio pastorale sì, nel merito dei problemi siamo ancora purtroppo dentro al parametro di Martini (cento anni di ritardo).

D’altra parte, papa Bergoglio, pur essendo un convinto ed autorevole seguace di Martini al punto da esserne il candidato papa in pectore, non è il papa quale avrebbe potuto essere   Martini.

In cauda venenum. Una cosa è certa. Al di là di tutti gli stucchevoli dibattiti in corso, la triste realtà rimane la seguente. L’unico suicidio assistito ammesso in Italia è quello dei carcerati, che si tolgono la vita nelle loro celle, nell’indifferenza burocratica, politica, istituzionale ed ecclesiale (con l’unica eccezione del partito radicale). Un modo, il peggiore possibile, per consentire la fine della vita tramite un drammatico gesto di autodeterminazione personale.

 

 

 

Due mesi di passione per il Partito Democratico

Se, come scrivevo ieri, per il movimento dei democratici progressisti (i protagonisti della scissione) è cominciata la “quaresima” degli equivoci, per il partito democratico è iniziato, in netto anticipo sul calendario liturgico, il periodo di “passione”, un congresso partito nel segno delle tessere comprate e dei colpi bassi tra i candidati.

Durante il periodo della mia militanza nella DC, ormai purtroppo lontano, a significare la mia inesorabile età piuttosto avanzata (sono vecchio insomma!), mi capitò di svolgere la funzione di segretario di una importante sezione periferica di partito: gli avversari interni la chiamavano sezione vietcong, in quanto era gestita da un gruppetto dirigente appartenente alla corrente di sinistra, che dava qualche grattacapo al livello provinciale dominato dalle correnti di centro (li chiamavano dorotei in senso piuttosto spregiativo, anche se in realtà il motivo era dovuto al fatto che quella grossa corrente democristiana si era formata alla fine degli anni cinquanta in antitesi ai fanfaniani, riunendosi a Roma in un convento dedicato a Santa Dorotea).

Le operazioni del tesseramento erano purtroppo condizionate e talvolta inquinate dal gioco correntizio e soprattutto da certi bruttissimi meccanismi clientelari facilmente immaginabili: i gruppi di potere tentavano di contare sempre di più rafforzandosi a suon di tessere. Durante un periodo di tesseramento piuttosto vivace volli procedere ad una verifica molto semplice, in quanto temevo che queste adesioni fossero troppe, ingiustificate e magari fasulle. Presi le nuove domande di ammissione e andai, accompagnato da un altro componente del direttivo sezionale, a far visita a questi aspiranti soci presso le loro abitazioni. Ebbene i dubbi si rivelarono, in parecchi casi, certezze: adesioni di cui gli interessati non sapevano nulla o su cui comunque non erano d’accordo, firme falsificate, etc. etc. Partirono denunce ai probiviri con proposte di espulsione per gli iscritti che avevano avallato queste domande fasulle. I probiviri non si riunirono mai e rimase comunque intatto questo antico costume volto a condizionare irregolarmente gli equilibri interni di partito.

In questi giorni, manco a farlo apposta, non appena si è sentito l’odore di congresso, all’interno del PD, soprattutto in aree meridionali (Campania, ma forse non solo in questa regione), sono scoppiati i casi di tessere comprate, di tessere on line pagate tutte dalla stessa persona, di sospetti boom di tessere in certe zone, di volate finali all’accaparramento di nuovi iscritti. Niente di nuovo sotto il sole. Ricordo come, ai tempi sopra evocati, il tesseramento DC toccasse punte incredibili nei periodo ante-congressi, mentre segnava il passo nei periodi congressualmente morti.

I personaggi più critici verso la gestione renziana del PD agganciavano le loro critiche anche al calo di tesserati in atto da qualche tempo: sembra non sia proprio così. Il tesseramento 2016 conclusosi in questi giorni avrebbe visto una aumento del 5%, passando dai 385.320 del 2015 ai circa 400 mila del 2016. Differenze oltretutto abbastanza omogenee tra nord, centro, sud e isole.

Mi auguro che il recupero non sia avvenuto solo ed esclusivamente sull’impulso dato dalle clientele pre-congressuali: forse esageravano gli anti-renziani, forse ballano nel manico i sostenitori-organizzativi dei tre candidati alla segreteria.

Poi c’è il solito Massimo D’Alema che sparge veleni alla sua maniera: «Le primarie non sono una cosa seria. Sono una specie di Festival di Sanremo. Vedrete che a Salerno voterà più gente che a Genova. Questa volta oltre a Forza Italia andranno a votare Renzi anche i Cinquestelle che mi hanno detto: noi ci stiamo mobilitando perché con Renzi segretario siamo sicuri di vincere le elezioni». Ma i potenziali scissionisti non avevano chiesto a gran voce un congresso di rivincita? e adesso che sono fuori dal partito il congresso è diventato il festival di Sanremo. Le primarie non dovevano servire proprio ad evitare i giochi di corrente e le battaglie di apparato? ed ora le squalificano in partenza, dando per scontate intromissioni spurie e strumentali.

Lasciamo perdere poi i grillini che i congressi li fanno nell’ufficio della Casaleggio e c., che le primarie le tengono sul web con la partecipazione di risibili quantità di simpatizzanti e che bevono (forse sempre meno per la verità) il verbo vaffanculeggiante del Beppe, loro padrone assoluto.

Mentre Berlusconi ha una paura folle delle primarie, dice peste e corna dei suoi tradizionali uomini e si diverte a rompere i coglioni ai potenziali partner di coalizione.

E questi sarebbero i censori del PD, capaci di sventolare cartellini rossi in faccia ai democratici? Ma fatemi il piacere. Lo dice uno che si è allontanato dal PD, rendendosi conto che questo partito rischiava e rischia di avere tutti i difetti della vecchia Democrazia cristiana, senza averne i pregi. Ma a tutto c’è un limite, dettato almeno dal buongusto.

Torniamo ai democratici. Ci sono anche le prime scaramucce tra i candidati, che non lasciano sperare niente di buono. Michele Emiliano, contestato per il suo ormai storico balletto tra magistratura e politica, si difende sposando senza alcun pudore le cause populiste (sarebbe meglio dire qualunquiste) più spinte: niente compenso per i politici, come a Cuba. Andrea Orlando, ministro della giustizia, fa finta di non aver appoggiato Renzi in questi anni e si atteggia a interprete perbenista dello scontento dall’interno, strizzando l’occhio ai fuorusciti. Matteo Renzi, al quale non verranno certo risparmiati colpi bassi (Emiliano ha già cominciato, spifferando ai giornali certi sms compromettenti per gli amici e i parenti di Renzi), e che vedo più a suo agio nei panni di un premier d’assalto che di un segretario di sintesi, avrà vita molto più dura di quanto pensasse e credo affronterà la kermesse all’insegna del motto “la miglior difesa è l’attacco”.

Da ultimo arriva il novantenne Rino Formica, grosso esponente craxiano doc, a fare, con una certa arguzia (bisogna ammetterlo), le pulci a Renzi e al PD. Renzi, a suo dire, sarebbe ostaggio degli ex-democristiani annidati nel partito democratico, non avrebbe cultura politica, sarebbe il prototipo del provinciale che va in città, quello che entra nel negozio di lusso e tocca la merce, l’annusa… Per fortuna aggiunge che Luigi Di Maio avrebbe la dimensione politica del consigliere comunale. Da ultimo confessa di scrivere e leggere, ben sette giornali al giorno. Forse sarebbe ancora in tempo per riflettere seriamente sui disastri del craxismo o almeno per leggere, scrivere e…tacere.

 

 

La quaresima dei Democratici Progressisti

È cominciata la quaresima, quella seria, prevista dal calendario liturgico della Chiesa cattolica, ma è partita anche quella poco seria del PD e del DP (la sua costola rotta).

Mentre il partito democratico ha iniziato la celebrazione del suo incasinato congresso, i democratici e progressisti, diciamo pure, per capirci meglio, gli amici di Bersani e D’Alema, stanno infarcendo di luoghi comuni l’inizio del loro problematico cammino.

Hanno cominciato subito a giocare sull’equivoco del nome (DP contra PD). I segretari del vecchio PCI non si volevano confondere con i loro avversari di sinistra al punto che nelle tribune elettorali si presentavano con un grosso cartello del loro simbolo: volevano chiaramente dire che i veri comunisti erano loro e consigliavano di diffidare dalle imitazioni. I promotori della scissione in casa democratica invece scelgono una sigla fatta apposta per creare ulteriore confusione, probabilmente nella speranza che qualcuno cominci da subito a confondersi.

Anche il nome “democratici e progressisti” non è di grande fantasia. Francesco Rutelli sostiene che l’aggettivo “democratico” era stato messo in campo per significare il coagulo delle forze di varia ispirazione, collocabili in una sinistra non ideologica e liberal (all’americana insomma). Quindi, niente di nuovo si direbbe. L’aggettivo progressisti, in aggiunta, è quasi pleonastico e tende solo a screditare chi si chiama solo democratico e viene pertanto considerato “regressista”, se non addirittura reazionario, molto peggio quindi di riformista o moderato (la storia si ripete: Turati, Saragat, Nenni si rivoltano nella tomba…).

Ai DP sono venuti in immediato soccorso i precipitosi fuorusciti dall’appena nata Sinistra Italiana (Si), una brutta sigla con le arie che tirano dal 04 dicembre scorso in avanti. A livello parlamentare sono quasi il 50% di questo nuovo movimento. Sì, perché l’altro equivoco luogo comune è che si tratterebbe non di un partito, ma di un movimento: quale sia la differenza non mi è dato di capire. Se non fossero presenti nelle Istituzioni potrebbe anche essere un discorso credibile, ma dal momento che stanno contandosi a tutti i livelli istituzionali possibili e immaginabili, non vedo quale possa essere la distinzione, se non quella di buttare ulteriore fumo negli occhi al popolo della sinistra già fin troppo disperso nella nebbia.

Poi c’è il certificato di nascita: figlio di…n.n. A chi tenta di dare una paternità responsabile a questa manovra viene sistematicamente risposto di No. D’Alema: i DP non c’entrano niente con le sue smanie vendicative. Bersani: è uno dei tanti (?), che vogliono solo rispolverare l’orgoglio della vera sinistra di popolo. Rossi e Speranza: lasciamo perdere, sono occasionali protagonisti di una battaglia ben più profonda e articolata. Emiliano si è eclissato. Cuperlo è rimasto dentro il Pd, disallineato e scoperto. Allora insomma, questa scissione chi l’ha voluta? Renzi! Già dimenticavo che Renzi è il responsabile di tutto quello che non va, però in questo caso allora non va nemmeno il Dp…

E cosa faranno nei confronti dell’attuale governo? Lo appoggeranno convintamente seppure cercando di portarlo su posizioni più di sinistra. Ma, quando il governo Gentiloni era appena nato, Bersani e c. non dicevano di concedergli solo una fiducia minuto per minuto, provvedimento per provvedimento? Come si diceva sopra, Bersani non è il pater familias e poi questo governo serve a prendere tempo e quindi va benissimo.

In prospettiva, dal momento che i DP si dichiarano movimento di lotta e di governo, con chi pensano di allearsi per governare, per il semplice fatto che difficilmente avranno da soli la maggioranza in Parlamento? Col Partito democratico, a condizione che il segretario non sia più Renzi e che i programmi cambino in modo sostanziale. Un movimento-partito quindi che fa il tifo contro, roba da anti-renziani convinti, come gli anti-juventini nel calcio: l’importante è che non vinca Renzi, poi, se per caso vincerà il centro-destra, pazienza e, se dovesse prevalere Grillo, tutto il mal non verrebbe per nuocere.

E nelle regioni e nei comuni in cui i DP sono in maggioranza con gli odiati ex compagni cosa succede? Per il momento niente, stanno ad aspettare perché pensano di avere un grosso consenso a livello territoriale e quindi…

E con l’Europa come la mettono? Vogliono recuperare le fasce di popolazione che sono o si sentono emarginate, ma queste votano per i populisti, che a loro volta sono antieuropeisti.

Allora bisogna essere europeisti che vogliono riformare l’Europa. Ma non ha sempre detto e fatto così in primis proprio Renzi. Sì, ma…

Evviva la chiarezza!