Così è se vi pare

Sono diverse e talora opposte le reazioni dei commentatori politici alle plurime iniziative giudiziarie del dopo-referendum. Cosa c’entra il referendum? C’entra a detta un po’ di tutti, ma in particolare di chi teme che, nella difficile situazione di quasi-vuoto politico venutasi a creare, si possa profilare “la repubblica dei Pm”, roba successa in concomitanza della valanga della prima tangentopoli degli anni novanta (finì col favorire l’avvento del berlusconismo), e di chi auspica che l’iniziativa giudiziaria possa spazzare via i rimasugli del renzismo, fare piazza pulita degli illegittimi occupanti delle istituzioni e costringere gli elettori a votare scegliendo non tra destra e sinistra, tra centro-destra e centro-sinistra, ma tra giustizialisti e garantisti, tra populisti e parlamentarismi, tra buoni e cattivi, tra onesti e corrotti.Oggi, non capisco se con soddisfazione o con sconcerto, qualcuno sostiene che il sistema Italia non funzioni più e che questa triste realtà sia stata evidenziata se non accelerata dall’esito del referendum a cui viene ormai ascritto tutto e il contrario di tutto: crisi governativa, disorientamento del Pd, la Capitale morale schizzata di fango, la Capitale vera senza capo, ma in compenso alle prese con una triste coda di malaffare.Ebbene sono convinto che la vittoria del No, oltre che scoperchiare pentole già in ebollizione, abbia svuotato queste pentole da ogni barlume di valida cottura, buttando fuori dalla cucina il cuoco e le sue ricette, gettando nella spazzatura tutto ciò che poteva essere commestibile, ripiegando su cibi preconfezionati senza sapore e senza valore nutritivo.Ma lasciamo perdere il referendum e facciamo un passo indietro di millenni. La Bibbia racconta come il popolo di Israele, quando era caduto nel gorgo della corruzione e dell’illegalità, si sia affidato ai Giudici: qualcuno sta facendo appunto il tifo per i giudici affinché, direttamente o indirettamente, possano influenzare beneficamente la politica. Questo qualcuno magari ha votato e fatto votare No al referendum sulle riforme costituzionali (e dalli…) per difendere l’assetto istituzionale della Carta da fantomatici attacchi autoritari ed ora la Carta se la mette sotto i piedi (o ancor peggio…), auspicando una intromissione della Magistratura nel campo altrui alla faccia dell’indipendenza dei diversi poteri. Una delle tante contraddizioni del fronte del No, che, strada facendo sta sempre più dimostrandosi un’accozzaglia inaffidabile (Renzi non lo doveva dire per rispetto del galateo elettorale, ma adesso si può dire, anzi si deve dire…), arrivando ad ipotizzare, forse per farsi perdonare il casino provocato, una perdurante azione di stimolo (direi ricatto) sulle istituzioni e sull’elettorato.Resto fortemente convinto dell’assoluta necessità che la magistratura stia rigorosamente al suo posto ed eviti accuratamente ogni e qualsiasi intromissione diretta o indiretta nella politica. Dico di più, dovrebbe essere preoccupazione dei giudici usare tempi e modi che non possano minimamente influenzare il dibattito politico e i giudizi dell’opinione pubblica.In questo momento storico, a differenza di un passato non troppo lontano, non vedo la necessità di fare quadrato intorno alla magistratura e men che meno di supportare sue azioni offensive/difensive nei confronti del potere legislativo ed esecutivo a tutti i livelli territoriali.Di fronte alle iniziative giudiziarie di Roma e Milano (riapertura dell’indagine sul maxi-appalto Expo già precedentemente archiviata, riguardante anche e non solo Giuseppe Sala oggi sindaco di Milano; indagine sull’assessora romana all’Ambiente, Paola Muraro, sequestro di documenti riguardanti le procedure di certe nomine in Campidoglio, arresto di un alto funzionario capitolino), le reazioni dei politici direttamente o indirettamente coinvolti sono state diverse.Il sindaco di Milano si è autosospeso dalla carica intendendo rimettersi fin d’ora alle decisioni della Magistratura, nel massimo rispetto delle sue indagini e dando alla pubblica opinione un segnale di assoluto distacco dalla poltrona in attesa degli sviluppi dell’inchiesta a suo carico, peraltro assai confusa ed in balia dei tira e molla dei padreterni della procura milanese (non ho capito, dopo aver letto con molta attenzione i giornali, se Sala sia indagato per avere sbrigativamente gestito una gara d’appalto ed assegnato i lavori oppure per aver tentato di favorire qualche potenziale concorrente alla gara stessa oppure per aver meramente retrodatato un atto al fine di snellire le procedure condizionate dai tempi stretti di realizzo delle opere).La sindaca di Roma non ha ritenuto di fare alcun passo indietro, considerandosi non coinvolta nei provvedimenti da cui è oggettivamente accerchiata, ammettendo errori però non tali da portarla alle dimissioni.Le opposizioni nei due casi, per la verità politicamente assai diversi, hanno tenuto atteggiamenti critici ma opposti: a Milano il centro-destra vorrebbe che Sala rimanesse al suo posto senza indulgere a scelte filo-giustizialiste e istituzionalmente sui generis; a Roma il Pd e tutti gli altri gruppi di opposizione chiedono a gran voce le dimissioni di Virginia Raggi, che in questi mesi ne avrebbe combinate di tutti i colori senza affrontare minimamente gli enormi problemi della capitale.Se devo essere sincero ritengo che entrambi i sindaci debbano rimanere in questo momento al loro posto, perché c’è in ballo innanzitutto l’autonomia della politica, che non deve fare da cassa di risonanza alle inchieste giudiziarie, ma prendere atto solo dei provvedimenti conseguenti e/o delle relative sentenze.Condivido pienamente quanto afferma Piero Bassetti, imprenditore, ex politico di grande livello, che, al di là del giustificare la scelta di Beppe Sala (io la comprendo, la apprezzo, ma non avrei ceduto anche perché un gesto di notevole spessore etico rischia di essere considerato un atto di irresponsabilità verso gli obblighi amministrativi milanesi), indica con estrema lucidità la patologia nei rapporti tra politica e magistratura: «Una classe politica non può governare se è subordinata a un potere come quello giudiziario, che qualche volta è discrezionale. Non ci deve essere un livello di giudizio politico affidato all’ordine giudiziario, se il potere giudiziario vuole sovrapporsi deve accettare di avere la stessa tempestività dell’azione di governo».Resto invece molto perplesso di fronte all’analisi parziale, semplicistica e moralisteggiante al limite della pedanteria, di Stefano Rodotà, il quale, partendo dallo sviscerato amore che avrebbero dimostrato i cittadini verso la Costituzione con il loro No in massa (ma mi faccia il piacere…), considera e sopravvaluta demagogicamente l’obbligo, previsto dalla Carta all’articolo 54, di svolgere con onore le funzioni pubbliche, giustificando così manicheisticamente le clamorose intromissioni politiche della magistratura: sarebbero dovute alla sua solitudine rispetto al degrado politico incalzante e dilagante, all’inerzia degli altri soggetti deputati al controllo, alla conseguente necessità quasi automatica di costituire un vero e proprio “tribunale della politica”. Tutta colpa della politica essere arrivati a questo punto di squilibrio democratico. Mi permetto di aggiungere che la politica ha certamente enormi responsabilità, ma non mi sento di dividere la lavagna fra buoni e cattivi, iscrivendo i politici fra i cattivi e i giudici fra i buoni. Anche la magistratura ha le sue grosse responsabilità, le sue colpe, le sue inefficienze, i suoi enormi ritardi, i suoi ingiusti privilegi, i suoi condizionamenti corporativi, il suo conservatorismo, le sue paure.Diverso è il discorso squisitamente politico: Milano sembra decentemente amministrata, mentre Roma naviga nel caos amministrativo. Non credo tuttavia a Milano capitale italiana del buongoverno contrapposta a Roma cloaca del malgoverno: i discorsi e i giudizi devono essere più approfonditi (non dimentichiamo che craxismo e berlusconismo, nella loro portata degenerativa sulle istituzioni centrali e periferiche, ebbero culla in quel di Milano, laddove si spartivano tangenti anche sui loculi cimiteriali).Concedo a Virginia Raggi tutte le attenuanti del caso (le malefatte delle amministrazioni precedenti, gli errori pregressi, etc. etc.). Vedo tuttavia una impreparazione ed una inesperienza inquietanti, considerato il fatto che il movimento cinque stelle sapeva di essere il candidato quasi naturale a governare la capitale e si è fatto trovare con le dita nella marmellata dei giochi di potere provenienti da un lungo passato con cui avrebbe dovuto recidere ogni e qualsiasi legame. Resta tutto da verificare se sia soltanto questione di inesperienza o se ci sia anche una presuntuosa e frettolosa smania di navigare nei meandri della politica. All’interno del movimento cinque stelle è aperta una forte polemica su questo fronte, ma Virginia Raggi resiste agli assalti dei nemici e degli amici (Grillo compreso). Forse i suoi legami col passato dovevano servire a renderla impermeabile al durissimo vaglio grillino? Non capisco l’arrendevolezza di Grillo, la sua infinita sopportazione messa a confronto con la durezza usata verso altri esponenti del movimento (Federico Pizzarotti, ma non solo lui), rei di aver commesso peccati ben più veniali rispetto a quelli accumulati dalla sindaca capitolina in così poco tempo. Probabilmente è una questione d’immagine da salvare. Opportunismo bello e buono.Prescindendo da discorsi di merito sulla complessiva credibilità della linea di antipolitica pentastellare (sulla cui totale inaffidabilità non ho mai avuto dubbi di sorta), trascurando i richiami grilloparlanteschi di parecchi ammiratori bruscamente pentiti (si sta sgretolando il fronte filo-grillino più per le picconate giudiziarie, che per un ragionato recupero di spirito critico), se da una parte capisco possa essere duro ammettere enormi limiti politico-amministrativi ormai sotto gli occhi di tutti, dall’altra credo sia estremamente pericoloso vivacchiare a Roma per bellamente candidarsi a governare il Paese. Rischiando persino di dover ingoiare brutti rospi e di non poter più gridare a squarciagola “onestà! onestà!”. Non è un caso che in concomitanza con l’arresto di Raffaele Marra sia stata frettolosamente annullata la dimostrazione di fronte alla sede del Monte Paschi di Siena e rinviata sine die la manifestazione d’appoggio ai no-tav: la credibilità comincia a scricchiolare? Non ci godo, ma ne prendo atto.

L’autostrada dell’antipolitica e le scorciatoie giudiziarie

Il sindaco di Milano Giuseppe Sala è indagato per il maxi-appalto Expo, risalente al 2012 quando l’attuale primo cittadino milanese era amministratore delegato dell’ente titolare del grande evento fieristico mondiale.Paola Muraro, assessora all’ambiente della giunta capitolina giuidata dalla sindaca Virginia Raggi, dopo un lungo tira e molla si dimette in quanto indagata per reati ambientali nel periodo in cui ricopriva importanti incarichi tecnici a livello del settore rifiuti della capitale; la guardia di finanza entra in Campidoglio per sequestrare documenti relativi alle nomine fatte dalla giunta Raggi, nomine assai chiacchierate e in odore di irregolarità; sul più belloil capo del personale del comune di Roma e già vice-capo di gabinetto, legato alla precedente amministrazione di Alemanno, tuttora uomo forte negli uffici comunali e, si dice, uomo di fiducia della sindaca Raggi, viene arrestato per fatti di corruzione risalenti ad alcuni anni or sono.I pubblici ministeri di Milano addetti al processo “Ruby ter” chiedono al Gup di processare Silvio Berlusconi per “corruzione in atti giudiziari: avrebbe comprato il silenzio delle ragazze partecipanti alle feste di Arcore, chiamate a testimoniare nei due processi sul caso Ruby (la nota vicenda della minorenne amica del cavaliere e protetta dallo stesso con goffe manovre tra il pubblico e il privato).Sembra un burocratico bollettino giudiziario, è invece la sintesi delle imbarazzanti cronache politiche del giorno. Poi ci si chiede perché la gente perde la fiducia nella politica…Pure coincidenze? Bisogna osservare con un certo disincanto come, allorquando il Paese vive difficili e delicate fasi politiche, immancabilmente si verifichino entrate a gamba tesa della magistratura inquirente sulle (presunte) corruzione e illegalità nell’amministrazione della cosa pubblica. Sta succedendo anche in questi ultimi giorni, in un Paese stordito dal referendum e balbettante sul proprio futuro politico, con i diretti e indiretti affondo giudiziari sull’amministrazione capitolina della grillina Virginia Raggi, accompagnati da altra stoccata contro Giuseppe Sala, il sindaco di Milano e la sua passata Expo e contro l’ormai abituale bersaglio Silvio Berlusconi (è tanto indaffarato a difendersi da Vivendi, che forse non si è accorto di rischiare un nuovo processo legato alle sue maniacali scorribande sessuali).Per la verità ci sarebbe da citare anche il caso di Vincenzo De Luca, presidente della regione Campania, sul cui conto è stato aperto un fascicolo per istigazione al voto di scambio: avrebbe invitato i sindaci campani a convincere, anche tramite argomenti non squisitamente politici, i loro elettori a votare Sì al referendum sulla riforma costituzionale. È già ridicolo in sè il capo di imputazione, ma vedremo gli sviluppi.Sono indubbiamente frecce mirate a colpire la nuova e “local” corruzione italiana, oltre a bollare ulteriormente Berlusconi, l’immancabile personaggio emblematico della politica buona per fare i propri comodi in tutti i sensi.I colpi sono diretti ai principali poli amministrativi italiani (Milano che si pavoneggia, Roma che si rotola nel fango) ed ai due veri contendenti della politica italiana (il Pd e il movimento 5 Stelle), che si avvicinano alla resa dei conti.Inchieste a orologeria? Non sono iscritto al giustizialismo e nemmeno al complottismo e quindi non mi butto su ipotesi fantasiose e pericolose, ma…Il punto di Stefano Folli, la stucchevole ed insulsa rubrica giornaliera di commento politico de “la Repubblica”, conteneva, alcuni mesi or sono, una realistica previsione di azioni penali contro la politica da parte di una magistratura inquirente, che si sentirebbe sotto pressione riguardo alle riforme in cantiere su processo penale, uso delle intercettazioni, snellimento dei tempi delle inchieste, etc. L’autorevole commentatore scriveva infatti di “avvio di una fase di ostilità i cui riflessi sono difficili da valutare oggi”. E proseguiva con: “Il problema è: Renzi e il suo governo sono in grado di reggere una ripresa di iniziative giudiziarie ad ampio spettro? L’effetto destabilizzante di una tale offensiva non ha bisogno di essere illustrato ”. Il solo fatto di prevedere vendette inquisitorie ad alzo zero sulla classe politica per mettere in difficoltà governo e parlamento, è un gravissimo giudizio e una dichiarazione di sfiducia rivolti da un giornalista di livello alla magistratura. Ne prendo atto.Se ci si fa caso i magistrati non ammettono mai alcuna colpa, eppure ne combinano delle belle, tanto da essere parecchie volte inquisiti loro stessi e sottoposti alle inchieste del Consiglio Superiore della Magistratura. A Parma sono stati bravissimi: per decenni hanno fatto finta di niente, quando la città era tutta presa dall’incantamento, appena è cambiata l’aria hanno sparato nel mucchio facendo ben poca fatica a colpire. Ricordo di essermi confrontato con un autorevole esponente dell’opposizione durante la fase vignaliana del regime parmigiano. Mi disse: «Non capisco cosa aspetti la magistratura ad intervenire sul malaffare amministrativo comunale? È sotto gli occhi di tutti, non è una novità, ma dal punto di vista giudiziario non si muove nulla…».Siamo sempre lì, prima va tutto bene e poi improvvisamente… Non vorrei che fosse successo così anche su Federico Pizzarotti, sindaco di Parma. Un conto infatti è registrarne il fallimento politico, altro è subissarlo di inconsistenti indagini e procedimenti giudiziari: ne abbiamo contati già tre. Uno, quello sulle nomine al teatro Regio si è chiuso senza alcun strascico (capendone poco di teatro ha ritenuto di accettare i consigli degli addetti ai lavori di sua fiducia); uno, tutt’ora in corso, è partito da qualche tempo a triste coronamento dello straripamento del Baganza (si tratterebbe di inadempienze a livello di allerta, ma mio padre lo avrebbe ironicamente derubricato a mancata installazione “ed j èrzon äd cärta suganta”); uno è spuntato recentemente sulla vendita delle quote di una partecipata del comune, la Stu Pasubio (era stata deliberata dal nientepopodimeno che commissario governativo, vai a pensare che potesse essere irregolare). A questi ne aggiungo uno che sta trovando l’incubazione nell’aria contaminata dalla legionella (cosa poteva fare il sindaco a monte? certamente poteva essere più premuroso e partecipe a valle).Porto un grande rispetto per il ruolo della magistratura inquirente e giudicante. Non nego e non sottovaluto il deprecabile fenomeno della illegale amministrazione della cosa pubblica. Però più passa il tempo e più ho la netta sensazione che le inchieste si aprano e si chiudano con una certa leggerezza, che gli avvisi di garanzia spuntino come funghi e nei momenti caldi e, soprattutto, che il tutto risenta troppo del clima politico generale e locale: si parte per condizionare certi equilibri politici o ci si adegua dopo che gli equilibri politici sono saltati? Faccio alcuni esempi. Ho ascoltato, con pignola attenzione, su radio radicale la testimonianza resa dalla deputata dem Micaela Campana in merito ai suoi rapporti con Salvatore Buzzi (uno degli imputati nel processo “mafia capitale”), durante la quale si percepiva un atteggiamento prevenuto non tanto del procuratore interrogante, ma da parte di chi presiedeva il collegio giudicante : non ho sinceramente riscontrato alcun elemento serio e consistente per una ipotesi di falsa testimonianza o di indagine per reticenza, come sembra stia avvenendo. Noto una sorta di accanimento sui politici, per i quali non si parte dalla presunzione di innocenza, ma da quella di colpevolezza. Forse sta succedendo anche ai grillini in Sicilia e a Bologna, i quali avrebbero falsificato le firme per la presentazione della loro lista: fatto obiettivamente censurabile, ma, pensando con andreottiana malizia, non vorrei che, al di là della effettiva contestazione di una violazione di legge, ci fosse una sorta di “avvertimento” giudiziario, un atto giuridico virtuale, che sta prima dell’avviso di garanzia e va ben oltre lo stesso.A Roma solo l’indomani della nomina del sindaco Virginia Raggi si apprende, in mezzo ad una ridda di ammissioni e smentite, dell’indagine a carico del neo assessore Paola Muraro per suoi presunti “pasticci ecologici”? Si lascia trapelare la notizia, la si tiene a bagno maria per diverso tempo, poi ad un certo momento partono gli interrogatori in procura.Analogo discorso per Raffaele Marra, il potente funzionario capitolino ingaggiato scriteriatamente da Virginia Raggi. Lo si tiene sulla corda per diverso tempo e poi parte addirittura l’arresto.Posso pormi una domanda maliziosa al limite della cattiveria pura: non è che a Virginia Raggi, al di là della sua penosa inconsistenza politico-amministrativa, faranno pagare un conto salato per lo sgarbo personale e istituzionale fatto al magistrato di corte d’appello Carla Raineri, capo di gabinetto della sindaca per l’espace d’un matin, che ha lasciato il suo incarico in rotta di collisione con Virginia Raggi e il suo staff, in primis Raffaele Marra e che probabilmente si è sentita presa in giro e ridotta a mero specchietto legalitario per le allodole romane? Altro mordi e fuggi si è verificato con Raffaele De Dominicis, ex giudice della Corte dei conti, individuato come assessore al bilancio e cacciato dopo appena quattro giorni perché il suo profilo non era rispondente ai principi del M5S. Un secondo specchietto rotto? Come ben si sa, rompere gli specchi(etti) porta sfortuna! Saranno scattate reazioni corporative, che stanno trovando il loro sfogo?Nei rapporti tra politica e giustizia le coincidenze sono molte, le fughe di notizia pure… Oltretutto parecchie indagini appaiono fin dall’inizio inconsistenti e fantasiose (ricordo il presunto abuso d’ufficio del sindaco di Bologna per aver erogato l’acqua ai “disperati poveracci” occupanti abusivi di certi immobili). Clamorose per quantità e qualità sono poi le assoluzioni di politici, messi sul banco degli imputati con una certa facilità dalle Procure (lo ha lasciato intendere persino il vice-presidente del CSM) per poi essere scagionati dai Tribunali, dalle Corti d’appello o dalla Corte di Cassazione. Ultima, con non poche analogie con i carichi pendenti pizzarottiani, l’assoluzione dell’assessore genovese Raffaella Paita in materia di mancata allerta sull’allagamento di Genova a cui ha fatto da contraltare la pesante e sommaria condanna dell’ex sindaco di Genova Marta Vincenti sulla stessa vicenda.Non vorrei che di fronte all’impennata elettorale dei grillini, fosse venuto anche per loro il momento di abbassare la cresta per via giudiziale. Non sono un fan di Grillo e della sua creatura, ma vorrei che tale movimento fosse giudicato politicamente e non preventivamente sputtanato dalle Procure della Repubblica. Per i cinque stelle, esagitati utilizzatori finali del “tutti ladri, tutti a casa”, non sarà facile tirarsi fuori dalle bufere, che cominciano obiettivamente ad essere parecchie, considerate anche le loro scarse occasioni di peccato.Alcune considerazioni finali. La prima risale al berlusconismo prima maniera che scatenò, per motivi di bottega, una vera e propria guerra contro la magistratura, perdendola su quasi tutti i fronti, al punto da dover ricorrere all’affidamento ai servizi sociali, da essere sbattuto fuori dal Parlamento, da fare i conti con una innumerevole serie di inchieste e di procedimenti giudiziari non ancora terminata (l’ultima grana, come detto all’inizio, la stanno arrecando i pm di Milano i quali chiedono che Berlusconi sia processato con l’accusa di “corruzione in atti giudiziari”: avrebbe ammorbidito con circa 10 milioni di euro le testimonianze delle ragazze passate dalle serate hard ad Arcore).Al berlusconistico accanimento spregiativo e sprezzante verso i magistrati fece riscontro un vigoroso e pesante accanimento difensivo da parte della Magistratura. La politica, a testarda difesa degli interessi del nostrano tycoon, inaugurò insensatamente una guerra di cui tutti abbiamo pagato le conseguenze ed a cui tutti abbiamo fatto la triste abitudine: i giudici soprattutto, che da vittime (?) del regime forse si sono fatti giustizieri del sistema.La seconda riflessione riguarda il grillismo, il populismo all’italiana, l’antipolitica in versione comico-teatrale. La politica, nonostante tutto, è una cosa seria, che non può essere ridotta a commedia etica o addirittura a farsa istituzionale. Da una parte si sparano slogan piccanti e accattivanti, dall’altra si buttano sulla scena attori improvvisati che improvvisano un copione che non conoscono o recitano un copione sbagliato con una compagnia raccogliticcia e sconclusionata, se non addirittura infiltrata. A Parma si è scherzato, a Roma casca l’asino. Gli attori poi non vogliono scendere dal palcoscenico, ci provano gusto, resistono.La magistratura sta solo impropriamente scoprendo gli altarini non tanto della corruzione, ma della incapacità a governare. Credo che la vicenda romana per i grillini sarà un brutto boomerang, forse addirittura esagerato e impietoso, ma, tutto sommato, meglio prima che dopo.Una terza considerazione la dedico al Pd: è possibile che negli incidenti agli incroci pericolosi della corruzione e dell’illegalità ci sia coinvolto sempre e sistematicamente qualche esponente centrale o periferico del partito democratico? Sarebbe il caso di affrontare questo nodo al prossimo congresso del Pd, lasciando stare le polemichette su cosa significhi essere di sinistra. Certamente vuol dire smetterla di rubare o quanto meno di esporsi continuamente al rischio di finire sotto processo per comportamenti scorretti. Non è facile nel clima di caccia alle streghe che ci ritroviamo, ma bisogna mettercela tutta.Ultima constatazione. Ho ascoltato le obiettive e abili dichiarazioni di Stefano Parisi sull’autosospensione da sindaco di Giuseppe Sala, suo vittorioso competitor alle ultime elezioni milanesi. È in questi delicati momenti che si rivela il livello umano e politico di una persona: lo promuovo a pieni voti, perché non ha strumentalizzato la vicenda, non ha cercato la rissa, non ha infierito sull’avversario in difficoltà, si è limitato a chiedere chiarezza e coerenza di impegno. Era stato scelto da Berlusconi per rilanciare Forza Italia e il centro-destra sulla via della moderazione e della ragionevolezza: era l’uomo giusto, che, come al solito, Berlusconi ha divorato in pochi giorni. Sul referendum avrebbe potuto assumere una posizione ragionevole, lasciando ai suoi elettori la scelta su come votare, invece la smania di protagonismo ha prevalso su tutto e adesso si trova nel cono d’ombra della Lega a zampettare intorno al governo Gentiloni.Da ultimo gli è capitata addosso la grana di Mediaset insidiata da Vivendi: il governo e lo Stato hanno assunto atteggiamenti seri in base alle regole esistenti ed al rispetto dovuto dai transalpini per gli interessi nazionali, al di là della mera difesa retorica dell’italianità. Renato Brunetta continuerà a sparare a zero contro il governo, come ha sempre fatto, e Berlusconi lo lascerà fare. Il cavaliere non finisce mai di stupire: pensavo avesse un minimo di capacità nell’individuare i pregi e i difetti delle persone e nel collocarle al posto giusto (la dote di un leader), invece mette a tacere gli intelligenti e lascia parlare gli stupidi (la dote di un finto capo che ha solo paura di essere scavalcato). E allora ricominci a dedicarsi alle serate hard, se il cuore, considerato in tutti i sensi, glielo consente.

Vivendo con Vivendi

Il salotto buono di Lilly Gruber (otto e mezzo su La 7) mi serve, quando ho il tempo e la pazienza di seguirlo, da autoesame del sangue politico presente nelle mie vene. Nell’ultima occasione si parlava del nuovo governo di Paolo Gentiloni, del futuro congresso del Partito democratico e della scalata di Vivendi a Mediaset. Tre validi test per le mie idee, operati da tre laboratori: il sussiegoso mondo accademico (Massimo Cacciari), il pretenzioso mondo dei talk show di livello (Giovanni Floris), il giornalismo brillante (Nicola Porro).Il piatto forte cucinato da Floris era l’allarmistico e dolente elenco di tutte le massime aziende italiane ormai in mano al capitale straniero: l’ardita intenzione della francese Vivendi di intromettersi nell’italiana e berlusconiana Mediaset veniva inquadrata nel complessivo panorama economico nazionale, colonizzato dalle multinazionali. Roba da “Stato Imperialista Multinazionale” di brigatistica e rossa memoria.Massimo Cacciari, oltre assentire su questa arcaica analisi, auspicava un “vero” congresso chiarificatore del Pd, che ne ascoltasse la base ben individuata (solo gli iscritti al partito o ad un impegnativo albo speciale), che ne facesse il partito democratico e non più il partito di Renzi (questa volta Cacciari era a corto di fantasia), che ne delineasse un gruppo dirigente allargato (oltre lo striminzito cerchio magico). Considerava inoltre una quisquiglia la presenza di Maria Elena Boschi nel nuovo governo, problema piccolo, ma che, tra l’altro, segnava il titolo del dibattito stesso (in filigrana, la solita supponenza cacciariana e forse una punta di maschilismo di ritorno).Sulle tre questioni Nicola Porro si differenziava notevolmente dai suoi interlocutori: sulla questione “Vivendi”, pur parlando da un pulpito di parte (la redazione de “Il giornale”), aveva il coraggio di globalizzare il discorso sostenendo che il capitale straniero, a patto che comporti, come in molti casi, rafforzamento e sviluppo della aziende italiane, non può essere che il benvenuto. Sulla questione del congresso Pd poneva la sibillina e ironica domanda: alla fine è Roberto Speranza il sinistro competitor di Matteo Renzi? E su Maria Elena Boschi non sottovalutava la mossa di Meb (così la chiamano gli amici) e il suo impatto, negativo o positivo sull’opinione pubblica.Mi sono trovato d’accordo, su tutto il fronte degli argomenti trattati, con Nicola Porro, giornalista di libero pensiero, ma certo non di sinistra. Cosa mi sta succedendo? I casi sono due, anzi tre: o invecchiando, come spesso accade, sto annacquando la mia storica ispirazione di sinistra; oppure l’opinione riconducibile alla sinistra marca visita in senso anacronistico, nostalgico e schematico; oppure il mondo sta cambiando al punto da rimescolare culturalmente le menti e da richiedere un riposizionamento su tante questioni.Fatto sta che, tornando agli argomenti di cui sopra, io la penso come sinteticamente di seguito.Il Pd non può prescindere da Renzi, pur con i limiti soggettivi dimostrati (e chi non ne ha) e gli errori oggettivi compiuti (e chi non ne fa). Il dibattito congressuale franco ed approfondito potrà solo servire ad aggiustare il tiro renziano, non certo ad accantonare l’unico leader plausibile.In campo economico non significa nulla la difesa patriottica del capitale italiano: questo può rivelarsi e spesso si rivela ben più speculativo e conservatore di quello straniero. Semmai bisognerebbe puntare a rendere sempre più appetibile il nostro Paese per gli investimenti produttivi stranieri. Siamo in Europa, non vogliamo muri e poi diventiamo protezionisti in economia? La pensiamo come Trump, come Salvini, come Grillo, come i brexit?Maria Elena Boschi è stata un ottimo ministro con una mission difficile e purtroppo non è riuscita a portare a termine felicemente (Sì a livello parlamentare, No a livello popolare) la legge di riforma a cui ha lavorato. Niente di drammatico e di scandaloso quindi che sia rimasta nel governo Gentiloni, con un diverso incarico dal momento che di riforme costituzionali non si parlerà per decenni. Tra l’altro, senza sottovalutare la sua capacità politica e senza indulgere a maschilismo camuffato, un tocco di graziosissima femminilità non guasta mai. Non vorrei che l’ostracismo nei confronti della Boschi non fosse tanto una questione di omogeneità dimissionaria col leader Renzi (a proposito, com’è strano il mondo, si diceva che Meb fosse una ventriloqua del suo capo e poi, quando sceglie di testa sua, sbaglia, perché dovrebbe seguire le orme del capo), ma fosse dovuto ad un ragionamento del tipo: ben vengano le donne, poi però, quando il gioco si fa serio e importante, meglio se vanno a casa.Dalla pancia al … il tratto è breveNon so se la politica sia diventata il pretesto e l’occasione per sfogare le proprie sciocchezze latenti o se addirittura si pretenda di parlamentarizzare lo sciocchezzaio imperante a livello di social network e di media in genere. Anche per un accanito ed appassionato osservatore della politica come il sottoscritto, questa progressiva brutalizzazione del dibattito rischia di avere non tanto un effetto nervosamente coinvolgente, ma quello di provocare una sorta di alienante fuga nel dibattito politico virtuale (come dovrebbe essere), rincorrendo magari il passato (andava molto meglio quando andava peggio…). Ho fatto fatica a leggere le cronache odierne: giravo e rigiravo le pagine su reportage squallidi (non si dovrebbero nemmeno considerare e commentare certi fatti) dal contenuto ancor più squallido (stiamo veramente e pericolosamente raggiungendo l’apice della demenza). Alla fine ha vinto la voglia di reagire e quindi di mettere per iscritto alcune riflessioni.La nuova ministra della Pubblica Istruzione, Valeria Fedeli, viene messa al pubblico ludibrio per avere inserito nel suo sito internet, a livello di curriculum, il “diploma di laurea in Scienze sociali” mentre è in possesso solo di “diploma per assistenti sociali”. Su questo dettaglio insignificante (quante persone più o meno in buona fede si fanno o si lasciano chiamare dottore senza esserlo) è stata costruita una delegittimazione, arrivando a sostenere che non si può fare il ministro dell’istruzione senza essere dotati di laurea (e dove è scritto?) e che non è credibile l’invito all’impegno nello studio rivolto ai giovani se viene da un personaggio istituzionale che non ha studiato granché (fate come ho fatto e non come dico). Siamo alla pura follia polemica che si perde non in un bicchiere d’acqua ma in un vasetto di urina.Un ex-deputato viene insultato, malmenato e quasi-sequestrato in una sorta di finto arresto riconducibile a giustizia sommaria popolare, improvvisata dal movimento dei forconi (ribattezzato per l’occasione Comitato per la legalità). Ma il bello sta nel fatto che a tale movimento aderisce un generale dei carabinieri in pensione (sic!) che si fa portavoce degli autori del blitz: «Sono passati tre anni dalla sentenza della Consulta che ha dichiarato illegittima la legge elettorale e i parlamentari abusivi sono ancora lì. Non dovremmo arrestarli noi, i politici, ma le stesse forze di polizia. La nascita del governo Gentiloni, con la prospettiva di un altro anno di legislatura, ha fatto esasperare gli animi. Devono andare a casa tutti, la gente non ne può più. Sono gli onorevoli abusivi a determinare tutto ciò. Altri “arresti”? Non si possono escludere». Siamo alla pura follia che passa alle vie di fatto: sono convinto che in molti applaudirebbero queste provocatorie dichiarazioni, propedeutiche ad azioni illegali e violente (io comincerei a mettere in galera questo generale in pensione).Beppe Grillo non si è presentato alle consultazioni del Capo dello Stato e tanto meno a quelle del presidente incaricato, ma viene a Roma, bazzica assieme a Davide Casaleggio locali e salette di Senato e Camera, incontra i parlamentari cinque stelle e sputa intenti programmatici al limite dell’eversione: «Bisogna portare il Parlamento tra la gente», dopo avere disertato e disturbato quello istituzionale durante il dibattito sulla fiducia al governo. In compenso nemmeno una parola sulle dimissioni di Paola Muraro, assessora grillina del comune di Roma, indagata dalla Magistratura: «Sono un problema che riguarda il Comune». E la gente vota Grillo…Dentro il Senato ci pensa Mario Monti a dare aria ai denti, oscurando grillini e Lega. L’ex premier parla di Renzi. Lo definisce “totalmente inadeguato alla politica”, ma “bravo motivatore”. Considera l’indirizzo europeo di Renzi “povero di risultati, solo toni alti”, parla di un premier uscente che è stato un danno per il Paese. Si sente vittima di “linciaggi” e conclude dicendo: «Chi parla è stato iscritto addirittura in un nuovo raggruppamento dell’accozzaglia». Mario Monti è un senatore a vita. Se così si esprime un cittadino che ha illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario (art. 59 della Carta costituzionale), un cittadino normale…Concludo con la chicca di Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera, che così si prenota sul possibile referendum abrogativo in materia di Jobs act: «Noi voteremo contro il Jobs act assieme alla Cgil, perché Renzi è un politico eversivo e noi stiamo con la democrazia». Se parla così un deputato di lungo corso, coinvolto nelle malefatte del ventennio berlusconiano, un normale elettore… Mi piacerebbe sapere però cosa ne pensa Silvio Berlusconi, alla disperata ricerca di una sponda governativa che lo aiuti a difendere la sue aziende dagli attacchi francesi. La malafede associata alla demenza!

Le dimissioni dei poveri

Erano nell’aria da mesi. Si sono concretizzate quando l’attenzione generale era tutta concentrata sul nuovo governo post-referendario. Mi riferisco alle dimissioni di Paola Muraro da assessore all’ambiente del comune di Roma. In odore di indagine in materia di reati ambientali, in particolare sulla gestione non autorizzata dei rifiuti, in periodo antecedente rispetto all’entrata in funzione della giunta capitolina guidata dal sindaco Virginia Raggi, ha aspettato, contravvenendo ad una regola interna del movimento cinque stelle, la convocazione in procura per un interrogatorio, prima di rassegnare le dimissioni. È una vicenda strana: non si è capito se Paola Muraro fosse stata iscritta nel registro degli indagati, da quando e se questa iscrizione fosse stata ufficializzata.Non essendo un giustizialista non trovo niente di clamoroso nell’atteggiamento attendista dell’interessata. Diverso il discorso a livello del movimento, che sembra applicare due pesi e due misure a seconda dei personaggi inquisiti (vedi Parma e Palermo): una ulteriore prova che non si può fare politica solo gridando “onesta! onesta!”: in questo modo si dà soltanto soddisfazione epidermica alle lamentazioni della gente , ma poi viene il bello della soluzione dei problemi.Ed è qui che restano molte perplessità. I casi sono due: o Virginia Raggi ha operato la scelta di assessori e collaboratori in modo a dir poco opaco o comunque lasciandosi, volontariamente o involontariamente, irretire dall’avvolgente rete di potere capitolina; oppure si è mossa e si sta muovendo alla cieca, senza un disegno e senza una squadra.In entrambi i casi emerge una preoccupante improvvisazione a giustificare la quale non basta l’inesperienza o l’ingenuità dei neofiti: ad un movimento che si candida a guidare il Paese è richiesto molto di più.Tutto sommato la tanto discussa esperienza parmense di Federico Pizzarotti, da tempo misconosciuta dai cinque stelle e ultimamente segnata dalla definitiva presa di distanza del sindaco di Parma dal movimento, il quale si avvia a concludere regolarmente il mandato, pur nella quasi disastrosa inconcludenza amministrativa, ha fatto in oltre quattro anni meno danni in casa grillina che non la giunta Raggi in quattro mesi.Resta, al di là degli insopportabili e vuoti toni protestatari, la forte perplessità rispetto ad una prospettiva di alternativa grillina nel governo del Paese.Due fatti si verificano contemporaneamente in questi giorni: la crisi di governo riconducibile alla crisi del Partito Democratico; la crisi dell’amministrazione capitolina riconducibile al movimento cinque stelle. Penso non sia un caso. Proviamo a rifletterci sopra un attimo.Lasciamo stare l’onda populista, non scomodiamo il discorso dell’antipolitica, stiamo a Grillo ed ai grillini e chiediamoci: è possibile che un elettore italiano su tre dia loro fiducia. Sono convinto che tutto rientri in un sentimento distruttivo, in una rappresentazione della società in cui la tragedia sfocia nella comica e viceversa.I poveri nel primo dopoguerra trovarono sciaguratamente risposte nel fascismo pilotato da ben altri interessi; nel secondo dopoguerra trovarono ospitalità e rappresentanza ideologica nel partito comunista e nella democrazia cristiana, che, partendo dalle “lamentazioni” di un popolo distrutto dalla guerra, seppero ricostruire un Paese democratico facendolo progredire su tutti i piani. Poi arrivarono il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro e si chiuse questa fase, con il Pci e la Dc (messi in gravi difficoltà dal craxismo) alla ricerca di rigenerazione a livello di potere e di revisione ideologica. La macchina dei poveri aveva perso la benzina, i poveri c’erano ancora, ma cambiavano i loro bisogni e soprattutto non c’erano gli interlocutori. La politica si distaccava progressivamente dalla gente e andava per la propria strada senza freni etici: e fu tangentopoli…Arrivò Berlusconi, frutto bacato del craxismo e della modernità mediatica: i poveri (almeno una parte) ci cascarono, ci provarono e fu un disastro. I post-comunisti ed i post-democristiani si ripulirono col digiuno e con la battaglia dell’antiberlusconismo, ma non fu come per l’antifascismo che plasmò una nuova classe dirigente. Le macerie c’erano ma non c’era lo spirito del ricostituente. Tentarono il compromesso storico fuori tempo massimo: l’ulivo e poi il Partito democratico. Le due culture non riuscirono a fondersi e ridiedero vita a due visioni contrapposte di società: quella burocratica e monolitica della sinistra classica (i Bersani e i D’Alema) e quella confusionaria e provvisoria dei cattolici progressisti. Romano Prodi e Matteo Renzi hanno tentato in tempi e modi diversi il miracolo, che non è riuscito. I poveri sono tuttora vedovi di queste due culture e vanno alla disperata ricerca del salvatore. Da qualche anno si illudono di averlo trovato in Beppe Grillo. Quando si è disperati ci si attacca a tutto, ma poi finisce che ci si suicida. Siamo nella fase intermedia fra l’annaspamento sulle scialuppe di un impossibile salvataggio e il definitivo naufragio. Il partito democratico, nonostante tutto rimane l’unica possibilità di salvezza vera: chi vende salvezza finta lo ha capito e ne ha fatto il nemico. I poveri devono avere uno scatto di dignità fatto di pazienza e scegliere tra l’illusione di non affogare e l’attesa di una concreta ciambella di salvataggio. Scelta difficile, ma obbligata. La lamentazione affascina, Grillo diverte, Renzi non piace, Gentiloni traccheggia. Che sia Mattarella il punto d’attacco? E come? E quando? Non lo so.

A chi tocca leva

È stato varato il governo Gentiloni. Non va bene quasi a nessuno, come sempre… Bene le critiche, ma il governo lo vara il Capo dello Stato e la fiducia gliela concede il Parlamento. Fortunatamente il Presidente Mattarella, dopo avere puntualmente e rigorosamente ascoltato tutti, ha deciso: l’Italia ha bisogno di un governo, delle elezioni se ne riparlerà semmai dopo che il Parlamento avrà varato, possibilmente a larga maggioranza, una legge elettorale che risponda al quadro istituzionale ripristinato dal referendum ed alle esigenze di rappresentatività e governabilità del Paese.“Linea al collega che stava parlando”, dicevano un tempo i cronisti di tutto il calcio minuto per minuto, costretti ad interrompersi e a darsi sulla voce. “Linea all’Istituzione a cui tocca di operare”, sembra dire Sergio Mattarella. Molto bene!Il governo Gentiloni da una parte riscontra l’ignorante avversione e contrarietà da parte degli “elezioni continue”, quelli che, ringalluzziti dal risultato referendario, vorrebbero andare subito alle urne (cosa che la Costituzione prevede ogni cinque anni), vorrebbero un governo eletto dal popolo (cosa che la Costituzione non prevede, configurando una repubblica parlamentare), vorrebbero sciogliere le Camere ad ogni piè sospinto (cosa che la Costituzione riserva al Presidente della Repubblica), vorrebbero votare immediatamente (cosa impensabile senza una valida e armonica legge elettorale), vorrebbero aspettare il responso elettorale prima di governare (cosa assurda visti i problemi e gli impegni assillanti che ha il Paese a tutti i livelli).Dall’altra parte si richiedeva comunque al Pd, nonostante il passo indietro di Renzi, di farsi carico di una soluzione governativa ponte per non lasciare il Paese allo sbaraglio in balia delle onde post-referendarie e in attesa delle (de)rive elettorali. Quasi tutte le altre forze politiche si sono dichiarate rigidamente e acidamente indisponibili a qualsiasi forma di governo allargata.Il Presidente Mattarella su questo punto è stato consequenziale e intransigente ed ha preteso un governo che potesse governare perché, prima dei partiti e delle loro mire, vengono i problemi degli Italiani, terremotati in primis.Ma è un governo fotocopia! Così hanno detto in tanti. Gli elettori al referendum hanno chiesto un forte cambio di indirizzo politico. Veramente gli elettori hanno solo bocciato una legge di riforma costituzionale (molti fautori del No, stanno cautamente prendendo le distanze dall’inevitabile disfattismo, anche se è un po’ tardi). Sì, ma c’era in ballo molto di più: la protesta dei giovani e del meridione. Ma questo di più, che andrebbe approfondito e valutato attentamente e non sbrigativamente come sta avvenendo, avrebbe comunque bisogno di conferma a livello di elezioni politiche (“La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione” e non semplicisticamente a furor di referendum). Si torna da capo.E allora, come avrebbe potuto il Pd, forza di maggioranza, voltare pagina, cestinare o distruggere il proprio operato e la propria classe dirigente in una furia iconoclasta verso i suoi stessi simboli personali e programmatici. Cambio di premier (il precedente si è irrevocabilmente dimesso), qualche ritocco alla compagine governativa e al programma, e poi pedalare…Ecco spiegato il governo Gentiloni. Chi è favorevole, chi è contrario, chi si astiene?

Bianchi, rossi e…Verdini

Solo i verdiniani sarebbero impresentabili e il PD si dovrebbe vergognare di averne talora l’appoggio? E Berlusconi quando fece il pieno elettorale in Sicilia pensiamo che non avesse cavalcato certi legami con la mafia? Poi con lui si fece la grande coalizione, prima per sostenere Monti e poi per appoggiare Letta. Salvo avere da ridire sul coinvolgimento di Forza Italia proprio sulla riforma costituzionale da parte di Renzi (cosa tentata in passato e clamorosamente fallita da D’Alema): era il giusto approccio non tanto per sdoganare o riabilitare un Berlusconi messo fuori gioco per motivi giudiziari, ma per dare alla riforma un respiro parlamentare oltre il recinto della maggioranza di governo. Questo passaggio, fu improvvisamente e pretestuosamente interrotto nel 2015 da parte berlusconiana per l’elezione di un Presidente della Repubblica non troppo gradito e per la solita paura di alienarsi le simpatie leghiste e filo-leghiste, dopo che Forza Italia aveva ripetutamente votato a favore della riforma in base all’accordo del Nazareno. Ebbene tutto ciò viene bellamente dimenticato dai protagonisti forzitalioti di oggi presentatisi alle consultazioni di Paolo Gentiloni suonando due spartiti con due diversi musicisti (Brunetta e Romani): il primo ha fatto il duro attaccando Renzi, il secondo ha cucito aprendo spiragli collaborativi verso Gentiloni in nome di una fantomatica discontinuità. Berlusconi non c’era: quando c’è da fare la figura del pirla preferisce stare in disparte. Ma la cosa più curiosa è stato affermare che Renzi ha gestito la riforma costituzionale e quella elettorale a livello di governo, mentre in realtà esisteva un patto collaborativo proprio con questi signori, che prima se ne sono vergognosamente sganciati e oggi addirittura lo misconoscono. E nessun giornalista che assiste ai riti ha il buongusto di farglielo rilevare in diretta. Ormai la politica, come sta dimostrando la vicenda Trump, è preda della post-verità. Si sparano balle a tutti i livelli e in tutti i modi al punto che diventa quasi impossibile controbattere, le balle diventano verità, la società muore.Dopo questa breve divagazione punto alla sinistra dem ed alla sua mancanza di strategia.È arrivato il referendum sulla riforma costituzionale: il piatto forte per la sinistra dem, che ha giocato tatticamente su questo tavolo tutte le sue residue carte politiche, non facendosi scrupolo di allearsi almeno indirettamente con cani e porci (altro che Verdini…), pur di sfrattare l’ingombrante Renzi. Risultato ottenuto, ma a quale prezzo? A prezzo di una assurda debacle politica. L’area della maggioranza politica si è addirittura ancor più chiusa a sinistra; il programma governativo è lo stesso; il governo è presieduto da un renziano convinto. Non solo ma Gentiloni fa parte del gruppo (per la verità non entusiasmante) dei pulcini della chioccia Rutelli, i quali non hanno mai sopportato la Ditta, cioè la nomenclatura post-comunista che per anni ha avuto il controllo del Pd. Gentiloni così ricorda il momento in cui Renzi diventò segretario del Pd: «Il giorno più bello è stato quando Renzi ha vinto le primarie: lì abbiamo battuto il Moloch comunista»; Matteo Renzi rimane saldamente segretario e si dedicherà ancor più al partito convocando a tambur battente il congresso, puntando decisamente alla riconferma dopo aver rinsaldato attorno a sé la stragrande maggioranza negli organi di partito e rinverdito il feeling con la base del partito (iscritti ed elettori).Al contrario, la sinistra dem risulta divisa al suo interno, intenta solo a guadagnare tempo, senza candidature consistenti per la segreteria, con il rischio di isolamento rispetto alla base elettorale del partito (non a caso chiede le primarie limitate agli iscritti: evviva la partecipazione e il collegamento con la società!) che le contesta la macchia indelebile di aver tramato contro il partito stesso (i grillini fanno l’antipolitica, la sinistra dem fa l’antipartito, il proprio), scavalcata da una parte dall’extra-sinistra ragionevole avviata a proporre un patto al Pd, dall’altra dalla extra-sinistra dura e pura vocata alla minoranza perpetua.Giovanna Casadio scrive: «La sinistra interna potrebbe sfilarsi da un congresso-referendum su Renzi. Lasciano trapelare la disobbedienza, che sarebbe l’anticamera della scissione, quella che hanno sempre escluso anche nei giorni del No al referendum costituzionale e degli aspri botta e risposta con i renziani». Sembrano addirittura non fidarsi e chiedere che sia un comitato a gestire il congreso garantendo imparzialità. Siamo a questo punto. Non resta loro che continuare scopertamente a fare i guastatori, gioco che diventerà scopertamente difficile a livello parlamentare, vista l’esigua maggioranza al Senato (Verdini infatti ha preso le distanze con la sua pattuglia).Siamo ben oltre una vittoria di Pirro, questa è la brutta e ingiusta fine dell’eredità post-comunista: Togliatti e Berlinguer si rovesceranno nella tomba (il secondo in compenso ha la figlia che continua imperterrita a corteggiare televisivamente Massimo D’Alema).

Le gentilone risposte al fronte del No

Non posso credere che la sarabanda promossa col No alla riforma costituzionale fosse prevalentemente (o esclusivamente) volta a colpire il prestigio, la figura e il ruolo di Matteo Renzi. Se invece fosse stato così, il risultato, almeno momentaneamente, sarebbe stato raggiunto: Renzi è tornato formalmente a casa.Ma penso che il discorso politico precedente e successivo alla vittoria del No fosse assai più complesso: sovvertire l’equilibrio politico-governativo per poi, nel segno della totale discontinuità, andare precipitosamente alle urne. Obiettivi completamente mancati, complice la freddezza istituzionale di Sergio Mattarella e le preoccupazioni europee.Mattarella ha stoppato inequivocabilmente le smanie elettorali imponendo un percorso, che, al di là degli attesi e imminenti pronunciamenti della Corte costituzionale sulla legge elettorale recentemente varata (il cosiddetto Italicum), garantisca una omogeneità di regole tra Camera e Senato, una corretta rappresentatività dei cittadini, una razionale funzionalità delle Camere e una stabilità e continuità di governo.Poi dal contesto europeo e mondiale è venuta direttamente e indirettamente una pressante richiesta di poter contare su un governo autorevole che operi nel segno della continuità e senza sbandamenti nei delicati rapporti esistenti a livello internazionale.Quindi, nonostante la penosa, insistente e velleitaria litania per una svolta immediata e per il ricorso frettoloso alle urne, ci troviamo con un governo nei pieni poteri, senza limiti di tempo, nel segno della continuità e della stabilità di governo, nel perimetro della precedente rinsaldata maggioranza. Un governo che qualcuno ha definito ironicamente un “Renzi bis senza Renzi” e che ha scatenato la rabbia di quanti pensavano che valessero i loro calcoli in cui due + due fa quattro, mentre in politica le cose sono (fortunatamente) più complicate e non basta urlare nelle piazze o sul web per cambiare le situazioni. In passato qualcuno aveva ipotizzato come spesso alle piazze piene corrispondano urne vuote: questa volta addirittura si può dire che a urne piene corrispondono spazi istituzionali vuoti e regole costituzionali nette.Scrive Michele Serra: «Ora che la Costituzione, restituita alla sua collocazione originale, come la Gioconda scampata a un viaggio tempestoso e indesiderato, può essere contemplata con calma, tutti possono verificare che non c’è neanche una riga che assegni al Popolo e non al parlamento il diritto di eleggersi un nuovo governo, come tutti vorremmo domattina, massimo domani pomeriggio. E neanche una riga che levi ai Quirinale il dovere di spremere da ogni legislatura quello che gli riesce, anche fossero le poche gocce del governo Gentiloni o affini. Del resto, tecnicamente, il No questo era: tutto azzerato, dunque tutto come prima di Renzi e anche prima di prima di Renzi».Sul piano politico al centro della scena rimane il Pd, forza di maggioranza, nonostante i protagonismi da strada dei Cinque stelle e della Lega, al punto che tutto il quadro rischia di essere condizionato dal congresso del Partito democratico: probabilmente lo si celebrerà in tempi ravvicinati e dovrà delineare la strategia del partito, la sua classe dirigente, i tempi e i modi di governo, nonché prefigurare i percorsi politici futuri.Gli autori della precedente legge elettorale (il cosiddetto Porcellum) riconducibili al centro-destra (artefice principale del capolavoro: Roberto Calderoli della Lega), in base alla quale sono state elette le attuali Camere, l’avevano pensata e varata solo ed esclusivamente per mettere i bastoni fra le ruote di un incombente vittoria del centro-sinistra. Ebbene, dal momento che anche in politica il diavolo insegna a fare le pentole e non i coperchi, questa legge ha finito per dare e garantire una centralità, persino esagerata, al Pd, complice anche lo sfarinamento progressivo di Forza Italia.Gran parte del discorso politico ruota quindi attorno al Pd e non a caso al suo interno si sono da tempo scatenate rivalità correntizie, personalismi storici, visioni alternative: per anni fu la Democrazia Cristiana il perno della politica italiana e al suo interno si giocavano le questioni fondamentali del Paese. C’era un fortissimo partito di opposizione, il Pci, che sapeva fortunatamente stare al suo posto, aveva una notevole maturità istituzionale, un forte ancoramento costituzionale e riusciva a condizionare gli andamenti, funzionando come “governo ombra”, partito di lotta e di governo, dotato di personaggi altamente carismatici e rappresentativi delle istanze popolari (senza essere populista).Tornando ai giorni nostri non so se il Pd avrà il senso dello Stato della Dc, mentre sono certo che grillismo e leghismo non hanno sfortunatamente nulla da spartire con l’eredità comunista: sono impiccati infatti all’albero dell’antipolitica, sono chiusi nel magazzino del loro populismo d’importazione, hanno merce spendibile al mercatino, ma le loro bancarelle non entrano nel vero e proprio mercato. Sono convinto che l’elettorato italiano li voti e li voterà fino al momento in cui i giochi si faranno pesanti; allora i Grillo e i Salvini diventeranno figure meramente folkloristiche e continueranno, non so per quanto tempo, a giocare solo nei cortili recintati dell’antipolitica politicante.Sulla portata velleitaria del cambiamento con le cambiali firmate a questi personaggi inaffidabili, che vogliono uscire dall’Europa, scrive Eugenio Scalfari: «In fondo anche i No referendari volevano un cambiamento. Con Grillo e Salvini? Per l’Italia purtroppo è avvenuto, spesso ci scordiamo delle pessime esperienze vissute. La storia dovrebbe insegnarlo, soprattutto ai giovani: essi hanno votato il No in massa. Ora dovrebbero rileggersi alcuni classici della nostra storia politica e sociale fino in fondo. Il No vuole un vero cambiamento in avanti o all’indietro?».E il Pd? Dovrà fare i conti non tanto con le dispute tra Renzi e Bersani, ma dopo aver evitato di incartarsi nello storico ma nominalistico contrasto tra social-democrazia e social-liberismo, dovrà puntare ad una sinistra umanista, ambientalista, pragmatica, di governo, europeista, mondialista, che sappia tuttavia mettere regole e limiti al rigorismo europeo e alla globalizzazione e che sappia affrontare, in modo aperto ma razionale, il discorso dell’immigrazione.E il gruppo dirigente? Non vedo alternative serie a Matteo Renzi se saprà aprire qualche ponte e abbattere qualche muro. Se le alternative provenienti dalla cosiddetta sinistra dem si riducono alle infantili velleità di Roberto Speranza, ai tronfi proclami periferici di Michele Emiliano, ai nostalgici richiami di Enrico Rossi o addirittura ripiegano sul maligno ritorno del “molochiano” Pier Luigi Bersani, penso che Renzi farà il segretario dem per molto tempo, forse persino troppo.Messaggio in codice al fronte del No, interno ed esterno al Pd: tanto tuonò che non piovve.

Le salite al Colle

Tutti gli osservatori politici hanno bollato come paradossale la interminabile sfilata dei numerosi gruppuscoli parlamentari per le consultazioni al Quirinale in vista della formazione del governo post-referendario (che al limite potrebbe anche essere quello pre-referendario). Una inutile e massacrante maratona per il Capo dello Stato, che deve tuttavia rispettare l’istituzione parlamentare e queste Camere le quali oltretutto lo hanno eletto. Ebbene anche questa manfrina è, indirettamente e in prospettiva, un frutto paradossale del No alla riforma costituzionale ed elettorale. Si parla di bipartitismo, di bipolarismo, di tripolarismo e siamo arrivati a 23 gruppi parlamentari: troppa gente, troppi partiti, così da anni dice il popolo. Poi, quando si arriva al dunque, si vota per lasciare tutto com’è, magari solo perché chi propone di semplificare il sistema è antipatico, logorroico, fanfarone, toscanaccio.Come sostiene acutamente la giornalista, attenta analista e narratrice della politica italiana Marcelle Padovani, siamo di fronte ad “un paradosso totale, anche all’interno del Pd: come può la minoranza fare una battaglia contro Renzi pur chiedendogli di rimanere presidente del Consiglio e senza proporre un leader che possa gestire il partito? C’è qualcosa di imbarazzante in questo ragionamento. Vedo un povero Renzi accerchiato da un mucchio di irrazionalità contraddittorie, ma con una nota sicura e ricorrente che è: ‘Matteo non ti vogliamo, però tu devi fare quello che noi diciamo’ ” .D’altra parte basta le candidature emergenti in alternativa a Renzi per la segreteria del Pd sono molto modeste dal punto di vista qualitativo, improvvisate dal punto di vista storico, estremamente deboli sul piano politico. La minoranza dem è alla fase dei convegni per ricostruire il centro-sinistra. La maggioranza dem ha, come scrive Giovanna Casadio a cui bisogna fare un po’ di sconto, iniziato la gara tra “renziani” e “renzisti”, tra “ragionevoli e “tifosi”: può darsi che la giornalista lavori un po’ troppo di fantasia tra simpatie berlusconiane di Franceschini e velleità consultive del comitato del No, resta comunque un quadro paradossale, che purtroppo non finirà con la lunga processione al Quirinale. In un clima di tutti contro tutti venutosi a creare, sarà ben difficile varare una riforma elettorale razionale: probabilmente torneremo ad un sistema proporzionale quasi puro, in cui tutti, piccoli, grandi, destra, sinistra, centro, si sentono garantiti e sperano di essere rappresentati. E poi, l’inevitabile grande ammucchiata di governo con tanti saluti alla governabilità e alla stabilità. Se in primavera non si terranno le elezioni politiche, ci sono dietro l’angolo ben tre referendum promossi dalla Cgil : per tornare al vecchio articolo 18 dello statuto dei lavoratori, per abrogare i voucher e una norma sugli appalti che alleggerisce le responsabilità degli appaltanti in caso di violazioni nei confronti dei lavoratori da parte degli appaltatori. Si fa politica con lo stile di Penelope in attesa di un Ulisse che non arriverà mai.Benito Mussolini diceva che era impossibile governare l’Italia e conseguentemente fece quel che fece. Sul fatto che l’Italia sia ingovernabile sono d’accordo: la vicenda referendaria ne è una dimostrazione lampante. Negli Usa Trump ha risolto il problema: sta facendo esattamente l’opposto di quanto ha promesso in campagna elettorale. «La sua vittoria, scrive Michele Serra, è stata salutata come la presa del potere della classe lavoratrice bianca contro l’establishment politico finanziario. Fra un paio d’anni sarà chiaro che non ha vinto il popolo in rivolta, ma i ricconi con gli stivali, gli affaristi con il sigaro, i marines rapati a zero che vogliono spezzare le reni all’Iran e infine pochissime donne, però tutte rigorosamente maschiliste».Stiamo dunque attenti che anche in Italia non arrivi qualcuno che renda governabile il Paese con scorciatoie molto pericolose. Comportava rischi di autoritarismo la riforma Renzi-Boschi? Ma fatemi il piacere…“Se il Monte non va da Renzi, Renzi deve andare al Monte”Il difficile futuro del Monte dei Paschi di Siena turba mercati, risparmiatori, banchieri, politici, Italia, Europa. L’Europa da una parte ci tranquillizza relativamente con la perseveranza di mari Draghi, dall’altra ci sventola un cartellino giallo in materia di bilancio, dall’altra ancora ci sventola un cartellino rosso in materia di banche. Non voglio esagerare, ma anche questo prevedibile sviluppo non è estraneo al referendum. In un ritrovato clima di instabilità, senza continuità di riferimenti politici, è probabile che gli organismi europei competenti non se la siano sentita di concedere proroghe al tentativo di capitalizzazione che l’Istituto bancario ha avviato sul mercato. Anche perché i privati che avessero voluto investire avranno sicuramente e precipitosamente cambiato idea davanti al fantasma di un Paese ingovernabile e inaffidabile. Altro capolavoro del No. Se il monte Paschi è in questa situazione, molti fautori del No hanno in passato contribuito a portarglielo: mi riferisco agli ex-pci poi diventati Pd, di cui questa banca era il riferimento finanziario ed in cui hanno maneggiato assai; mi riferisco ai governi precedenti che non hanno voluto o potuto salvare questa banca quando le regole comunitarie lo consentivano e gli altri Paesi lo fecero; mi riferisco ai liberisti del cavolo che oggi addebitano a Renzi il tentativo fallito di attingere al capitale privato scommettendo sul futuro dell’Italia.È a dir poco curioso come improvvisamente sia diventato compatibile o addirittura vantaggioso impiegare soldi pubblici per ricapitalizzare una banca in difficoltà: ma non era operazione di finanza allegra intervenire a coprire i buchi di gestioni clientelari (erogazioni creditizie agli amici e agli amici degli amici), manager incompetenti (difesa della senesità a tutti i costi, gestioni fuori controllo), di operazioni spericolate (acquisizioni pressappochiste)? Non era quasi doveroso provare prima a verificare la disponibilità di capitale privato? La risposta è che si è tergiversato cercando interlocutori privati per evitare la brutta figura di stanziare fondi pubblici durante la campagna referendaria. Ma allora è buona cosa o no che il governo intervenga in Monte Paschi? Mi sembra, e vorrei sbagliarmi, che in un contesto di problemi difficilissimi il dibattito politico, ma anche il clamore mediatico, siano stati improntati al tifo da stadio.Si voleva un politica espansiva, salvo considerare tutto quel che faceva Renzi come manovre elettoralistiche e mance clientelari coi soldi pubblici. Dice l’autorevole sindaca di Parigi Anne Hidalgo: «Penso che il nostro governo socialista avrebbe dovuto chiedere più flessibilità, in particolare per rilanciare gli investimenti. Matteo Renzi ha tentato di farlo. Purtroppo è stato lasciato solo, non è stato sostenuto dalla Francia». Vorrei comunicare alla Hidalgo che purtroppo non è stato sostenuto neanche dall’Italia: non andava bene puntare i piedi a Bruxelles perché si rischiava di farci buttare fuori dall’Europa, almeno da quella che conta. Per impuntarsi bisogna avere i conti in ordine…, così dicevano gli autorevoli sfondatori di bilancio, gli euroscettici, gli economisti del piffero.Sul Monte Paschi Renzi ha deciso di non intervenire coi soldi pubblici tentando il ricorso al capitale privato. Sbagliato perché doveva utilizzare i fondi pubblici.Morale della favola Renzi ha sbagliato sempre e tutto. Staremo a vedere chi verrà dopo di lui…se non sarà ancora lui. Alternative serie non ne vedo, né prima né dopo le elezioni che tutti vogliono, assegnando ad esse un effetto taumaturgico, mentre in realtà una consultazione elettorale ravvicinata non farà che fotografare la penosa situazione politica esistente.

Il referendum e lo scaricabarile sociale

La chiave di lettura sociale dei risultati referendari dà il No particolarmente attivo tra i giovani e nel meridione. Se il disagio per mancanza di lavoro e crescente stato di povertà è alla basa del voto del No, qualificabile quindi anche come espressione elettorale di protesta, risulta conseguente che tale “ribellione” si annidi soprattutto nelle categorie ed i territori in cui le difficoltà economiche si sentono maggiormente e drammaticamente. Probabilmente inoltre per una fascia di elettorato sfiduciato e scontento, che prima trovava una (non) espressione nell’astensione dal voto, il referendum sulla riforma costituzionale ha paradossalmente rappresentato l’opportunità di tornare in cabina a tracciare un chiaro rifiuto sul sistema.Su questa saldatura tra il No e la protesta sociale, almeno per i giovani, ha certamente influito anche la benzina che il movimento 5 stelle sparge sul fuoco della insoddisfazione. Indubbiamente i grillini hanno intercettato un moto di ribellione, dandogli, bene o male, una rappresentanza politica e quindi, allorché questo movimento ha spinto in modo sguaiato ma efficace, verso il No, è stato seguito. Credo che questo fenomeno, di traduzione del disagio sociale in voto contrario alla riforma, sia solo parzialmente avvenuto sotto la spinta grillina: noto infatti che Grillo più che sul disagio sociale punta sull’antipolitica che è un sentimento trasversalmente e psicologicamente diffuso e che non sempre si sposa con il più oggettivo disagio sociale.Il No dei giovani e dei meridionali ha indubbiamente un significato da cogliere con realismo e serietà: un ulteriore segnale per una politica che voglia affrontare lo sviluppo dando prioritariamente risposte a chi ha motivazioni forti per chiederle a gran voce.Sono due discorsi diversi. Quello meridionale, antico, annoso, con mille sfaccettature di ordine sociologico (mafie), politico (clientele e spreco di finanziamenti), psicologico (inerzia individuale e di gruppo), educativo (scuola e attenzione alle giovani generazioni), economico (valorizzazione del patrimonio naturale, culturale, artistico, artigianale), europeo (solo in Europa e con l’aiuto dell’Europa si affronta questo problema).Il problema giovanile, che nelle aree meridionali si sovrappone a quello territoriale, è legato all’evoluzione del sistema economico e sociale: il calo occupazionale dovuto all’informatizzazione dei processi produttivi, alla razionalizzazione delle aziende pubbliche e private, al contenimento della spesa pubblica, al rialzo dell’età pensionabile, alla intellettualizzazione eccessiva della formazione culturale, alla mancanza di collegamento fra indirizzi scolastici e mondo del lavoro, alla deresponsabilizzazione dei giovani a livello famigliare, alla crisi valoriale generalizzata.Discorsi enormi che tuttavia stridono con il No alla revisione della Carta Costituzionale: si potrà certo dire che eliminare il bicameralismo perfetto non è la bacchetta magica per dare nuove opportunità di lavoro ai giovani, ma semplificare e rendere più efficace il sistema istituzionale è senza dubbio un presupposto per avviare un complessivo progetto rinnovatore e sviluppatore. Forse però pretendere questa fredda razionalità politica da chi si trova in gravissime difficoltà è un po’ troppo: gravi responsabilità incombono invece su chi soffia sul fuoco, creando false illusioni e proponendo assurde scorciatoie. Non è certamente serio prefigurare un presente roseo ed un futuro ancor più roseo: appunto che viene mosso al renzismo e che in parte ha una sua validità. Tuttavia mi sembra che sia in atto il maldestro tentativo di scaricare sull’esperienza governativa di Renzi problemi irrisolti da decenni o comunque riconducibile al sistema economico occidentale. Se non altro in questi ultimi anni qualcosa di concreto si è cercato di fare e mi sembra ingeneroso, oltre che poco credibile, l’appunto proveniente da personaggi e partiti carichi di enormi responsabilità nel passato remoto e recente, nonché da movimenti improvvisati e precipitevolissimevolmente risolutivi.Ecco perché giudico un passo indietro il No alla riforma costituzionale, un passo indietro che non serve affatto a prendere la rincorsa, ma a tenere bloccata tutta la situazione in attesa di cosa non ho ben capito.Il panico del PDChe il partito democratico potesse soffrisse di contraccolpi dalla sconfitta al referendum era facile prevederlo: una leadership messa in discussione, i partiti allo sbando, un quadro politico sfilacciato e frammentato, una crisi economica pesante, un rapporto difficile con l’Europa, un quadro istituzionale farraginoso e litigioso.Il motivo per cui non ho aderito al PD è sintetizzabile in una espressione che ho usato spesso nei miei scritti e nei miei dialoghi: il PD ha tutti i difetti della DC senza averne i pregi.Il dopo-referendum mi sta dando purtroppo ragione. Le correnti e i loro capi stanno esagerando e cadono nella trappola dell’anarchia, innescata da D’Alema e c. con una scriteriata e dissonante campagna elettorale, e proseguita con il ritorno isterico a certe pratiche che lasciano intendere accordi di mero potere (il doroteismo, vizio storico della democrazia cristiana). Tiro in ballo D’Alema, perché nutro nei suoi confronti una grande ammirazione sul piano intellettuale e financo culturale (ho sempre detto: se D’Alema mi proponesse di lavorare politicamente nel suo gruppo avrei serie difficoltà a dirgli di no). In questa fase politica non gli rimprovero tanto il risentimento verso Renzi per non essere stato designato alla carica di “ministro degli esteri europeo”, ruolo che avrebbe svolto con indubbia capacità, avvalendosi del carisma indiscutibile e dell’esperienza acquisita a livello mondiale; ritengo oltretutto un errore strategico e tattico di Renzi non avere recuperato D’Alema in questo ruolo, anche perché non sarebbe stato in contrasto col discorso della rottamazione (una questione generazionale e politica tutta italiana). Renzi in questi frangenti ha rivelato gravi limiti, anteponendo la sua strategia alla strategia del Paese e non sapendo ripiegare tatticamente su soluzioni atte a superare certe contrapposizioni eccessive e stucchevoli. Rimprovero invece a D’Alema il vizio di ripiegare continuamente sulla logica di potere camuffata da furbi tatticismi: con il referendum poi ha esagerato e ora forse sta perseverando e trascinando altri nell’errore. Mi dispiace.Non può essere quella degli accordicchi interni (di potere) la risposta. I problemi non mancano, ma proprio per questo dovrebbe prevalere il senso di responsabilità, la volontà di volare alto rispetto al prendere tempo in funzione del mero mantenimento del potere (il discorso vale per tutti) e basso rispetto ai problemi del Paese.Sul piano istituzionale il Pd si dovrebbe rimettere alle decisioni del Quirinale, dando al Presidente della Repubblica tutta la disponibilità e la collaborazione possibili: è lui, in questo momento più che mai, il garante della situazione e della tenuta del sistema democratico.Sul piano politico si abbia il coraggio di aprire il dibattito senza accentuare ulteriormente le già deleterie divaricazioni, ma al contrario recuperando un senso di unità sostanziale del partito. Questo nei momenti topici la DC lo sapeva fare. Ricordo di avere partecipato, da giovanissimo uditore, al congresso DC in cui Moro si staccò dalla maggioranza del partito (allora era segretario Flaminio Piccoli) di cui non condivideva più la linea politica. Fece un intervento di una profondità storica e di una bellezza incantevole. Non risparmiò attacchi durissimi al punto che nella platea dei delegati si scatenò un putiferio, volavano letteralmente le seggiole. Ebbene, Moro, che stava parlando, e Fanfani, che presiedeva il congresso, si scambiarono un paio di battute, facendo indirettamente capire che si poteva discutere anche aspramente senza rovinare tutto. Tornò la calma. Erano i cavalli di razza, già…La corsa contro gli immigratiIl comitato del No al referendum, quello più serio (promosso da Gustavo Zagrebelsky e Alessandro Pace) sta valutando di mantenere una mobilitazione e di considerarsi un soggetto civile nella partita politica. Questi illustri studiosi, a cui va tutto il mio rispetto, sostengono infatti che c’è vita al di fuori dei Palazzi della politica tradizionale e che la stravittoria del No è bene che non se la intestino i partiti politici, perché il movimento è stato assai più capillare e diffuso: la voce dei cittadini. La giudico una opportuna azione di indebito arricchimento verso i partiti, che, sentendosi vincitori, stanno cavalcando la situazione in modo indegno. Non sono convinto che questo comitato possa avere un futuro: si parla di Italicum, di referendum Cgil… La faccenda si complicherebbe.Sempre meglio comunque discutere di politica con certi professori che con i grillini Di Battista e Di Maio, i quali inebriati e accecati dall’illusorio successo, stanno brancolando nel buio e, come scrive Alessandra Longo, cominciano a gareggiare con la Lega, scoprendo il loro celodurismo di seconda mano anche nella delicata materia dei migranti, esibendo i muscoli dei pretendenti leader e premier, lanciando messaggi alla viva il parroco nel mare della Rete. D’altra parte l’Italia avrebbe raggiunto il triste primato in Europa per la xenofobia (il 52% degli italiani non si sente più a casa sua per colpa degli immigrati), mentre 5.400 comuni non ospitano alcun rifugiato. È molto interessante il raffronto di Ilvo Diamanti, che paragona il Movimento Cinque Stelle ad un “autobus”: gli elettori salgono con diversi obiettivi e destinazioni, al caso scendono sostituiti subito da altri passeggeri. In “questo momento storico”, l’autobus non può non intercettare l’umore medio degli utenti. Grillo ha lanciato da tempo l’allarme : «Attenti, gli immigrati portano Ebola!».

Il referendum delle beffe

Il No al referendum sulla riforma costituzionale aveva motivazioni politiche espresse, ma soprattutto carsiche, il cui collegamento con il merito delle nuove norme rimesse al giudizio dei cittadini era ed è non proprio fondato.In realtà, lo si è respirato durante la campagna elettorale e ancor più a risultato acquisito, si voleva soprattutto e innanzitutto mandare a casa Renzi. Ebbene, dopo un’ora e trenta minuti dall’inizio dello spoglio il premier prendeva atto onestamente e gagliardamente della sconfitta e ne tirava le conseguenze annunciando le sue dimissioni. Lasciamo stare se questa mossa sia stato un po’ avventata e imprudente: poteva almeno riservarsi di concordare modalità e tempi con il Presidente della Repubblica, ma bisogna anche capire la sua condizionante delusione e il suo carattere impulsivo. Reazione immediata e successiva dei politologi? La pretesa che fosse lo sconfitto a proporre soluzioni per il dopo: della serie “adesso però tocca a lui togliere le castagne dal fuoco”, dopo che gli altri ce le avevano buttate a più non posso. La prima assurdità, forse la più importante, dell’immediato dopo referendum. Sì, perché essendo lui anche il segretario del maggior partito italiano (questa la canonica giustificazione dei grilloparlanti), gli spetta comunque l’obbligo di proporre una via d’uscita al labirinto in cui ci siamo infilati. A mio modesto avviso sarebbe compito dei vincitori, di tutti quei signori che brindavano, indicare una strada nuova. È comodo distruggere per poi aspettare un nuovo progetto di costruzione. Fatto sta che Renzi è ancora al centro della scena politica, il pallino, anche dopo la formalizzazione delle dimissioni, è nelle sue mani, alla faccia di chi voleva mandarlo a casa in quattro e quattr’otto.Una seconda paradossale conseguenza, una vera e propria beffa, riguarda la vecchia politica, quella fatta di alchimie, di equilibrismi, di patti sotterranei, di tatticismi etc. Questo vecchiume andava spazzato via in nome dell’antipolitica, uno dei cavalli di battaglia del fronte del No (almeno di una parte non secondaria). Siamo ripiombati al contrario in una fase di incredibile e immemorabile confusione politico-istituzionale in cui ci vuole solo la freddezza e la razionalità di Mattarella per non soccombere. Si sovrappongono le ipotesi più disparate di governi, maggioranze, equilibri provvisori, combinazioni politiche le più strane. Tutto ciò la dice lunga sul velleitarismo semplificatorio a furor di popolo. Sciocchezze!La terza beffa: si voleva dare una sberla ai partiti, metterli in secondo piano, relegarli nel limbo se non all’inferno, ed essi ritornano “più belli, inconcludenti, litigiosi e superbi che pria”.La palma del migliore in assoluto va assegnata al Pd: era quasi scontato che in esso si scatenassero le correnti tenute faticosamente a bada dal leader-segretario. Non è parso vero a capi e capetti di tornare in gioco. Sembra che, come scrive Tommaso Ciriaco, “si aggirino in Transatlantico con l’elenco dei deputati da blindare. Fanno tutti così, perché non è più una guerra tra correnti, piuttosto un risiko tra fazioni”. Non mi scandalizzo, ne ho viste e sentite di peggio. Penso solo a chi ha votato No con la pancia e adesso si trova a fare i conti con la diarrea. Qualche esponente Pd (in vena di scherzare?) sembra che cerchi addirittura di strizzare l’occhio a Berlusconi: dopo tanta ostilità verso Verdini e Alfano si preferirebbe addirittura affogarsi nel mar grande. Il discorso ha coinvolto anche la base del partito scombussolata non poco dal referendum e dalle divisioni interne che lo hanno caratterizzato e condizionato (probabilmente anche nella dimensione dello scarto del Sì). Scrive Giovanna Casadio: «Davanti al Nazareno piovono insulti all’indirizzo dei dirigenti della minoranza del partito. È lo specchio della guerra civile che da domenica notte attraversa tutto il Pd, nelle piazze, in tv, sui social. Circola un volantino con le facce dei leader dem del No – D’Alema, Bersani, Speranza, Gotor, Emiliano – e la scritta: “Espulsione”». Capisco che queste manifestazioni politiche assomiglino al tifo da stadio, ma confesso che, per gli insulsi bastian contrari della cosiddetta sinistra Pd, sotto sotto ci godo, anche perché, come ha ricordato Renzi alla direzione del partito “nel Pd qualcuno ha festeggiato in modo prorompente e non elegantissimo la vittoria del No. Lo stile è come il coraggio di don Abbondio…” (sembra che qualcuno volesse proiettare durante la direzione del partito un video tv, quello in cui D’Alema e Speranza brindano alla sconfitta del premier e loro segretario politico nel corso della nottata referendaria). Dopo il capolavoro cucinato dalla sinistra dem, l’ex segretario Pierluigi Bersani, l’ex capo-gruppo della Camera Roberto Speranza, l’altro ex-segretario Guglielmo Epifani sono entrati in direzione dalla porta carraia, in auto, per evitare le contestazioni. Qualcuno, preso dal panico, ha addirittura chiesto ai vertici del partito una sorta di protezione per poter partecipare ai lavori della direzione senza rischiare insulti e financo percosse. Non sono un violento, ma questa volta confesso che due pattone ben date a questi signorNo non mi dispiacerebbero. Ho vissuto in prima persona la battaglia correntizia all’interno della DC dalle fila della sinistra interna di allora: fare la sinistra nella Democrazia Cristiana era un compito ben più arduo che non farla nel Partito democratico, infatti era una cosa seria, molto diversa dalle esercitazioni retoriche di chi magari viene dal Pci e non ha fatto in tempo ad esercitarsi sulla democrazia interna laddove vigeva un regime di centralismo burocratico.Anche gli altri partiti, magari un po’ più sotto traccia, stanno litigando. Forza Italia parla dieci o dodici lingue con i suoi diversi esponenti (non mi fanno rabbia, mi ispirano compassione e tenerezza, perché si sa che non contano un cazzo e la berranno dalla botte Fininvest o finiranno nelle grinfie di Salvini), mentre Berlusconi (sempre più pitturato nella testa e nel cuore: auguri sinceri, comunque) ne parla già tre o quattro per conto suo e delle sue aziende.Nella Lega sembra che tutto viaggi sulle ali di Salvini, ma Umberto Bossi, per quanto gli riesce, scalpita, Roberto Maroni spesso indossa il doppiopetto e anche la base tradizionale credo non sia tutta entusiasta della deriva nazionalista del segretario.Il nuovo-centro destra (nuovo soprattutto perché in continua evoluzione o involuzione) sta perdendo voti, colpi e pezzi davanti alle difficili prospettive elettorali o governative: tutti preoccupati di accasarsi al meglio senza rischiare di incespicare sulle soglie.I grillini litigano sulla tattica (tra la precipitosa e strumentale conversione all’Italicum e la tramontata opzione per il proporzionale), sulle candidature a premier (forse stanno precorrendo i tempi: porta sfortuna), sui provvedimenti da adottare nei confronti dei falsificatori di firme (c’è che rischia di salvarsi e chi no), sul giudizio verso la sindaca Raggi (chi non la sopporta e chi la supporta), sulla faccia che qualcuno teme di cominciare a perdere (sul web o in piazza). Beppe Grillo, il gran furbacchione se ne sta accorgendo e se ne tiene in disparte. Forse si accontenta degli endorsement populisti d’oltre confine (prima o poi dovrà risponderne, soprattutto su Euro e migranti).La sinistra extra Pd, messa a soqquadro anche dalla provocatoria iniziativa pisapiana di rassemblare l’area progressista in collegamento col Pd renziano, si spacca ancor più di quanto non sia già spaccata (Sel, SI, sindaci irrequieti). Come scrive Michele Serra “in base ai requisiti cari alla sinistra-sinistra più tipica, che sono il settarismo e l’insensatezza, i vari partitelli e clubbini che annaspano alla sinistra del Pd, spartendosi non si capisce bene quale eredità ideologica, se la cavano soprattutto con alzate di spalle e con qualche insolenza”. Loro sono contro Renzi (hanno trovato il nemico), il resto non conta nulla. Mantengono intatta la loro vocazione rigidamente minoritaria. Molti di essi giudicano le proposte riaggreganti e dialoganti di Pisapia fuori dal mondo: in quell’area politica è una gara dura capire chi lo è di più.La beffa dulcis in fundo: ai tortuosi percorsi istituzionali ed alle confuse tattiche di partito rischia di sovrapporsi, come scrive Alberto D’Argenio, “una guerra generazionale che attraversa il Palazzo. Giovani contro vecchi. Anche se questa volta i ruoli si rovesciano e a difendere il privilegio sono i giovani. Che meditano, ne parlano nei classici capannelli nei corridoi di Camera e Senato. E studiano il blitz. Con un solo obiettivo: mettere le mani sulla pensione. Urgenza che potrebbe anche mandare all’aria i piani dei leader che aspirano a chiudere subito con questa legislatura e giocarsi tutto al voto”. Il parlamentare infatti matura il diritto al pensione, da incassare al compimento del 65esimo compleanno, dopo 4 anni, sei mesi e un giorno e per i deputati attuali di primo pelo il giorno fatidico è il 15 settembre 2016. È possibile, azzarda D’Argenio, “che il trasversalissimo partito dei giovani cerchi un escamotage per arrivare alla pensione senza clamori e senza tradire i propri partiti: una delibera di Presidenza di Camera e Senato che cambi le regole (di soppiatto, senza passare dall’aula) e anticipi a quattro gli anni per arrivare alla pensione”. Si tratterebbe di traccheggiare fino al 15 marzo, poi tutti salvi.Sarebbe la ciliegina sulla torta referendaria. Auguri! È la nuova politica del dopo referendum, stupido! Ammetto che davanti a questi scenari le dissertazioni accademiche dei professori (Stefano Rodotà) su quanto conti la voce dei cittadini dopo il referendum assumono un carattere patetico, quasi commovente. Qualcuno sostiene che i professori dovrebbero restare in cattedra e non immischiarsi con la politica: auspicio forte, ingeneroso, ma …Non incespichiamo sulla Scala…L’inaugurazione della stagione lirica alla Scala di Milano ha avuto il solito contorno esterno di proteste sociali a fare da contraltare al lusso ed alla mondanità del contorno interno. In un certo senso due facce della stessa anacronistica medaglia.Quando capiremo che l’importanza di un evento culturale non dipende dalla cornice vip, che per andare a teatro, come sosteneva mio padre, non occorre l’abito di gala ma il biglietto? Certo, anche la cultura ha la sua ritualità esteriore, ma un po’ di sobrietà non farebbe male alla cultura, alla musica lirica, alla Scala di Milano e a Milano (questa città ha enormi potenzialità, grandi capacità realizzative, ma poco stile…).Quando capiremo che l’attenzione ai problemi sociali non passa dalla contestazione degli eventi di alto livello artistico-mondano (entro cui e dietro cui oltretutto si muovono tanto lavoro, tante imprese, tanto turismo, tante possibilità di sviluppo): l’arte e lo spettacolo sono infatti, per l’Italia in particolare, una miniera da sfruttare per la crescita culturale, ma anche per quella economica. Capisco la rabbia di chi combatte a denti stretti per difendere il suo posto di lavoro o di chi addirittura l’ha perso e quindi non condanno le proteste, che tuttavia non servono a nulla, rischiano addirittura di essere controproducenti. Altro discorso è valutare l’impatto del teatro lirico sulle casse nazionali, fare il bilancio costi-benefici, non sprecare danaro pubblico e non difendere i privilegi, gli sprechi, i corporativismi, le sovrastrutture e il sottobosco teatrali.Quest’anno la Rai ha pensato (bene) di offrire al suo vasto pubblico la diretta dell’inaugurazione scaligera con una ripresa della partitura originale di Butterfly. Un successo inevitabile ed eloquente per una proposta interessante e accurata da parte della Scala di Milano (resta il più grande teatro lirico del mondo). La Rai però potrebbe fare qualcosa di meglio: non farsi condizionare troppo dall’arido riscontro dei dati audience (non siamo al festival di San Remo); smetterla di rincorrere l’aspetto mondano della manifestazione puntando sui contenuti culturali, dando magari in mano il microfono a qualche musicologo ed esperto (togliendolo alle Carlucci, alle Scorzoni, ai Di Bella che c’entrano come i cavoli a merenda), che, senza esagerare, sappia rendere al grande pubblico il servizio di presentare i contenuti dell’opera e guidarlo ad un più consapevole ascolto; collocare con più rigore e buongusto i messaggi pubblicitari (vedere al riguardo il concerto di Capodanno da Vienna); rispettare e trasmettere anche i momenti di breve ma intensa attesa, le entrate del direttore, gli applausi finali: il teatro è fatto anche di queste cose e bisogna consegnarle intatte allo spettatore televisivo senza privarlo dell’atmosfera teatrale che è qualcosa di meraviglioso. Chissà perché al pubblico televisivo non è stato proposta la lettura del messaggio inviato dal presidente della Repubblica e letto al proscenio dal sovrintendente, nel quale il capo dello Stato giustificava la sua assenza per problemi istituzionali molto importanti. Sarebbe stato un modo per collocare l’evento nel contesto nazionale senza paura di disturbarne l’appeal squisitamente culturale o di rovinare la serata deconcentrando il pubblico; ne avrebbe oltretutto guadagnato anche l’esecuzione dell’inno nazionale, sempre emozionante, ma che trovava poca rispondenza emotiva nel basso profilo della prima fila delle autorità in palco reale.