Armiamoci e…morite

Il 15 maggio 2014 Papa Francesco ai diplomatici di tutto il mondo, ricevuti in udienza, disse:   «Sarebbe un’assurda contraddizione parlare di pace, negoziare la pace e, al tempo stesso, promuovere o permettere il commercio delle armi».

Lo hanno preso in parola, al contrario di quanto volesse auspicare, e infatti chi parla più di pace? E coerentemente le spese militari sono cresciute di oltre l’otto per cento in cinque anni. Alcuni Stati, India, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Cina e Algeria, comprano il 34 per cento di tutte le armi presenti sul mercato. Usa e Russia vendono il 56 per cento del totale delle armi trafficate, ma anche Cina, Francia e Germania non scherzano col loro 18 per cento. Le cosiddette grandi potenze insomma infestano letteralmente di armi il mondo intero. L’Italia vende il 2,7 per cento del totale ed è ottava in classifica (niente male…), mentre è al 25esimo posto nella classifica degli importatori (da Usa, Germania, Israele). Tutti dati pubblicati di recente.

La cifra sconvolgente però è quella della spesa globale in armamenti che ha raggiunto 1.676 miliardi di dollari equivalenti al 2,3 per cento del prodotto interno lordo mondiale. In parole povere significa che su cento di beni e servizi prodotti nel mondo, 2,3 se ne vanno in armamenti. Non ho idea quante persone si potrebbero sfamare con questa cifra astronomica, ma non voglio fare demagogia sulla pelle di chi muore di fame e di sete.

Dicevo sopra che nessuno parla più di pace, ma di riarmo, di rafforzare le proprie difese (?), di aumentare la spesa militare: è un macabro botta e risposta innescato ultimamente dalla pazzia del nuovo presidente Usa a cui hanno risposto per le rime la Russia, la Cina etc. etc. Tira aria di corsa agli armamenti, convenzionali e nucleari. I destini nel mondo sono, come non mai, nella mani di personaggi incredibilmente inaffidabili, che oltretutto stanno facendo proseliti a livello di stati e di popoli. Mettete virtualmente intorno a un tavolo l’americano Donal Trump, il russo Vladimir Putin, il cinese Xi Jinping, il nord-coreano Kim Jong-un e magari aggiungete un posto per il turco Recep Tayyip Erdogan e provate a pensare cosa ne potrà sortire.

Si è creato un clima competitivo ed antagonistico tale da spingere la “Casa Nera” di Trump a dispiegare forze speciali per liberare Raqqa, la capitale siriana dello Stato islamico: in realtà solo la scriteriata voglia di invertire la tendenza obamiana del non-intervento e per creare i presupposti del sedersi a pieni titolo ai tavoli di guerra; la Corea del Nord si diverte a lancia a titolo sperimentale ordigni nucleari e gli Usa rispondono dispiegando nella Corea del Sud lo scudo anti-missile, che però non entusiasma gli ospitanti (?) di questo sistema protettivo e dà fastidio, e non poco, alla Cina. Detto fra i denti, l’atteggiamento della Cina sembra il più equilibrato e sensato: è tutto dire. Schermaglie atomiche, fiammiferi accesi che si aggirano intorno a un barile pieno di benzina.

Contemporaneamente si legge che (dati Onu) 100mila persone stanno morendo in Sud Sudan per la carestia. Secondo l’Unicef sono 10,2 milioni gli Etiopi che hanno urgente bisogno di aiuti alimentari. E purtroppo non sono i soli nel mondo.

Da una parte ci sono gli equilibri internazionali ricercati e basati da sempre sulla carne da cannone, dall’altra il pietismo internazionale fatto (spesso) business, in mezzo milioni di uomini che soffrono e muoiono di guerra, fame e sete.

E noi, che ci siamo fatti crescere un bel po’ di pelo sullo stomaco, facciamo finta di niente. Viviamo e speculiamo sulle miserie altrui e, se, per caso, qualcuno (ormai cominciano ad essere molti) ci viene ad interpellare, ci chiediamo e gli chiediamo come si permette di romperci le scatole e lo mettiamo alla porta.

Qualche pseudo-religione fa della fine catastrofica del mondo il proprio leitmotiv. Ma, se alziamo lo sguardo, quella che abbiamo sotto gli occhi non è già potenzialmente la fine del mondo? Cosa ci vuole di più?

Il dubbio atroce riguarda il cosa fare. Dobbiamo rimetterci al volere dei grandi sulla terra, scaricando su di loro le responsabilità, come se fossero degli alieni capitati per caso in mezzo a noi e non i rappresentanti di un (dis)ordine mondiale che ci coinvolge tutti?

Non voglio battere sempre sullo stesso chiodo, ma se andiamo dietro ai Trump collocati nel mondo, cosa pensiamo di ricavarne? Mi si dirà che anche gli Obama non hanno fatto granché. È vero, ma se diamo persa la partita, sarà arduo riuscire a vincerla o almeno a giocarla dignitosamente.

Sono partito dal Papa e passo a mio papà. Nella sua semplicità, quando osservava l’enorme quantità di armi prodotta, rimaneva sconfortato e concludeva per un inevitabile inasprirsi dei conflitti al fine di poter smaltire queste scorte diversamente invendute ed inutilizzate. «S’in fan miga dil guéri, cò nin fani ‘d tùtti chìli ärmi lì?» si chiedeva desolatamente.

Aveva ragione, ma non basta. Quando infatti ci presenteremo al trono dell’Altissimo non ce la potremo cavare al basso prezzo di scaricare sul sistema la responsabilità delle tragedie umane. Non sarà così facile saltarci fuori. Perché chi ci ha collocato su questa terra, affidandoci, fra l’altro, la mission di trattarla come un giardino, chiederà automaticamente: «E tu?». Io mi schifavo, scrivevo, parlavo, gridavo. «E poi?». Criticavo, condannavo, protestavo, mi agitavo. «Meglio di niente…e poi?». Urlavo che era tutto ingiusto e sbagliato. «Ascolta…ho capito non hai fatto niente» concluderà minacciosamente il Giudice dei vivi e dei morti.

Il Padre Eterno mi scuserà ma mi sovviene un gustoso episodio, che serve anche a sdrammatizzare la situazione, senza peraltro minimizzarla o sottovalutarla.

Nel periodo immediatamente successivo alla mia andata in pensione incontrai un arguto e simpatico conoscente, che mi chiese cosa stessi facendo dopo la svolta pensionistica della mia esistenza. Mi affannai a spiegargli come fossi impegnato a scrivere, a leggere, a dialogare, a mettere la mia esperienza a disposizione di Tizio e Caio, etc. Mi guardò e, tra il serio e il faceto mi gelò dicendomi: «Ho capito…non fai un cazzo!». Presi, incartai e portai a casa.

La patologica ordinaria trascuratezza

La fogliazione dei giornali quotidiani di oggi, 10 marzo 2017, concede largo spazio, nelle pagine successive alla prima, a notizie, argomenti e temi diversi, che, tuttavia, pur nel loro diverso rilievo e nella loro diversa natura sono, a mio giudizio, riconducibili ad un’unica singolare lettura e ad una medesima originale riflessione: in Italia si legifera, si governa, si amministra, si giudica con l’occhio rivolto allo straordinario, trascurando sciaguratamente l’ordinario, il quotidiano, la normalità, che diventa banale ma tragica dimenticanza.

Primo drammatico evento: crolla un viadotto sull’autostrada, muoiono schiacciate due persone sulla loro auto che transita occasionalmente e precipitano ferendosi tre operai che stavano lavorando accanto a quel viadotto per sopraelevarlo. Si cercheranno le cause di questo crollo: eventi simili si erano già verificati negli anni scorsi. Si doveva chiudere il transito su quel tratto autostradale sottostante? Si, no, nessuno al momento è in grado di dirlo. Il progetto dei lavori era valido? Risponderanno le perizie tecniche. C’è di mezzo un errore umano? Lo stabilirà la magistratura che determinerà eventuali responsabilità. Una cosa è certa: non si dovrebbe morire a causa di normali lavori di manutenzione. O non erano normali e allora qualcuno ha cannato di grosso o, se erano normali, non ci dovevano essere problemi tali da mettere a repentaglio vite umane. Probabilmente si tratta di lavori normali, eseguiti male e/o in ritardo e/o usando materiali inadatti e/o impiegando mano d’opera inadeguata. Insomma l’ordinarietà male affrontata, che diventa una trappola mortale.

Secondo evento di tutt’altro genere: i voucher d’ora in poi saranno utilizzati solo a certe condizioni e in casi riguardanti rapporti di lavoro indiscutibilmente non a tempo indeterminato e quindi di carattere meramente occasionale. La CGIL con la sua richiesta referendaria voleva eliminarli completamente con uno straordinario Sì all’abrogazione della legge che li regolamenta ed insiste su questa intenzione; il governa tenta di mantenerne in vigore l’uso ordinario volto soprattutto a sburocratizzare i rapporti di lavoro meno strutturati, facendoli tuttavia uscire dall’area nera.   Un altro caso di messa in discussione dell’approccio pragmatico all’ordinarietà della vita lavorativa, rifiutato da chi vuole straordinariamente (referendum) non vedere ed eliminare la quotidianità di lavori precari e temporanei.

Terzo evento in materia di diritti civili: il tribunale di Firenze accoglie le istanze presentate da due coppie gay per il riconoscimento di adozioni di bambini, intervenute all’estero. La legge italiana non ammette questo tipo di adozione, ma la magistratura ne riconosce ed ammette la legittima straordinarietà. Un altro caso di carenza nell’affrontare l’ordinarietà della vita per poi dover sistemare in qualche modo gli effetti straordinari conseguenti a tale carenza.

Quarto evento in materia di spending review: si era deciso straordinariamente di contenere l’uso degli aerei blu (voli di rappresentanza a disposizione delle cariche istituzionali), considerandoli uno spreco inutile e vendendoli di conseguenza, così come era stato deciso di fare per certi beni immobili demaniali inutilizzati. Niente da fare, ciò si è rivelato impossibile (per diversi motivi) e questi beni, usciti dalla ipotetica porta del parsimonioso straordinario, rientrano dalla realistica finestra dello spendaccione ordinario. Quattro esempi che ho posto, a prescindere dal merito delle materie che li sottendono. In poche parole si tende sempre e comunque a rincorrere l’ipotetica perfezione di interventi nuovi e definitivi a scapito degli interventi inquadrabili nella normale routine. Un po’ come succede quando in una famiglia si decide di cambiare casa e in attesa di questo nuovo investimento si tende a sottovalutare gli interventi di ordinaria manutenzione. Può avere un senso se la nuova casa arriva in fretta, diversamente rischia di caderci addosso la vecchia casa senza più bisogno di averne una nuova.

Anche nei programmi politici e nei giudizi sugli stessi tendiamo sempre ad alzare l’asticella in nome del cosiddetto benaltrismo. Voliamo alto e regolarmente non vediamo quel che avviene in basso, salvo poi precipitarci sopra. Persino il governo Gentiloni potrebbe finire cadendo, come nel baseball, in una sorta di “battuta di sacrificio” per ottenere i vantaggi futuri di un governo tutto da “inventare”.

Sarà forse il caso di darsi una regolata, a tutti i livelli, per dedicarsi innanzitutto e soprattutto a impostare e far ben funzionare l’esistente ed a migliorare l’ordinario, prima di rincorrere le sacrosante novità, che tuttavia rischiano di essere campate in aria. Bisognerà sbrigarsi a cambiare mentalità prima che arrivi chi garantisce l’ordinario a tutti i costi (leggi i treni in orario) e che la gente sia “costretta” a credergli. Tanto, se poi le promesse non vengono mantenute, chi se ne frega. Trump è stato eletto presidente degli USA in questo modo e per abbattere le illusioni ordinarie ci vorranno tempi straordinari.

 

Ragion di Stato e…di stadio

Papa Francesco, nell’ambito di una intervista rilasciata a “Scarp de’ tenis”, mensile di strada milanese, ha dichiarato riguardo agli immigrati: «Quelli che arrivano in Europa scappano dalla guerra o dalla fame. E noi siamo in qualche modo colpevoli perché sfruttiamo le loro terre, ma non facciamo alcun tipo di investimento affinché loro possano trarre beneficio. Hanno il diritto di emigrare e hanno diritto ad essere accolti e aiutati».

Angela Merkel, la cancelliera tedesca alla spasmodica ricerca di credibilità e di consenso sul delicato e complesso tema dell’immigrazione in vista delle prossime elezioni in cui si è ricandidata, lo ha preso in parola (si fa per dire) e, dopo essersi sbilanciata, qualche tempo fa, in aperture significative e coraggiose verso i disperati provenienti soprattutto dal martoriato territorio siriano, ha tirato il freno a mano, prima facendo sborsare alla UE un’enorme cifra alla Turchia in cambio di un impegno a contenere il flusso e a tamponare in qualche modo l’emorragia migratoria, attualmente andando in giro per l’Africa, offrendo, questa volta in proprio (le casse tedesche), a Egitto e Tunisia cospicui fondi (in totale sarebbero 750 milioni di euro) per ottenerne l’impegno a combattere gli scafisti, a collaborare ai rimpatri ed ai respingimenti.

Da paladina del diritto all’accoglienza si è trasformata in elemosiniera del “purché stiano a casa loro”. Mi sovviene una battuta che sparava spesso un mio carissimo e simpatico zio allorquando salutava un amico: «Veh, quand at me vôl gnir a catär…sta a ca tòvva».

Non si è investito per tempo in aiuti seri ai Paesi in via di sviluppo ed ora si cerca di correre ai ripari elargendo aiuti a Paesi, in certi casi di provata prassi anti-democratica, disposti a non andare tanto per il sottile con i potenziali migranti pur di incassare fondi che non si sa dove vadano a finire. In poche parole si appalta il lavoro sporco, mettendo formalmente a tacere la propria coscienza. Credo che papa Francesco intendesse qualcosa di diverso.

Una volta arrivati in Europa (almeno così succede spesso in Italia, altrove non so) gli immigrati vengono spesso ammassati in veri e propri ghetti a disposizione del caporalato che li sfrutta e li umilia. Poi quando diventano troppo ingombranti si incendiano le baracche in cui dormono, si procede a frettolosi e agghiaccianti sgomberi mettendo in azione le ruspe. E abbiamo persino il becco di ferro di sostenere che vengono a rubarci il pane e il lavoro. Se non è razzismo, cos’è?

Il razzismo rientra nel pacchetto dei peggiori istinti dell’uomo e lo stadio è un luogo dove si sfogano tali istinti, tra questi in primis l’odio razziale. Fino a qualche tempo fa i penosi governanti del mondo calcistico, che di sport non ha più nulla, mentre ha tutti i difetti possibili e immaginabili della società in cui è perfettamente inquadrato, avevano dichiarato nominalmente guerra allo sfogatoio razzista degli stadi, più minacciando più che comminando sanzioni piuttosto pesanti ai club ed ai protagonisti di episodi inqualificabili.

Ebbene, le multe sono state ultimamente molto alleggerite, la tolleranza si è alzata ben sopra lo zero: nel momento in cui le società calcistiche si sono rese conto del danno ricavabile e del rischio di svuotare ulteriormente gli stadi, hanno ottenuto una spiccata marcia indietro dagli organi federali. Sembra che la nuova logica sia quella del permissivismo: gridate, ma non troppo; offendete, ma fino ad un certo punto; odiatevi, ma con un tocco di ironia. Staremo a vedere se il confermato presidente Tavecchio, libero dai condizionamenti della ricerca del consenso, saprà affrancarsi anche dalle preoccupazioni dei suoi schizofrenici elettori: se vuotiamo gli stadi, chiudiamo le curve, scontentiamo gli ultras, cosa succede?

Le curve degli stadi sono molto importanti nella strategia calcistica. Mi scappa detto che siano più apprezzate, vezzeggiate ed ammirate delle curve delle belle donne. Un tempo, vado al periodo in cui le frequentavo da ragazzino assieme a mio padre (le curve, non le belle donne…), erano i contenitori del pubblico povero ma pulito (come il loggione a teatro), dove si stava in piedi e ci si bagnava, dove si vedeva sì e no metà partita ma la si soffriva tutta, senza gridare perché l’urlo non arrivava a destinazione, dove ci si conosceva e si scherzava. Poi sono diventate il luogo del tifo organizzato, della tentazione violenta, della contestazione cattiva. Oggi sono le padrone dello stadio, dentro e fuori di esso; condizionano le società e le squadre, con scioperi del tifo, striscioni provocatori, contestazioni pacifiche o violente; influenzano l’andamento delle partite imponendo persino scelte tecniche; dialogano con i giocatori da cui ricevono scuse e riconoscimenti; sembra che siano la sede del bagarinaggio di biglietti e abbonamenti; qualcuno le ipotizza come interlocutrici della ’ndrangheta; sono la spina nel fianco, la croce e la delizia dei patron, da cui sono peraltro spesso foraggiate; vengono ricevuti in pompa magna dagli stati maggiori delle società; sono il campo di battaglia per “guerre” che col calcio non hanno nulla a che vedere, lo sfogatoio criminale di un mondo giovanile deviato, il luogo accogliente e dimostrativo per i peggiori istinti socio-politici, dal razzismo al fascismo, dall’omofobia al nazismo. Tutti conoscono queste anomalie, però ci vanno cauti: i media condannano la violenza, ma poi finiscono indirettamente con l’incitarla tramite le loro assurde menate; i presidenti delle società hanno lì, bene o male, il loro retroterra popolare e un loro interesse economico; i giocatori trovano lì i loro assurdi ed esagerati momenti di gloria (pagati a caro prezzo nel momento della sconfitta); gli allenatori hanno il loro destino che dipende anche dagli ultras e quindi…; gli arbitri non si permetterebbero mai di sospendere una partita facendo un dispetto alla curva, semmai sarà la curva che imporrà la sospensione della partita all’arbitro (è già successo).

Sul razzismo possono andare in crisi i governi, ma il calcio no. Lasciateci godere in pace il pallone. Tutt’al più possiamo scandalizzarci e arrabbiarci per i soliti arbitraggi ad usum Delphini (che fa rima con Juventini) e per le classifiche bugiarde. Davanti alla corruzione e al malaffare vigente nel calcio non sappiamo far altro che alzare le spalle. Di fronte alle urla e agli striscioni razzisti facciamo finta di essere sordi e ciechi. Forse li siamo veramente. Che società di merda!

La Cina è vicina

Non ho mai sopportato e non accetto tuttora lo scandalismo costruito strumentalmente intorno al trattamento economico dei parlamentari, dei ministri e dei più alti funzionari pubblici ( magistrati, etc.). Se devo essere sincero mi infastidiscono invece i lauti guadagni dei divi dello sport e dello spettacolo. Mi si dirà che sono una questione privata, che non influisce sulle casse erariali. Sì, anche se alla fine tutto riguarda tutti e restano uno scandalo assai più degli stipendi dei deputati o dei consiglieri regionali.

Anche la polemica sui costi della politica non mi entusiasma. Mio padre di fronte a tali discorsi diceva ironicamente: «Se spendäva meno quand a cmandäva vón e chiètor i dzèvon sémpor äd sì…». Sono del parere che il denaro pubblico impiegato per far funzionare le istituzioni democratiche sia ben speso. Se le istituzioni non funzionano, è un altro discorso: ma il problema non si risolve “minimalizzando” la politica, ma massimizzando la sua efficienza e la sua vicinanza alle istanze dei cittadini.

Qualcuno direbbe che la politica, con i suoi costi, è un male necessario; io vado ben oltre ed esprimo la netta convinzione, nonostante tutto, che sia un bene opportuno ed importante.

Altri discorsi sono la corruzione, la scorrettezza, l’accaparramento scorretto e sleale da parte dei politici. Ricordiamoci che la congruità del compenso dovrebbe essere inversamente proporzionale alla propensione a confondere la politica con gli affari e gli interessi personali.

Lo stesso Matteo Renzi ha sbagliato, a mio giudizio, a legare seccamente la bontà della riforma costituzionale, portata avanti in questi anni e sottoposta al vaglio referendario dei cittadini, con la diminuzione, sic et simpliciter, delle poltrone e del conseguente loro peso economico. Non si tratta di tagliare per tagliare, ma di tarare quantitativamente e qualitativamente la politica e le Istituzioni sulle esigenze di una società in trasformazione continua e sulle sue caratteristiche essenziali. Il Senato non andrebbe abolito per sfoltire e per risparmiare, ma per togliere o ridimensionare un organo istituzionale che con l’andare del tempo si è rivelato alquanto pleonastico e ripetitivo.

Certo, se partiamo col considerare chi fa la scelta di dedicarsi a tempo pieno alla politica come un fannullone, un privilegiato, un profittatore, una sanguisuga, un contaballe, arriviamo a pericolosissime conclusioni, mettendo in discussione i meccanismi della democrazia rappresentativa e della democrazia stessa, e dal momento che non ne è ancora stata escogitata una forma credibile diversa…

Non è nemmeno un discorso serio l’auto-abbattimento dei compensi a significare che sono eccessivi e spropositati rispetto all’impegno e alle responsabilità di chi li percepisce. Si tratta di determinarli in modo equo e tali da garantire una retribuzione dignitosa e corrispondente al tipo di vita richiesto per assolvere al meglio la funzione assegnata. Il pauperismo non è per la politica, così come il volontariato o il vocazionismo etico. Non dobbiamo prenderci in giro con menate demagogiche.

Ciò non toglie che vadano eliminati assurdi privilegi e favoritismi più fastidiosi che costosi. Si faccia una volta per tutte una sana riforma degli emolumenti, dei rimborsi spese e dei trattamenti pensionistici dei componenti delle istituzioni a tutti i livelli, ministri, parlamentari, consiglieri, assessori e governatori regionali, consiglieri ed assessori comunali, sindaci, e poi si smetta una buona volta di fare inutili e fuorvianti polemiche.

Troppo spesso emergono episodi di abusi e scorrettezze e qui occorrerà vigilare e colpire con fermezza e severità, evitando le solite generalizzazioni al peggio.

Il capitolo dei rimborsi spese è forse quello più delicato che si presta ad abusi, frodi e manovre clientelari e familistiche. Si sono registrate in passato vicende decisamente poco simpatiche, alcune delle quali hanno trovato tuttavia un ridimensionamento, se non addirittura una rimozione, a livello giudiziario (sarebbe il caso, da parte degli organi indaganti, di essere un tantino più cauti e circostanziati).

Al riguardo starebbe emergendo un bel vespaio anche a livello europeo in capo ai parlamentari, alcuni dei quali facenti parte di movimenti spiccatamente antieuropei o euroscettici: della serie l’Europa non ci piace, ma i suoi fondi ci fanno comodo. Il curioso dato politico è questo.

Se non erro, a livello storico, i rivoluzionari, per fare guerra ai regimi, si sono serviti anche degli strumenti di regime: inglesi, francesi, polacchi, italiani, sembra che giocassero sull’equivoco dei loro collaboratori fuori sede in tutt’altre faccende affaccendati. Si difenderanno magari dietro un banale “il fine giustifica i mezzi”?. Resterebbe da capire qual è il fine e quali sono i mezzi.

Il condizionale è sempre d’obbligo e, leggendo sui giornali le controdeduzioni dei parlamentari europei coinvolti, rappresentanti dell’Italia, si nota innanzitutto un livello culturale molto modesto e vengono forse a galla molta faciloneria e parecchio pressappochismo più che veri e propri disegni fraudolenti per aggirare le regole.

 

Quel che si capisce è che questi parlamentari europei hanno sicuramente agito con leggerezza nell’usufruire di fondi europei per il rimborso delle loro spese. Solo pasticcioni dunque? Staremo a vedere, senza condannare nessuno anzitempo, ma chiedendo da subito almeno più attenzione e scrupolo nel maneggiare quantità consistenti di soldi pubblici (europei o italiani che siano).

Ho recentemente sentito finalmente affrontare il discorso della remunerazione dei politici con giusto taglio realistico: come si può chiedere competenza, esperienza, dedizione, impegno, responsabilità a persone che devono in tutto o in gran parte abbandonare la loro attività professionale, non garantendo loro una remunerazione che consenta, se non di lucrare, almeno di contenere i danni? Altrimenti rischiamo di rivolgerci ad una platea di incapaci ed incompetenti, per i quali, allora sì, la remunerazione diventa una opportunità di comodo rifugio.

Un problema diverso riguarda il finanziamento pubblico dei partiti. Non credo alle vie di mezzo. Da una parte il finanziamento pubblico si presta a sprechi e utilizzi deviati o devianti; dall’altra parte l’autofinanziamento espone la politica alla indebita pressione di lobby e interessi privati forti. Dal momento che la prima forma non esclude automaticamente e categoricamente la seconda, tanto varrebbe puntare sull’autofinanziamento instaurando efficaci meccanismi di tracciabilità dei fondi che viaggiano da una Fondazione all’altra, da un giornale di partito o di area all’altro, in un mix in cui si rischia di non capire chi dà e chi riceve, chi manovra e chi fa politica, chi vuole sostenere certi partiti e chi vuole lucrare certe protezioni e certi favoritismi, anticamera della corruzione.

Entriamo nella zona grigia in cui il confine tra politica e affari non si coglie. Tutto ciò fa molto più paura degli stipendi e dei vitalizi dei parlamentari a cui torno, in conclusione, per riaffermare come sia controproducente e squalificante la gara populistica per l’abbattimento degli emolumenti ai politici, fino ad arrivare a chi provocatoriamente li vuole eliminare come nella Costituzione cubana (diventiamo cinesi, quando i cinesi si stanno convertendo ai meccanismi occidentali? Magari diamo loro anche una tuta di stoffa grezza, meglio se grigia…), a chi   gioca a fare il primo della classe rinunciando a parte dello stipendio da devolvere a fini di pubblica utilità (devono rimanere ammirevoli scelte personali che non fanno regola), a chi vuole istituire un redditometro per i parlamentari (mi sembra che i meccanismi di trasparenza siano più che sufficienti, anche se non coprono gli introiti illegali), a chi magari se ne frega delle remunerazioni ufficiali con la riserva mentale di arrangiarsi in altro modo (vogliamo continuare a farne la migliore “qualità” del nostro popolo e dei suoi rappresentanti?). Tutte scorciatoie. Cerchiamo la strada principale che rivaluti il ruolo della politica. Ce n’è bisogno. Di buona politica, certo.

Puttani o Lord?

La Camera dei Deputati italiana, nelle more della legge, ha tagliato la testa al toro. Ha introdotto, seppure in via sperimentale, la legalizzazione dei lobbisti, istituendo un albo vero e proprio dei soggetti dichiaratamente dediti a rappresentare gli interessi di imprese, sindacati e associazioni. Si chiamano appunto lobbisti, cioè portatori delle istanze delle lobby (categorie), che opererebbero ai fini di ottenere interventi legislativi ad esse favorevoli; iscritti con tanto di tesserino ad un apposito registro, stazionerebbero in una sala riservata da cui tenere sott’occhio   i lavori della Camera ed in cui lavorare, cioè “interferire” nella vita parlamentare.

Chi avrà la bontà di leggere queste mie riflessioni mi perdonerà, ma il primo ardito parallelismo che mi è venuto in mente è stato quello con il ripristino delle case di tolleranza, dei casini per essere ancora più chiaro. Considerato che la prostituzione esiste da sempre, che non la si può eliminare, che è ipocrita far finta che non esista, varrebbe la pena di regolamentarla e controllarla da tutti i punti di vista: sarei perfettamente d’accordo.

Il caso vuole però che i lobbisti non vendano direttamente o indirettamente il proprio corpo, ma forse solo il voto dei loro rappresentati. Il loro negozio giuridico consiste poi sostanzialmente nel comprare (a quale prezzo non è dato sapere) una legge, può bastare anche un articolo di una legge, talvolta un comma o addirittura un capoverso, trattando alla stregua di meri venditori i parlamentari, i quali diventerebbero una sorta di “puttani” della Repubblica. Sono stato poco complimentoso? Senz’altro, ma almeno spero di essermi spiegato.

Viene legalizzata ed autorizzata una sorta di mercato a latere delle istituzioni, un meccanismo parallelo a quello democratico: più che di convergenze si tratterebbe di divergenze parallele. Mi si dirà che è già così, che nei corridoi di Montecitorio e Palazzo Madama si aggirano questi personaggi, noti a tutti, e che probabilmente influiscono sulla vita parlamentare molto più di quanto si possa immaginare. Tanto vale introdurre delle regole sulla loro professionalità, sulla loro fedina penale e sulle modalità del loro operato. Mentre le puttane classiche e canoniche hanno tutto il mio rispetto e talvolta financo la mia ammirazione, questo sputtanamento parlamentare non mi piace affatto, non per motivi di decenza, ma per questioni di democrazia.

Il nostro sistema di democrazia rappresentativa si fonda su due pilastri fondamentali: le forze politiche e le forze intermedie. I partiti rappresentano i cittadini da cui ottengono un mandato senza vincoli, ma pur sempre un mandato a rappresentare l’intera nazione. Dal momento che gli interessi però non sono solo individuali e quindi non si esprimono solo a tale livello, esistono le forze economiche e sociali, riconosciute dalla legge o quanto meno dalla dinamica sociale, che rappresentano le istanze di categoria a livello dei lavoratori e dei vari tipi di impresa. A queste si è aggiunto nel tempo, in conseguenza dell’evoluzione nella compagine sociale, tutta la galassia dell’associazionismo e del volontariato, più o meno riconosciuta e riconoscibile.

Evidentemente si pensa che questo tavolo a due gambe sia diventato, o addirittura sia sempre stato, zoppo e allora si cerca di inserire o di sopportare una terza gamba per rassodare i meccanismi democratici. Mi pare che la toppa sia peggio del buco. Significa infatti delegittimare le strade maestre per sostituirle con le scorciatoie.

Cosa ci stanno a fare i parlamentari se non sono capaci di dialogare con i cittadini e con le forze sociali? Se non sono capaci di svolgere questo fondamentale ruolo di saldatura, allora sì che rubano lo stipendio.

E a cosa servono tutti i sindacati e le varie associazioni se non sono in grado di rappresentare e portare avanti le istanze dei loro iscritti? Si sciolgano e la smettano di prendere in giro i loro seguaci.

I concorrenti al gioco televisivo dell’eredità dimostrano una ignoranza sconvolgente in materia religiosa (al punto da non sapere cosa sia la Bibbia) e in materia costituzionale (al punto da confondere il presidente della Repubblica col Presidente del Consiglio). Qui sarà il caso però di fare un po’ tutti un bel ripasso sui fondamenti e sui meccanismi della democrazia rappresentativa. Anche i parlamentari. Questi ultimi sappiano inoltre che prestare scopertamente il fianco al lobbismo può voler dire tirare un’ulteriore volata al populismo. Il ragionamento dei cittadini-elettori, infatti, potrebbe essere: se chi riceve il nostro voto non è in grado di rapportarsi con noi, allora tanto vale semplificare e trovare qualcuno (pochi, meglio se uno solo) che sappia farlo indipendentemente dalle istituzioni e che, di tanto in tanto, chieda direttamente il nostro parere.

Come ho già avuto modo di scrivere, una strana lezioncina di democrazia ci viene dalla Gran Bretagna, nonostante Brexit, anzi proprio in conseguenza di Brexit. In quel Paese c’è un rigurgito di responsabilità da parte della Camera dei Lord: una istituzione nata per rappresentare, in senso dinastico e per diritto ereditario, l’aristocrazia inglese. Strada facendo, questa Camera si è trasformata prevalentemente in una specie di “Senato a vita”: 804 Lord, soprattutto grandi vecchi della politica, ricchi imprenditori, illustri scienziati, economisti, esperti in ogni campo. Questi signori, indipendentemente dalla loro collocazione partitica, hanno trovato il coraggio di dare due importantissimi alt, non tanto alla Brexit, perché ormai purtroppo cosa fatta capo ha, ma al percorso di uscita dall’Europa, dicendo un netto no al mercanteggiamento delle presenze degli europei in Inghilterra con le presenze degli Inglesi in Europa e fissando dei paletti al governo, costringendolo a sottoporre al Parlamento il divorzio dalla Ue (rompendo non poco le uova nel paniere a Theresa May, che intendeva gestire questa contingenza delicatissima e importantissima nel chiuso di Downing Street).

Non a caso gli Inglesi sono i primi della classe in materia di democrazia formale, ma in questi casi la forma diventa sostanza. Altro che lobbisti, i Lord vogliono capire e dire la loro. Non si tratta quindi tanto di voto popolare, perché quello purtroppo è già avvenuto e lo dovranno rispettare, ma la democrazia non finisce col voto, comincia dal voto.

Signori Parlamentari Italiani, fatevi quindi su le maniche, lasciate perdere i lobbisti, non sprecate tempo con questi mediatori da strapazzo, dialogate coi cittadini e con le forze sociali, studiate i problemi e non fateveli raccontare da gente senza scrupoli, discutete e litigate fra di voi legittimi rappresentati dei cittadini e respingete le intromissioni, decidete in coscienza senza paura di sbagliare e di perdere voti, mettete alla porta i questuanti e guardate ai veri bisogni di chi soffre e di chi fa fatica, fate bene il vostro mestiere, guadagnatevi la pagnotta che, a quel punto, dovrà essere consistente ed adeguata al vostro “rango”. Grazie dell’attenzione.

 

Le risorse diaboliche della curia lumaca

Il rapporto tra la curia vaticana e i papi ha storicamente riservato contrasti, frizioni, intrighi, complotti etc. È un triste classico della Chiesa Istituzione. Sto agli ultimi papati dei quali farò, di seguito, un brevissimo excursus tutto personale e ben poco canonico .

Papa Pacelli, Pio XII, è stato l’ultimo pontefice di stretta provenienza e formazione curiale: era un raffinato, intelligentissimo e abilissimo uomo d’apparato di cui conosceva tutti i passaggi, anche i più segreti, e che riusciva pertanto a governare con relativa disinvoltura l’assetto centralistico della Chiesa dell’epoca.

Papa Roncalli, Giovanni XXIII, gradito inizialmente agli ambienti curiali che si illudevano di poterlo condizionare e manovrare, pur senza aprire drammatici contenziosi, riuscì carismaticamente a dominare le situazioni. Il gossip vaticano racconta che una volta eletto papa, ebbe uno strano colloquio con il cardinale Domenico Tardini, un suo detrattore che su alcuni fascicoli, riguardanti l’attività di questo allora collega, diplomatico e pastore, aveva riportato di suo pugno l’annotazione “è una roncallata”. Ebbene il Papa, pur sapendo di questo atteggiamento dell’alto esponente della diplomazia vaticana, non se ne fece influenzare e, di fronte alle resistenze e titubanze di Tardini, lo obbligò letteralmente ad accettare la carica di Segretario di Stato : «Si inginocchi e accetti la nomina assieme alla mia benedizione». Altro che papa bonaccione…

Papa Montini, Paolo VI, ad un certo punto della sua vita, fu allontanato dalla Curia romana a motivo delle sue vedute piuttosto avanzate in merito alla politica italiana e “confinato” a Milano quale vescovo (promoveatur ut amoveatur) e da qui spiccò il suo volo pastorale fino a raggiungere un papato caratterizzato da stratosferica intelligenza e sensibilità, ma da eccessiva e sofferta prudenza, anche proprio per i condizionamenti di stampo e carattere curiale che non riuscì a scrollarsi di dosso.

Papa Luciani, Giovanni Paolo I, nel suo breve, ingenuo ma rivoluzionario approccio al papato, fece appena in tempo a rendersi conto del marciume curiale al punto da rimanerne letteralmente stecchito.

Papa Wojtyla, Giovanni Paolo II, si affaccendò proficuamente in tutt’altre faccende rispetto alle beghe curiali: lui girava il mondo, arringava le folle, mentre nelle stanze vaticane i vari cardinali facevano i loro comodi. Un Papa dedito interamente alla pastorale delle masse e “menefreghisticamente” assente sul piano degli assetti istituzionali e burocratici della Chiesa.

Papa Ratzinger, Benedetto XVI, si concentrò sull’identità cristiana, parlò, scrisse, pontificò e quando si accorse di non avere in mano la situazione, peraltro carica di vicende scabrose e intrighi avvolgenti e sconvolgenti, lanciò opportunamente la spugna per favorire un rinnovamento di cui, nella sua straripante intelligenza e cultura, vedeva la necessità senza avere la forza di promuoverlo.

Arrivo al dunque che si chiama Papa Bergoglio, Francesco. La sua netta frattura con la tradizione (si racconta come al monsignore, che gli voleva far indossare gli abiti e i gingilli di lusso per la prima apparizione dalla balconata di San Pietro, disse bonariamente stizzito: «Questo roba se la metta lei…»), la sua chiara presa di distanza dall’apparato clerical-curiale (si riporta l’episodio eloquente e simpatico di questo papa che risponde così alle intemperanze anticlericali di un suo interlocutore: «Se è per quello sono anti-clericale anch’io…»), la sua sferzante critica a certi stili e metodi più volte presi di mira («Nella Chiesa vi è chi, invece di servire, di pensare agli altri, si serve della Chiesa per i propri interesse: sono gli arrampicatori, gli attaccati ai soldi»), la dicono lunga sul suo rapporto difficile al limite del conflittuale con gli ambienti vaticani quali punta di diamante di una certa inconfondibile voglia di reazione.

Il noto teologo Vito Mancuso scrive: «In gioco c’è il cambio di rotta iniziato dalla Chiesa   cattolica con il Vaticano II e rimasto incompiuto, volto a disegnare un cattolicesimo non più nemico del mondo moderno, come lo è stato per secoli, ma a fianco della vita degli uomini. In un mondo sempre più piccolo il compimento del processo iniziato con Giovanni XXIII è la condizione sine qua non perché la Chiesa cattolica sia fattore di pace e non di divisione. Papa Francesco lo sa e agisce di conseguenza. Molti però dentro la Chiesa o non lo sanno o non lo desiderano. Essi non esitano a unirsi ai numerosi gruppi di potere economico e politico fuori della Chiesa che hanno visto la recente enciclica sull’ecologia come una seria minaccia ai loro affari. E tra nemici interni e nemici esterni vi sono addirittura alcuni che non esitano a trasformarsi in avvoltoi e a volteggiare sinistramente sul corpo del Papa».

Le recentissime dichiarazioni di Marie Collins, componente dimissionaria della Commissione anti pedofilia voluta nel 2014 da papa Francesco ci danno l’idea di un Papa piuttosto isolato e osteggiato dal “potere curiale”. Afferma questa donna, che ha subito abusi clericali nella sua infanzia e adolescenza: «(…) Non smetto di credere nella tolleranza zero voluta da Francesco, ma altri ci boicottano (…) Esiste il fatto che spesso si sentono dichiarazioni pubbliche intorno alla profonda preoccupazione della Chiesa per le vittime di abusi, ma poi nel privato il dato è che in Vaticano c’è chi si rifiuta anche solo di riconoscere le lettere inviategli per provare a risolvere questa preoccupazione. Il dato è che le resistenze non mancano e tutto questo per me non è accettabile».

Intravedo un pericolo per papa Francesco e per la Chiesa di cui è guida innovativa: esiste il rischio di un suo confinamento nella sfera sociale, nel suo “orto pastorale” della misericordia, nel “recinto francescano” della povertà e dell’ambientalismo. Al resto ci pensano i soliti marpioni del dogmatismo facile e fasullo, della gattopardesca resistenza al nuovo evangelico in nome della continuità tradizionalistica. Una sorta di Celestino V, riveduto e corretto, che non ha fatto, almeno per il momento il gran rifiuto, ma che è subdolamente rifiutato dai troppi che ne temono lo sconvolgente messaggio pastorale.

Tuttavia, anche senza voler enfatizzare certi segnali, bisogna ammettere che l’aria è cambiata: il vento pastorale bergogliano dissipa lo “smog” della nebbia dogmatica combinata con l’aria inquinata del potere istituzionale vaticano. L’apertura delle porte di un tempio cattolico milanese alla preghiera di suffragio per Fabiano Antoniani protagonista di un suicidio assistito in Svizzera è un segnale di condivisione verso la sofferenza umana che prevarica le fredde regole del catechismo. Il fatto che qualcuno si preoccupi di chiarire la differenza tra una preghiera e una messa copre di ridicolo fariseismo i minimalizzatori di professione e i continuisti a tutti i costi. Resta una netta frattura pastorale tra il “niet ruiniano” del 2006 al funerale religioso di Piergiorgio Welby che aveva rinunciato alle cure spropositate e il “si può fare scoliano” di questi giorni per Dj Fabo che si è fatto suicidare per interrompere una sofferenza impossibile da sopportare.

Mentre non vedo differenze umane sostanziali tra i due episodi, al di sotto dei quali ci sono altre numerose persone in predicato di operare scelte per scacciare la disperazione con una dignitosa anche se pur drammatica decisione, tra i diversi atteggiamenti ecclesiali c’è di mezzo il mare della misericordia mosso da Papa Francesco.

“Eppur si muove” si potrebbe dire in riferimento alla Chiesa: con passo lento, col rischio di fare un passo avanti e due indietro, ma è sempre meglio dell’immobilità assoluta.

Resta la grande paura che alla benefica rottura di certi equilibri della Chiesa paralizzata dal dualismo istituzione-comunità, possa corrispondere una insana saldatura tra poteri laico-religiosi per mettere fine in diversi modi al rinnovamento che la vera Chiesa può operare “nel mondo” senza essere “del mondo”.

Ricordo l’inquietante battuta di un carissimo amico di fronte alle prime posizioni emergenti dal papato bergogliano: «Secondo me, lo fanno fuori…». E purtroppo ci sono tanti modi per farlo fuori. Io, quando sento i suoi insistenti inviti a pregare per lui, ho un brivido lungo la schiena, temo si senta oltremodo isolato e scoperto, solo con il suo Dio di Gesù. Su di lui veglierà il cardinal Martini suo playmaker in terra e in cielo. Ma non lasciamolo solo, pregando sì, ma facendo qualcosa in più. Non voglio introdurre una sorta di vittimismo papale da contrapporre allo strapotere curiale, ma…le lumache vaticane si sentono toccate nel vivo e stanno reagendo. Attenzione, perché ne sanno una più del diavolo.

 

La religione è…donna

Non voglio assolutamente (s)cadere nella diatriba sciopero sì – sciopero no per celebrare l’08 marzo, mi preme invece ribadire la mia forte fiducia nella donna e nella sua capacità di cambiare il mondo: la violenza su di esse vuole, più o meno consapevolmente, arrestare o frenare questa novità di vita di cui la donna è portatrice a tutti i livelli, personale, famigliare, culturale, sociale, politica, religiosa.

Le donne sono un fondamentale agente di cambiamento, la loro mobilitazione non ha più il pur rispettabile carattere del femminismo anni Settanta, la loro capacità di scendere in campo si allarga a tutte le dimensioni problematiche del mondo odierno, il loro carisma è la garanzia di un sicuro ma diverso avvenire. Quando viene brutalizzata una bambina (con la ferocia bestiale dello stupro o con l’agghiacciante stregoneria della mutilazione genitale), quando una donna viene ridotta a puro strumento di piacere, quando la compagna della vita viene schiavizzata, quando la sua libertà viene calpestata fino alla devastazione fisica e morale, quando il femminicidio diventa una prassi, quando i diritti della donna vengono calpestati, quando la donna viene discriminata o relegata in un ruolo subalterno, in tutti i casi in cui oggetto di violenza è una donna scatta un meccanismo moltiplicatore dell’orrore e della gravità. Il mondo viene depauperato nel suo potenziale di miglioramento e di progresso.

Ma vengo per rapidi cenni al discorso religioso, non perché io sia un patito di questa dimensione esistenziale, ma perché la sua portata è molto grande e tale da influenzare tutto il resto. Se la religione non parte dal rigoroso rispetto della dignità femminile tradisce radicalmente se stessa e riesce a privare il mondo di una ricchezza indispensabile e incalcolabile.   Ecco perché la laicità della politica e la “modernità” delle religioni sono le due facce della stessa medaglia.

Parto da una notizia confinata nell’angolo dai media. Il Ministero per gli Affari religiosi del Cairo ha “ordinato” 144 Imam donne, figure chiamate a interpretare e diffondere il credo tra i fedeli musulmani. Pessima notizia che la nomina sia avvenuta ad opera dell’autorità politica: la laicità non è auspicata dai musulmani, che addirittura cercano nel potere civile una pericolosa e deviante sponda per il loro proselitismo.

Bellissima notizia invece che la nomina abbia riguardato decine di donne ammesse ad un ruolo solitamente riservato agli uomini: potremmo quasi dire che, con questo fatto, l’Islam ha battuto il Cristianesimo due a zero, in questo parziale ma significativo confronto.

Non voglio banalizzare il discorso anche perché vorrei tentare di portare il mio modesto contributo culturale alla festa della donna partendo proprio dal ruolo femminile all’interno delle religioni.

Lo scrittore, poeta e saggista marocchino Tahar Ben Jelloun sostiene schierandosi a favore di un Islam veramente moderato e dialogante: «Non abbiamo bisogno di obbligare le nostre donne a coprirsi come fantasmi neri che per strada spaventano i bambini. Non abbiamo il diritto di impedire a un medico di auscultare una donna musulmana, né di pretendere piscine per sole donne».

Il problema del ruolo della donna nelle religioni è questione indubbiamente centrale e che, nelle prassi secolari, evidenzia una certa analogia di impostazione tra le diverse teologie. La posizione della donna a livello di dottrina dimostra che il cristianesimo parte in quarta con un Vangelo spudoratamente femminista per poi ripiegare sul pazzesco maschilismo paolino, da cui ci sono voluti secoli per tentare di uscire e il cammino è tutt’altro che terminato. Con tutto il rispetto per la predicazione di Paolo, un cristiano dovrebbe comunque sempre rifarsi al dettato evangelico, alle parole e agli esempi di Gesù, ma purtroppo il Vangelo spesso è finito in soffitta coperto da una moltitudine di polverose scartoffie teologiche e dottrinali.

Volendo concedere all’attuale dottrina cristiana un giudizio obiettivo, mi sentirei di ammettere che sulla questione femminile non siamo ancora tornati a Gesù, ma ci siamo significativamente allontanati dal pensiero paolino. Purtroppo non è così per l’Islam che rimane saldamente ancorato ad una impostazione coranica scriteriatamente maschilista e antifemminista da cui non riesce a schiodarsi.

Mentre il cristianesimo è riuscito gradualmente ad affrancarsi da una tradizione pesante e alienante, l’islamismo ne rimane tuttora vittima, anche perché non ha il riferimento evangelico (e non è poca cosa) a fargli da sponda.

Solo superando questa discriminazione verso il mondo femminile si potrà creare un clima nuovo e diverso a livello religioso e financo politico: credo fermamente che siano le donne le potenziali portatrici delle svolte culturali auspicabili. Se i musulmani non superano questo tabù, temo che la loro fede resti compromessa da regole religiose assurde e discriminatorie (è così per tutte le religioni!).

Papa Francesco ha trovato il tragico e deviante denominatore comune fra cattolicesimo e islamismo nella violenza contro le donne. La portata della questione femminile e sessuale è veramente grande e decisiva nella nostra cultura, ma anche e soprattutto in quella islamica, non solo quella dei fanatici fondamentalisti, ma di tutto l’Islam a cominciare dai cosiddetti musulmani moderati: la loro moderazione vuol dire rispetto per la donna, la sua dignità, il suo ruolo, la sua persona, la sua libertà? Se sì, dopo esserci dati anche noi una bella e sana regolata in materia, possiamo ragionare e percorrere un tratto di strada insieme; se no, tutto diventa un ipocrita gioco delle parti.

Cosa vorrà dire il fatto che a Ventimiglia una donna musulmana, entrando in chiesa, si sia tolta il velo in segno di rispetto, pur soffrendo quando cammina per strada e la chiamano terrorista? Da una parte sarà importante per le donne islamiche avere il diritto di nascondersi in tutto o in parte sotto un velo o sotto il burkini quasi a sottrarsi dal manifestare apertamente la loro corporeità femminile? Dall’altra sarà una cosa seria impuntarci laicamente a vietare questi usi che peraltro stanno assumendo persino un pizzico di sana civetteria islamica?

Tornando in conclusione al Vangelo, dobbiamo credere che il maschilismo sembra vincente, ma in realtà è perdente. C’è un epilogo che ci riempie di speranza e ci dà la forza di andare oltre le apparenze. Gesù ce lo ha dimostrato. Ricordiamo tutti, cristiani, ma lo chiedo anche ai musulmani, che la prima persona a capire la novità assoluta della fede fu una donna. Non i membri di qualsiasi sinedrio, non i preti comunque chiamati, non gli zelanti osservanti di tutte le religione, non gli intellettuali di qualsiasi epoca. Una donna! Mi riferisco a Maria di Magdala. E noi? Delle donne sappiamo solo fare scempio: su questo ci troviamo (quasi) tutti d’accordo.

 

Il terrorismo dell’anti-politica

La bagarre politica italiana sta raggiungendo livelli di guardia: non si riesce più a ragionare, l’insulto è diventato la norma, gli argomenti non contano nulla, vale solo la sputtanata personale. Non volano manciate, ma secchiate di fango (per non dire di peggio).

Ammetto che ci possa essere un clima di sfiducia, non ammetto che da dentro le istituzioni e i partiti si alimenti questo clima dando ai cittadini l’illusione che il politically scorrett possa servire a qualcosa. Come quando i tifosi di una squadra di calcio, a risultato negativo acquisito, si sfogano a gridare insulti ai giocatori avversari, pareggiando il conto dei goal subiti con quello delle offese rivolte ai contendenti.

Qualcuno (Matteo Salvini) dice apertamente che sarebbe disposto a “tutto” pur di costringere il Presidente della Repubblica a sciogliere le Camere e a mandare tutti alle urne: non so cosa comprenda il termine “tutto”, sicuramente allearsi con il peggior nemico, tradire il miglior amico, sputtanare a casaccio chi detiene il potere, soffiare sul fuoco di tutte le proteste, spargere veleni a destra e manca, andare contro la storia e la geografia, ridurre la politica ad una rissa continua.

Qualcun altro (Beppe Grillo) riduce la scena politica allo sberleffo continuo e di cattivo gusto, alle linguacce di alto impatto mediatico, alla gara a chi la spara più grossa. Ricordo come, per un insegnante estremamente trasgressivo nel linguaggio a cui gli studenti la davano sù, scoppiò un tale casino da travolgere la credibilità dell’intero istituto scolastico. Uno studente fra i più seri commentò amaramente: «Sparlare e sproloquiare è indubbiamente un modo per dialogare: il peggiore che ci sia…».

Attenzione perché, chi semina vento oggi, domani, dopodomani, va a finire che   raccoglie violenza per tutti: non mi stupirei che qualche esaltato prendesse in mano un’arma e cominciasse a sparare. Il clima c’è, il resto alla prima occasione.

Bisogna reagire e tento di farlo occupandomi degli aspetti più sostanziosi del dibattito (?) in corso, astraendomi, per un attimo almeno, dall’insultificio dilagante. Gli errori del governo Renzi e del renzismo in genere. Faccio riferimento all’analisi apparsa nei giorni scorsi su la Repubblica a firma di Emanuele Felice: discutibile, ma indubbiamente interessante.

Da una parte, a suo scrivere, le meritorie riforme avviate (pubblica amministrazione, giustizia, settore del credito, istruzione, riduzione delle imposte alle imprese, nuovo codice degli appalti, ordinamento costituzionale), dall’altra le scelte demagogiche e dispersive (abolizione tasse sulla prima casa, rottamazione di Equitalia, precarizzazione del mercato del lavoro, aiuti a pioggia, interventi clientelari nel Mezzogiorno, politica degli annunci, ottimismo a tutti i costi).

A parte il fatto che non penso abbia fatto dispiacere a parecchi Italiani ricevere un bonus, non pagare tasse sulla casa in cui si abita, passare in ruolo nell’impiego scolastico, trovare un lavoro, seppur a tempo determinato, tuttavia c’è sicuramente una parte di verità nella suddetta analisi, anche perché quando si mette molta carne al fuoco è quasi inevitabile che qualche pezzo vada bruciato. E allora cosa facciamo? Votiamo No e buttiamo tutto a mare. I cittadini, si badi bene, hanno fatto così, non hanno purtroppo respinto l’ottimismo a tutti i costi, ma, spinti dal pessimismo inoculato dai profeti di sventura, hanno respinto le riforme, quelle buone, dalla costituzione in giù. Hanno buttato, come si suol dire, il bambino delle riforme assieme all’acqua sporca delle scelte dispersive.

Poi arriva il problema della classe dirigente. Renzi avrebbe ceduto alla tentazione dell’uomo solo al comando contro tutti, senza cinghie di trasmissione nella società e nel suo partito, cercando un rapporto diretto con l’elettorato. Anche qui c’è del vero. Come ha più volte affermato Massimo Cacciari, non si può governare contro tutti: magistrati, insegnanti, pubblici dipendenti, sindacati, politici di vecchia data, etc.

L’Italia è imprigionata da un meccanismo corporativo di conservazione, che deve essere preventivamente   e necessariamente messo in discussione. In base a questo meccanismo viene inoltre selezionata e formata la classe dirigente e quindi la situazione tende a perpetuarsi e a impaludare tutto il Paese. Se guardiamo indietro, non dico certo che non sia stato fatto nulla, ma sicuramente non si è fatto molto.

Se stiamo ad aspettare, prima di partire, una nuova classe dirigente, aspettiamo per vent’anni   Godot. Meglio provare a partire a costo di sbagliare parecchie cose, con la possibilità di aggiustarle strada facendo, piuttosto che discutere all’infinito per trovare continuamente motivi plausibili di rinvio. È la solita storia: a chi ha governato per tempi biblici si perdona molto, a chi ha appena iniziato a governare non si perdona nulla.

In questi giorni si fa un gran scrivere su Emmanuel Macron, il candidato all’Eliseo che assomiglia al Tony Blair degli esordi; secondo me assomiglia molto anche a Matteo Renzi. Allora non eravamo e non siamo, con Renzi, così fuori dal mondo e dalla realtà. Qualcuno sostiene che la via di Macron sia l’unica in grado di preservare la Francia dalla sciagurata deriva lepenista.

Il governo Renzi non era sottovalutato in sede europea, anzi. Qualcosa vorrà pur dire. Qualcuno dice che questo chiamare a raccolta i progressisti di destra e sinistra su riforme liberali, garantendo alcuni capisaldi del modello sociale, sulla base di due parole chiave, libertà e protezione, possa essere il futuro del riformismo. Alcuni a sinistra fanno finta di scandalizzarsi si strappano le vesti, spaccano i partiti, spostano indietro le lancette della sinistra. Questioni importanti e apertissime.

Ben vengano simili sostanziose discussioni, sarebbe già tanto che le prossime elezioni politiche avvenissero sulla base di valutazioni di questo livello. Temo invece che si vada o si andrà al voto in un clima banalizzato e drogato, se non addirittura falsato.

Diritti: toccata e fuga della democrazia

Alla sacrosanta ansia di vedere finalmente riconosciuti dalla legge alcuni diritti fondamentali della persona fa riscontro una scarsa attenzione mista a paure ancestrali e tatticismi strumentali da parte del Parlamento e delle forze politiche: in mezzo, bisogna ammetterlo, un po’ per necessità un po’ per esagerazione, ci sta un confuso panorama, talora caratterizzato da pericolose fughe in avanti, che finisce inopinatamente col ritardare ulteriormente l’intervento del legislatore.

È il caso dei bimbi figli di due papà, nati con l’utero in affitto e riconosciuti tali da certi magistrati in vena di sentenze creative. Queste spinte giudiziarie possono avere il sotterraneo e provocatorio intento di smuovere l’inerzia del Parlamento, ma possono finire col creare un clima sbagliato in cui si può avere la sensazione che qualcuno stia cercando di esagerare, abusando dei diritti prima ancora che vengano legalmente riconosciuti.

Il panorama è piuttosto complesso: si va dalle nozze gay alla maternità surrogata, dalla fecondazione in vitro al suicidio assistito, dal testamento biologico all’eutanasia vera e propria.

Il nostro Paese è assai limitato su queste materie: anche i più critici osservatori del Renzismo devono ammettere tuttavia che, nel campo dei diritti civili, i pochi passi avanti fatti (unioni civili e non solo…) sono merito di questo tanto bistrattato governo.

Se i diritti non vanno alla persona, la persona va ai diritti. E allora ecco un vero e proprio pendolarismo, messo in atto da chi si può permettere di aggirare l’ostacolo approdando in quegli Stati in cui la legislazione è molto più “permissiva”. In questi giorni sono state pubblicate vere e proprie mappe geografiche dei diritti civili, entro cui muoversi alla ricerca, in certi casi drammatica, di uno sbocco positivo alle proprie esigenze vitali.

Perché il legislatore italiano fa tanta fatica ad affrontare positivamente queste delicate ma imprescindibili materie? Domanda legittima per rispondere alla quale è necessario sprofondare in una storia fatta di scarsa laicità della politica, dovuta soprattutto ad una scelta strategica errata del PCI, che barattò, in un impossibile ed assurdo compromesso con la Chiesa e con l’elettorato cattolico, la rinuncia ai diritti civili in cambio di attenzione e appoggio sui diritti sociali (l’interclassismo DC però coprì questo campo) e sulla possibilità (ben presto rivelatasi illusoria) di partecipare al governo del Paese. Persino in vista del divorzio si replicò questo schema che venne definitivamente (?) sconfitto. Rimase tuttavia sulla politica italiana il riflesso di questa laicità condizionata, che permane tuttora, nonostante l’atteggiamento assai meno invasivo del Vaticano in clima bergogliano.

Stringi stringi il dibattito parlamentare resta imprigionato fra il bigottismo leale delle Paola Binetti, il puritanesimo strumentale delle Eugenia Roccella, il “crociatismo” populistico della Lega, il solito contrattualistico approccio dei berlusconiani, i tentennamenti pseudo-coscienziosi dei piddini e il velleitarismo dei grillini. Ne sortisce, in Parlamento, un diluvio di bozze, di emendamenti, di discussioni sterili e inconcludenti. A livello giudiziario un maldestro tentativo di coprire gli spazi vuoti. A livello popolare una sostanziale indifferenza all’insegna “dell’ognuno si tenga i suoi problemi, ché io ne ho già abbastanza dei miei”. Il permanente e coraggioso occhio vigile dei radicali non riesce a tener viva l’attenzione nemmeno trasgredendo con l’adozione e l’appoggio di iniziative ai limiti della legalità.

A proposito di Eugenia Roccella, deputata e allora sottosegretaria al Welfare nel governo Berlusconi, che si schierò, a fini meramente demagogici, contro la sentenza sull’interruzione dei trattamenti sanitari a Eluana Englaro, dirò che, durante la mia breve frequentazione di una casa di riposo in cui era ricoverata mia sorella, di fronte a certi drammatici casi di sopravvivenza forzata, mi venne spontaneo esclamare ripetutamente, rivolto alle operatrici impegnate in queste pratiche assistenziali e alle prese con difficoltà enormi: «Andate a chiamare Eugenia Roccella, lei sì che se ne intende e vi può aiutare…». Mi guardavano e non capivano. Forse pensavano che l’ambiente mi stesse contagiando.

Le persone più gravemente malate di quella casa di riposo saranno probabilmente nel frattempo decedute, ma Eugenia Roccella è ancora lì sui banchi parlamentari a pontificare ed a sparare cazzate sul testamento biologico: «È una legge ideologica, che apre all’eutanasia. L’alimentazione artificiale serve a mantenere in vita chiunque, non è una terapia. Se gliel’avessero tolta, Fabo avrebbe potuto morire anche in Italia». Andasse a quel paese, lei e tutte le Roccelle del mondo!

Tornando ai discorsi seri, la legge sul biotestamento sarà nelle aule parlamentari il prossimo 13 marzo: ciò non vuol dire che il discorso si sbloccherà definitivamente. Speriamo in un rigurgito di senso di responsabilità e di coscienza democratica.

Se parliamo di coscienza democratica se ne vedono di tutti i colori. Le stranezze per la democrazia non so se siano il suo bello, ma sicuramente non mancano. Mi riferisco ad esempio al dibattito parlamentare in Gran Bretagna sulla brexit. Ebbene, il governo conservatore di Theresa May ha varato un certo percorso di uscita tendente a contrattare con l’Unione Europea la permanenza dei tre milioni di cittadini europei in territorio inglese a condizioni di ottenere analoghe garanzie per il milione di britannici residenti negli altri Paesi della Ue. Questa procedura compromissoria è stata ampiamente approvata dalla Camera dei Comuni, il rampo parlamentare di elezione popolare e democratica, mentre ha trovato un imprevisto alt nella Camera dei Lord, la camera alta del parlamento britannico, i cui membri non sono eletti bensì nominati, un’assemblea calata dall’alto, rimasuglio di una impostazione istituzionale monarchica e nobiliare. Ebbene i lord hanno votato contro con   ampio scarto. La baronessa laburista   Hayter ha così motivato il suo orientamento rivelatosi maggioritario: «Sarebbe disumano considerare gli Europei che vivono e lavorano tra noi alla stregua di merce di scambio nelle trattative». Un’autentica lezione di democrazia, di accoglienza, di rispetto per le minoranze, di europeismo. Non si sa come andrà a finire la questione specifica, peraltro di grande rilevanza internazionale. Ma l’episodio mi ha fatto riflettere. Ci voleva una baronessa inglese a spiegarci e ricordarci cos’è la democrazia?! Meditate parlamentari italiani, meditate…

La cavalcata delle Valchirie antirenziane

La vicenda giudiziaria che sta avvolgendo Matteo Renzi puzza di prefabbricato lontano un miglio. C’erano le avvisaglie da tempo al punto da far profetizzare a Stefano Folli, opinionista de la Repubblica, parecchio tempo fa, “l’avvio di una fase di ostilità i cui riflessi sono difficili da valutare oggi”. E proseguiva con “Il problema è: Renzi e il suo governo sono in grado di reggere una ripresa di iniziative giudiziarie ad ampio spettro? L’effetto destabilizzante di una tale offensiva non ha bisogno di essere illustrato”.

Ebbene potremmo dire che siamo arrivati al dunque: proprio nel momento di maggior debolezza renziana, dopo la sconfitta al referendum costituzionale, dopo le dimissioni da premier, dopo la spaccatura del partito democratico, dopo l’indizione di un congresso difficile e contrastato, ritornano a galla, con ulteriori elementi, tutti da valutare giudizialmente, ma comunque sbattuti in prima pagina, indagini – con il coinvolgimento, a diverso titolo, del padre, di uno stretto collaboratore nonché ministro e di alcuni amici di Renzi – inerenti un possibile inquinamento affaristico nelle procedure di assegnazione degli appalti da parte della Consip, la centrale unica degli acquisti delle Pubbliche amministrazioni, controllata dal Tesoro e protagonista della metà dello shopping di beni e servizi nel settore pubblico.

Il fatto insospettisce per la cronometrica dinamica innescata, per l’ovvia e immediata cavalcata delle Valchirie politiche nemiche, per il clamore mediatico abilmente confezionato, per il clima da spallata definitiva al tanto odiato personaggio, che ha osato rompere le uova in troppi panieri.

Renzi è indubbiamente stretto d’assedio da due punti di vista: giudiziario e politico.

Sul piano legale fa benissimo a rimettersi totalmente al corso della giustizia, a confermare piena fiducia nell’operato della magistratura, accantonando ogni e qualsiasi dubbio sul protagonismo dei giudici, senza cedere alla tentazione dell’asse antigiudiziario, senza ricadere minimamente nell’errore caratteristico del berlusconismo di cui porteremo le nefaste conseguenze per sempre.

Resta tuttavia, sul piano politico, il dubbio atroce, abilmente sollecitato e coltivato dagli antirenziani sparsi dappertutto, che possa essersi venuto a creare, direttamente o indirettamente, in capo a Matteo Renzi un ganglio affaristico condizionante certi importanti rapporti tra politica e mondo imprenditoriale. Questa situazione non so se sia affrontabile e dipanabile facendo solo ricorso al (giusto) garantismo universale o se necessiti di qualche altro intervento. E se sì, quale.

Occorre, a mio giudizio, fare una cospicua premessa. La Costituzione Italiana all’articolo 54 recita testualmente: «I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge». Siccome i costituenti erano bravi e lungimiranti, ma non capaci di fare miracoli, non potevano prevedere chi e come si sarebbe potuta operare una verifica al riguardo.

Vedo, quindi, sostanzialmente, due strade percorribili: una in salita e una in discesa. La prima, quella più impervia e difficile, consiste nel chiarire per filo e per segno, nei limiti del possibile, le situazioni, non tanto quelle oggetto di inchieste giudiziarie, ma quelle di base: quali rapporti esistevano con questi personaggi e questi mondi presi di mira dalle inchieste; quali precauzioni sono state adottate per evitare intromissioni e deviazioni; quali regole vigevano nei rapporti con i collaboratori più stretti e con la struttura burocratica del governo; c’erano e, se c’erano, quali sforzi si sono fatti per illuminare il più possibile le zone d’ombra che potevano e possono sussistere nei rapporti tra il governo del Paese e i più forti interessi economici. Domande tutt’altro che retoriche e scontate. Credo che i cittadini, al di là delle indotte tentazioni dell’anti-politica, abbiano il diritto-dovere e forse anche il desiderio di capire, prima di giudicare. Aiutiamoli a farlo.

Vengo alla seconda strada, quella in discesa, quella che taglierebbe la testa al toro, quella dell’aprire improvvisamente la porta quando in molti spingono per abbatterla. Farsi da parte in attesa che la magistratura chiarisca e ristabilisca la verità. Non un atto di resa, ma di rispetto verso i cittadini e le istituzioni. Si dirà che così facendo si finisce con l’ammettere errori od omissioni, col dare soddisfazione a chi aveva l’esclusivo intento di distruggere una prospettiva politica: può essere vero, ma sarebbe anche il modo per spostare (innalzare) il discorso dallo scontro politico avvelenato, dalla palude delle contestazioni reciproche al senso di responsabilità del mettere in primo piano gli interessi del Paese e le difficoltà che sta vivendo.

Sono personalmente un “dimissionista” spinto e quindi perfettamente consapevole di aggiungere e sovrapporre una mia predisposizione psicologica all’analisi obiettiva di una situazione delicata e complessa. D’altra parte ho affrontato con sano realismo il discorso in tutti i suoi possibili sbocchi.

Non nascondo di essere ancor più infastidito dal clima di grilloparlantismo che si è venuto a creare sull’operato del governo Renzi in questi tre anni: in troppi tranciano giudizi sommari, superficiali e parziali. In poche parole Renzi doveva fare tutto, presto e bene, mentre i suoi predecessori hanno fatto poco, spesso lentamente e talora male. Ma di questo, semmai, parleremo in una prossima ravvicinata occasione. Ad ogni giorno basta la sua pena.