Il brexiterrorismo

Non appena ho appreso dell’attentato al cuore politico della Gran Bretagna, attacco al Parlamento britannico col preludio del massacro sul ponte di Westminster, mi è venuto spontaneo connettere questo evento terroristico con l’inizio ufficiale del percorso brexit e con la celebrazione dei sessant’anni dal Trattato di Roma, il sessantesimo sostanziale compleanno della UE.

Per approfondimenti sugli aspetti politici, religiosi, sociali e psicologici del terrorismo islamico mi permetto di rimandare il lettore, che abbia interesse e tempo, agli studi sull’argomento contenuti in questo mio sito, soprattutto nella sezione libri.

Vorrei invece affrontare l’argomento con il taglio spontaneo immediatamente suggeritomi dalla concomitanza di certi eventi e dall’aria che si muove intorno ad essi. C’è un drammatico nesso fra questo attentato e la sciagurata decisione inglese (uso l’aggettivo inglese in senso riduttivo, perché la decisione non è della Gran Bretagna, ma dell’Inghilterra, visti al riguardo i dissensi gallesi, scozzesi e irlandesi) di uscire dall’Unione europea?

Il primo pensiero a caldo mi ha portato ad ipotizzare una sorta di tragico e sadico avvertimento della storia al presuntuoso passo anti-storico della brexit. Come se il terrorista o i terroristi protagonisti del fattaccio volessero significare di essere i messaggeri di questo macabro telegramma, intendessero dire di aver preso di mira questo Paese perché è più debole, perché si è isolato, perché sta prendendo posizioni troppo filo-trumpiane, perché sta facendo marcia indietro rispetto al suo storico multiculturalismo, alla sua disponibilità all’accoglienza degli immigrati, perché il vento isolazionista rischia di interrompere il processo di integrazione degli immigrati stessi se non di preludere ad una loro espulsione, perché in Gran Bretagna è aumentata la possibilità che attecchisca il virus della lotta senza quartiere all’infedele ed è cresciuta la probabilità di una sollevazione consistente da parte dei musulmani moderati.

Non so se i terroristi in questo specifico caso siano così raffinati nella loro strategia e così abili nella loro tattica, ma qualcosa sotto ci deve essere, quasi un subconscio storico che li ha indirizzati verso Londra in questo particolare momento ed in vista di un certo futuro.

La reazione inglese all’attentato, pur contenuta nei modi, ha subito mostrato di aver accusato il colpo politico. Tutti hanno affermato che trattasi di un attacco simbolico al cuore del sistema parlamentare e politico occidentale, nessuno ha osato dire che possa essere direttamente o indirettamente anche un portato di brexit. Per come è scaduto lo scontro politico in Italia, se trasferissimo virtualmente in Gran Bretagna il modo italiano di fare politica, l’opposizione laburista strumentalmente, riscattandosi da precedenti tiepidezze europeiste, darebbe tout court le colpe dei morti alla brexit chiedendo un dietrofront immediato, mentre gli antieuropeisti, cavalcando la paura, troverebbero il modo di chiedere una ulteriore, auspicabile e veloce concretizzazione della brexit stessa.

Gli Inglesi preferiranno, come fanno di solito, far finta di niente e proseguire imperterriti sulla loro strada, sdrammatizzando e nascondendosi dietro il loro tradizionale senso di superiorità. Basti dire che la Scozia ha rinviato sine die il ventilato referendum indipendentista. Tutte dimostrazioni di senso dello Stato, ma anche di smisurata e incrollabile supponenza in merito alla bontà dei loro riferimenti storici e politici.

Anche i commentatori si sono tenuti lontani dal taglio spietato da me adottato: forse sto esagerando o forse sto dicendo quella triste verità che nessuno ha il coraggio di dire per carità di mondo. Solo Ellekappa, nella sua vignetta su la Repubblica, sfiora il discorso. «Ci sono sentimenti che nessuna brexit può cancellare» dice uno. E l’altro risponde: «L’Europa è saldamente unita almeno nella paura».

 

Fanno la festa all’Europa

Sta per essere celebrato l’anniversario dei 60 anni dei Trattati di Roma con un vertice dei ventisette membri UE, che a Roma dovrebbero solennemente firmare una dichiarazione sul futuro dell’Europa. Mentre si festeggia questo compleanno incombe la faticosa uscita della Gran Bretagna, la brexit sta per prendere corpo diplomatico, aprendo una lunga trattativa dalle conseguenze ancora tutte da scoprire. Come se in una famiglia si festeggiasse l’anniversario di matrimonio mentre un figlio sta preparando le valigie per scappare da casa.

Ma non è finita. Mentre si cerca di quadrare il cerchio trovando un’intesa per rilanciare i patti integrativi fra gli Stati membri, nel tavolo accanto si discute accanitamente se in futuro si dovrà andare avanti insieme, seppure con tanta fatica, o se non sia meglio, partendo da una stazione comune già raggiunta (Confederazione), salire su due treni parallelamente separati e viaggianti a due velocità, su cui saliranno, a seconda della convinzione a raggiungere speditamente la meta (Federazione), i 27 (forse troppi) componenti della strana famiglia europea. Da una parte si stipulano ulteriori patti per rimanere uniti, dall’altra si pensa già a dividersi pur senza dirsi addio, sperando poi di ritrovarsi un giorno a chiudere il cerchio.

Ma non è ancora finita. Sul figlio che sta per intraprendere la via di fuga (Gran Bretagna) si scatena un attacco terroristico, simbolicamente assai preciso e piuttosto cruento, a significare che su di esso incombe più che mai la minaccia di trovarsi solo a combattere contro il terrorismo. Ma ormai è tardi e bisogna scappare dall’UE, qualcuno in Gran Bretagna ha seri dubbi (i Lord), qualcuno vuol rimanere a costo di dividersi dalla famiglia di origine (Scozia, Galles, Irlanda del Nord), ma la mamma (Theresa May) non ne vuol sapere: tutti uniti, fuori dalla UE. Chi si contenta gode.

E non è ancora finita. In mezzo alle minacce di recrudescenti attacchi terroristici, in mezzo alle risorgenti smanie di potenza americane, russe, e cinesi, in mezzo ai contrasti sul futuro, in vista di test elettorali molto incerti e condizionanti la vita futura della UE, c’è chi fa il tifo contro, ci sono i nemici interni, quelli che vorrebbero distruggere la UE o quanto meno ridurla ai minimi insignificanti termini. La torta di compleanno, invece di mangiarla, qualcuno la vorrebbe scagliare in faccia ai famigliari per poi scappare dalla porta di servizio.

E non è ancora finita. Al momento del brindisi augurale, sul più bello della festa (?), si alza un importante componente della famiglia (quello che “tiene dietro alla cassa”), solleva il calice e, anziché fare gli auguri a tutti, rimbrotta alcuni componenti della famiglia definendoli, di brutto, spendaccioni, ubriaconi,   donnaioli, che non mantengono i patti e spillano quattrini a tutto spiano. Qualcuno gli fa presente che se ha voglia di fare il disfattista sarebbe meglio si facesse da parte, qualcuno gli dà addirittura ragione, lui, dopo lo strano cin-cin, si risiede a tavola come se niente fosse.

Avete mai visto una famiglia simile? Così schizofrenica? Io sì, si chiama UE. Il brutto è che si tratta della mia famiglia e non ne vedo una migliore.

 

 

La botte Rai dà il vino che ha

Monsignor Riboldi, vescovo di Acerra, durante un convegno affermò di preferire la pornografia pura a certi spettacoli televisivi ammantati di perbenismo. Vorrei applicare questa sua affermazione alla deriva Rai: preferisco lo show smaccatamente sessista alle subliminali, continue e gossipare menate di programmi vuoti come calze, ma formalmente inattaccabili.

Cosa voglio dire? Che da un programma che si presenta per quello che è posso difendermi a ragion veduta, mentre verso i programmi perbenisti, ma sostanzialmente negativi, che giorno dopo giorno immettono falsa cultura non c’è difesa.

Che Paola Perego, dopo aver fatto traboccare il vaso col suo “parliamone sabato”, vada finalmente a quel paese, non mi dispiace affatto, ma la cultura uscente dal festival di San Remo pensiamo sia meglio?

Troppi soldi, troppa audience, troppa pubblicità, troppa futilità, troppe sciocchezze, troppe chiacchiere. La televisione sarebbe una cosa seria. Quella pubblica lo dovrebbe essere due volte. Invece…

È perfettamente inutile scandalizzarsi delle punte dell’iceberg. Nella televisione tutto fa spettacolo meno lo spettacolo. Le star sono i conduttori, non gli attori o i cantanti. Lo sport in televisione lo fanno i giornalisti sportivi e non gli atleti. Un’inversione totale di ruoli che copre il vuoto di proposta.

Ben vengano i programmi clamorosamente stupidi, chissà che non servano a toccare il fondo da cui risalire. Da una presidente come Monica Maggioni non mi aspetto niente: era penosa da giornalista, assurda da direttrice di Rai news 24, immaginiamoci ora che siede sul trono. Deludentissimo anche il direttore generale Antonio Campo Dall’Orto: molto fumo e poco arrosto. Ho l’impressione che sotto la crosta Rai si celino tali e tante porcherie da compromettere sul nascere ogni buona intenzione riformatrice.

Non mi illudo più. Faccio una semplice cosa: cerco disperatamente di scegliere quel poco di buono che c’è su certe reti. Mi riferisco soprattutto a rai cultura e rai storia, ma non solo. Imparare a scegliere, perché se uno spettatore piuttosto sprovveduto si lascia prendere dallo zapping o si ferma dove capita, è letteralmente fregato.

Quasi quasi sono grato ai protagonisti dello svarione sessista che sta facendo parlare. Forse costringerà gli utenti Rai ad aprire gli occhi. Speriamo.

Mio padre sosteneva: «Mi al vén al port. E po’ bisogna ésor bón ‘d bévor». Intendeva vantare la capacità di scegliere la giusta quantità, ma anche la migliore qualità. Se sul primo punto ho sempre avevo qualche perplessità, sul secondo non avevo dubbi. Mi capitò di assistere ad una scena clamorosa al riguardo. Durante l’intervallo di una partita di calcio andammo insieme a bere presso la precaria mescita che veniva aperta nel dietro della “tribunetta” dei distinti, gestita da un amico. Mio padre si fece servire un bicchiere di vino bianco. Ne bevve un sorso e lo sputò clamorosamente dicendo: «Mo cò met dä?». Io ebbi il timore che si potesse scatenare uno spiacevole alterco. Invece, senza fare una piega, il barista chiese delicatamente: «Mora, net piäzol miga col vén chi, ‘spéta…at nin dag un bicér ‘d n’ätor…». Mio padre lo assaggiò e disse: «Cost al ne va miga mäl» e lo bevve tranquillamente. Tornando sugli spalti gli chiesi: «Papà era veramente così balordo?». Mi rispose: «L’era balórd cme l’alsía e mi dal vén balórd nin voj miga, an bév miga tant par bévor …».

Se lo spettatore Rai fosse capace di sputare i programmi spazzatura e anche qualche altra trasmissione che se la pretende, qualcosa forse cambierebbe. In fin dei conti il pallino ce l’ha in mano lui e non Campo Dall’Orto. Proviamo a far sì che il servizio pubblico radiotelevisivo parta dal pubblico e non dalla politica, tanto meno dagli addetti ai lavori.

Il resto, la lottizzazione dei partiti, lo spadroneggiamento degli agenti, la schiera di inutili dirigenti, gli stipendi da nababbo, i cachet milionari, i raccomandati di ferro, gli sprechi di risorse, i doppioni e le ripetizioni a livello giornalistico, mi sembrano roba intoccabile. Vedo un peggioramento progressivo. Che peccato! Bisogna solo cercare di difendersi…

Contro le mafie due “sbirri” di razza

Parma: una tiepida serata di fine settembre 2014 che sembrava spingere i parmigiani a raccogliere penosamente gli avanzi della finta spensieratezza estiva; la quasi totale e vergognosa indifferenza dei media, preoccupati solo di non disturbare il manovratore; un centro storico pieno di rumore e di ansia giovanile volta alla distrazione del sabato sera; la sparuta presenza del clero parmense: non riusciva a darsi il coraggio che non ha (avevo contato ben due sacerdoti, avevo notato l’assenza del vescovo: non c’era che dire, un perfetto inizio di anno pastorale). In questo quasi ostile contesto si presentava nella nostra città don Luigi Ciotti a riprendere, dopo tanto tempo, gli incontri culturali nella chiesa di Santa Cristina: il parroco Luciano Scaccaglia lo accoglieva con l’orgoglio di aver ospitare in passato tanti personaggi dalla cultura scomoda e provocatoria e di offrire alla città e alla comunità cristiana una rara occasione di destarsi dal torpore. Ho avuto in quell’occasione la possibilità di incontrare brevemente don Ciotti: mi salutò, senza conoscermi, come un vecchio amico. Gli espressi tutta la mia ammirazione e la mia solidarietà, ma non potei esimermi dal chiedergli scusa per la sordina con cui Parma lo accoglieva. Mi tranquillizzò dicendomi: «Questo fatto non mi sorprende e non mi preoccupa…». «Lo so, infatti sono io ad essere preoccupato di vivere in questa indifferente città…» gli risposi, ma lui si tuffò nei suoi appunti. Lo vidi stanco e piuttosto provato, probabilmente stava ricaricando le pile. Santa Cristina, nonostante il subdolo boicottaggio, era piena come un uovo: temevo di peggio.

Per scrivere su don Luigi Ciotti e della sua azione contro le mafie ho voluto prendere la rincorsa, partendo da quel settembre ormai lontano per arrivare ai nostri giorni. L’ndrangheta è ancora lì, più bella e più influente che pria. Ma qualcosa si muove, come hanno dimostrato le recenti manifestazioni nella Locride, alla presenza di due “sbirri” di razza: Sergio Mattarella e don Luigi Ciotti.

Non ho conoscenza diretta dell’ambiente calabrese, me ne parlò mia sorella dopo avervi fatto una breve ma significativa immersione in occasione della visita ad una famiglia di amici residenti nella zona calda a livello di ‘ndrangheta. Era rimasta impressionata dalla disinvoltura   con cui sentiva parlare del fenomeno a loro fisicamente così vicino, dalla conoscenza precisa che dimostravano di avere su fatti e persone coinvolte, ma soprattutto dalla fatalistica e quasi ammirata contemplazione del “bene” (sic) che questi “personaggi” facevano alla gente.

Credo che il punto dolente da smantellare sia proprio questa assurda e paradossale capacità di convivenza, in un certo senso positiva, tra le persone comuni e la insinuata e radicata struttura mafiosa. Una sorta di choccante pre-omertà diffusa.

Mia sorella mi raccontava come questi amici, peraltro bravissime persone per nulla coinvolte in faccende ed in rapporti poco puliti, le facessero da “ciceroni” nell’indicarle i santuari della criminalità organizzata e come le avessero tessuto gli elogi per le iniziative “benefiche” portate avanti: posti di lavoro, alloggi, protezioni, difese, etc. etc.

Per i Calabresi, mi riferisco a quarant’anni fa, l’ndrangheta era l’istituzione di riferimento, non subita quale corpo estraneo e opprimente, ma come opportunità da sfruttare.

Da quanto leggo la situazione è cambiata, ma non troppo. Chi combatte apertamente l’ndrangheta è visto come un fastidioso “sbirro” da sbeffeggiare sui muri della città: la mafia è la struttura, l’antimafia la sovrastruttura.

È importante tuttavia che, a livello istituzionale, lo Stato, nella persona credibile del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e la Chiesa, schierata con il suo capo-fila don Luigi Ciotti, fortunatamente ben collegato al papato di Francesco ed in sintonia con i nuovi indirizzi episcopali, si facciano prossimi alle genti calabresi ed ai loro drammi.

È l’unica, paziente e coerente battaglia che riesca a togliere la terra sotto i piedi al potere mafioso. Le perfide reazioni “blasfeme” degli imbrattamenti murali lo stanno a dimostrare. Irridono, ma soffrono. È un buon segno. Don Ciotti è l’interprete autentico di questa coraggiosa e fattiva riscossa esistenziale e culturale. Qualcuno dice che parla poco di Dio, in compenso lo testimonia molto rischiando la propria vita. Che Dio lo benedica!

 

Fra Travaglio e Ichino ci metto il ditino

Si è fatto un gran parlare e scrivere del voto espresso dai senatori contro la decadenza dalla carica del loro collega Augusto Minzolini condannato in via definitiva a due anni e sei mesi per peculato, reato commesso quando era dipendente Rai.

La vicenda può essere affrontata da diversi punti di vista. Escludo a priori l’aspetto prettamente legale, quello cioè se l’intervento del Senato, in base alla legge Severino, sia da considerare una mera presa d’atto della fattispecie concreta comportante l’automatica decadenza o se comporti una valutazione del caso, non per ritoccare o riformare la sentenza (cosa impossibile per la netta separazione dei poteri), ma per esaminarne gli aspetti influenti sull’ applicazione della decadenza. Il concetto giuridico di decadenza, stando alle mie scarse reminiscenze di carattere giuridico, dovrebbe comportare un automatismo, ma, come dicevo, non voglio entrare in questo merito, lasciandolo agli specialisti.

Stando alle dichiarazioni dei più loquaci e trasparenti senatori PD, che si sono oltretutto smarcati rispetto all’indirizzo del loro gruppo politico,   i componenti del Senato avrebbero soprattutto considerato la contraddittorietà delle diverse fasi processuali a carico di Minzolini, la partecipazione alla sentenza di condanna di un giudice ex-senatore appartenente ad un gruppo politico obiettivamente ostile a quello di Minzolini, la condanna pesante rispetto alle richieste della Pubblica accusa, come elementi tali da comportare il serio e coscienzioso dubbio rispetto all’applicazione della decadenza.

Non tocca certo a me rovistare nella coscienza dei senatori, nella loro buona fede, anche perché tra di essi, mi riferisco a quelli del PD, non ci sono certo amici sviscerati o subdoli di Minzolini e della sua parte politica, né personaggi inclini a manovre di palazzo, che qualcuno si è affrettato a vedere, né appartenenti a quella casta impenetrabile tendente a compattarsi ed autoassolversi, al cui generico assalto si sta dedicando il populismo in tutto il mondo.

Da quello che ho potuto intuire, se mi fossi trovato al loro posto, sul piano personale mi sarei comportato probabilmente come loro: non me la sarei sentita di buttare fuori dal Senato un collega eletto dal popolo, sulla base di un procedimento giudiziario alquanto strano e tutt’altro che lineare. È pur vero che la legge (la Severino) vuole difendere le istituzioni dalla presenza di persone che ne possano minare la credibilità e l’autorevolezza, essendo stati condannati per reati confliggenti clamorosamente con il profilo costituzionale di chi ricopre cariche pubbliche, ma bisogna sempre essere cauti e sereni nello squalificare o meno una persona comunque si chiami ed a qualsiasi partito appartenga.

Sgombrato il campo dai risvolti personali del voto, resta l’aspetto politico: è stato politicamente opportuno lasciare libertà di voto ai senatori dem? A parte il fatto che tale libertà non è gentilmente concessa dal gruppo di appartenenza, ma dalla Costituzione italiana, resta il discorso dell’indicazione politica che un gruppo ha il diritto/dovere di dare ai suoi aderenti. Sulla questione concordo pienamente con il ragionamento del ministro Del Rio: «Il Paese ha bisogno di chiarezza, non devono esistere privilegiati di fronte alla legge. I nostri senatori votano come credono, ma non avrei lasciato la libertà di coscienza. Il caso Minzolini va oltre il merito: abbiamo dato un messaggio sbagliato. La legge Severino ha un principio giusto: chi governa ha il dovere di essere più trasparente di chi è governato». Su questo piano le controdeduzioni dei senatori dissenzienti dalla linea del gruppo PD (oltretutto in commissione i componenti del PD avevano votato per la decadenza) appaiono rispettabili, ma piuttosto deboli: in buona sostanza hanno prevalso le motivazioni squisitamente personali rispetto al significato politico del voto.

C’era sul tavolo senatoriale anche il precedente relativo al senatore Antonio Azzollini risalente al 2015. Su di lui il Senato respinse a suo tempo la domanda di arresto formulata dal Gip, poi annullata dal giudice del Riesame su richiesta degli stessi pm. Sul punto si è scatenata una ulteriore polemica fra Pietro Ichino e il noto giornalista Marco Travaglio. Il primo, uno dei senatori dem contrari alla decadenza di Minzolini, ha enfatizzato l’importante precedente creando un po’ di confusione sulle vicende processuali di Azzollini e chiedendo a Travaglio di chiedere scusa per aver criticato il voto della maggioranza in Senato che nel 2015 negò l’arresto del senatore Azzollini. Naturalmente e prontamente Travaglio, col suo solito piglio saccente e giustizialista, non ha mancato di precisare che Antonio Azzollini rimane a tutt’oggi rinviato a giudizio o rischia il rinvio a giudizio per diversi reati.

Al di là della confusione venutasi a creare e della impossibilità caratteriale di Marco Travaglio ad ammettere un errore e ancor meno a chiedere scusa (quando si è perfetti non si sbaglia mai…e lui si crede perfetto), una cosa è certa: il Senato respinse la domanda di arresto per il suddetto senatore e qualche mese dopo la magistratura competente annullò l’ordinanza di custodia cautelare disposta dal gip e bloccata appunto dal Senato. Evidentemente erano più che fondate le perplessità in merito al fumus persecutionis, se successivamente il provvedimento è stato annullato.

Il dibattito deve essere quindi ripulito: smettiamola di “giustizializzare” la politica, (la critica pur spietata è ben altra cosa); non accetto il discredito generalizzato dei parlamentari e non credo che essi vogliano comunque assolvere o condannare i propri colleghi invadendo il campo della magistratura; dovrebbero in coscienza solo garantire gli stessi colleghi da eventuali abusi o forzature d’autorità. E nel caso suddetto (quello di Azzollini) è successo proprio così come   è avvenuto per il senatore Minzolini (la questione è diversa, ma con accentuati profili di similitudine): il Senato non li ha giudicati innocenti, ma, nutrendo qualche dubbio sulle procedure giudiziarie cui sono stati sottoposti, ne ha respinto l’arresto in   un caso e ne ha messo in discussione la decadenza nell’altro.

Altro è il discorso del trattamento diversificato riservato ai membri del Paralmento rispetto agli altri normali cittadini. È pur vero però che un parlamentare svolge un ruolo particolare e la legge gli concede alcune tutele per un più libero espletamento del suo mandato. Un tempo esisteva una vera e propria immunità. Oggi le garanzie sono assai più limitate.

Altro il discorso di rivedere e migliorare la legge Severino, chiarendone magari meglio l’ambito applicativo e dando il compito di far scattare o meno la decadenza ad un organo terzo rispetto alle aule parlamentari.

Altro discorso ancora è quello dell’opportunità politica di ricorrere con troppa frequenza al voto di coscienza. Non dovrebbe diventare una comoda scappatoia all’assunzione delle proprie responsabilità: questo però è un problema dei partiti da affrontare anche alla luce della loro già scarsa credibilità.

 

 

Le Trumpole per il cristianesimo

Mi sono chiesto più volte quale e quanta influenza abbia avuto il fattore religioso nella elezione di Donald Trump. Sicuramente i cristiani americani sono caduti nella trappola che la politica generalmente tende alla religione: scambiare il consenso e l’appoggio con la difesa formale dei principi etico-religiosi a copertura sostanziale delle posizioni e degli assetti di potere. Ma Trump, come vedremo sotto, è andato oltre nelle sue avance.

La religione ha la tendenza a mercanteggiare la possibilità e gli spazi del proselitismo scambiandoli con l’indifferenza alle politiche sociali: chiudiamo un occhio, forse anche due, sulle ingiustizie, purché ci lascino tranquilli a coltivare ed allargare il nostro campo.

Trump ha sventolato sotto il naso dei cristiani d’America l’intenzione di ridimensionare il diritto all’aborto: bene, bravo. Per il resto fai quel che vuoi (ho semplificato o addirittura banalizzato il discorso per rendere l’idea).

È il motivo par cui abbiamo sempre trovato le Chiese più o meno a fianco dei vari regimi a livello di istituzione, con l’effetto trascinamento verso i seguaci più obbedienti, meno dotati di capacità critica e meno coraggiosi nella testimonianza di vita. In fin dei conti Gesù è stato condannato e ucciso perché non ha voluto navigare a vista tra potere religioso e potere politico, ha tracciato una linea invalicabile tra queste due alte sfere, attestandosi inequivocabilmente sulla condivisione dei problemi e sulla solidarietà alle persone che dovrebbero essere oggetto di attenzione. È questo che dà enorme fastidio ai potenti: se la religione si mette in mischia viene travolta dal compromesso, se resta al suo posto gioca il vero e unico ruolo rivoluzionario.

Su questa problematica ha scritto uno splendido articolo Marco Ronconi, teologo e insegnante di religione, curatore su Jesus, rivista mensile della “Catena periodici San Paolo”, di una rubrica simpaticamente intitolata “Teologiadabar”. Ne riprendo di seguito il senso e le argomentazioni molto interessanti e totalmente condivisibili: si tratta di un esame dell’atteggiamento dei cristiani davanti al test di Trump.

L’attenzione viene giustamente posta sull’inasprimento delle misure di controllo verso i cittadini provenienti dagli Stati, colpevoli di essere a maggioranza musulmana e teatri di guerra o di fervore fondamentalista. Ronconi giudica questi provvedimenti come un atto culturalmente devastante, poiché si regge su una serie di equivalenze deflagranti: musulmano=sospetto; migrante=terrorista; povero=pericoloso.

Non bastasse, l’amministrazione Trump ha manifestato l’intenzione di allestire un corridoio preferenziale per i fuggiaschi di fede cristiana. È la stessa logica del mafioso che obbliga ad accettare un regalo non richiesto colui al quale chiederà poi complicità e omertà di fronte a un reato.

Differenziate e variegate sono state le reazioni del mondo religioso. Si è andati dal favore per l’interessamento verso la persecuzione dei cristiani al timore che i cristiani diventino, negli Stati a maggioranza musulmana, corpi estranei, soggetti da emarginare o eliminare; si è passati dalla soddisfazione per una difesa pelosa e pericolosa alla rivendicazione della cultura dell’apertura, dal silenzio assenso alla condanna della confusione tra carnefici e vittime. La religione in buona sostanza si è fatta trovare piuttosto impreparata e ondeggiante.

L’articolo, a cui mi sto ispirando e che sto citando a piene mani, mette il dito su due questioni cruciali. La prima è l’idea di Chiesa attorno alla quale si stanno scontrando due posizioni molto diverse: da una parte chi pensa che la Chiesa esista per i cristiani; dall’altra, chi pensa che esista per il mondo e – se proprio deve fare una distinzione – è chiamata a stare dalla parte degli ultimi, indipendentemente da ogni etichetta ulteriore.

La seconda questione spinosa è legata alla reazione di fronte a una persecuzione. Il cristianesimo è la religione dei martiri e non delle vittime, figuriamoci dei vittimismi. Papa Francesco non chiede favori per i suoi, reclama diritti per tutti i figli di Dio. Alcuni porporati che, lontano dai luoghi in cui il sangue è versato, strizzano l’occhio a Trump, sembrano aver dimenticato il motivo per cui il loro abito è rosso: non per contrattare spazi di benessere, ma per essere disposti a dare il proprio, di sangue, e per tutti. Chiedano al loro confratello monsignor Zenari, il nunzio apostolico di Siria rimasto accanto ai perseguitati di ogni religione, nominato non a caso cardinale nell’ultimo concistoro.

Le trappole trumpiane sono molto accattivanti per il popolo in genere e quindi anche per il popolo cristiano. Se il popolo degli “smarriti”, fuorviato da nostalgie e insoddisfazioni, non ha facili riferimenti su cui fare forza, il popolo dei cristiani ha il Vangelo. Pilato chiese a Gesù: «Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?». Gesù si limitò a richiamarlo alle sue responsabilità e non patteggiò, se la sarebbe cavata con poco.

 

Lo spretato

Vorrei concentrarmi su Parma, non perché sia la corte dei miracoli che in molti, più esterni che interni alla realtà cittadina, si intestardiscono a decantare, ma al contrario, perché si trova spesso tra l’incudine e il martello e rischia di farsi male.

È il caso dei rapporti tra Parma e il movimento cinque stelle, o meglio tra la sesta stella, Federico Pizzarotti, e i grillini “tradizionali”, in cui la nostra città si trova suo malgrado ad essere “intortata”. È inutile nascondersi che la imminente contesa elettorale amministrativa rischia di svolgersi non tanto tra Federico Pizzarotti (sindaco uscente ricandidatosi alla testa di una lista civica in totale dissenso dai pentastellati) e Paolo Scarpa (il candidato civico frutto del matrimonio di interessi con la “zitella” PD), ma tra “l’effetto Parma” dell’antigrillismo e “l’effetto Grillo” dell’antipizzarottismo. Saranno elezioni politicizzate (?) e puntate soprattutto sulla lotta interna al movimento cinque stelle.

Da tempo dico e scrivo che Beppe Grillo dopo averci regalato nel 2012, con la decisiva complicità dei perditempo piddini, il primo sindaco (protosindaco) della storia italiana   riconducibile al suo movimento, si appresta a riciclarcelo, sempre con la persistente complicità piddina, facendone il protomartire del grande dittatore pentastellato.

I giorni passano e chi sembrava un velleitario antagonista sta diventando un punto di riferimento per tutta la sparsa galassia del ribellismo alla seconda (il ribellismo del ribellismo), contro i capibastone, gli spargitori di veleni, i delatori al capo e i fedelissimi ante litteram. “L’effetto” sta propagandosi da Parma a Genova, la Spezia, Imperia, Lucca, Livorno, Ischia, Padova, Catanzaro, Comacchio. Pizzarotti ha preparato una carta dei valori, che aggancerebbe il suo movimento all’area di centro-sinistra, che proporrebbe scelte precise nel merito (diritti civili) e nel metodo (rete fisica e non virtuale, popolari e non populisti, vicini ai bisogni della gente e non alla pancia delle persone). Sta raccogliendo adesioni da tutti gli scontenti, sparsi sul territorio nazionale e nei diversi livelli istituzionali. Una cosa lo accomuna al grillismo d’origine: il linguaggio forte al limite dell’offensivo, l’atteggiamento politicamente scorretto e fegatoso che fa pensare più allo spretato che al missionario.

Come reagirà Parma? Si lascerà irretire da questa stucchevole battaglia? Finirà col rinnovare la cambiale del 2012, sulla scorta di ragionamenti minimalisti su risultati, proposte e persone, o saprà scegliere sulla base di un’esperienza amministrativa deludentissima e irriscattabile comunque la si giri? Temo il peggio. Sono quasi sicuro che se i grillini doc candideranno un loro esponente in contrapposizione a Pizzarotti, finiranno col dargli la spinta decisiva verso la riconferma: potrebbero scattare nei parmigiani il loro storico istinto a respingere le intromissioni forzate se non violente (Grillo vissuto come un Balbo del ventunesimo secolo), la loro propensione a respingere le interferenze centrali, la voglia di sbagliare in proprio.

Questa volta spero di non cascarci. Nel 2012 ho inteso mandare un messaggio all’inconcludente e continuista PD, quello dei Bersani e degli Errani, quello dei rigori sbagliati a porta vuota, quello dei magazzinieri preferiti ai goleador. Messaggio a tutt’oggi non ricevuto. Penso non mi resterà altro da fare se non astenermi dal voto, almeno al primo turno. Se per caso al ballottaggio dovesse andare Pizzarotti con un grillino qualsiasi, sarei in grave difficoltà e non escluderei un voto di sbarramento barricadero concesso al Pizza (confesso che mi sta diventando simpatico, nonostante la pessima prova amministrativa in questi cinque anni). Se, come presumo il secondo turno vedrà il confronto tra Pizzarotti e Scarpa (ipotesi molto probabile), me ne starò quatto quatto con la morte politica nel cuore.

Il vivo giace e il morto si dà pace

Il Partito democratico sotto la guida “maanchista” di Walter Veltroni nel 2008 ottenne un buon risultato elettorale, un 33%, che tuttavia portò alle dimissioni del segretario reo di aver perso le elezioni consentendo l’ultima (speriamo) rinascita di Berlusconi e di un suo governo. Probabilmente Veltroni ebbe una certa fretta di farsi da parte. Il suo ragionamento fu: ho puntato ad un PD forza politica maggioritaria, ne è uscito un PD forte ma minoritario, vado a casa e andate avanti voi ché a me scappa un po’ da ridere.

Dopo il disastro berlusconiano da tempo annunciato e la sua caduta con la famosa spallata europea, dopo la “indigesta ciambella napolitana” del governo Monti, si arriva alle elezioni politiche del 2013: il PD sotto la segreteria “battutista” di Pierluigi Bersani sembrava destinato a vincere a piene mani e invece…ottenne un modestissimo 25% perdendo oltre sei milioni di voti. Dopo un’inutile corteggiamento ai grillini, i veri vincitori usciti dalle urne, la palla torna ancora Napolitano, costretto ad un forzato bis della sua presidenza e obbligato all’esercizio della sua fantasia istituzionale con il varo del governo di (quasi) unità nazionale presieduto da Enrico Letta.

Così come il buon risultato (33%) del 2008 era stato sbrigativamente archiviato come un insuccesso, il disastroso risultato del 2013 venne vissuto come se niente fudesse, un piccolo incidente di percorso. Veltroni si era dimesso, Bersani, se tanto mi dà tanto, avrebbe dovuto andarsi a nascondere per sempre. Invece…ce lo siamo ritrovato, a distanza di tre anni circa a pontificare, a fare le pulci ad un segretario “rottamatore”, Matteo Renzi, che fino a prova contraria aveva riportato il partito in auge con un enorme 40% ottenuto alle elezioni europee del 2014. Non solo, ma il nostro Pierluigi, con la sua “banda di perditempo” (Antonio La Forgia, ex presidente della Regione Emilia Romagna, ex dirigente Pci, ex segretario regionale Pds, ex Margherita, dopo averli ben conosciuti dal di dentro, definisce così il gruppo di irriducibili, Bersani, D’Alema e c., che, a suo dire, avrebbero rovinato la sinistra in Italia) ha fatto il diavolo a quattro fino al punto da portare la minoranza interna, da lui più o meno guidata, su posizioni di aperto e netto dissenso verso la linea del partito (si pensi al No al referendum sulle riforme costituzionali), culminate nella recente sciagurata separazione.

Cosa ricavo da questa arida sintesi, oltretutto monca di alcuni passaggi? Che nel PD esiste uno strano concetto di sconfitta e vittoria, tale da rivalutare il mitico Pirro. Il vivo giace e il morto si dà pace. Gli anni dal 2013 in avanti sono stati utilizzati non tanto per analizzare i motivi di una sconfitta cocente, ma a sminuire e relativizzare le cause di una vittoria incoraggiante (quella appunto alle europee del 2014). Credo abbia ragione Romano Prodi quando afferma di essere entrato in politica pensando che fosse il regno della razionalità, mentre in realtà è il regno della passione e dell’irrazionalità. Principi che hanno portato, a suo dire, alla scissione in contrapposizione insanabile con una razionalità che avrebbe dovuto tenere unito il partito democratico.

Lo stesso atteggiamento pregiudizialmente disfattista (cosa assai diversa dalla ragionata critica) si è avuto nei confronti del governo Renzi e della sua azione. Governare i processi, infatti, per la “sinistra passionale”, vuol dire tradire la propria identità e quindi, con i traditori non si dialoga si fa la guerra. Siamo arrivati ai niet sulle riforme costituzionali, sulla riforma elettorale, sulla riforma del mercato del lavoro, sulla riforma della scuola, etc.

E adesso? Tutto da capo! Si ricomincia dal Lingotto, costretti al culto della memoria. Renzi non sarà un grande stratega, un uomo di Stato, un gran riformatore, un leader fenomenale. Un politico chiacchierone e ultimamente persino chiacchierato? Può darsi, anche se quando lo sento capisco che in lui c’è qualcosa di interessante da mettere alla prova. Gli altri? Meglio lasciar perdere.

L’Olandese volante e il Grillo sparlante

Se mettiamo insieme, in una ragionata ma fedele combinazione, quanto hanno recentemente dichiarato a la Repubblica due autorevoli personaggi, Marc Lazar, politologo francese, e Geert Mak, intellettuale olandese, arriviamo ad una nitida e inquietante fotografia del movimento pentastellato, che tiene banco nella politica italiana.

Da una parte i Cinquestelle vengono seccamente classificati tra i populisti e assimilati al partito olandese di Wilders e al francese Front National di Marine Le Pen; dall’altra il Pvv, l’ultradestra xenofoba olandese, viene considerato un partito a membro unico, l’indiscusso leader Geert Wilders, il quale, senza una base alle spalle, è vocato all’implosione, vittima di se stesso, della sua autoreferenzialità, della aridità politica del suo messaggio.

Il parallelo fra Wilder e Grillo viene quindi spontaneo. Proviamo a prendere una per una le caratteristiche dell’Olandese volante per applicarle all’Italiano sparlante.

Membro unico: anche il nostro comico prestato alla politica o politico prestato alla comicità (fate vobis) è certamente il dominus carismatico e reale del M5S. Non so se nel frattempo abbia cambiato parere, ma comunque Massimo Cacciari, con la sua solita e simpatica verve tranchant, ha ripetutamente affermato che i cinquestelle sono Grillo e che dietro di lui non c’è niente. Ogni giorno si nota come tutto ruoti attorno a lui: non è solamente l’ispiratore e il leader, ma il padrone indiscusso, che promuove e boccia, rimanda e riammette, taglia e cuce, dice e disdice, sopporta o distrugge, e via discorrendo. L’ultima vicenda genovese, con la messa al bando della candidata a sindaco, una insegnante di geografia uscita sorprendentemente vittoriosa dalla votazione on line fra gli iscritti, e la sua sostituzione con il tenore del teatro Carlo Felice, evidentemente capace di cantare alla perfezione le arie grilline (tra uomini di teatro ci si intende…), non è che la ciliegina su una torta cucinata in progress. Questa volta la cosa è stata clamorosa, al punto da costringere Grillo a fare scopertamente appello al proprio carisma: “Qualcuno non capirà, fidatevi di me”. Brutto segno quando il carisma deve essere apertamente evocato: vuol dire che non è più così automaticamente riconosciuto. Più che del capo-banda dei ragazzini, il quale impone di ricominciare o cambiare il gioco quando prende per lui una brutta piega, dà l’idea del padrone di casa che sfratta l’inquilino perché ascolta musica sgradita a volume troppo alto.

Indiscusso leader: Grillo lo è, anche se con i suoi metodi ha perduto, strada facendo, decine di parlamentari, di consiglieri comunali e regionali, financo qualche europarlamentare. Dove vuoi che vadano? Senza di lui non sono nessuno. Certo. Però, sgretola oggi, sgretola domani…, gli sgretolanti cominciano a collegarsi fra di loro, a fare gruppo e a dare fastidio. Considero molto eloquente la vicenda del comune di Parma. Federico Pizzarotti, il primo sindaco, ma anche il primo dissidente della storia pentastellata, si ripresenta all’elettorato parmense. Una candidatura grillina ortodossa e alternativa non è stata ancora trovata e non so se verrà messa in campo col rischio di subire una sonora sconfitta, che potrebbe assestare un colpo ferale al movimento. Parma inizio e inizio della fine?

Senza base alle spalle: in effetti Grillo non ha alle spalle un movimento di gente convinta e schierata, ma l’armata brancaleone dei protestatari dell’anti-politica. Non ha gruppo dirigente: ogni volta che c’è da fare qualche scelta di candidature casca l’asino. Ha un blog e da questo blog sputa sentenze e suona la carica.

Vocato all’implosione: la progressiva contraddittorietà delle scelte tattiche, l’assenza di strategia, lo splendido isolamento, il tormentone anti-istituzionale, la cavalcata sempre più bolsa della protesta per la protesta, i toni e le parole sempre più volgari e violente, potrebbero effettivamente comportare seri rischi di implosione.

Vittima di se stesso e della sua autoreferenzialità: l’indiscutibile carisma sta scadendo in una sorta di autoritarismo padronale francamente insopportabile anche al più convinto dei sudditi. L’esagerazione è dietro l’angolo. Non sopportare al proprio interno interlocuzione alcuna, smerdare continuamente chi accenna a dire la sua,   fare e godere il vuoto attorno a sé, possono portare all’azzeramento totale dell’entusiasmo all’interno e all’annientamento del feeling esterno.

Succube dell’aridità politica del suo messaggio: al di là di pochi slogan, non emerge alcuna politica credibile; candidarsi alla guida del Paese mostra tutta la velleitaria corda; le squadre di governo ipotizzate fanno più tenerezza   che paura; il contropiede rispetto ai reiterati errori del sistema non potrà durare all’infinito; il gioco del “tanto peggio tanto meglio” prima o poi trova la buccia di banana; la evidente cecità protestataria col tempo guarisce; a stancarsi della DC gli Italiani hanno impiegato oltre quarant’anni, a svegliarsi dal sonno berlusconiano vent’anni, a scrollarsi di dosso la farsa grillina, a mio giudizio, potrebbero impiegare meno tempo.

Le vicende capitoline di Raggi e c., lo scompiglio periferico in vista delle prossime elezioni amministrative, lo schiacciamento sul populismo mondiale ed europeo, il vaneggiamento antieuro, il reiterato legamento dell’asino dove vuole il padrone, stanno mettendo a dura prova la credibilità e la votabilità del M5S.

A proposito di votabilità, Paolo Flores D’Arcais, non certo un difensore d’ufficio dell’establishment, su MicroMega, di cui è direttore, scrive: « Mi ero domandato fino a quando si sarebbe potuto votare ancora M5S: con rammarico, perché altri voti non di regime non se ne vedono. La misura era dunque già colma: l’ukase defenestratorio di Genova costituisce la goccia che fa traboccare il vaso: nemmeno il M5S è più votabile».

Le scadute ricette ideologiche

Come noto, le ricadute sono ancor peggio della malattia originaria e spesso ci colgono quando meno le aspettiamo, pensando di essere definitivamente guariti. Non so se l’ideologismo datato sia stato una malattia che ha colpito la politica. Certamente ne ha condizionato la concreta efficacia, deviandola verso le astratte questioni di principio e imprigionandola in schemi teorici.

Il muro di Berlino, che materializzava lo scontro idelogico tra capitalismo e marxismo o meglio tra occidente liberale e oriente comunista si pensava fosse caduto e il suo crollo   avesse rappresentato la fine della sterile contrapposizione teorica per riportare la politica al confronto pragmatico sui programmi.

Ebbi subito all’epoca il timore che assieme alle ideologie se ne andassero anche le idee, che si corresse il rischio di buttare assieme all’acqua sporca del manicheismo ideologico anche il bambino valoriale.

Ricordo una stupenda vignetta di Forattini che dalle due parti del muro crollato metteva, se non erro, l’entusiasmo degli orientali finalmente liberi dalle catene comuniste e il dramma della tossicodipendenza degli occidentali con le siringhe infilate nel braccio. Dalla padella del comunismo alla brace del capitalismo.

Nel frequente dialogo con un carissimo amico comunista scambiavo l’ansia di ritrovarsi alle prese con una politica bottegaia, dove si avrebbe finito col scegliere il miglior cibo prescindendo dalla credibilità dell’offerente, ma soprattutto dal valore nutritivo del bene in vendita.

Il fatto è che oltre il danno di avere precipitato la politica nel gorgo affaristico, in senso proprio e figurato,   ci ritroviamo anche fra i piedi i devianti rigurgiti ideologici, che vogliono riportarci al secolo scorso, lasciandoci intravedere i fantasmi delle dottrine superate, come sta avvenendo a Busseto e dintorni con i fantasmi di Giuseppe Verdi.

In questi giorni sono ben tre le questioni che hanno offerto e offrono l’occasione per reintrodurre alla grande lo scontro ideologico: l’abolizione dei voucher, il Daspo urbano e la nomina dei manager di Stato.

La CGIL si è presa la grave responsabilità di equivocare sul recupero del proprio ruolo invadendo brutalmente il campo legislativo e governativo e di reintrodurre nel discorso del mercato del lavoro elementi di vera e propria contrapposizione ideologica. I voucher sono diventati il simbolo dello sfruttamento e della precarizzazione   del lavoro, scatenando una furia iconoclasta e spaccando il Paese con la richiesta di un referendum abrogativo di sapore pansindacale. Uno strumento, utilizzabile per impostare alla luce del sole e legalizzare i piccoli rapporti di lavoro, impossibili da inquadrare nelle fattispecie canoniche della contrattualistica codificata e burocratizzata, viene combattuto ed esorcizzato come fosse uno strumento di tortura a danno dei lavoratori saltuari e precari e soprattutto un’occasione per affamare il popolo. Tutto giustificato demagogicamente dall’abuso che di tale strumento si sarebbe fatto e si farebbe per coprire evasione salariale, contributiva e fiscale. Un’opportunità per far emergere il lavoro nero diventa occasione per ributtare nel nero i rapporti regolari. Queste le motivazioni della guerra dichiarata ai voucher. Ogni e qualsiasi strumento, anche il più neutro,   nelle mani dell’uomo si presta ad essere abusato: vale per i farmaci, per il cibo, per il danaro, per gli abiti, per ogni e qualsiasi cosa.

Mio padre, persona costituzionalmente anti-ideologica, era capace di sdrammatizzare anche le più gravi situazioni, aveva l’abilità dialettica di ridurre le questioni ai minimi termini, non per evitarle, ma per affrontarle in modo pacato e realistico. Di fronte alle reazioni esagerate e catastrofiste metteva in campo una curiosa similitudine: «Se a vón ag va ‘d travèrs un gran ‘d riz, an magnol pu al riz par tutta la vitta? No, al sercarà ‘d stär pu atenti…». Si trattava proprio di stare più attenti, di controllare meglio, di regolamentare con maggior precisione, ma certo non era e non è il caso di farne una guerra ideologica. Oltretutto adesso tutta la colpa ricade sul governo, perché di fronte a chi spingeva a forza la porta, ha avuto l’idea di aprirla improvvisamente depotenziando, forse nel peggiore dei modi, la carica dei distruttori: anche il governo infatti ha finito con l’agire indirettamente sotto il condizionamento ideologico, preferendo sgombrare il campo dalla questione piuttosto che affrontarlo, col rischio di spaccare il Paese su una questione di politica del lavoro rinviata a data da destinarsi.

Ma non ci sono solo i voucher. Vediamo il cosiddetto Daspo urbano. Da tempo è in atto, anche all’interno della sinistra, la discussione sulla necessità di garantire sicurezza ai cittadini, non lasciando ai populisti di professione questo tema così delicato e sentito dalla gente. Ebbene, non appena un ministro, che oltretutto viene da una formazione culturale e politica di sinistra, tenta, di concerto con i comuni, di regolamentare la vita urbana e di arginare, peraltro in modo soft (sanzioni pecuniarie per chi si rende protagonista di episodi di degrado urbano, ordinanze dei sindaci con riferimento alla vendita di alcolici e alle situazioni di grave incuria al territorio, interventi a difesa dell’ordine pubblico in occasione di cortei e manifestazioni) writers, mendicanti, ubriachi, ambulanti non autorizzati, parcheggiatori abusivi, scoppia un finimondo di polemiche sulla presunta criminalizzazione degli emarginati, sullo spostamento dei problemi dal centro alle periferie, sul solito benaltrismo sociale, etc.

Siamo ancora nel campo puramente ideologico. Ha un bel dire il ministro Minniti che non si tratta di legge di destra: lo stanno mettendo in croce, perché ha avuto l’ardire di provare a risolvere qualche problema a livello di civile convivenza. «È uno strumento del tutto inefficace perché sposta il problema senza alcuna ambizione di risolverlo e soprattutto trasforma la guerra alla povertà e alla marginalità in una guerra contro i poveri e i marginali. È ipocrita, razzista e cattivo: penso abbia aspetti incostituzionali, prevedo un ricorso alla Corte suprema e noi faremo una battaglia politica durissima contro questa abdicazione definitiva della cultura di sinistra verso quella di destra», così il commento al decreto da parte del segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni. Pura ideologia, inconcludente e datata.

Arriviamo al punto tre: la nomina da parte del Governo dei Manager di Stato. Apriti cielo! Il blog di Beppe Grillo si scatena: «Renzi si sta dedicando, senza aver alcun titolo, a gestire le nomine e a piazzare i suoi uomini. Grave, intollerabile e pericoloso». Mi sembra normale che l’opinione di Renzi abbia influito: era Presidente del Consiglio da tre anni fino a tre mesi or sono e questa partita l’aveva certamente istruita da tempo. Che non siano stati rinnovati un paio di manager per scarsa sintonia con le linee politiche del governo non mi scandalizza affatto. Si tratta di manager di Stato nominati dal governo: a chi dovrebbero rispondere? A Beppe Grillo? Agli editorialisti de la Repubblica in vena di antirenzismo a tutti i costi?

L’allora sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, chiedeva con tutta l’insistenza possibile a Enrico Mattei, Presidente Eni, di salvare “La Pignone” e il posto di lavoro dei suoi dipendenti: un dialogo diventato storicamente emblematico e culturalmente stimolante. Allora mi chiedo perché Renzi non possa chiedere all’amministratore delegato di Poste di intervenire per rilevare il risparmio gestito Pioneer da Unicredit in modo da evitare che finisca in mani francesi, di dare una aiuto per risolvere il problema Monte Paschi Siena. Erano operazioni antieconomiche? Tutto da dimostrare nel tempo a venire e nel contesto generale. Intromissioni politiche? Se non si intromette sugli Enti di Stato, cosa ci sta a fare il governo a livello economico-finanziario?

Mi sembra di essere tornato al periodo in cui il PCI faceva opposizione ideologica e generalizzata su tutto, con il piccolo particolare che almeno la sapeva fare, mentre oggi siamo a livello di penosi dilettanti della politica e di replicanti della storia strapassata. Le ideologie uscite dalla porta rientrano dalla finestra e condizionano il confronto politico riducendolo a scontro pregiudiziale. Non sarà il caso di darsi una regolata?