Del senno di Prodi son piene le fosse

Ho partecipato, per la verità solo parzialmente, ad un convegno organizzato dal Circolo culturale “Il borgo”, dal tema piuttosto improbo, “Quale Europa”, dalla location accademicamente austera, l’aula magna dell’Università di Parma, dal relatore di livello, Romano Prodi, imbeccato da fior di docenti universitari tra i quali spiccava il neo-rettore magnifico dell’ateneo parmense. Pubblico folto e attento, massiccia partecipazione studentesca, con tanto di ovvia presenza mediatica.

Le premesse c’erano tutte, gli ingredienti pure, se non che il cuoco ha lasciato alquanto a desiderare. Romano Prodi ci ha ormai abituati a queste scorribande, affrontate con un taglio polivalente: troppo generico e superficiale per essere in stile scientifico, troppo dimesso e improvvisato per essere di tipo accademico, troppo immediato per avere uno spessore storico, troppo confuso per avere una valenza politica.

Se uno fosse entrato timidamente nella grande sala che mette soggezione (più adatta alla contemplazione che all’ascolto) con lo scopo di trovare qualche spunto di prospettica riflessione, ne sarebbe uscito stordito da un bagno di pragmatismo europeistico da far paura: una quasi cinica descrizione dello stallo europeistico ed internazionale, una scontata analisi delle lacune italiane, una lettura “anagrafica” del fenomeno migratorio, una stucchevole fotografia dei rapporti fra gli stati europei, una precipitosa ed incauta apertura di credito verso la Cina, un discutibile sdoganamento della Russia, una sottovalutazione del ruolo americano, una paralizzante visione istituzionale e progettuale dell’Unione Europea.

Basti dire che gli unici spiragli timidamente emergenti erano costituiti dalla prospettiva di un esercito comune, dal “macronismo” ancora tutto da scoprire e dal rassicurante ruolo della Bce guidata da Mario Draghi. Per il resto buio fitto: ragionata rassegnazione e conseguente pessimismo sparso a piene mani.

Gli autorevoli interlocutori si sono opportunamente sforzati di individuare alcune piste innovative per il futuro della Ue (si capiva che avrebbero avuto più argomenti e più frecce al loro arco di quante non ne avesse Prodi): un approccio più solidale al discorso migratorio, un rilancio di alcune novità istituzionale, l’adozioni di nuovi strumenti di carattere economico-finanziario. Su queste sollecitazioni sono scese autentiche docce gelate, mitigate soltanto da qualche minuscolo e colorito aneddoto relativo ai protagonisti del processo di integrazione europea.

Se questa è la corroborante iniezione di fiducia proveniente da un personaggio di primissimo piano nella recente storia europea e di rilievo nello spazio politico della sinistra, non c’è da stare allegri: nessuna capacità di “sognare”, di buttare il cuore oltre l’ostacolo, di credere in un futuro fatto di ideali oltre che di bilanci economici, di scambi commerciali e di equilibrismi politici.

In questi giorni si fa un gran parlare della necessità per la sinistra italiana di ritrovare un approccio largo e coinvolgente verso il suo popolo. Le difficoltà in tal senso vengono fatte risalire alle divisioni, ai personalismi, ai contrasti di vertice a cui farebbe riscontro lo smarrimento di una base a cui vengono a mancare i riferimenti ideali e le soluzioni concrete. Non credo che lo scarto ideale possa essere frettolosamente e tatticamente sanato da un rassemblement tra Renzi, Bersani e D’Alema sotto l’alto patrocino del presidente del Senato e con la regia di Giuliano Pisapia. Non penso che le carenze programmatiche possano essere colmate da un ritorno all’ortodossia di una sinistra di lotta e di piazza.

Ascoltando Romano Prodi mi è venuto spontaneo far risalire la crisi della sinistra italiana più al passato che al presente: le tante, troppe, occasioni sprecate a livello governativo ed a livello europeo, di cui Prodi non è l’unico, ma certamente nemmeno l’ultimo dei protagonisti. Un passato da cui peraltro è molto difficile prendere la rincorsa: le scialbe dissertazioni prodiane stanno a dimostrarlo. Se i padri nobili della sinistra sono come lui e i traghettatori odierni sono come Pietro Grasso, ho la netta impressione che il fantomatico popolo della sinistra diventerà sempre più fantomatico e sempre meno consistente. Che non valga la pena, come si suol dire, stare nei primi danni renziani.

 

Mettete dei fiori nei cannoni delle suocere

Si diceva che un mio illustre collega piuttosto combattivo, quando doveva affrontare riunioni tese e calde, facesse preventivamente il pieno di vis polemica andando a far visita alla suocera, la quale non mancava di fornirgli l’occasione per un efficace pre-riscaldamento: in poche parole si recava a casa della suocera, sapendo che non sarebbe mancata la tensione sufficiente a prepararsi al clima della immediatamente successiva riunione di lavoro.

Le suocere, categoria tanto bistrattata e vilipesa, oltre che a custodire e financo a mantenere i nipoti, servono ad allenare le nuore e i generi in vista delle loro performance professionali più impegnative sul piano dialettico. Teniamone conto.

Fin qui, tra il serio e il faceto, ci si può arrivare, ma che i litigi con la suocera potessero essere propedeutici alle stragi, come sembra sia successo per il killer del Texas, non l’avrei mai e poi mai pensato. Ventisei persone massacrate in una chiesa battista ad opera di un pazzo, che si sarebbe così vendicato delle contumelie della suocera, che frequentava la chiesa teatro della orrenda strage.

Quando ho letto questa notizia non volevo crederci, poi ho minimamente approfondito la questione, che sembra avere un fondamento di verità. Quindi tutta colpa della suocera scontrosa e bizzosa, se questo signore si è impossessato di armi letali e le ha scaricate contro i partecipanti ad un rito religioso.

Non c’entra quindi la facile disponibilità di armi, perché questo strano soggetto non aveva il permesso per detenerle, non c’entra l’odio religioso che dilaga nel mondo, non c’entra il terrorismo di qualsiasi natura, tutta colpa della suocera che ha fatto esplodere la furia omicida del genero pazzo da legare: siamo cioè al più classico e banale dei problemi familiari.

Faccio fatica a crederlo. Non sarà per caso una delle tante fake news, volta ad assolvere un assurdo sistema di commercializzazione delle armi e a coprire una sempre più deflagrante tensione sociale? Questa suocera, tutto sommato, fa tirare un respiro di sollievo a tutti: Trump può tranquillizzare la lobby delle armi, gli americani possono esorcizzare il terrorismo di matrice islamica, i credenti delle varie religioni possono professare la loro fede senza eccessivo timore, gli Stati Uniti sono e resteranno una potenza che non scherza con i dittatori sparsi nel mondo, che sa difendersi dalle minacce interne ed internazionali.

Ognuno però ha il suo punto debole: forse gli Usa hanno nelle suocere la loro spina nel fianco. Sono sicuro che Trump saprà far fronte a questa emergenza: basterà un decreto che neutralizzi le bizze delle suocere, obbligando i generi e le nuore ad omaggiarle con i fiori. Così alle tante lobby che condizionano la vita politica americana si aggiungerà quella dei fiori. Sempre meglio di quelle del petrolio e delle armi.

I paradisiaci gabinetti del capitalismo

Centinaia di autorevoli testate giornalistiche si sono riunite in un’associazione temporanea d’imprese mediatiche per sputtanare i poteri forti del sistema capitalistico, invischiati in manovre di evasione fiscale nei cosiddetti paradisi: emergono nomi altisonanti delle istituzioni, della politica, della finanza, dello spettacolo.

“Fate come dico e non come faccio” si diceva un tempo per ridicolizzare la categoria sacerdotale colpevole di gravi incoerenze. “Pagate le tasse, noi troviamo la maniera di non pagarle”, così si potrebbe sintetizzare il messaggio proveniente dalla frequentazione dei paradisi fiscali.

Sono stanco di scandali: è inutile che mi si ripeta continuamente che viviamo in una “società di merda”, lo so da tempo e ne soffro. Tuttavia, siccome anche la denuncia è “sporca di merda” perché non viene dalle schiere angeliche dell’anticapitalismo, mi sento assediato dalla merda ed è inutile e pericoloso mescolarla, “sbadilarla”, buttarla in faccia a tutti col gusto di imbrattare il sistema, per poi dover ammettere che non ne esiste uno migliore.

Cosa voglio dire? Se la regina Elisabetta porta i suoi soldi in un paradiso fiscale, non mi fa certo piacere, ma non mi stupisce più di tanto. Forse lei non lo sa nemmeno… Il problema sta nel fatto che esistono i paradisi fiscali: forse gli inglesi dovrebbero indire un referendum per uscirne (loro che vogliono fare tutto in casa).

Una nota barzelletta racconta di un soggetto che sbaglia buco: anziché nel cesso, caga nel condizionatore. La scena si sposta e un’altra persona cui arrivano gli schizzi di merda, cerca di ripulirsi alla meglio, chiedendosi: «Mi am piasris saver chi a caghé in-t-al ventilatòr!!!».

La situazione è questa: serve sapere chi porta i quattrini in campo neutro, chi fa affari col nemico, chi ricicla il denaro sporco? Sì e no. Non illudiamoci di risolvere i problemi parlando di ingiustizie. Siamo in grado di cambiare il sistema che consente tutto ciò? Ho seri dubbi al riguardo. Lo scandalismo può essere pertanto fine a se stesso e può creare una sorta di panico da ingiustizia, che sprona tutti a fare altrettanto in una spirale perversa e inarrestabile. Il mondo pensa di salvarsi buttando addosso agli altri le schifezze comuni. Donald Trump ce lo sta insegnando in modo impeccabile e disastroso. Mors tua, vita mea. Meglio correggere il tiro: merda tua, merda di tutti. Ci vorrebbero più gabinetti, ma soprattutto l’onestà intellettuale di usarli.

Si dice che il frutto più velenosamente aggiornato del sistema capitalistico sia la finanziarizzazione dell’economia. Non vale da dove arrivano i soldi, ma valgono i soldi per loro stessi e un modo per farli è senz’altro non pagare le tasse. L’uomo è fuggito dal paradiso terrestre per rifugiarsi nei paradisi fiscali. È la religione del capitalismo che ha i secoli contati. Chiedo scusa delle trivialità.

 

 

 

Il buio siciliano

Tutti sono soliti commentare i risultati elettorali a babbo morto, sciorinando affrettate proiezioni e conclusioni. Provo ad andare contro-corrente e a dire la mia a prescindere dai dati, che tutti aspettavano come un redde rationem dell’attuale politica italiana. Il commentino quindi non è assolutamente una riflessione sui dati emergenti dalle urne: ce ne saranno in giro anche troppe… Provo a rifiutare il senno di poi, optando per quello di prima.

Chi ha vinto dice che si trattava di un test di validità nazionale capace di fotografare una tendenza in atto; chi ha perso ridimensiona il risultato nella cornice regionale e nella specificità del quadro siciliano. Gli uni considerano le lezioni siciliane come l’antipasto di quelle politiche ormai prossime; gli altri fanno una netta distinzione tra voto amministrativo e politico, fra Sicilia e Italia tutta.

Due dati emergono comunque dalla campagna elettorale: innanzitutto dei problemi siciliani non è fregato niente a nessuno e gli isolani l’hanno capito astenendosi in massa (ha votato solo circa il 47% degli aventi diritto). Forse sarò stato distratto, ma non ho captato alcuna analisi seria dei gravissimi problemi dell’isola, nemmeno una valutazione obiettiva dell’uscente governo regionale, solo scaramucce polemiche fra candidati vecchi e nuovi, solo accuse reciproche di impresentabilità etica, di continuismo politico e, peggio ancora, di contiguità col fenomeno mafioso. I (pochi) Siciliani hanno esercitato il loro diritto al buio, scegliendo fra Renzi e i suoi detrattori, tra un centro-destra redivivo e un centro-sinistra diviso, tra Grillo e il resto del mondo.

La seconda riflessione riguarda la pochezza culturale e politica delle candidature: scarsa rappresentatività, carente preparazione e laddove esisteva una certa consistenza civica e professionale si respirava comunque una deleteria aria di improvvisazione, che ha caratterizzato questa consultazione, peraltro istituzionalmente importante anche per il fatto che la Sicilia è una regione a statuto speciale.

La politica è stata schiacciata tra le vuote polemiche partitiche e l’inadeguatezza dei suoi protagonisti: questi difetti dovrebbero quanto meno alleggerirsi con l’avvicinamento alla realtà periferica, invece, paradossalmente, più ci si accosta ai problemi concreti dei cittadini e più la risposta politica si fa evanescente e pretestuosa.

Sono preparato ad una coda polemica infinita e inconcludente. Non ho idea come (non) abbiano vissuto questo appuntamento i Siciliani e come vivranno il dopo-elezioni. Speriamo che la politica cattiva non scacci ulteriormente quella buona.

I leader nazionali si sono fatti vedere, combattuti fra la voglia di (s)qualificare la consultazione e il timore di rimanere sotto le macerie. La preoccupazione principale è che, sputtana le elezioni oggi, sputtanale domani, la democrazia si riduca sempre più ai minimi termini. Ricordo con quanto entusiasmo vennero vissute le prime elezioni regionali del 1970: è passato molto tempo, le regioni hanno istituzionalmente deluso al di là delle sparate autonomiste, i partiti si sono allontanati dalla gente, la politica vivacchia. Come detto la Sicilia è una regione a statuto speciale, ma di speciale ha ben poco da offrire: in questa occasione ha messo a disposizione il suo territorio per un duello di altro genere. Una sorta di pre-elezioni politiche, combattute in campo neutro, con tanto di padrini, di armi varie, di colpi bassi: qualcuno ha addirittura minacciato roghi per gli avversari. Può darsi che tutto passi alla storia come la Cavalleria Rusticana di Beppe Grillo, dove non si capisce chi fa la parte di compar Alfio e di Turiddu, mentre Santuzza (l’Italia) piange disperata.

 

 

Molestie sessuali: perverse regole del sistema

Di fronte al dilagante scandalo delle molestie sulle donne, che sembra non risparmiare alcun ambiente, alcuna zona geografica ed alcuna forza politica, è necessario porsi domande molto serie, tali da mettere in discussione le basi culturali del nostro vivere civile.

Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Austria sono invasi da denunce di donne, che sostengono di essere state violentate, stuprate e, nella migliore delle ipotesi, molestate da uomini di potere. Sì, perché il comune denominatore di queste vicende starebbe nel fatto che i protagonisti attivi sarebbero persone che hanno approfittato della loro posizione dominante per ottenere, con violenza o con ricatto, i favori di donne, a loro più o meno vicine, in cambio, probabilmente, della promessa, diretta o indiretta, di altri favori: un perverso e sommerso “do ut des” che sta venendo a galla.

Tutto ciò francamente non mi sorprende: il marciume della nostra società si basa molto sul sesso e ruota intorno ad esso. Non è un caso se le prostitute di professione hanno da sempre sostenute che il mercato sessuale va ben oltre le loro “canoniche” prestazioni per coinvolgere ambienti altolocati e “perbene”; è ridicolo prendersela con i modesti utilizzatori finali della prostituzione stradaiola, quando fior di personaggi dell’alta società, sotto copertura, attingono ad un mercato ben più vasto e delinquenziale da loro stessi impostato su “perfide e subdole marchette” ricattatorie; è limitativo circoscrivere lo sfruttamento della prostituzione ai “classici magnaccia”, peraltro protagonisti anche della tratta delle immigrate, per chiudere gli occhi sui “magnaccia di alto bordo”, che sfruttano segretarie, giornaliste, attricette e via discorrendo.

È però vero che anche sul fronte femminile c’è qualcosa che non va. Faccio una certa fatica a classificare certi comportamenti. Se la libera scelta di prostituirsi alla luce del sole è a mio giudizio rispettabile, se la costrizione violenta a prostituirsi delle ragazze immigrate risulta evidente e rappresenta un fenomeno di vera e propria schiavizzazione, nelle molestie del bel mondo faccio molta fatica a capire fin dove le donne subiscono ricatti e violenze e magari tacciono per vari motivi e dove invece si prestano, seppure da posizione scomoda e subalterna, ad alimentare un sistema che le coinvolge e le intontisce. Le clamorosamente tardive denunce non mi convincono: c’è senz’altro la storica difficoltà ad esporsi, c’è sicuramente il timore di pagare un secondo prezzo ancor più salato del primo, c’è il condizionamento di una situazione ambientale troppo forte per essere attaccata. Tuttavia il discorso è simile a quello mafioso: se nessuno ha il coraggio di reagire nei modi e tempi giusti, il dopo rischia di diventare una pura rivalsa, che non risolve il problema né a livello personale né a livello sociale. Viene sollevato un gran polverone (pur sempre meglio del tenere tutto sotto traccia) dove non si capisce niente e il mondo continua ad andare per la sua strada storta.

Credo che la forza di cambiamento di cui è portatrice il mondo femminile possa riguardare anche questo fenomeno: se va combattuta da parte delle donne l’emarginazione derivante dal sottosviluppo e dalle religioni, se va combattuto lo schiavismo che si annida nei gangli dell’immigrazione clandestina, se va perseguito il discorso della parità fra i sessi ancora di là da venire, bisogna mettere in conto anche la guerra contro la subordinazione sessuale della donna   all’interno del sistema di potere delineato sostanzialmente ad uso e consumo maschile.

Quando affermo che la donna nella nostra società ha ottenuto più parità di difetti che di diritti, intendo dire che deve liberarsi dalle trappole che la imprigionano, senza che se ne renda conto fino in fondo e senza trovare la forza di reagire a livello personale e comunitario, deve cioè avere il coraggio di rifiutare un sistema che prevede, fra le sue “regole”, anche le molestie sessuali.

Un obiettore sui generis per (non) celebrare il quattro novembre

Il quattro novembre finisce purtroppo per essere la stucchevole festa delle Forze Armate e l’anacronistico sfogo delle residue nostalgie militaresche. Ritengo opportuno fare riferimento in materia all’esperienza culturale e concreta di mio padre: a lui cedo volentieri la scena.

Aveva fatto il servizio militare con spirito molto utilitaristico ed un po’ goliardico (per mangiare perché a casa sua si faceva fatica), cercando di evitare il più possibile tutto ciò che aveva a che fare con le armi (esercitazioni, guardie, tiri etc…) a costo di scegliere la “carriera” da attendente, valorizzando i rapporti umani con i commilitoni e con i superiori, mettendo a frutto le sue doti di comicità e simpatia, rispettando e pretendendo rispetto aldilà del signorsì   o del signornò. Aveva vissuto quel periodo come una parentesi nella sua vita e come tale l’aveva accettato,   seppure con una certa fatica.

Nonostante fosse un antimilitarista, partire per il servizio militare nel lontano maggio del 1924, il giorno successivo a quello dei funerali di Padre Lino, non fu un dramma, considerata la miseria in cui si viveva e i disordini sociali in cui si era immersi. Sotto le armi fece una scelta dettata dal desiderio di evitare assurde esercitazioni ed inutili sacrifici: diventò attendente di un ufficiale piemontese piuttosto scorbutico, ma, tutto sommato, accettabile.

Raccontava parecchi buffi episodi. Questo tenente si lamentava spesso perché mio padre non gli faceva bene il letto e durante la notte si trovava con i piedi scoperti. «A ca mèjja al lét a m’al fa mè mädra…» così si discolpava provocatoriamente questo strano attendente.

Il tenente si vendicava: spesso si faceva portare una borraccia d’acqua, ne beveva un goccio e il resto lo scaricava in faccia a mio padre con le risate dei soldati presenti alla scena, ai quali magari diceva: «Guardate che faccia da stupido ha il mio attendente…». E loro giù a ridere. Mio padre diceva fra sé: «A pasarà ánca chi méz chì…».

Le cose peggiorarono quando il tenente si sposò e a mio padre vennero richiesti certi servigi da vera e propria donna di servizio: era in chiara difficoltà psicologica, soprattutto nei rapporti con questa moglie autoritaria. «Va bén soportär al tenént, mo ànca so mojéra, no…» così spiegava le situazioni incontrate. Fu richiamato all’ordine a più alto livello, spiegò apertamente il motivo delle difficoltà subentrate e trovò comprensione assieme all’invito a non sgarrare. Il tenente gli aveva affibbiato il soprannome di “rospo” e mio padre dovette mandar giù parecchi rospi.

Raccontava della vicenda del pane che al reggimento arrivava fresco di giornata ma, chissà perché, ai soldati veniva somministrato raffermo. Mio padre osservò questa faccenda e fece una cosa molto semplice: azzerò il quantitativo in dispensa andandolo a vendere, in modo che il vivandiere fu costretto a distribuire il pane fresco. Qualcuno vide e riferì al colonnello, davanti al quale mio padre fu chiamato a rapporto. Conosceva il temperamento di questo superiore e si presentò pertanto con molta franchezza e sincerità, spiegando per filo e per segno tutto l’accaduto. Il colonnello, dopo averlo squadrato da capo a piedi, non lo punì, anzi gli diede apertamente ragione.

Venne Natale e, avendo usufruito di una licenza poco tempo prima, rischiava di doverlo passare in caserma. Natale a casa, un chiodo fisso nella mentalità di mio padre. Non si rassegnava all’idea, si mise a rapporto dal colonnello, entrò si mise sull’attenti e con voce franca e senza tentennamenti espose il suo caso spiegando anche le caratteristiche della sua famiglia. La richiesta fu accolta a condizione che non pregiudicasse i diritti degli altri militari. Riuscì a passare Natale in famiglia: arrivò la sera della Vigilia quando i suoi si erano appena seduti a tavola. Grande festa!

Il suo servizio militare si può riassumere così: della disciplina accettava le regole igieniche e comunitarie; non poteva sopportare le umiliazioni e le angherie: «An m’interesäva miga se ne s’ podäva miga andär fora ‘d sìra, mo al lavàg’ dal sarvel no, il stupidàgini no, i schèrs stùppid gnanca».

Se la cavò anche se continuò per tutta la sua vita ad essere estraneo alla mentalità militare: ne rifiutava la rigida disciplina, era allergico a tutte le divise, non sopportava le sfilate, le parate etc., era visceralmente contrario ai conflitti armati.

Di ritorno dalla toccante visita al sacrario di Redipuglia si illudeva di convertire tutti al pacifismo, portando in quel luogo soprattutto quanti osavano scherzare con nuovi impulsi bellicisti. «A chi gh’à vója ‘d fär dil guéri, bizògnariss portärol a Redipuglia: agh va via la vója sùbbit…». Pensava che ne sarebbero usciti purificati per sempre.

Ogni volta che sentiva notizie sullo scoppio di qualche focolaio di guerra reagiva auspicando una obiezione di coscienza totalizzante: «Mo s’ pól där ch’a gh’sia ancòrra quälchidón ch’a pärla äd fär dil guèri?».

E con questo interrogativo molto più profondo di quanto possa sembrare avrei terminato la mia irriverente e originale celebrazione della festa del quattro novembre.

 

Erotismo fra pubblico e privato

Tutti gli uomini (e le donne) dovrebbero tenere un comportamento eticamente e moralmente corretto, a maggior ragione coloro che sono investiti di cariche pubbliche. Tutto il mondo è paese e in tutto il mondo c’è chi approfitta della propria rilevante posizione per fare i propri comodi. Succede sul piano degli interessi economici e capita anche a livello sessuale. Non mi scandalizzo, anche se essere rappresentati e governati da personaggi censurabili non è il massimo della soddisfazione democratica. Forse la Gran Bretagna si distingue per un alto tasso di scorrettezze sessuali da parte degli appartenenti alla classe politica, almeno così può superficialmente apparire.

Una cosa però balza all’occhio ed è la immediatezza con cui i politici inglesi chiacchierati hanno il buongusto di fare un passo indietro. In parte ciò è dovuto ad una cultura anglosassone tutto sommato bacchettona che esige la facciata pulita, ma forse anche ad una dignità personale che deve essere difesa con una certa franchezza. Fatto sta che parlamentari e ministri si dimettono con relativa facilità, dopo essere stati coinvolti in questioni sessuali piccanti e imbarazzanti.

Il ministro della difesa britannico Fallon (ogni riferimento di carattere sessuale è puramente casuale) è stato travolto, assieme ad altri esponenti politici e membri del governo, dalle accuse di molestie sessuali e comportamenti impropri: si è prontamente dimesso ammettendo che il suo comportamento è stato in passato “inferiore alle aspettative” richieste ad un uomo nella sua posizione. Si è parlato del fatto che il ministro, durante un convegno, avrebbe palpeggiato il ginocchio scoperto di una giornalista o di una segretaria: se è tutto lì, il peccato appare veniale, ma non mi interessano le mani “passerine” dei ministri inglesi né le ginocchia più o meno pudiche di segretarie e giornaliste. Il discorso è un altro e riguarda i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche, i quali hanno il dovere, come recita la nostra Costituzione, di adempierle con disciplina ed onore.

Non si tratta di essere moralisti: ognuno infatti è libero di adottare le regole che vuole, salvo risponderne alla propria coscienza ed alle leggi dello Stato, ma se riveste una carica pubblica, il discorso cambia, perché nasce il fondato dubbio che abbia approfittato della sua posizione per molestare altre persone e perché dà indubbiamente un pessimo esempio ai cittadini che lo hanno direttamente o indirettamente responsabilizzato.

In parole povere se uno non fa il ministro può tentare di toccare tutte le ginocchia che vuole, salvo incorrere negli eventuali conseguenti reati ed esporsi alle denunce delle persone “toccate”; se invece lo fa da ministro, ne deve rispondere al di là dei risvolti puramente giudiziari.

È quanto, ad esempio, fingono di non capire Silvio Berlusconi e coloro che lo difendevano e lo difendono sostenendo che fosse libero di organizzare i festini a luci rosse e che chi lo censurava lo facesse per invidia o per falso moralismo. Sono d’accordo sul fatto che sia ben più grave incassare una tangente che sfogare pulsioni erotiche a destra e manca, ma quale affidabilità complessiva mi offre un politico che mescola cariche pubbliche e sesso trasgressivo.

Se il fatto non esiste, il politico ha tutto il diritto di difendere la propria immagine e rimanere al proprio posto, ma, se il fatto esiste, non ci si può nascondere dietro il dito della impossibile distinzione tra sfera pubblica e privata.

Negli Stati Uniti i mafiosi, in passato, sono stati incastrati perché non pagavano le tasse; nel mondo anglosassone i politici vengono messi sul banco degli imputati soprattutto per le loro scorribande erotiche: è frutto di un rigore molto parziale e relativo, da non prendere per oro colato, ma nemmeno da sottovalutare con supponenza.

Resta il titolo di merito dei politici, che, colti in fallo (ogni riferimento di carattere sessuale continua ad essere puramente casuale), hanno la “onorevole” prontezza di riflessi di farsi da parte. Questione di stile, almeno a posteriori.

I zbragacatalògna

Se la Catalogna avesse mai avuto bisogno di eroi per conquistare la propria indipendenza, non li ha certamente trovati in Puigdemont e c. La vicenda catalana si sta trasformando in una farsa con tanto di frettolosa fuga all’estero di fronte alla normale reazione del governo centrale, che ha messo i capi secessionisti nel mirino della magistratura.

Mi sono chiesto più volte: dove vogliono andare i Catalani al di là della goliardica e velleitaria smania autonomista? Hanno contro tutto il mondo, il loro fallimento economico è dietro l’angolo, il rischio isolamento è clamoroso, non hanno classi dirigenti all’altezza della situazione. È bastato che il governo madrileno abbaiasse e lo spavento è stato grande. Armiamoci e partite!

Puigdemont, il leader catalano in esilio, si atteggia a perseguitato politico, ma sta facendo la figura del rivoluzionario a parole, del bambinone che scappa col pallone in mano. Non ho idea come abbia reagito il popolo separatista di fronte a questa fuga: probabilmente si smorzeranno gli entusiasmi. La causa catalana mi è sembrata piuttosto inconsistente, molto piazzaiola e poco politica, molto improvvisata e poco strutturata. Sta diventando un monito per quanti si improvvisano disegnatori di nuovi assetti geo-politici: fanno baccano, ma non concludono niente.

Ce ne sono parecchi in giro per il mondo, per l’Europa e per l’Italia. Sfruttano l’aria che tira, ma, quando il gioco si fa duro, mostrano la corda. Il rischio non è tanto quello di stravolgere gli equilibri, ma quello di creare confusione, di deviare l’attenzione puntandola su obiettivi irrazionali e irraggiungibili.

Facciamo alcuni riferimenti al nostro Paese. I separatisti catalani assomigliano un po’ ai leghisti e un po’ ai grillini. Dei primi hanno la demagogica spinta a semplificare e risolvere i problemi, dividendo la torta a fette, pensando che la propria fetta sia la più gustosa e nutriente. Dei secondi hanno la velleitaria convinzione di rivoltare il tessuto politico come un calzino senza pensare che l’abbigliamento da rinnovare è assai più complesso. Siamo nella categoria politica degli avventurieri: possono anche incantare, ma poi…

Vogliono salvare la patria cambiandola, dividendola, mettendola a soqquadro: patrioti a rovescio. La politica non ha bisogno di patrioti e di eroi, ma di uomini coraggiosi, che sappiano affrontare i problemi senza scassare tutto.

La generalizzata sfiducia nella politica offre il brodo di cottura ai rivoluzionari da operetta, fino al momento in cui la minestra scuoce e diventa immangiabile. C’è un termine del dialetto parmigiano che rende bene l’idea dello spaccone, del millantatore, del soggetto che vuole rompere tutto, che vuole lacerare i rapporti, stracciare i documenti e i patti: “zbragaverzi” (zbragar ‘l verzi, cioè non concludere un cavolo). Vale per   Puigdemont, per Salvini, per Grillo. Il più grande “zbragaverzi” del mondo è però…Donald Trump. Se non erro i Piacentini usano un termine analogo, ancor più colorito: “balanud”. Puigdemont in Belgio, dove è scappato, sta ballando nudo, con le mani in tasca.

 

Nostalgia democristiana

Nel demenziale lessico televisivo, quello che si sprigiona dai dibattiti politici sconfinanti sistematicamente nella rissa circense, l’aggettivo “democristiano” viene ormai usato per offendere l’interlocutore, per sottolinearne l’anacronismo, per deriderlo, per metterlo culturalmente ai margini. Fra le tante insopportabili mode mediatiche ci sta anche questa: si tratta di un’inaccettabile semplificazione storica, di una snobistica lettura politica, di un’ignorante e falsa rappresentazione della realtà passata.

Dietro tale provocatoria aggettivazione si cela l’intento di identificare lo stile democristiano con il compromesso a tutti i costi, con il fariseismo della politica politicante, con il moderatume clericale e via discorrendo: si vuole far coincidere la portata storica di un movimento politico con la sua caricatura.

La democrazia cristiana, con i suoi esponenti più illuminati   e preparati, ha contribuito in modo determinante all’elaborazione ed all’approvazione della Costituzione italiana. Non dimentichiamolo, non lo dimentichino coloro che fanno della Costituzione un alibi conservatore o un libro dei sogni da mettere nel cassetto.

La democrazia cristiana ha imbroccato le scelte fondamentali della politica estera italiana: l’Occidente, la Nato, l’Europa, il dialogo con i Paesi arabi, etc. L’euroscetticismo, il razzismo, il nazionalismo, il separatismo non erano nel dna democristiano.

La democrazia cristiana non si è mai arroccata sulle proprie posizioni, ma ha sempre puntato a collaborare a livello governativo con le forze politiche più vicine, ha dialogato con tutti i partiti democratici ed ha saputo favorire l’ingresso nell’area governativa dei partiti di sinistra. Le coalizioni non servivano a raccattare voti a destra e manca, come avviene nel panorama politico attuale.

La democrazia cristiana ha onorato la sua ispirazione cattolica salvaguardando la sua visione laica della politica e delle istituzioni. Tutt’altro atteggiamento rispetto al corteggiamento tattico in cui si esercitano i partiti moderni (?) verso la Chiesa-Istituzione.

La democrazia cristiana ha fatto dell’interclassismo il presupposto sociale della sua politica puntando alla sintesi degli interessi mediati in senso progressista. Niente da spartire con la ricerca degli inciuci sociali e politici della politica di oggi. Un popolarismo che non aveva niente di populismo.

La democrazia cristiana ha tenuto ben distinto il discorso della moderazione da quello della conservazione, ha tenuto una posizione centrale nell’arco partitico distinguendola dal puro e comodo centrismo. Siamo ben lontani dall’incolore moderatume dei giorni nostri.

La democrazia cristiana ha trovato il modo di mantenere la propria unità pur ammettendo al proprio interno un franco e vivace dibattito, sopportando le correnti in quanto aggregazioni con basi culturali capaci di alimentare il confronto delle idee. Niente a che vedere con le vuote e strumentali schermaglie odierne.

La democrazia cristiana ha espresso leader politici di caratura internazionale: da De Gasperi a Fanfani, da Moro a Zaccagnini. Senza bisogno di scomodare i big, anche mettendo a confronto le seconde, terze e quarte file democristiane avremmo tutto da guadagnare rispetto agli esponenti odierni di primo piano.

Accanto a questi indiscutibili pregi dobbiamo mettere anche parecchi difetti: la tentazione dorotea del potere per il potere, la sottovalutazione e la compromissione col fenomeno mafioso, il galleggiamento al di sopra dei problemi economici e sociali, una visione culturale piuttosto limitata e rinunciataria, la progressiva caduta nell’affarismo della politica, l’esagerato condizionamento dell’anticomunismo, il mancato controllo sulla burocrazia, la debolezza verso gli attacchi condotti contro le istituzioni.

Non ho inteso fare un’analisi storica, ho solo voluto tratteggiare sommariamente la complessità di un fenomeno politico, che non si può liquidare a suon di battute di dubbio gusto. D’altra parte, la mia partecipazione a questo partito è stata sempre caratterizzata da un atteggiamento molto critico ed è finita quando, con la segreteria di Arnaldo Forlani, i difetti di cui sopra oltrepassarono di gran lunga i pregi.

Se uno mi dà del democristiano non mi sento pertanto offeso, ma è ora di finirla con le banalizzazioni anti-storiche: la politica attuale è zeppa di partiti e personaggi inqualificabili. Magari assomigliasse alla Democrazia Cristiana…

Un rogo tira l’altro

Emergenza incendi: in Piemonte si moltiplicano i roghi anche per effetto della siccità e del forte vento. Per questi fenomeni c’è il dubbio che la causa scatenante sia la mano più o meno criminale dell’uomo. Si è aperto un circolo vizioso determinato in modo remoto o prossimo dal comportamento umano: l’inquinamento causa i cambiamenti climatici, il clima determina effetti devastanti sull’ambiente, l’intervento dell’uomo aggiunge benzina al fuoco, gli andamenti meteorologici accentuano le devastazioni.

Ci sentiamo prigionieri e reagiamo demenzialmente bruciando la cella in cui ci siamo chiusi. Qualcuno sostiene che non vi sia un collegamento tra inquinamento e cambiamento climatico: mi sembra una storia simile, anche se inversa, rispetto a quella dei vaccini. La nostra vita è tutta puntata sulla scienza, da essa ci aspettiamo i miracoli, poi, quando non arrivano i miracoli, ma gli allarmi e i rimedi faticosi, la snobbiamo con un’alzata di spalle.

La Bibbia la dice lunga: all’uomo non bastò rifiutare il paradiso terrestre, ma si mise ad ammazzare il proprio fratello. Per dirla in senso religioso: se rifiutiamo Dio va tutto a catafascio. Per dirla in senso laico: se dimentichiamo di essere uomini, diventiamo peggio delle bestie.

Non ci accontentiamo di bruciare i boschi, troviamo divertente bruciare le persone: un tempo si mandavano al rogo le streghe, oggi i clochard, i personaggi scomodi e fastidiosi, quelli che compromettono il decoro delle nostre piazze. Facciamo tante polemiche sull’incenerimento dei rifiuti per poi incenerire quelli che cinicamente consideriamo “rifiuti umani”.

Rogo chiama rogo. Stupidità chiama stupidità. Delinquenza chiama delinquenza. Una spirale odiosa e perversa della quale non si vede la fine. Quando ad un’automobile si rompono i freni, non si sa dove possa andare a sbattere: può finire contro un muro, può cadere in un precipizio, può scontrarsi con un altro mezzo, può investire un gruppo di persone.

A ben pensarci c’è un filo che lega l’episodio degli ultras irridenti ad Anna Frank con quello del fuoco appiccato al clochard, nei giardini di una piazza di Torino intitolati a Madre Teresa di Calcutta. Forse non solo si vuole sfogare l’odio contro i diversi, ma si vogliono dissacrare i simboli che ci richiamano al dovere di rispettare i nostri simili. Ho sentito che qualcuno considera questi comportamenti come vere e proprie bestemmie moderne, come ribellione ai valori condivisibili, come provocatorio ritorno agli orribili fantasmi della storia.   Oltretutto quando alla cattiveria aggiungiamo una punta (?) di stupidità arriviamo all’apice del male da cui diventa ancor più difficile difendersi.

Le analisi sociologiche lasciano il tempo che trovano perché elaborano sistematicamente l’ovvio, gli scavi psicologici fanno bene a chi vende l’elisir di lunga morte, i social sono il dito dietro cui nascondiamo le nostre vergogne, i commenti mediatici durano lo spazio d’un mattino. Ed è subito sera, anzi notte fonda.