I soliti mali di stagione… lirica

Tempo di inaugurazione delle stagioni liriche. Dopo la Scala, il Comunale di Roma e via via gli altri teatri d’opera apriranno i loro battenti operistici. Seguo questi avvenimenti a distanza e con grande nostalgia per il periodo in cui ero immerso a doppio titolo, di appassionato e di modesto addetto ai lavori, nella vita del teatro Regio di Parma.

Sono passati ben trent’anni da allora, ma le anomalie sono rimaste, anzi si sono fatte ancor più fastidiose ed eclatanti: mi riferisco all’attenzione mondana verso l’evento e alla sua caratterizzazione culturale in chiave teatralmente esteriore.

Innanzitutto per andare a teatro, come sosteneva mio padre, non occorre l’abito di gala ma il biglietto. Si ricordava infatti dei salti mortali per entrare al Regio, quando la povertà non gli consentiva il regolare biglietto e bizoggnava arrangiarsi per non privarsi della impagabile soddisfazione dell’opera lirica. Una sera davano un’opera diretta dal concittadino maestro Podestà. Si misero in due ad aspettarlo davanti all’entrata del palcoscenico, in largo anticipo sull’orario normale (gli artisti sono in teatro un’ora prima dello spettacolo), per chiedergli se avesse potuto farli entrare assieme a lui per poi sgattaiolare in sala e sistemarsi in qualche modo. Dopo aver capito che si trattava di veri appassionati che non avevano effettivamente la possibilità di pagare l’ingresso, acconsentì con la promessa che non sarebbero rimasti in palcoscenico, cosa assolutamente vietata, e avrebbero trovato una soluzione accettabile. Si accodarono al maestro e fecero per entrare, ma il controllore chiese: «Méstor, chi éni chi du chi?». «Lasa pasär, j én con mi…». Fin qui tutto bene, ma altri capirono l’antifona e si intrufolarono. «Anca chilù?» chiese l’inserviente. «Sì» rispose il maestro. E la storia si ripetè per altri. Ad un certo punto l’addetto alla portineria chiese spazientito: «Méstor…». Podestà non gli fece neanche finire la domanda e gli rispose senza possibilità di appello: «Mo sì, tutti…». Conosceva la passione dei suoi concittadini e la loro povertà.

Poi viene lo strapotere di scenografi, costumisti, registi, i quali oltre disturbare e/o travisare le opere liriche, impongono l’attenzione mediatica sul loro operato distraendola dai contenuti musicali, vocali ed interpretativi. Quando si parla o si scrive della rappresentazione di un’opera lirica, si fanno commenti a non finire sulla operazione registica, si dedicano due misere e scarne parole al direttore d’orchestra, all’orchestra stessa, al coro ed a chi lo dirige ed a volte si dimentica persino di citare i cantanti, come se fossero un elemento di puro contorno.

Voltiamo quindi pagina arrivando alla seconda anomalia, sempre nell’ambito dell’opera lirica in teatro: le scenografie e le regie d’avanguardia, le messe in scena antitradizionali ecc. ecc… Mio padre era drasticamente contrario a queste innovazioni, era un autentico “matusa” in questo campo, anche se ammetto non avesse tutti i torti. Cito un episodio significativo in tal senso. Nell’ultimo atto dell’opera Falstaff, la vicenda si svolge in una foresta e Sir John dice espressamente “ecco la quercia” per identificare il luogo dell’appuntamento. “ Mo indò éla?” gridò mio padre dal loggione, dal momento che la scena non aveva neanche l’odore della quercia. Maleducato? Sì! Aveva ragione: almeno un po’, sì! E negli anni le cose sono assai peggiorate e diventate al riguardo sempre più insopportabili.

La Dannazione di Faust con cui ha aperto il teatro Comunale di Roma passerà alla storia per le mise di Virginia Raggi e Maria Elena Boschi. Chi dirigeva l’orchestra? Chi cantava? Inutili curiosità da melomani.

L’Andrea Chenier della Scala verrà ricordata per la messa in scena di Martone, peraltro almeno accettabile e che ha rispettato il dramma lasciandolo nella storia della rivoluzione francese e non ha trasferito l’ambientazione, che so io, nella Resistenza al nazifascismo. Per fortuna direttore e cantanti erano sufficientemente bravi per imporsi all’attenzione e per costringere tutti a capire che oltre i cambi girevoli di scena c’erano anche arie e duetti di rara intensità teatrale oltre che musicale.

Un’anziana appassionata di opera lirica per sapere come era andata la recita chiedeva: «Ani fat gnir i zgrizór?». Intendeva andare al nocciolo della questione. Non si interessava certo ai personaggi di spicco presenti nel foyer, né alle caratteristiche della messa in scena, ma alle emozioni forti offerte dagli interpreti, che imprimono ed esprimono la vera cifra dello spettacolo.

 

Di Maio santo (quasi) subito

Il governatore della Banca D’Italia Ignazio Visco ha così testimoniato di fronte alla commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche: «A richiesta di informazioni su banche in difficoltà io risposi a Renzi che di banche in difficoltà parlo solo col ministro. Lui la domanda la fece e io non risposi».

Luigi Di Maio ha commentato: «Visco svela le pressioni di Renzi su Banca Etruria. Per uno scandalo di questa portata un vero partito democratico avrebbe già mandato a casa il suo segretario».

A Visco mi permetto di ricordare che il Presidente del Consiglio, pur non avendo costituzionalmente poteri diretti, è responsabile, da “primus inter pares” qual è, della politica governativa e quindi non capisco il perché di questa ostentata riottosità nei suoi confronti. Dal momento che ormai tutto si gioca a livello di maliziosi retroscena, scendo anch’io su questo fangoso terreno e non vorrei si trattasse di una frecciatina velenosa e vendicativa, visto che Renzi aveva posto qualche dubbio alla riconferma di Visco alla testa della Banca Centrale Italiana.

Infatti al grillino candidato in pectore alla presidenza del consiglio non è parso vero di costruirci sopra un attacco politico bello e buono. A lui chiedo cosa ci sia di strano e scandaloso nel fatto che un premier si interessi delle banche in difficoltà, chiedendo magari notizie al governatore della Banca d’Italia. Come si comporterà Di Maio nella malaugurata ipotesi che venga chiamato a palazzo Chigi?

Al di là di tutto resta il solito amaro retrogusto di un confronto politico falsato da strumentali polemiche e soprattutto da attacchi scorretti ed infondati. Non credo che Renzi sia un santo, anche se la chiamata alla santità vale per tutti anche per i politici, ma i canoni della santità non li determinano certo Grillo e Di Maio, che al massimo potranno scherzare coi fanti lasciando stare i santi.

In fin dei conti Giorgio La Pira, lui sì in odore di santità, non esitava ad interessarsi delle aziende in difficoltà: resta storico il suo insistente intervento a favore dell’azienda Pignone a rischio chiusura con le gravi conseguenze occupazionali che ne sarebbero potute derivare. Non si fece scrupolo di chiedere aiuto ad Enrico Mattei, presidente dell’Eni, affinché la salvasse e la rilevasse: eravamo al limite della correttezza istituzionale, l’interferenza della politica era indiscutibile; La Pira, che all’epoca, se non erro, era soltanto il sindaco di Firenze, stava intromettendosi, utilizzando allo scopo amicizie personali.

Tutti stupidi? Tutti ladri? Nossignori! Tra l’altro gli stupidi abbondano anche oggi; quanto ai ladri staremo a vedere cosa succederà quando governerà Di Maio. Mi metterò con la fantasia nelle vicinanze di palazzo Chigi per guardare il viso di chi ne uscirà dopo aver parlato col presidente. Probabilmente Grillo si sarà già eclissato e gli italiani si andranno a nascondere.

 

 

 

L’uomo giusto al posto giusto

Ho involontariamente ma fortunatamente ascoltato l’indirizzo di saluto rivolto al Quirinale dal Presidente Mattarella agli atleti che parteciperanno alle olimpiadi invernali in rappresentanza del nostro Paese dietro i colori della nostra bandiera. Come spesso mi accade (sarà anche l’età) mi sono commosso alle prese con la mite ma forte autorevolezza del Capo dello Stato: riesce a trasmettere un senso di fiducia, di serenità e di partecipazione, che allargano la mente e il cuore.

Mi sono quindi assai irritato quando la trasmissione è statabruscamente interrotta per il solito stupido rispetto del palinsesto, applicato dal solito petulante conduttore, insediato dal solito opportunista direttore, nominato dal solito cencelliano consiglio di amministrazione, presieduto dal solito tappezziere di turno. Li ho stramaledetti tutti quanti (non per cattiveria di cui sotto, ma per legittima difesa): ci inchiodano agli schemi che ci abbruttiscono.

Perché ascolto Mattarella con tanto riguardo e tanta consolazione? Perché è capace di togliere il Paese da quel senso di “cattiveria” che lo opprime e lo condiziona pesantemente. Non sto facendo il solito natalizio pistolotto buonista: se proprio devo essere sincero mai come quest’anno sono stato insofferente alla gara augurale di cui mi sento vittima. Mio padre per dissacrare il rito degli auguri raccontava la gustosa barzellettina di quel bambino che, in un linguaggio equivoco tra italiano e dialetto parmigiano, terminava la poesia di Natale con: «…e tanti ingurij al papà…». Al che il padre rispondeva: «Sì, e un m’lon in tla schén’na a tò mädra…».

Natale a parte, non ne posso più di vivere in un clima, politico, sociale e mediatico, improntato alla cattiveria. Ho sempre avuto un forte spirito critico, probabilmente ereditato da mio padre, e quindi non sono un pedissequo osservatore della società, non amo voltare le spalle ai problemi, non mi rifugio in una comoda alzata di spalle. Dal menefreghismo verso tutto e tutti alla “smerdata” di tutto e tutti passa parecchia differenza, anche se forse finiscono con l’essere i due lati della stessa medaglia.

Questo stile barbarico mi infastidisce: a volte cerco di riderci sopra, talora mi innervosisco, spesso tento di estraniarmi. Non si può vivere così, immersi nella cattiveria! Sergio Mattarella ha il potere di calmare, abbassando i toni polemici e riportando sempre le questioni alla loro effettiva dimensione. Si badi bene, non si tratta di stendere un velo zuccheroso sui problemi, ma di ricondurli ad una realtà obiettiva e di inserirli in una logica di cambiamento positivo e costruttivo.

Quando partecipavo alle riunioni assembleari di società cooperative, toccavo con mano come il presidente fosse generalmente il personaggio carismatico (non necessariamente il più intelligente o il più esperto, ma il più credibile, il più serio ed equilibrato) capace di instaurare un clima collaborativo anche di fronte agli inevitabili scontri polemici. Sì, la cooperazione, con le sue strane, paradossali e democratiche regole amministrative, ha sempre qualcosa da insegnare a tutti coloro che operano nelle diverse istituzioni e strutture.

Proviamo quindi a seguire lo stile di Mattarella, che sa farsi ascoltare senza alzare la voce, che sa imporsi senza protagonismo, che sa consigliare senza intromettersi, che sa rappresentarci senza invadenza, che sa volerci bene anche se non lo meritiamo.

 

Lo sfogatoio politico parallelo

Quando sono costretto dalle contingenze fisiche (non sempre infatti riesco a cambiare repentinamente canale o a voltare immediatamente la pagina), a sentire o leggere, mio malgrado, le dichiarazioni politiche (?) dei pentastellati, sguinzagliati dal loro furbastro burattinaio, ho l’impressione di avere a che fare con persone che fortuitamente si trovano a ricoprire ruoli istituzionali, gente che passa di lì per puro caso, soggetti che rappresentano, sì e no, solo loro stessi, che sparano cazzate a salve.

Luigi Di Maio è la punta di diamante di questi presuntuosi apprendisti stregoni della politica italiana: la boutade sul ridimensionamento delle pensioni d’oro per risanare le casse erariali è fin troppo eloquente al riguardo. Si tratta di proposte lanciate alla viva il parroco, che durano pochi minuti, fino all’incipiente ed inevitabile smentita e servono solo a tenere caldo il bar sport del dibattito fasullo e assordante.

Non è il caso di entrare nel merito di queste cavolate. Ritengo tuttavia che valga la pena discutere sull’atteggiamento da riservare a queste provocatorio modo di (non) fare politica. Registro la tendenza a controbattere, a rispondere polemicamente, a prendere sul serio le insistenti grida, a cadere nel tranello di un falso dibattito. Non voglio rifugiarmi in una concezione aristocratica della politica, arrivando ad assimilarla alla musica, ma…

A tal proposito ricordo come mia sorella Lucia amasse la musica. Questa passione, ereditata da papà, incombeva sulla sua vita: soprattutto l’opera lirica, il melodramma verdiano in particolare, ha condito ed alimentato il suo animo. Una passione abbinata a competenza acquisita sul campo. Mi raccontava come una volta ebbe l’ardire di attaccare discorso musicale con un frate effettivamente molto preparato nel campo, persona amabile ma piuttosto originale. Prima di interloquire volle fare una rapida verifica e chiese ad un suo collega garanzie sulla affidabilità di mia sorella in materia di opera lirica. Solo dopo avere avute le rassicurazioni del caso, proseguì il dialogo. In materia musicale infatti non si scherza. Tutti possono improvvisarsi allenatori di calcio, ma non direttori d’orchestra.

Forse anche per la politica potrebbe valere questa pregiudiziale, magari non per il cittadino medio o per lo sprovveduto, incolpevole elettore, ma almeno per chi svolge certe funzioni o si candida a guidare il Paese. Sarei propenso a riservare una sorta di dibattito-sfogatoio parallelo in cui tutto è possibile dire, come avvenne tempo fa con i microfoni aperti di radio radicale, relegando il discorso pentastellato ad esercitazione da social di infimo livello. Potrebbe essere anche pericoloso, ma non vedo sinceramente l’opportunità di dialogare con chi vuole solo provocare: si è sempre perdenti.

Agli esordi del movimento grillino mi illudevo che questa nuova formazione potesse arginare in qualche modo la crescente avversione popolare verso la politica, rappresentandone a livello istituzionale le pulsioni dopo averle filtrate e sciacquate in Arno. Purtroppo il discorso si è capovolto: è successo che Montecitorio si è trasformato nel bar della politica e l’antipolitica è diventata l’alimento istituzionale del Paese.

Non mi convincono coloro che si illudono, magari strumentalmente, di recuperare quanto di positivo può esserci nel contenitore pentastellato: mi sembrano quelli che vanno a rovistare fra i rifiuti per trovare qualcosa di utile e riciclabile. Se la politica è ridotta così…

 

Piove, del governo parleremo dopo.

Fino a qualche giorno fa era emergenza siccità, ora siamo repentinamente passati all’emergenza alluvioni. Non è facile capire fin dove queste contingenze drammatiche siano riconducibili agli “scherzi” della natura o agli errori ed omissioni dell’uomo. Quando succede il finimondo i media sono immediatamente portati a scaricare le colpe sulle negligenze degli organi, che, a vario titolo ed a diverso livello, gestiscono il territorio. Salvo dimenticare ed assolvere tutti nel giro di pochi giorni.

In questa facile e comoda ricerca dei capri espiatori si cela la mancanza di senso di responsabilità: lo scaricabarile non assolve nessuno e colpevolizza tutti. Non vale nemmeno buttare il prete (i disastri ambientali) nella merda (i cambiamenti climatici): anche il clima risente non poco degli scriteriati comportamenti umani. Il fatalismo di chi ritiene il clima una variabile indipendente assolve tutti ed in primis l’anidride carbonica che vomitiamo nell’atmosfera. Si passa cioè da una estremità all’altra, con la triste conclusione che chi va sott’acqua o chi è senz’acqua deve arrangiarsi.

E qui viene a proposito la battuta velenosa lanciata da mio padre in occasione di una alluvione in Italia (non ricordo dove e quando, ma non ha molta importanza ai nostri fini).

Di fronte al solito ritornello dei comunisti trinariciuti, quelli col paraocchi, che recitava più o meno “Cozi dal gènnor in Russia in sucédon miga”,   mio padre rispose: “ Sät parchè? In Russia i gh’àn j èrzon äd cärta suganta”. Allora erano i comunisti a sovrapporre le scorciatoie ideologiche con quelle climatiche, oggi è il turno dei capitalisti ad oltranza ritenere che il dio-danaro debba avere comunque il sopravvento sul dio-natura.

Gli Usa di Trump si chiamano fuori dalla mischia climatica, mentre gli altri Paesi balbettano e programmano i loro interventi su tempi biblici, che potrebbero essere presi in contropiede da un nuovo diluvio universale.

Una puntata politica tuttavia me la devo concedere. Se non erro, la gestione ed il controllo del territorio sono in gran parte delegati alle regioni: la vicinanza fisica dovrebbe essere garanzia di maggiore attenzione e sensibilità. Non è così. I palleggiatori di responsabilità sono aumentati. Tutti hanno le diagnosi perfette e le ricette pronte e quando piove andiamo in barca…

Non mi stancherò mai di ripetere l’aneddoto raccontato da mia nonna: Méstor mi e méstor vu e la zana d’indò vala su?” , erano due ingegneri che si scambiavano complimenti, ma che si erano dimenticati l’uscio nella porcilaia.

In questi giorni ho apprezzato le sensate e misurate reazioni della gente colpita dalle alluvioni: di fronte alle subdole domande invitanti a scadere nell’immediato scaricabarile delle colpe, rispondevano quasi sempre con dei no-comment o con eloquenti sguardi di sofferenza. Bisogna ammettere che la gente è assai più seria ed equilibrata di chi la governa e di chi la informa. L’Italia poi è proprio nota per avere la capacità di farsi su le maniche in occasione delle situazioni di emergenza, quando non serve chiacchierare a vanvera o buttarla in politica. Non sia l’alibi di chi governa per non fare un cazzo.

 

 

Lo scandalismo è il mio mestiere

Ho appena salutato con una certa soddisfazione il varo della legge sul biotestamento, che vieta l’accanimento terapeutico, ma mi accorgo come sarebbe oltremodo necessario un provvedimento legislativo contro l’accanimento politico.

Ogni giorno un colpo basso verso l’avversario, ogni occasione è buona per infangare e sottoporre a giustizia sommaria il personaggio su cui si profila, anche vagamente, qualche responsabilità per comportamenti scorretti: non solo non si aspetta che la giustizia faccia il suo corso, ma ancor prima che si aprano eventuali indagini si improvvisano congetture e gogne mediatiche per i politici in odore di inopportunità.

Mi riferisco all’atteggiamento che da tempo si è scatenato contro Maria Elena Boschi, per la quale mi sembra si intravedano due capi di imputazione: quello di essere bella e di essere amica di Matteo Renzi. Il resto è fuffa demagogica: sul presunto interessamento a favore della banca amministrata anche da suo padre si è costruito un castello di insinuazioni, che punta dritto all’impeachment per interessi privati in atti d’ufficio o favoreggiamento di chissà quali reati. Sento puzza di scandalismo di bassa lega, altra e ben più rigorosa e coraggiosa è la ricerca della verità.

La storia è piena di fulmini scaricati sul capo di politici, distrutti da calunnie camuffate da rigorismo etico. L’attualità però sta superando i livelli di guardia. Che il grillino premier in pectore, Luigi Di Maio, sputi la teoria in base alla quale le presunte e risibili mascalzonate di Maria Elena Boschi chiuderebbero il cerchio di tangentopoli apertosi con le bustarelle di Mario Chiesa è veramente una colossale fandonia su cui i pentastellati cercano di fondare il loro incipiente successo elettorale. Il teorema grillino sarebbe: PSI di Craxi = PD di Renzi. In queste improvvisate ricostruzioni storiche tra passato e presente ci può stare di tutto e di più. Si potrebbe controbattere con il medesimo stile, sostenendo che i comportamenti scorretti di Virginia Raggi in Campidoglio completano la discesa agli inferi della cattiva amministrazione pubblica periferica apertasi con lo scandalo edilizio parmense degli anni settanta del secolo scorso.

Mentre i cinque stelle si esercitano in un giustizialismo da cortile, diversi esponenti del centro-destra non riescono a tacere e tirano pietre nonostante la loro parte politica non sia affatto senza peccato (non dico niente di più per non infierire su Berlusconi, al quale, in queste circostanze, riconosco tuttavia il buon gusto personale di stare zitto, fino a quando non so…).

Ma i più faziosi attacchi vengono da certi media, che sentono odore di sangue e quindi si scatenano e si specializzano in aggressioni volte non tanto a mettere nel mirino e delegittimare certi politici, ma ad autolegittimarsi nel ruolo di giustizieri della notte. Mi riferisco a Marco Travaglio ed alla sua deviante scuola giornalistica, alla spasmodica ricerca della prospettiva politica del “tanto peggio tanto meglio”, interpretata, in questa fase storica, dal movimento cinque stelle.

Quando Berlusconi iniziò la sua parabola discendente e diventò il pianista contro cui non si può sparare, alcuni lucidi ed ironici giornalisti ammisero candidamente: e adesso come facciamo, di cosa camperemo? Ed allora ecco come, terminato il paradossale divertissement dell’anti-berlusconismo di maniera, dopo qualche tempo la mira si sia aggiustata e spostata contro Matteo Renzi, reo di riciclaggio berlusconiano e di continuismo sistemico. Il cavallo, pur bolso che sia, su cui puntare in questo palio della politica, è il movimento cinque stelle col suo abile fantino, per vincere senza esclusione di colpi davanti alla piazza astiosa e facilmente aizzabile.

Non so se, in tale bailamme fangoso e pretestuoso, la pubblica opinione saprà distinguere tra il grano e la zizzania, tra lo scandalismo e gli scandali. La parabola evangelica prevede tempi lunghi per individuare e sradicare le erbe infestanti. La parabola elettorale comporta invece tempi brevissimi con tutti i rischi del caso, compreso quello di un clamoroso e rezionario ritorno al berlusconismo riveduto e corretto, sottoposto ad evidente e carnevalesco lifting.

Ricordo come uno stimato ed esperto commercialista mi descrivesse lo sciacallaggio esistente sul mercato delle libere professioni: ci si ruba il lavoro senza farsi scrupoli, applicando prezzi impossibili pur di conquistare il cliente. Il malcapitato utente si accorge a distanza di tempo di essere caduto nel tranello e ne soffre magari le tristi conseguenze, ma è tardi per tornare indietro: lui paga le sanzioni e il commercialista di un tempo ha perso irrimediabilmente il cliente. È già successo e potrebbe succedere anche in politica.

 

Il sacrosanto diritto alla non sofferenza

Il biotestamento è legge. In estrema sintesi si può dire che il provvedimento tutela il diritto alla vita, alla salute, ma anche il diritto alla dignità e all’autodeterminazione e dispone che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata. Tra le principali novità introdotte, abbiamo le disposizioni anticipate di trattamento (Dat), attraverso le quali ogni persona può esprimere le proprie convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari, compreso il rifiuto alle pratiche di nutrizione e idratazione artificiale.

Non si dovrà quindi più, come disse in una stupenda battuta polemica Pier Luigi Bersani (una delle poche…), accettare che a decidere la nostra morte sia il senatore Gaetano Quagliariello, preoccupato solo di compiacere i cattolici dotati di dogmatici paraocchi: un passo avanti, non c’è dubbio, infatti personalmente penso di avere il sacrosanto diritto a decidere in proprio, dal momento che la vita è stata donata a me ed io ne devo e ne dovrò rispondere. Ho fatto esperienze tali da convincermi che non solo il testamento biologico sia sacrosanto, ma anche la prospettiva di una seria legislazione in materia di eutanasia non sia da scartare a priori. Ma non voglio correre.

Non è questione di egoismo o di mancanza di coraggio, anzi si tratta di rispetto per la persona e per la sua volontà. Se anche la vogliamo mettere sul piano squisitamente religioso, non credo che il Padre Eterno nel giudicarci userà il cronometro per stabilire se una donna sta abortendo o prendendo una pillola anticoncezionale (beghe di frati, diceva Indro Montanelli); non userà il calendario per ammettere i nostri comportamenti contraccettivi (non ho mai capito perché astenersi dall’atto sessuale nei giorni fertili sia ammesso mentre intervenire con altre metodiche sia da condannare: il risultato è lo stesso, si tratta sempre di evitare il concepimento); non adotterà un manuale delle terapie non accanite per ammettere la nostra morte (non sarà il burocratico controllore della fine dei nostri giorni); non sottilizzerà per vedere se ci siamo accostati all’Eucaristia in odore di concubinaggio (i sacramenti non si negano a nessuno). Cerchiamo di essere seri.

Meno male che la politica ha avuto questo sussulto di dignità per legiferare in un campo estremamente delicato, ma affrontabile in base a due precisi concetti: il rispetto della persona umana, trovando il non facile ma corretto equilibrio fra diritto alla vita e diritto alla dignità e all’autodeterminazione; la laicità della politica, che deve puntare al bene dell’individuo e della comunità senza farsi condizionare dalle regole religiose.

Anche sulle regole religiose c’è molto da discutere e in materia ritengo opportuno rifarmi a quanto diceva don Andrea Gallo: «Non è la tutela dei diritti individuali uno dei cardini del messaggio evangelico? La nozione di vita deve essere alta, ricca, personale più di quanto non sia una nozione di organismo, oggetto della scienza. Dov’è l’amore? Dov’è il rispetto del primato della coscienza personale? Dov’è la pietà? C’è un vuoto d’amore in questa crociata cattolica e avanza un pesante fondamentalismo. Esistono regole come la libertà di cura e il divieto di accanimento terapeutico anche nel catechismo. Mi sembra che si voglia respingere un principio sancito dalla legge, come la libertà di non accettare cure. A Piergiorgio Welby, per sua volontà, mentre ascoltava la musica di Bob Dylan, dopo essere stato sedato, è stato staccato il sondino ed è spirato: era come un malato di tumore con metastasi, sapeva che l’operazione non sarebbe servita a nulla e l’ha rifiutata. Si può accettare un’esistenza dolorosa in un letto, completamente immobile? Per Welby era un inferno. Chi aveva il diritto di decidere per lui?».

 

 

 

 

 

 

Sempre dalla parte di Davide

Mio padre di fronte a certi compensi da nababbo ai calciatori professionisti diceva che li avrebbe voluti vedere ad affrontare una squadra di muratori remunerati allo stesso livello?

Ciò significa che non sopportava le ingiustizie in genere, ma nemmeno le storture del pianeta calcio, gioco di cui ammirava l’essenzialità e la semplicità abbinate alla spettacolarità.

Questo dubbio atroce aleggiava sulla partita di Coppa Italia fra Inter (squadra blasonata e candidata alla vittoria del campionato) e Pordenone (squadra militante in serie C), fra Golia e Davide del pallone italico: ha prevalso (?) Golia con una vittoria risicata e persino immeritata ai calci di rigore.

Si dirà che questo è proprio il bello del calcio, vale a dire la sua imprevedibilità. Si potrebbe però fare anche un altro ragionamento. Sono poi così bravi e ammirevoli i divi superpagati delle squadre calcistiche, che vanno in crisi di fronte all’orgoglio di modesti pedatori di una squadretta di provincia? È così bravo il giovane portierone del Milan, il Donnarumma nazionale, che sostiene di essere stato violentato moralmente quando ha firmato un contratto milionario che lo lega ai rossoneri per alcuni anni o non sarà piuttosto che, furbescamente, vista la prevedibile mala parata della squadra, se ne vorrebbe andare in un altro club che gli garantirebbe onori e, forse, maggiori compensi?

Ricordo quanto mi diceva, già parecchi anni or sono, un ex giocatore del Parma: i divi del calcio si impegnano fino ad un certo punto, non hanno un forte legame sentimentale con la squadra in cui militano; infatti, se va male, trovano comunque da accasarsi e quindi…Ecco perché ha fatto tanto scalpore il matrimonio indissolubile tra Francesco Totti e la Roma: una unione che, al di là dell’indubbio e notevole interesse materiale del giocatore, ha evidenziato un raro senso di appartenenza alla maglia.

Nonostante l’Inter sia sempre stata la mia squadra del cuore – anche se gli affari calcistici hanno ben poco da spartire con gli affari di cuore – ho tifato Pordenone, forse anche perché, nello scorso campionato di serie C, questa squadra è stata penalizzata nella semifinale dei play off per accedere alla serie B proprio contro il Parma e quindi avevo nel mio subconscio pallonaro qualcosa da farmi perdonare. Non è bastato al Pordenone mettercela tutta, non è stato sufficiente superare brillantemente l’handicap del fattore campo, giocando senza timore reverenziale alla Scala del calcio (il meccanismo selettivo della Coppa Italia favorisce infatti le squadre più forti consentendo loro, nei primi turni, di giocare in casa): alla fine la lotteria dei calci di rigore gli è stata fatale, aveva proprio tutto contro.

Penso si tratti comunque di una di quelle sconfitte che lasciano un segno così forte da diventare proverbiali: forse un giorno si parlerà di quella volta che il Pordenone mise a repentaglio il blasone dell’aristocratica Inter, l’unica squadra, se non erro, a non avere mai sopportato l’onta di militare in una serie minore, precipitandola, almeno per 120 minuti, in serie C.

E pensare che da tempo mi ero ripromesso di ignorare le vicende calcistiche, ritenendole un pericoloso legame con il sistema di potere: il Pordenone mi ha riconsegnato quel calcio dal volto umano che tanto mi affascinava da ragazzo. Ed allora eccomi tornare con la mente ai pre-partita del Parma A.S (un tempo si chiamava così), che, grazie a Dio, non erano   fatti delle odierne chiacchiere assurde di schiere di commentatori prezzolati o dei rituali tafferugli tra gruppi di tifosi, ma era costituito dall’osservare da vicino il riscaldamento degli atleti di “casa”, i miei beniamini (mi accontentavo di poco rispetto alle star superpagate di oggi), negli spiazzi intorno alle gradinate dello stadio Tardini prima maniera. Mio padre accondiscendeva a costo di perdere qualche buona posizione sulle gradinate di curva e sopportando un piccolo quanto innocuo divismo: non ricordo con precisione, ma credo che qualche volta, per conferire una punta di umanità alla scena, mi abbia supportato nello stringere la mano a quelli che lui sapeva essere i miei “preferiti” (ricordo con tanta nostalgia Beppe Calzolari fra tutti). Allora tutto aveva una dimensione umana ben lontana dall’anonimo, industriale, artificioso, violento divismo calcistico di oggi.

 

Presepi e balocchi

Quando si avvicinavano le feste di Natale mio padre registrava quasi con fastidio, con un notevole senso di sorpresa, una ricorrente domanda che gli veniva formulata “Indò vät par Nadäl “. Questo succedeva nel periodo delle vacche grasse, perché, quando regnava sovrana la miseria, tali richieste sarebbero risuonate assurde per non dire offensive. E la risposta, pronta e spontanea anche se un po’ risentita e giustamente provocatoria, fulminava l’interlocutore: “Tutti, s’ j én lontàn, i fan di vèrs da gat par gnir a ca’, e mi ch’a són a ca’ vót ch’a vaga via?” . Si trattava, a ben pensarci, di un libero rifacimento del classico “Natale con i tuoi”, ma un po’ più ragionato e motivato da una logica stringente e indiscutibile che inchiodava, col buon senso, chi proponeva l’evasione in una pur legittima uscita dagli schemi.

La ritualità del Natale sovrappone l’incredibile dono fatto da Dio all’umanità all’usanza di scambiarsi doni instaurata dagli umani: della serie, visto che Dio è generoso approfittiamone e facciamo man bassa. C’è però un piccolo particolare: mentre Dio si dona in povertà, noi ci doniamo in ricchezza. Facciamo finta di essere buoni e generosi, ma in realtà celebriamo solo il nostro benessere materiale tenendocelo ben stretto. Ai piedi del presepe, plastica immagine dell’atteggiamento povero che Dio ci propone concretamente, collochiamo e ci scambiamo i simboli del nostro consumismo. Voglio allontanarmi quindi dal questo contesto ricordando i quattro Natali che hanno scandito in un certo senso la mia esistenza.

Il Natale della povertà: non ero ancora nato ma mi hanno ripetutamente raccontato che la mia famiglia ebbe un periodo di gravissime difficoltà economiche. La miseria regnava sovrana in molti strati sociali, mio padre era disoccupato, mia madre lavorava ma il reddito non era sufficiente, per farla breve non c’era il becco d’un quattrino per affrontare le feste natalizie. Arrivò in soccorso lo zio ribelle, che, nella sua simpatica rivoluzione personale, combatteva anche   la miseria, ottenendo interessanti successi ed aprendo il cuore a chi lo aveva sempre accolto incondizionatamente: intervenne senza bisogno di sollecitazioni con una generosità unica, capace di cambiare la situazione, di donare con gioia. Mi raccontavano i miei genitori come un Natale di povertà e tristezza si trasformò in gioia grazie all’intervento di questo inimitabile zio, che regalò tutto l’occorrente per trascorrere dignitosamente le feste Natalizie.

Il Natale della mia fanciullezza e del montante anche se lento, progressivo benessere: era fatto di armonia, degli ingredienti soliti e tradizionali, dell’albero, del presepe, della neve (cme l’ é bél Nadäl con la néva, diceva mio padre), del cenone, della letterina, della messa di mezzanotte, delle vacanze scolastiche, dell’apertura della stagione lirica, delle mangiate (anolén a più non posso). Mia madre era sempre al centro della situazione, ruotavamo intorno a lei:   riusciva persino a scuocere le tagliatelle per l’ardore di comunicare gli auguri a destra e manca. Forse si stava andando verso un po’ di consumismo e allora ecco arrivare…

Il Natale della paura: quando mio padre era gia da tempo afflitto da una grave forma di demenza senile e mia madre cominciava ad avere disturbi fisici piuttosto enigmatici. Avevo   un grave timore che da tempo mi attanagliava. Se anche la mamma, la quale cominciava a dare segni di malattia incipiente, fosse crollata fisicamente, ci sarebbe stato da mettersi le mani nei capelli: di fronte ad una eventualità di questo tipo mi tremavano le vene ai polsi e la paura era tanta. Quel Natale trascorse con la spada di Damocle sul capo di una famiglia che vedeva profilarsi un calvario: d’altra parte il Bambino di Betlemme aveva di fronte a sé prospettive poco tranquillizzanti.

Il Natale della sofferenza arrivò l’anno successivo: i miei timori diventarono certezze, le gravi malattie si sovrapposero, papà era sempre più assente con il suo cervello obnubilato da una inarrestabile forma di sclerosi galoppante, mamma era entrata da due mesi in ospedale dove la febbre la stava distruggendo in un quadro clinico grave ed ancora incerto. Più che Natale sembrava Venerdì Santo e mi viene la tentazione di definire quello come il più brutto della mia vita, anche se la famiglia reagì e seppe far fronte alle difficoltà, trovò in sé la forza ed in tal senso potrebbe essere, anche cristianamente, definito il Natale più bello.

 

 

 

Gli insopportabili pupattoli catodici

Per il sottoscritto è un periodo di conflitti virtuali con il mondo dell’informazione. Non mi riferisco   tanto alla “pornoinformazione delle fake news”, ma alla “pseudoinformazione perbenista”. Mentre verso la prima, una volta preso atto che esiste, si possono alzare barriere difensive attive e passive, con la seconda la battaglia rischia di essere persa in partenza. Tutti temono le false notizie che circolano clamorosamente nei circuiti informatici, io temo le notizie vere mal presentate dai media televisivi pubblici e privati.

Negli ultimi tempi ho provato a disintossicarmi dalla carta stampata, rinunciando al rito della lettura dei quotidiani. Mi sono fatto quasi violenza anche perché ho ereditato da mio padre il pallino della lettura del giornale, autentico simbolo della sua mentalità. Credo che mio padre, fatti salvi i giorni di assoluto e totale impedimento, non abbia mai rinunciato al giornale, parola che, come annotava simpaticamente mia madre, era pronunciata da lui in modo dialettale, rotondo nella pronuncia, con una punta di enfasi: “Al giornäl”. E soprattutto negli anni di vita intellettualmente più vivaci, non si trattava del misero, anche se blasonato, quotidiano locale, ma di un giornale che portava in se qualcosa in più rispetto alla lettura parziale e localistica degli avvenimenti: cercava uno strumento di informazione che, seppur discutibile nei suoi contenuti, mettesse lui e tutta la famiglia in condizione di capire cosa stava succedendo al di la “dal cantón con borgh Bartàn”. Questa sorta di culto della lettura del giornale mi è stato trasmesso pari pari e non ho mancato di praticarlo forse fin troppo.

Ultimamente mi sono rifugiato nel corner dell’informazione televisiva, andando automaticamente a sbattere contro Rainews24, una rete intelligentemente puntata sulle notizie a getto continuo. Purtroppo però l’attuale bravo direttore, Antonio Di Bella, è circondato da una folta schiera di pupattoli catodici non all’altezza del compito dal punto di vista professionale, come l’indisponente Enrica Agostini, una tifosa a prima vista del movimento cinque stelle, o come l’insopportabile saputello Roberto Vicaretti cui vengono affidati una confusionaria rassegna stampa e i pedanti mattutini dibattiti di approfondimento politico. Lasciamo perdere poi quelli che non sanno quello che fanno: la giornalista che sembra uscita dal bancone di una pescheria di Nuoro, tanto inaccettabile risulta il suo accento smaccatamente sardo (un tempo le avrebbero fatto frequentare qualche corso di dizione), e le altre sue colleghe che hanno confuso lo studio televisivo con palazzo Pitti (sembrano specchiarsi continuamente nella telecamera) o i colleghi di ambo i sessi che vengono sguinzagliati sul territorio a propinare luoghi comuni e commenti scontati (capitano lì per caso, parlano a vanvera di tutto con il piglio presuntuoso di chi non sa niente).

Che peccato! Uno strumento formidabile sciupato nella pappagallesca ripetizione di poche e superficiali notizie. Persino i microfonisti e i tecnici audio pagano dazio! Cambiare canale vuol dire addirittura peggiorare la situazione e allora si può sempre spegnere il televisore e fare l’eremita dell’informazione. In questo mondo però bisogna pur viverci, non serve scappare.

Ricordo il Resto del Carlino tutto spiegazzato che mio padre acquistava di primo mattino e che sfogliava, leggendo i titoli, quasi con avidità, sulla soglia del magazzino da cui partiva la spedizione lavorativa giornaliera. Il giornale veniva quindi consegnato alla famiglia durante la pausa pranzo (una sorta di staffetta giornaliera) e ripreso per la regolare ed approfondita lettura in serata: i contenuti venivano approfonditi e discussi in modo spontaneo nelle chiacchierate familiari, a tavola, in salotto (dopo che si ebbe l’opportunità di avere a disposizione questa stanza in più), seduti in poltrona (ricordo il gusto e la soddisfazione con cui mio padre al termine di un giornata lavorativa poteva sprofondare nella sua poltrona, accendere la lampada, inforcare gli occhiali e dedicarsi alla lettura del giornale con un’attenzione ed una concentrazione tali da fare invidia al fior fiore degli intellettuali). Mia madre si lamentava della sua eccessiva dedizione a questo rito culturale, ma lui non si distaccava dalla giusta e succulenta abitudine: solo il richiamo della cena pronta in tavola era in grado di interrompere il collegamento. Sì, perché il mangiare insieme per mio padre era la concretizzazione dell’unità della famiglia, il mettere in pratica lo spiccato senso della famiglia.

Ebbene io non posso nemmeno rifugiarmi nella tavola del pasto comunitario: vivo solo e litigo col video da cui sgorga sofferenza per un’informazione penosamente somministrata. Alla fine mi sento ancor più solo. Tuttavia, meglio soli che male informati.