La tasa pr i gat

Tutti conosceranno la barzelletta in cui una persona “spiritosa” si rivolge al farmacista per chiedergli una confezione di “spirito di contraddizione”. Dopo una brevissima perplessità il farmacista risponde con una certa soddisfazione: «Se attende un attimo le posso fornire quanto richiesto: le consegno una fotografia di mia moglie…». In dialetto e raccontata dal grande Bruno Lanfranchi era tutt’altra cosa.

In politica, soprattutto in campagna elettorale, è normale che tutti vogliano abolire o diminuire le tasse: chi mette in discussione il canone televisivo, chi le tasse universitarie, chi vuole abbassarle tutte. A spararle grosse si fa presto, a destra, a sinistra ed al centro.

Mio padre riconosceva che l’Italia aveva raggiunto un notevole benessere pur tra mille difficoltà, che il clima democratico reggeva, che il paese continuava a crescere e chi governava “ Al n’era miga un gabbiàn “ perché   “a pära facil mo l’ é dificcil bombén” e “ né gh vól miga di stuppid parchè i stuppid i s’ fermon prìmma”.

Non era un economista, non era un sociologo, non era un uomo erudito e colto. Politicamente parlando aderiva al partito del buon senso, rifuggiva da ogni e qualsiasi faziosità, amava ragionare con la propria testa, sapeva ascoltare ma non rinunciava alle proprie profonde convinzioni mentre rispettava quelle altrui. Volete una estrema sintesi di tutto cio? Eccola! Oggi, di fronte alle sparate anti-tasse, ripeterebbe quel ragionamento terra terra che gli ho sentito fare diverse volte: «Se fosse così facile, lo avrebbero fatto anche coloro che hanno governato fino ad oggi. Non credo che fossero dei sadici o dei masochisti. Il problema è un altro e cioè: se tutti i paghison e i fisson col ch’l’è giust, as podriss där d’al polastor aj gat…».

Avrebbe un insperato alleato nel ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda. Per lui le proposte di abolire o abbassare le tasse sono un regalo alla parte più ricca del Paese, una cosa trumpiana, dal momento che le fasce più deboli sono già esentate da parecchie tasse. Ecco spuntare lo spirito di contraddizione di cui sopra. Non ha tutti i torti, ma non ha nemmeno tutte le ragioni: è il signornò della campagna elettorale. Non so se si atteggia così solo per distinguersi o in quanto convinto di quel che dice. Non mi sembra perfettamente in linea con il Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, che sostiene come il governo non possa creare sviluppo e lavoro in modo diretto, ma possa favorirli usando le leve del potere politico, una di queste è senza dubbio quella fiscale.

Quando il ministro Padoa Schioppa sosteneva paradossalmente che pagare le tasse   fosse non solo un onere ma anche un onore, non solo un obbligo ma anche una soddisfazione, tutti lo deridevano: quel che intendeva dire tutti lo capivano, ma veniva loro comodo sputtanarlo come un visionario qualsiasi.

In conclusione sulle tasse non si deve fare demagogia, non si può stare sempre e comunque dalla parte del manico, non si può fare della poesia.

La morale della favola è nella battuta di mio padre. La ripeto: «Se tutti i paghison e i fisson col ch’l’è giust, as podriss där d’al polastor aj gat…». Dopo forse bisognerebbe istituire “la tasa pr i gat”.

 

 

 

Dall’omofobia all’omofollia

Ai tempi della mia lontana infanzia si giocava a scegliere la più bella attrice con cui idealmente accoppiarsi: l’imbarazzante alternativa era allora quella, ad esempio, tra Sophia Loren e Gina Lollobrigida. Un giochino stupido quanto innocuo, non certo il miglior approccio educativo al sesso femminile, ma solo un superficiale modo di sognare la donna ideale facendola corrispondere alla più bella ed affascinante delle attrice del grande schermo.

Al giorno d’oggi, durante un occasionale zapping pomeridiano, mi è capitato di assistere ad un’intervista della conduttrice de “La vita in diretta”, Francesca Fialdini (sono andato a scovarne il nome ed il profilo su internet e quasi me ne vergogno) a Cristiano Malgioglio, cantautore e paroliere, un personaggio scaduto dallo spettacolo all’avanspettacolo, catapultato nella odierna tv spazzatura. Si giocava più o meno con lo stesso spirito, con la differenza che i giocatori non erano bambini e che l’indice di gradimento era sessualmente capovolto: Malgioglio era invitato ad esprimere i suoi gusti e si confessava, scegliendo idealmente non un’attrice, ma il marito di un’attrice.

Sgombro subito il campo da un possibile equivoco: non ho niente contro l’omosessualità e ancor meno contro chi la dichiara e la vive apertamente. Non sopporto però l’esibizionismo sessuale sia di dritto che di rovescio. Ho sempre considerato che chi ostenta i gusti sessuali, come chi racconta con insistenza le proprie avventure, voglia solo colmare le lacune della propria esistenza. In poche brutali parole sono convinto che chi parla di sesso vuol dire che non lo pratica o con esso ha un rapporto problematico, altrimenti non avrebbe alcun bisogno di parlarne.

Ricordo come diversi anni fa il noto giornalista e scrittore Luca Goldoni mi avesse stupito affermando come non sopportasse che gli facessero fare la parte del guardone: lo disturbava persino sentire nella stanza d’albergo confinante le prorompenti e invadenti effusioni amorose. Bussava alla parete chiedendo un minimo di riservatezza e di discrezione: della serie fate l’amore senza clamore.

Immaginiamoci se possa essere accettabile giocherellare in chiave sia etero che omosessuale in video, enfatizzando i propri gusti e le proprie inclinazioni: il sesso è una cosa troppo seria per essere banalizzata fino a questo punto. Siamo ben oltre la pornografia, che ha una sua chiara fisionomia; qui trasferiamo il sesso dalla stanza da letto al salotto pomeridiano di una tv pubblica. Impera il cattivo gusto: la moglie dell’allora presidente Ciampi, tra le inopportune esternazioni sui generis da first lady, ne inserì una più che accettabile di condanna alla insopportabile televisione spazzatura. Non è ironia, non è leggerezza, è stupidità bella e buona.

Non sono mai stato un moralista, detesto il bigottismo religioso e civile, ho persino una certa qual tendenza alla trasgressione, ma l’altro giorno ho fatto il verso a Luca Goldoni: dopo essermi accorto dove si andava a parare, ho cambiato immediatamente canale. Resta però un piccolo particolare: i soldi del canone, anche i miei, che vanno a pagare una conduttrice penosa e danno spazio ad un penoso esibizionista. Potrò almeno reagire? Non pagare il canone è diventato (giustamente) quasi impossibile. Mi resta solo la possibilità di prendere sul serio chi (in qualche modo) lo mette in discussione.

La bellezza della Tv “pallosa”

A metà degli anni settanta del secolo scorso fui partecipe di un’iniziativa editoriale a livello parmense, esperienza breve, ma molto interessante, in una città dove tutto rischia sempre di cadere nel vuoto pneumatico creato a livello informativo. Si era incerti se puntare su una radio o su un settimanale cartaceo. Si optò per il giornale e fu “Parmasette”. Alcuni però avrebbero preferito un’emittente radiofonica: si ipotizzava la radio culturale, la radio “pallosa”, in netto contrasto con l’andazzo assai leggero del panorama cittadino.

Ebbene, parafrasando quanto sopra, ci starei a trasformare la Rai nell’emittente pubblica “pallosa”, quella che costringe lo spettatore a pensare, magari senza canone, risparmiando sui costi e puntando sulla qualità della proposta culturale.

Di fronte alla eventualità, da molti liquidata frettolosamente come elettoralistica, di eliminare il canone televisivo rendendolo possibile con una razionalizzazione ed un contenimento delle spese, non mi sono affatto scandalizzato, anzi, se devo proprio essere sincero, ho tirato un respiro di sollievo: vuoi vedere che ne uscirà la Tv pallosa che costa poco e punta in alto? Sarebbe troppo bello.

Il problema non è alleggerire le tasse, fra cui possiamo mettere il canone televisivo, nemmeno sostituire l’entrata del canone con l’aumento degli introiti pubblicitari (ce n’è fin troppa, al punto che la pubblicità non è un intervallo fra i programmi, ma i programmi sono un intervallo fra i messaggi pubblicitari), ancor meno trasferire sic et simpliciter il servizio pubblico a carico del bilancio dello stato (un servizio pubblico veramente tale lo potrebbe anche comportare), men che meno privatizzare la Rai considerandola un pezzo d’antiquariato di cui disfarsi.

Il sogno è ricondurre ad austerità i programmi televisivi e radiofonici, dando loro un respiro formativo ed informativo a scapito della mera ed insulsa gara all’audience. Non so se chi parla di eliminazione del canone intenda tutto ciò; se fosse così, avrebbe tutto il mio appoggio.   Paradossalmente, pur di avere una “Rai pallosa”, sarei disposto a pagare un canone raddoppiato.

In casa mia, anche quando, dopo parecchio tempo, fu introdotta Sua Maestà la televisione, il tubo catodico fu sempre tenuto rigorosamente lontano dalla cucina, dal locale dove si consumavano i pasti: se in TV trasmettevano un evento proprio irrinunciabile, si raggiungeva l’onorevole compromesso di anticipare l’ora del pasto per poi potersi trasferire in salotto ed assistere al programma televisivo. Pur definendola sarcasticamente “la rovina delle compagnie” in casa e fuori casa, mio padre amava la televisione, ne coglieva tutta la portata a livello informativo, formativo, culturale e ricreativo, sapeva scegliere tra i programmi quelli meritevoli di attenzione. Il televisore entrò in casa mia con un certo ritardo rispetto ai tempi delle altre famiglie: una spesa voluttuaria che si inseriva in un bilancio magro. Ecco perché non mi sento video-dipendente e quindi riesco ad essere distaccato e critico nel valutare la questione televisiva a cui peraltro sono interessato.

Qualcuno mi collocherà fuori dal mondo. Tutto sommato è il più bel complimento che mi si può fare, visto cos’è il mondo in cui viviamo e per il quale la televisión, come canticchiava Enzo Iannacci, la ga ‘na forsa da león e la t’indormenta cmé un cojón.

 

I sacchetti biopolemici

Non sono un ambientalista accanito né un maniacale ecologista, ma sinceramente non vedo la materia del contendere nella polemica sorta in relazione all’utilizzo oneroso dei contenitori biodegradabili nell’acquisto di frutta e verdura. Dal punto di vista economico siamo nell’ordine di un costo medio annuo pro-capite di circa 10 euro. Sul piano del rispetto ambientale mi pare una misura razionalmente accettabile e moderatamente utile. Oltretutto dovrebbe favorire la raccolta differenziata e il riciclaggio dei rifiuti. Dov’è il problema?
Un tempo si diceva “cherchez la femme”, oggi si lascia intendere “cherchez Renzi”. Infatti subito è partita l’illazione: le nuove misure, peraltro derivanti da disposizioni europee, favorirebbero un’azienda legata al segretario del PD. Siamo alla follia! C’è la campagna elettorale, lo capisco, ma tutto ha un limite. Ogni e qualsiasi provvedimento legislativo ha una ricaduta economica e dietro di esso può quindi intravedersi un potenziale conflitto di interessi. Successe, mi ricordo benissimo, con l’introduzione dei registratori di cassa, dietro la quale molti videro un favore colossale alla Olivetti che li produceva.
Questa smania dietrologica, accentuata colpevolmente dal regime berlusconiano, che del conflitto di interessi ha fatto un vanto e un dato imprescindibile, ci sta condizionando un po’ troppo. Che la politica rischi di essere immischiata negli affari è cosa nota e piuttosto vecchia. Che negli ultimi decenni la questione sia peggiorata e/o sia stata resa più evidente non c’è dubbio. Di qui a farsi prendere dall’ansia del “retroscenismo” a tutti i costi e dal puntiglio di vedere sempre, comunque e dovunque il lato sporco della situazione, la distanza è notevole. Di cose scorrette ce ne sono già tante, è perfettamente inutile dare ascolto a chi vuole inventarne. Rifiuto categoricamente uno stile politico e giornalistico che butta manciate di fango a vanvera pensando di ripulire così la sporca società. Niente a che vedere con l’auspicabile, coraggiosa ed oggettiva denuncia di fatti e fenomeni irregolari, con le ammirevoli e sacrosante battaglie di verità scomode.
Ma torniamo al merito dei sacchetti biologici. Non dobbiamo essere ossessionati dal rischio dell’inquinamento ambientale, ma cerchiamo di fare tutto il possibile per evitarlo. Qualcuno, come detto, sente odore di business, altri magari cadono nel “benaltrismo”: i sacchetti biodegradabili sono uno specchietto per le allodole atto a distogliere l’attenzione dai veri fenomeni inquinanti a livello internazionale e nazionale. I traffici sui rifiuti tossici, le colossali emissioni di sostanze nocive nell’aria, l’inquinamento dei mari, le città invase dai rifiuti: sono le questioni che giustamente più percepiamo. Di fronte al presidente degli Usa che se ne frega altamente dei protocolli, peraltro piuttosto morbidi, per combattere l’inquinamento a livello planetario, la questione dei sacchetti per frutta e verdura può suonare quasi ridicola. Intendiamoci bene, non si tratta di pretendere di vuotare il mare con un cucchiaino, ma di introdurre mentalità e stili di comportamento che favoriscano il rispetto e la difesa dell’ambiente. Tutto può servire. Provarci è intellettualmente serio e civicamente doveroso.

Carmen uccisa dal regista

Pochi giorni or sono scrivevo un commentino dedicato ai “mali di stagione…lirica”, intendendo alludere anche alle ormai consuete forzature nella messa in scena delle opere liriche. Sono stato facile profeta: il 07 gennaio prossimo verrà rappresentata al Maggio musicale fiorentino una Carmen di Bizet che fa già discutere per la suo stravolgente ambientazione (un centro di accoglienza per stranieri) e per il suo invertito finale (Carmen ammazza Don Josè vendicandosi delle molestie sessuali subite e reagendo al femminicidio previsto dal dramma). È il caso di dire che questa Carmen di Firenze si salva da don Josè, ma rischia di soccombere al regista (forse, tutto sommato, era meglio la vendetta dell’amante).

Vi ricordate Piero Pacciani, il mostro di Firenze. Di fronte a certe bigotte difese della donna a volte mi scappava detto, paradossalmente e provocatoriamente, che forse sarebbe stato meglio farsi difendere da Piero Pacciani. Similitudini pazzesche e raccapriccianti, ma eloquenti.

Queste masturbazioni scenografiche e registiche non dovrebbero fare più notizia ed infatti mi ha stupito la grande attenzione mediatica riservata all’evento. Forse costituisce una novità rimanere nel solco della tradizione.

Quasi sempre, ma soprattutto in materia di opera lirica, faccio riferimento ai giudizi di mio padre: come già detto, era drasticamente contrario alle innovazioni, era un autentico “matusa” in questo campo. Anche se il discorso sarebbe molto lungo e complesso, il messaggio che papà mi lanciava era: stai sempre attento ai mistificatori della realtà, a chi te la vuole raccontare e chi più ne ha più ne metta .

Giacché siamo sul terreno della dissacrazione, introduco cosa intendesse mio padre al riguardo, tramite il richiamo ad una battuta piuttosto gustosa. Si rappresentava Otello ed anche l’opera lirica di Verdi, così come la tragedia di Shakespeare, contiene le “nevrotiche” insistenze di Otello su un “fazzoletto” donato a Desdemona quale pegno d’amore. Il fazzoletto! Il fazzoletto! Commento di mio padre ad alta voce in pieno loggione: “S’ al fiss stè un linsól chisà che lavór!” Della serie “dissacriamo un po’ anche i mostri sacri”, più parmigiano di così si muore.

Torno però alla Carmen di Bizet di Firenze: mi ha colpito l’affermazione del regista Leo Muscato, il quale, intervistato come non mai, ha detto che l’ambientazione storico-culturale a Siviglia dell’opera non regge, perché quel mondo non esiste più e allora…

Una lapalissiana considerazione che vale, più o meno, per tutte le opere teatrali: andrebbero quindi stravolte ed aggiornate tutte, altrimenti rischieremmo di renderle inespressive? Ma fatemi il piacere! Siamo arrivati al punto che uno si alza al mattino e si prende il diritto di sparare cazzate e trova chi lo ascolta, lo paga e gli mette a disposizione un teatro ed un testo teatrale. Non voglio porre il carro avanti ai buoi. Tra l’altro non avrò la possibilità di assistere a questo spettacolo. Mi sembra però che nasca sotto una cattiva stella. Come al solito del direttore d’orchestra (che accetta simili stravolgimenti) e dei cantanti non frega niente a nessuno: una Carmen per sola regia. Se andiamo avanti così, l’unica salvezza sarà eseguire le opere liriche in forma di concerto.

Tutto da cambiare, tutto da rivoluzionare, tutto da rifare (come diceva il grande Gino Bartali). Ricordo la reazione stizzita di mio padre rispetto alle condanne verso il loggione per aver cassato il finale a mezza voce di Aida ad opera del grande tenore Carlo Bergonzi. «Lo spartito dice così» affermavano gli acculturati appassionati dell’ultimo minuto. «Alóra adésa andèmma a ca e spachèmma tutt i disch indò in-t-al finäl j canton in vóza» rispondeva piccato il mio scettico genitore. Se diceva così per un acuto, chissà cosa direbbe oggi per una Carmen che, invece di farsi ammazzare, spara al suo ingombrante e testardo amante. Troverebbe sicuramente una battuta adeguata, io invece mi fermo qui.

 

I giornalisti sportivi Rai: scioperanti o scioperati

Quando da bambino mi appassionavo al calcio, sotto l’attenta e saggia supervisione paterna, non esistevano le TV a pagamento, la RAI, unica emittente, trasmetteva qualche partita, difficilmente in diretta, non c’era il rischio dell’attuale sbornia televisiva con le telecamere a scrutare ed a moviolare ad libitum, non esistevano i salotti televisivi pre, durante e post partita, di cronista c’era Nicolò Carosio e poco più, ben lontani dalle attuali schiere di giornalisti, commentatori tecnici, esperti, moviolisti, combinati in polpettoni stomachevoli che alla fine riescono a falsare l’avvenimento (altro che i quasi goal di Carosio). Scusate se insisto, ma è l’occasione per pulirmi un po’ in bocca, per ridicolizzare quanto succede in TV durante un incontro di calcio: un gruppo di giornalisti ed esperti nello studio centrale, un duetto per il pre-partita, un duetto per la cronaca, con altri due cronisti a commentare le inutili urla degli allenatori, una equipe per commenti e interviste durante l’intervallo ed alla fine. A parte il costo di tali sovrastrutture, che qualcuno direttamente o indirettamente paga (canone, pubblicità, etc), non so fino a quando,   il povero telespettatore al termine fa una certa fatica a ricordare il risultato dell’incontro, stordito dalla sarabanda di commenti, immagini (replay che si sovrappongono alla diretta), critiche, schemi di gioco, interviste, pareri, etc. etc.

Ebbene, nel periodo oggetto dei miei ricordi la culla del calcio era lo stadio, la sede naturale ed unica era il terreno di gioco circondato dalle gradinate più o meno gremite di pubblico. Calcio e stadio: il binomio entro cui si svolgeva l’avvenimento agonistico, con i due fronti contrapposti di protagonisti , i giocatori da un lato il pubblico dall’altro. Tutte le altre, a mio giudizio, sono interferenze più o meno fastidiose (dagli spot pubblicitari in giù).

Ragion per cui mi fa letteralmente “sbudellare” dal ridere lo sciopero indetto dai giornalisti sportivi della Rai in segno di protesta contro le scelte programmatiche troppo “risparmiose” della televisione pubblica in materia sportiva.

Di sport, di calcio in particolare, nei palinsesti Rai ce n’è fin troppo, ma se proprio desideriamo allargare le dirette televisive pagandone il caro prezzo, consiglierei di contenere al massimo i costi dei “chiacchieroni” per poter spendere di più trasmettendo gli avvenimenti più importanti e spettacolari.

L’altra sera, in conseguenza dello sciopero, il derby calcistico torinese di Coppa Italia è andato in onda senza telecronaca e commenti: mi sono divertito moltissimo, mi sembrava di vivere nel mondo dei sogni, finalmente un po’ di silenzio per lasciar parlare il pallone. Fossi il direttore generale della Rai non esiterei a sfoltire l’inutile e fastidioso esercito dei commentatori e proporrei loro di stornare i fondi dal ridondante pool sportivo per impiegarli all’acquisto dei diritti televisivi.

I giornalisti a quel punto si sarebbero fatti un autogol clamoroso: gli utenti Rai tirerebbero un respiro di sollievo e avrebbero qualche occasione in più per seguire lo sport e non le chiacchiere sportive. Non sarà così, vinceranno loro, i pupattoli catodici del pallone e noi continueremo a guardare gli avvenimenti sportivi più con le orecchie che con gli occhi.

Mia madre di fronte alla sarabanda degli uomini che ruotano attorno al calcio, esclamava ingenuamente: “Co’ farisla tutta ch’la génta lì s’a ne gh’ fìss miga al balón?”. Non avrebbero più pane per i loro denti, il castello crollerebbe rovinosamente. Il concetto, che aveva mio padre del fenomeno calcio, tagliava alla radice il marcio; viveva con il setaccio in mano e buttava via le scorie, era un “talebano” del pallone. Per evitarle accuratamente pretendeva che il dopo partita durasse i pochi minuti utili per uscire dallo stadio, scambiare le ultime impressioni, sgranocchiare le noccioline, guadagnare la strada di casa e poi…. Poi basta. “Adésa n’in parlèmma pu fìnna a domenica ch’ vén”. Si chiudeva drasticamente e precipitosamente l’avventura calcistica in modo da non lasciare spazio a code pericolose ed alienanti, a rimasticature assurde e penose. E che i giornalisti sportivi andassero tutti a quel paese, lontano da quello dei balocchi in cui vivono.

 

Auguro a tutti un anno…taciturno

Tra le indicazioni omiletiche del primo giorno dell’anno ne ho colta una con particolare interesse in quanto tocca un mio ansioso e categorico imperativo: non sprecare il tempo.

Quando preparavo gli esami universitari non uscivo di casa, rimanevo giorno e notte in pigiama, studiavo persino in bagno; quando non ne potevo più, alleviavo la fatica con un sottofondo di musica classica, mi alzavo alle cinque del mattino e facevo brevissime soste solo per i pasti. Esageravo, come è sempre stato mio costume, ma poi mi rifacevo e tiravo il fiato per qualche giorno prima di tuffarmi nel successivo esame.

Sì, perché è vero quanto sosteneva mio padre con un suo prezioso insegnamento: ci deve essere un tempo per studiare e lavorare, un tempo per stare con la famiglia, un tempo per le amicizie, un tempo (il più importante e assorbente) per i legami sentimentali, un tempo per ascoltare gli altri ed i loro problemi, un tempo per il divertimento e lo svago. Non è facile combinare al meglio queste opzioni, ma bisogna almeno provarci.

A volte, ascoltando le chiacchiere inutili della gente e pensando purtroppo anche alle mie, mi viene spontaneo tentare una paradossale proiezione: se il tempo dedicato alle polemiche viziose, ai ragionamenti oziosi e ai contrasti inutili fosse convertito alle cose importanti della vita personale e comunitaria, forse avremmo avviato a soluzione parecchi problemi.

Provate ad immaginare il fiume di sciocchezze che scorre nei bar e nei locali pubblici in genere, nei salotti (anche e soprattutto quelli televisivi), nei saloni di bellezza: roba da far invidia al tanto vituperato peggior dibattito politico. Il mezzo televisivo ha tolto parola e capacità critica allo spettatore, alle chiacchiere umane sono state sostituite quelle catodiche. Poi è arrivato lo smartphone e Dio ce ne scampi e liberi: le stupidaggini corrono sul web e diventano addirittura roba delinquenziale.

Al riguardo mio padre, a volte, proprio per segnare marcatamente il distacco con cui seguiva i programmi TV, si alzava di soppiatto dalla poltrona e quatto, quatto se ne andava. Mia madre allora gli chiedeva: “Vät a lét?”. Mio padre con aria assonnata rispondeva quasi polemicamente: “No vagh a lét”. Era un modo per ricordare la gustosa chiacchierata tra i due sordi. Uno dice appunto all’altro: “Vät a lét?” ; l’altro risponde: ” No vagh a lét”. E l’altro ribatte: “Ah, a m’ cardäva ch’a t’andiss a lét”.

Il dialogo tra mio padre e la televisione non era come quello tra due sordi: sapeva godere anche la TV ma con una certa parsimonia (la usava spesso come sonnifero che provocava solenni russate, sistematicamente negate all’evidenza), forse intravedeva per tempo il pericolo che l’immagine assorbita acriticamente porta con sé.

Visto che siamo in tema di parole sprecate e di dialogo tra sordi, vi racconto come nel bar frequentato abitualmente da mio padre ci fosse qualche persona un po’ dura d’orecchi, uno in particolare dotato di apparecchio acustico. Gli amici, i primi tempi di utilizzo dell’aggeggio, chiedevano al ringalluzzito compagnone: “Gh’ät piè la radio? Parchè s’a te gh’la zmors a t’ podèmma där dal stuppid”.

Poi vengono le polemiche assurde ammantate di scontro sociale. In un cantiere edile mio padre assistette alle continue, reiterate, pesanti rimostranze di due operai nei confronti del loro datore di lavoro, assente dalla scena ma non per questo meno osteggiato. Tra un improperio e l’altro i due lavoratori cercavano di preparare una tavola di legno da utilizzare non so come. Dopo un paio d’ore si accorsero di avere sbagliato tutto e che la tavola era inutilizzabile. Mio padre, che aveva una linguaccia che non poteva star ferma, li rimproverò di brutto dicendo: “Al vostor padrón al sarà gram, mo sarà dificcil ch’al s’ faga di gran sòld cól vostor lavór”. Questa, a casa mia, si chiama onestà intellettuale. Era solito dire:“Primma äd tutt fa bén al to’ lavor e po’ a t’ pól fär tutti il batalj sindacäli ch’a t’ vól”.

Continuo e chiudo con i ricordi paterni: difendeva a spada tratta una cognata piuttosto taciturna, sostenendo che era in vantaggio su tutti i suoi parenti critici verso di lei, in quanto aveva meno possibilità di dire sciocchezze.

Sarebbe già qualcosa se facessimo un po’ tutti un proposito per l’anno appena iniziato, un impegno piccolo-piccolo, che farebbe risparmiare tempo, fiato e financo denaro: dire meno scemenze. Proviamoci.

Non rifiutiamo i rifiuti

La Regione Emilia-Romagna ha accolto la richiesta di aiuto del Lazio sui rifiuti, prevedendone lo smaltimento di piccole quantità prestabilite (non più di 15mila tonnellate provenienti da Roma), per un periodo limitato (43 giorni pieni), tassativamente non reiterabile, utilizzando tre termovalorizzatori (tra i quali quello di Parma).

La notizia di per sé non ha nulla di straordinario, ma induce a due riflessioni, una di tipo istituzionale, l’altra di carattere politico. In un periodo, in cui sembrano trionfare l’indipendentismo, la glocalizzazione, il ripiegamento sui propri interessi e problemi, l’innalzamento dei muri protettivi, un esempio di solidarietà tra Regioni ci fa capire come l’autonomia istituzionale, prevista peraltro dalla Costituzione Italiana e concretizzata più o meno bene nel nostro Paese, non debba prevaricare sul bene comune, facendo ricadere sui cittadini le difficoltà e i ritardi di un territorio rispetto ad un altro (bene ha detto in tal senso il Presidente emiliano Bonaccini).

Come afferma autorevolmente papa Francesco, sulla globalizzazione dell’indifferenza deve prevalere quella della solidarietà. La tentazione di assumere l’atteggiamento sussiegoso della formica rispetto al menefreghismo della cicala (del tipo “i romani si arrangino col loro rudo”) non deve diventare uno schema rigido nei rapporti istituzionali e territoriali. Credo al riguardo che la revisione e la precisazione dei poteri regionali debba essere effettuata a livello costituzionale (la tanto vituperata e bocciata riforma tentava di mettere qualche freno alla deriva autonomistica) per non lasciare pericolose occasioni di sviluppo agli egoismi ed ai particolarismi.

Ma c’è una seconda, spontanea anche se un po’ maliziosa, riflessione: è per lo meno curioso che i rifiuti di una città amministrata da una grillina doc vengano seppure parzialmente ed occasionalmente smaltiti dal termovalorizzatore di una città governata da un grillino “traditore”, considerato tale proprio ed anche perché incapace di bloccare la costruzione e l’utilizzazione di questo forno inceneritore. Lungi da me tornare sulla polemica dell’opportunità di questa struttura, per la quale ho sempre avuto non poche perplessità.

Desidero invece ricostruire la vicenda sul piano politico: Federico Pizzarotti diventa, alcuni anni or sono, sindaco di Parma, il primo sindaco Grillino in Italia, soprattutto sulla spinta di una demagogica volontà di bloccare la realizzazione del termovalorizzatore, peraltro già quasi ultimato. Poi si accorge di avere promesso l’impossibile e si adegua alla realtà dei fatti: diventa non solo per questo motivo un revisionista da confinare, ma i parmigiani, in mancanza di meglio, lo confermano quale primo cittadino.

Il testimone della sindacatura grillina doc passa a Virginia Raggi che in quel di Roma non ne azzecca una: la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti diventano per lei un tormentone burocratico-amministrativo e un flop post-elettorale. La capitale continua ad essere invasa dai rifiuti al punto da chiedere aiuto a chi detiene i tanto vituperati termovalorizzatori e il rudo arriva da Raggi a Pizzarotti, il quale, su impeccabile imbeccata regionale, fa buon viso a cattiva sorte, anzi rischia di fare un ulteriore figurone nei confronti degli ex-compagni che lo hanno sbrigativamente scaricato.

Il tempo è galantuomo. Chi di rifiuti ferisce di rifiuti perisce. Promettere è facile, mantenere molto meno. In politica la coerenza non è più una virtù…conta solo gridare e purtroppo la gente corre dietro a chi grida più forte. Successe a Gerusalemme duemila anni fa: quel Gesù osannato, che volevano incoronare re, fu messo in croce dopo pochi giorni sull’onda emotiva scatenata da chi gridava a squarciagola “crocifiggilo”. Forse ho semplificato un po’ troppo, sulle vicende odierne e su quelle della morte di Cristo, ma penso sia chiaro quel che volevo e voglio dire.

 

La cattedra di Mattarella e la lavagna degli italiani

Sergio Mattarella ha “esagerato”: ha preso alla lettera il famoso detto “il più bel tacer non fu mai scritto”. Nel suo messaggio augurale non solo ha parlato per pochi minuti (dieci per la precisione), ma ha calibrato le parole, è riuscito a dire tutto a tutti, senza pericolose allusioni, ha dato un’autentica lezione di stile presidenziale. Quando nelle università, durante i corsi di diritto costituzionale, si tratterà dei poteri del Presidente della Repubblica, sarà sufficiente riportare integralmente il discorso di Mattarella del 31 dicembre 2017 per rendere perfettamente l’idea concreta di come si rispetta la Costituzione e di come si svolge la propria funzione di carattere istituzionale.

Riascoltiamo questo discorso, rileggiamolo: non c’è alcun bisogno di commenti, perché va dritto al cuore delle questioni. Ogni cittadino di buona volontà ci si può trovare, non perché dia ragione a tutti, anzi, ma in quanto tocca tutti nel vivo dei propri doveri.

Nessuna demagogia, nessuna strumentalità, nessuna invadenza, nessuna intromissione, nessun compiacimento, nessun infingimento. Il discorso, pur essendo di così alto profilo, è risultato chiarissimo: una sorta di controcanto alla politica politicante, al populismo dilagante, alla sfiducia, al risentimento, all’astensionismo.

Il Presidente è entrato in punta di piedi nelle case degli italiani, ma ha fornito loro uno squarcio di vita politica proiettata in avanti ed aperta al contributo di tutti, li ha messi in guardia dalla trappola dell’eterno presente. Partendo dalla consapevolezza delle conquiste in tema di pace, libertà, democrazia e diritti egli ha formulato un forte invito a volgere lo sguardo al pur problematico futuro. Mi pare il filo conduttore della sua tela: non una nostalgica e consolatoria rivisitazione del passato, non una scriteriata fuga dalla realtà attuale, ma un fiducioso e virtuoso slancio verso un’era che pone interrogativi inediti sul rapporto tra uomo, sviluppo e natura.

È salito in cattedra, ma non ha messo nessuno dietro la lavagna, ha invitato i cittadini all’impegno, appellandosi alle donne ed agli uomini che sanno affrontare con tenacia e coraggio le difficoltà della vita e cercano di superarle.

Ai giovani ha chiesto di partecipare al voto. Alla democrazia ha chiesto di vivere d’impegno nel presente, ma alimentandosi di memoria e visione del futuro. Alla politica ha chiesto di avere la capacità di misurarsi con le novità ed i cambiamenti, guidando i processi per rendere più giusta e sostenibile la nuova stagione che si apre. Alla società ha chiesto di affrontare il problema del lavoro, che resta la prima e più grave questione sociale. Non ha dimenticato nessuno, chi soffre e chi ne allevia le sofferenze.

Sergio Mattarella riesce ad impersonificare umanamente e istituzionalmente il legame tra il meglio del passato, del presente e del futuro. Per sua scelta esistenziale, per sua matrice culturale, per sua esperienza politica può essere un faro credibile per il popolo italiano. Vediamo di non perderlo di vista in mezzo alle nebbie che ci assalgono, di ascoltare i suoi preziosi consigli nel profluvio di sciocchezze che ci blandiscono, di cogliere dalla sua testimonianza il giusto viatico per affrontare le difficili sfide che ci attendono.

È mezzanotte, anzi lo era…

Le piazze italiane, in occasione dei festeggiamenti per l’arrivo del nuovo anno, sono state messe   sotto sorveglianza speciale: barriere per evitare l’accesso di mezzi, posti di blocco, transenne, ingressi obbligati e presenza rafforzata di forze dell’ordine. A pena si aggiunge pena. Sì, perché il doversi divertire per forza sbraitando in piazza è già di per sé un fatto penoso, se poi lo si deve fare sotto scorta diventa ancor più patetico.

È diventato un impegno ineludibile per le amministrazioni comunali promuovere eventi con enormi disagi, complicazioni, rischi e spese. Anche Parma non scherza. Non sarebbe meglio che simili mobilitazioni venissero riservate ad iniziative di ben altra caratura socio-culturale? Non voglio mandare a letto la gente alle nove. Pretendo misura anche e soprattutto da chi governa una città, ma la tentazione di seguire la corrente è invincibile.

Faccio molta fatica a capire come ci si possa divertire in queste radunate oceaniche seppure sbandierate da eventi musicali: sanno tanto di ultima spiaggia, di esorcismo contro i problemi, di fuga dalla realtà. Si tratta di un rito pagano da celebrare a tutti i costi. Aggiungiamoci la blindatura e il tutto diventa una colossale farsa.

Lasciamo perdere le contraddizioni etiche: da una parte ci lamentiamo e dall’altra sprechiamo, da una parte chiediamo ordine e dall’altra facciamo casino, etc. etc. Lasciamo perdere il solito contorno di incidenti dovuti allo scriteriato uso di petardi e simili. Lasciamo perdere la recrudescenza degli incidenti stradali nella bagarre del dopo festeggiamenti. Lasciamo perdere i ricoveri al pronto soccorso di chi perde il controllo della propria mente e della propria salute.

Alla fine cosa ci resta? Il cervello intontito, la bocca impastata, la testa che gira, la delusione che sopraggiunge inevitabilmente. Valeva la pena fare tutto ‘sto casino per cominciare male il nuovo anno?

I miei genitori mi raccontavano come allo scadere del primo anno di vita (sono nato infatti il primo gennaio) partecipai alla festa dell’ultimo dell’anno a casa di un carissimo zio, il quale si divertiva innocuamente a farmi rompere vecchie suppellettili (era la trasgressione di un tempo). Nei giorni successivi tentai di ripetere l’operazione, immediatamente stoppato da mio padre, che tentò di spiegarmi che la festa era finita. Avevo infatti memorizzato nel mio cervello che la vita fosse uno scherzo da perpetuare.

Il meccanismo è sempre quello, per grandi e piccoli: illudersi che la festa più è chiassosa e sgangherata, più possa continuare all’infinito, rifuggendo dalla realtà quotidiana. A ben pensarci è il meccanismo psicologico del tifo calcistico portato alle estreme conseguenze, degli sballi del sabato sera, dei coca-party, del sesso usa e getta e via discorrendo.

Alcuni anni or sono a Napoli per festeggiare la fine dell’anno facevano scoppiare vere bombe: le chiamavano “bombe Saddam”. Adesso che il terrorismo ce le ha portate sotto casa, siamo in crisi. Mica poi tanto a giudicare dal casino che combiniamo…e lo spacciamo da libera espressione del nostro modo di vivere. Se è vero come è vero che non dobbiamo piegarci alla paura, evitiamo almeno di fare gli sbruffoni e di fare la parodia della nostra civiltà.