La Costituzione salvavita

In un contesto di risorse scarse, «per fare fronte a esigenze di contenimento della spesa pubblica dettate anche da vincoli eurounitari, devono essere prioritariamente ridotte le altre spese indistinte» prima di agire con tagli sulla sanità. Con un inedito intervento, la Corte costituzionale entra a pieno titolo sui meccanismi che regolano il bilancio dello Stato, ribadendo l’intento prioritario di «garantire il fondamentale diritto alla salute di cui all’art. 32 della Costituzione, che chiama in causa imprescindibili esigenze di tutela anche delle fasce più deboli della popolazione, non in grado di accedere alla spesa sostenuta direttamente dal cittadino, cosiddetta out of pocket (di tasca propria, ndr)». È il succo della sentenza n. 195 resa nota ieri, emanata – su ricorso della Regione Campania – per dichiarare l’illegittimità di una norma della legge di Bilancio per il 2024, a seguito del mancato versamento dei contributi dovuti allo Stato da parte delle Regioni nell’ambito della nuova governance economica europea.

(…) 

La decisione dei giudici della Consulta è destinata così a riaccendere il mai sopito dibattito sui tagli al servizio sanitario, già al centro di una disputa dai toni accesi anche al momento del varo dell’ultima manovra, con il governo che si difendeva sostenendo il primato storico di questa voce di spesa in valori assoluti (136,48 miliardi per il 2025), mentre le opposizioni imputano al centrodestra di averla ridotta in rapporto al Prodotto interno lordo, portandola al 6.05% da oltre il 7%. (dal quotidiano “Avvenire”)

 

Contro la priorità sanitaria ragion non vale: era ora che qualcuno ai massimi livelli istituzionali ribadisse questo concetto messo tra l’altro, in grave discussione dalle scelte del governo attuale. L’assetto istituzionale italiano ha un grande merito ascrivibile ai Padri costituenti, quello di fissare una pluralità di funzioni e competenze che segnano e garantiscono i limiti democratici all’esercizio del potere.

Mai come in questo periodo storico si è sentita la necessità di porre un freno agli intenti populisti di una classe di governo presuntuosamente arroccata su un assai relativo consenso elettorale e volta a spadroneggiare più che a governare.

Tocca ai due garanti della Costituzione arginare questa insulsa alluvione decisionista. Non c’è giorno che il presidente della Repubblica, pur col garbo e l’equilibrio che lo caratterizzano, non intoni il suo contro-canto, non intervenga a precisare, controbilanciare, ridimensionare l’azione del governo sia a livello interno che internazionale. La Corte Costituzionale ha recentemente posto un alt ai bollori secessionisti (si scrive autonomia si legge secessione), partendo dal principio irrinunciabile dell’unità nazionale e ora pone una precisa priorità nella spesa pubblica, chiedendo il rigoroso rispetto del sacrosanto diritto alla salute.

La morale della favola è che prima del governo e delle sue scelte viene la Costituzione con i principi da essa sanciti. Non c’è consenso elettorale che tenga, non c’è premierato che possa metterlo in discussione. Se ne facciano una ragione. Non si illudano di poter subdolamente attaccare la Costituzione stipulando accordi pseudo-riformatori nel chiuso delle stanze interpartitiche del centro-destra: un tortone al cioccolato per Meloni (premierato), un pasticciotto alla crema per Salvini (autonomie regionali rafforzate), una scatola di caramelle alla frutta per Tajani (riforma della Giustizia). Resteranno a loro in gola e le dovranno sputare se non vogliono soffocare. A meno che gli italiani non scelgano di fare ricorso al suicidio assistito.

 

Ucci ucci sento odor di tortorucci

La procura di Brescia ha messo a segno 25 arresti contro un presunto gruppo legato alla ‘ndrangheta e tra loro c’è anche una religiosa, suor Anna Donelli. La donna sarebbe stata “a disposizione del sodalizio per garantire il collegamento con i sodali detenuti in carcere”. Nell’ordinanza del tribunale si riporta una conversazione in carcere in cui uno degli arrestati afferma che la suora, che lavora nell’istituto penitenziario “è uno dei nostri” e ancora “se ti serve qualcosa dentro è dei nostri”. (adnkronos)

Posso avere dei dubbi sull’arresto di questa suora impegnata nell’assistenza ai carcerati? I miei dubbi si sono allargati ascoltando il garbatissimo e autorevolissimo commento di don Gino Rigoldi, sacerdote impegnato da tanto tempo sulla frontiera carceraria minorile e non solo. Ha spiegato come con i carcerati si debba stare molto attenti, perché spesso a chi dà loro una mano essi prendono il braccio. Figuriamoci i soggetti mafiosi… Non potrebbe darsi che suor Anna Donelli in buona fede e ingenuamente si sia prestata a fare qualche piccolo piacere a fin di bene a carcerati pronti ad approfittarne e a considerarla per ciò stesso una dei loro?

Non ho capito su quali prove si basi il provvedimento in questione. Mi auguro che ci sia qualcosa di più rispetto al millantato coinvolgimento nel sistema mafioso emergente dalle dichiarazioni di uno degli arrestati.

Non voglio pregiudizialmente assolvere una persona in quanto suora, purtroppo anche le suore possono sbagliare. Magari però succede come raccontava mio padre che nel suo ambiente ascoltava spesso pesantissimi giudizi sulle suore impegnate nell’assistenza all’infanzia abbandonata. Di fronte a questa paradossale intransigenza a senso unico, chiedeva provocatoriamente: “Cme mäi siv acsì cativ con il sôri e an dziv niènt pr’il madri chi an abandonä chi ragas li?”.

È plausibilissimo che questa suora sia caduta nella trappola, nel qual caso la vogliamo criminalizzare? Stai a vedere che in uno Stato dove della condizione carceraria non frega niente a nessuno, dove non si contano i suicidi tra i detenuti, si fanno le pulci ad una suora che si fa il mazzo visitando i carcerati.

C’è un detto parmigiano che recita così: “A fär dal ben aj äzon as ciapa dil zbarädi”. Una suora non deve fare questi strani calcoli, anche se gli asini nella nostra società sono troppi e fanno andar via la voglia di fare del bene.

Stellantis, illuminati da quale stella?

Il segno. Stellantis, i parroci di Pomigliano davanti ai cancelli con i lavoratori. La richiesta dei lavoratori Trasnova ai sacerdoti della città delle fabbriche: «Pregate per noi». Don Tortora: «Senza risposte verremo a dire Messa qui».

Il segno è stato forte e avvertito con emozione dai lavoratori preoccupati per il proprio futuro. I parroci di Pomigliano d’Arco stamattina si sono recati dinanzi ai cancelli dello stabilimento Stellantis per solidarizzare con i lavoratori di Trasnova, giunti alla terza notte di protesta.

Don Aniello, don Leonardo, don Salvatore, don Filippo, don Pasquale, don Pietro, don Sebastiano, don Peppino, volti noti in città per la loro azione pastorale e sociale, hanno ritenuto che la loro presenza fisica valesse più di mille parole. In rappresentanza del vescovo di Nola Francesco Marino, i sacerdoti hanno offerto la piena disponibilità delle rispettive comunità parrocchiali per ogni forma di sostegno spirituale e materiale.

In realtà, l’esigenza più sentita dei lavoratori ha sorpreso anche i sacerdoti: “Pregate per noi”, hanno chiesto gli operai di Trasnova, società dell’indotto cui Stellantis ha comunicato di non voler rinnovare la commessa, in scadenza il prossimo 31 dicembre. Sono circa 370 i lavoratori coinvolti in Italia, 90 attivi nel solo stabilimento di Pomigliano per l’attività di movimentazione delle vetture. Lavoratori che definire esterni a Stellantis è poco più di un formalismo, dato che la gran parte di loro lavorano nella fabbrica di Pomigliano da anni, i più anziani da oltre 20.

“Saremo la vostra voce nella città”, ha rassicurato don Aniello Tortora, che oltre ad essere sacerdote nella parrocchia che accoglie l’aria industriale di Pomigliano è anche vicario episcopale per la giustizia e la carità. La Chiesa di Nola e le parrocchie di Pomigliano partecipano storicamente con particolare intensità alle vertenze dei lavoratori della significativa zona industriale della città. Appena poche settimane fa, il vescovo in persona, Francesco Marino, aveva scritto un’accorata lettera sull’altra vicenda che preoccupa il territorio, quella di Leonardo Aerostrutture.

É un momento di grande apprensione per i siti produttivi campani, e Pomigliano rappresenta l’epicentro della crisi. “La nostra battaglia – spiega un lavoratore – è per tutto l’indotto. Se perdiamo noi, perdono tutti. Se vinciamo, vinciamo tutti”. I sacerdoti hanno promesso che in caso di mancate risposte, che portassero i lavoratori a prolungare la loro presenza notte e giorno dinanzi allo stabilimento, verranno a celebrare Messa con loro, proprio davanti a quei cancelli che una volta erano segno di speranza e realizzazione personale. (dal quotidiano “Avvenire”)

L’evento è di quelli che fanno riflettere da tutti i punti di vista. Parto dal discorso ecclesiale. Che le comunità cristiane guidate e rappresentate dai propri parroci solidarizzino concretamente con i lavoratori in difficoltà è un segno di grande rilievo: la vita cristiana è fatta di solidarietà con chi è in difficoltà. Il Vangelo è pieno di inviti ed esempi in tal senso. Di seguito riporto due eloquenti citazioni.

«Lo so, mi hanno cercato i lavoratori della Saeco, fabbrica in crisi, e andrò sicuramente, anche se non riuscirò a passarci subito, ma quando andrò parlerò con tutti. Non voglio fare una visita formale, ma andare, capire, portare il mio contributo per quello che potrò. Non voglio deludere nessuno dei tanti che hanno aspettative nei miei confronti, ma non voglio nemmeno fermarmi ai saluti e alle parole di rito, bisogna capire per aiutare, prima di parlare» (Matteo Zuppi, vescovo di Bologna e presidente della Cei).

Giorgio La Pira, un cattolico profeticamente impegnato in politica. Ecco come si espresse nel 1955 alla segreteria nazionale della DC: «Fino a quando mi lasciate a questo posto, mi opporrò con energia massima a tutti i soprusi dei ricchi e dei potenti. Non lascerò senza difesa la parte debole della città: chiusura di fabbriche, licenziamenti e sfratti troveranno in me una diga non facilmente abbattibile… Il pane (e quindi il lavoro) è sacro. La casa è sacra. Non si tocca impunemente né l’uno né l’altra! Questo non è marxismo: è Vangelo! Quando gli Italiani poveri saranno persuasi di essere finalmente difesi in questi due punti, la libertà sarà sempre assicurata al nostro Paese».

Aggiungo una considerazione culturale più che politica. È ora di affrontare i problemi partendo dalle persone e non dai massimi o minimi sistemi. Vale per i politici investiti di responsabilità, vale per i partiti, vale per i sindacati, vale per tutti i cittadini. In questi giorni il problema Stellantis viene affrontato in modo asettico e farisaicamente scientifico alla ricerca di soluzioni che consentano al sistema capitalistico di continuare a vivere come se niente fosse. È pur vero che, come scrisse un insigne economista, il capitalismo ha i secoli contati, ma, durante questi secoli, chi ha detto che il sistema non possa cambiare?

Chiudo, tanto per cambiare, con una malinconica nota di pessimismo, espressa con una domanda tra l’ironico e lo sconfortante.  Non è che i lavoratori si rivolgono alla Chiesa come ultima spiaggia vista la insensibilità delle istituzioni e la inconcludenza della politica? Può darsi che ci stia anche questo. Ecco perché non bisogna soltanto solidarizzare fattivamente con tutte le forme di povertà, ma impegnarsi sul piano sociale e politico per eliminarle, facendo della giustizia sociale l’imperativo irrinunciabile dell’essere cristiani.

 

 

 

 

All’Eliseo vanno di moda les pantalons en toile

Emmanuel Macron, presidente della Repubblica francese, l’indomani delle elezioni europee che lo videro pesantemente sconfitto, anziché tirare le conseguenze e farsi da parte, preferì giocare d’anticipo e sciogliere il Parlamento, indicendo immediate elezioni che bloccarono sorprendentemente l’ascesa del Front national di Marine Lepen grazie ad un accordo elettorale fra centri e sinistre.

Questa pur apprezzabilissima conventio ad excludendum portò però ad una situazione di instabilità politica di fronte alla quale Macron, anziché aprire con un po’ di fantasia a sinistra, ripiegò al centro, proponendo un assetto governativo minoritario che si è sciolto come neve al sole e mettendo il presidente in braghe di tela. Di farsi da parte al momento non se ne parla nemmeno, allora sembra che non gli resti che traccheggiare fino al giugno prossimo, potenziale data per nuove elezioni parlamentari.

Come volevasi dimostrare: le teorie su presidenzialismo, semi presidenzialismo, premierato e assetti istituzionali simili rendono perfettamente l’idea di come la democrazia non risolva i suoi problemi restringendo l’area decisionale in diretto contatto con il consenso popolare. Una sorta di moderato populismo: una scorciatoia rispetto alla pur difficile strada maestra del parlamentarismo. La democrazia ha bisogno dei partiti come del pane, ma, siccome i partiti hanno perso il loro feeling con gli elettori, si passa alle brioche del potere in poche mani.

Emmanuel Macron ci sta aggiungendo del suo: non vuol mollare la presa, forte di un voto popolare risalente a parecchio tempo fa; dopo avere ampiamente deluso da tutti i punti di vista, non vuole accettare la realtà e continua ad arrampicarsi sugli specchi di una democrazia traballante.

Le conseguenze sono per i francesi, ma anche per tutti gli europei in un momento storico in cui ci sarebbe bisogno, più che mai, di forza e compattezza dell’UE. L’Europa galleggia: è il caso appunto di Macron in Francia, ma anche di Scholz in Germania, che dire di Giorgia Meloni in Italia e, cosa ancor più grave, di Ursula von der Leyen.

Quando mio padre voleva sarcasticamente bollare l’inconcludenza del mio impegno politico, improntato alla partecipazione a numerose quanto inutili riunioni, se ne usciva con una espressione assai eloquente: “Ien là chi sälvon l’Italia…”. Penso che lo direbbe, a maggior ragione, in riferimento ai consessi e ai leader europei, allargando il campo visivo all’intero continente se non addirittura a tutto il mondo.

Macron avvisato, Francia, Europa e mezzo mondo rovinati!

Santi e santini

La causa accidentata di Frassati, santo nonostante le fake news. Il cammino verso gli altari del giovane torinese fu rallentato da una serie di dicerie che si rivelarono false riguardo alla correttezza del suo rapporto con le ragazze. (dal quotidiano “Avvenire” – Emilia Flocchini)

Quando constato come tanti papi siano diventati o stiano diventando Santi, mi viene qualche dubbio. Pur con tutto il rispetto, temo che nell’aldilà troveremo parecchie novità, riguardo alla nostra vita e a quella della Chiesa. Non sono quindi molto interessato ai processi di beatificazione e santificazione e, se stesse in me, quanti operano a livello della Congregazione delle Cause dei Santi li manderei volentieri a farsi il mazzo in qualche parrocchia periferica, a diventare cioè loro stessi santi facendo il lavoro “sporco” senza indagare sulla santità altrui.

A proposito di questa premessa sul mio scetticismo in ordine alla valanga di Santi per i quali in Vaticano si fa un gran sgomitare per l’accesso agli altari, aggiungerò le battute pesanti che scambiavo con mia sorella Lucia: “An so miga, ien tùtt sant, sarala po’ acsi?”. Si potrebbe dire “scherza coi santi e lascia stare la santità”. Non si dice forse “at magnè un sant?” (cioè un santino) a chi se ne sta buono e zitto in disparte senza dare fastidio? La santità riservata a chi non rompe i coglioni, vale a dire a chi non devia dagli schemi clericali?

E pensare che ho un Santo fra i miei parenti più stretti, mio zio Ennio sacerdote, che funziona a meraviglia come mio protettore: recentemente alla luce della sua vita e morte mi è stato suggerito di provare ad intentare una causa di beatificazione. Ho risposto quasi sdegnosamente: «E che bisogno c’è di mettere mio zio Ennio sugli altari? Io ce l’ho vicino e guai a chi me lo tocca…».

Ma il paradosso in ordine a Pier Giorgio Frassati viene dai dubbi sollevati in merito alla sua vita sentimentale e sessuale. Capirai… E se anche fosse vero che aveva un comportamento disinvolto con le ragazze, sarebbe meno santo? Per me lo sarebbe ancor di più e i bigotti sarebbero serviti. Io la chiamo dissertazione sul sesso degli angoli o, se volete, bigotta masturbazione sulla castità obbligata.

Poi c’è persino la questione dell’esumazione del cadavere, che lascerebbe intendere una sua morte apparente per il fatto di avere le mani nei capelli. Altro che avvocati del diavolo, qui siamo agli avvocati del cavolo che dimostrano l’accanimento contro questo giovane: se fosse stato sepolto vivo, cosa avrebbe dovuto fare se non reagire scompostamente ad una così drammatica situazione?

La vera e propria inflazione di Santi è dovuta probabilmente al tentativo di rendere compatibile la scelta di fede con la vita moderna. Ci vuole ben altro. Gli esempi servono a capire la lezione se però prima la lezione evangelica è stata ben spiegata, approfondita, masticata e digerita, altrimenti…

Una cosa è apprezzabile: fino a qualche tempo fa la santità sembrava monopolio clericale. I laici erano ridotti a ruolo di comparse. Qualcosa si è mosso, ma preferirei che i laici votassero per la scelta dei vescovi e, perché no, per l’elezione dei papi. Adesso smetto perché sto esagerando, anche se chi mi vuole intendere credo che mi abbia capito. Spero che Pier Giorgio Frassati e tutti i Santi preghino per noi a prescindere dal loro più o meno accidentato cammino verso gli altari e dalle chiacchiere più o meno pertinenti intorno alla loro santificazione.

In cauda ancora un po’ di venenum: i Santi saranno soddisfatti di avere un posto sugli altari e nel calendario liturgico o non gliene potrà fregar di meno? Lo capiremo appieno nell’aldilà.

 

 

 

 

 

Non abortiamo la tolleranza e il dialogo

Il convegno «Ascoltare la vita», in programma martedì sera nell’aula 200 dell’Università Statale di Milano, aveva per sottotitolo «Storie di libere scelte». Queste storie, però, nessuno dei presenti le ha potute sentire, perché un gruppo di ragazzi ha deciso che non avevano diritto di essere raccontate. Con una contestazione iniziata nel momento esatto in cui era stata invitata a parlare Soemia Sibillo, direttrice del Centro di aiuto alla vita della Mangiagalli, alcuni studenti del collettivo «Cambiare rotta» hanno fatto irruzione nell’aula, a suon di tamburelli, grida e bestemmie. Diversi loro amici si trovavano seduti tra i banchi e avevano assistito al primo intervento in scaletta, quello di Costanza Raimondi, assegnista di ricerca in bioetica alla Cattolica di Milano. Primo e unico dell’intero convegno, perché non c’è stato modo alcuno di proseguire.

«Mi avevano appena passato la parola – commenta Soemia Sibillo –, quando si sente picchiare forte alla porta dell’aula. Alcuni giovani sono entrati gridando slogan e bestemmie, con il chiaro intento di boicottare l’incontro, che era stato organizzato da loro coetanei della lista “Obiettivo Studenti”. Il più esagitato a un certo punto ha preso una bottiglietta dal tavolo dei relatori e l’ha rovesciata in testa a uno degli organizzatori. L’acqua è andata a finire anche sui cavi dell’impianto audio video, si sono spente le luci e il proiettore ha smesso di funzionare. Io avrei dovuto far vedere ai presenti la testimonianza di una mamma che ha accettato di portare avanti la gravidanza nonostante avessero diagnosticato al suo bambino una grave malformazione cardiaca, suggerendole l’aborto terapeutico. Ma non è stato possibile». (dal quotidiano “Avvenire” – Anna Sartea)

Non ammetto l’intolleranza, che è la negazione della democrazia sul piano politico, del rispetto della persona sul piano umano e del dialogo sul piano sociale. Nessuno ha la verità in tasca, men che meno gli sciocchi energumeni dell’Università Statale di Milano.

Chi teme un clima clericale e bigotto entro il quale collocare la delicata problematica riconducibile al tema dell’aborto, rischia di cadere nell’uguale e contrario atteggiamento. Di fronte ad una problematica, a volte addirittura drammatica, gravidanza, non c’è un’unica risposta valida in tutti i casi.  Riporto di seguito quanto diceva don Andrea Gallo a chi lo interrogava sul problema dell’aborto.

«Sta’ a sentire, non incastriamoci nei principi. Se mi si presenta una povera donna che si è scoperta incinta, è stata picchiata dal suo sfruttatore per farla abortire o se mi arriva una poveretta reduce da uno stupro, sai cosa faccio? Io, prete, le accompagno all’ospedale per un aborto terapeutico: doloroso e inevitabile. Le regole sono una cosa, la realtà spesso un’altra. Mi sono spiegato?».

Mi permetto di sviluppare e parafrasare il pensiero di questo profetico sacerdote nella certezza che sarebbe perfettamente d’accordo.

«Sta’ a sentire, non incastriamoci nei principi. Se mi si presenta una donna che, nonostante i gravi rischi della sua gravidanza, vuole portarla avanti facendosi carico di tutte le conseguenze, sai cosa faccio? La aiuto in tutti i modi possibili nella sua coraggiosa decisione, non tanto in base al teorico principio del rispetto della vita, ma al concreto imperativo dell’umana solidarietà».

Ogni caso fa storia a sé e va affrontato nel dialogo fra le persone, che non vuol dire calare dall’alto soluzioni dogmatiche e pregiudiziali, ma cercare insieme soluzioni che rispettino, nei limiti del possibile, i diritti e i doveri di tutti, quelli della madre, quelli dal padre, quelli del nascituro, quelli dell’intera società.

In questo contesto costruttivo ha senso ascoltare tutte le esperienze, senza giudicarle, senza metterle in graduatoria, senza facili demonizzazioni e santificazioni in senso religioso e in senso laicista, quelle di donne che hanno deciso di abortire e quelle di donne che hanno deciso di non abortire. Questo non è pilatismo, ma disponibilità al dialogo e all’incontro con tutti in vista del reciproco aiuto nel superamento delle difficoltà.

Ecco perché mi sento in dovere di riportare quell’esperienza umana che non si è voluta ascoltare al suddetto convegno.

Nel video mai proiettato in aula, una giovane donna di nome Lourdes racconta la sua storia. Il giorno dell’ecografia morfologica, assieme al suo futuro marito Henry scopre che il piccolo che aspettano ha il cuore sinistro ipoplasico. I medici prospettano loro l’interruzione della gravidanza e descrivono le tre operazioni, una più rischiosa dell’altra, a cui si sarebbe dovuto sottoporre il bimbo se fosse riuscito a nascere, per sperare di sopravvivere.

«Quando sono arrivati da noi, la futura mamma era in lacrime, ma è stata l’unica volta che l’ho vista piangere – racconta la direttrice del Cav Mangiagalli –. Fatta la scelta di tenere il bambino, Lourdes ha dimostrato a tutti un coraggio e una forza incredibili, che non sono venuti meno nemmeno nei lunghi mesi in cui il suo bimbo è stato ricoverato in terapia intensiva al Niguarda, dove è nato e ha subito numerosi interventi a cuore aperto».

Il Cav ha sostenuto la giovane coppia, che viveva in una stanza condivisa con altre persone, procurando un alloggio dove affrontare con maggior serenità questa gravidanza. Subito dopo il parto, i neo genitori sono stati accolti in un altro appartamento, in zona Niguarda, per facilitarli nel loro andare e venire dall’ospedale dove Liev Logan ha lottato per vivere, vincendo la sua battaglia perché ora sta bene.

«Sarebbe stato impossibile affrontare tutto ciò da soli», afferma Lourdes nell’intervista video. «I nostri genitori sono lontani, in Perù. Qui è il Cav Mangiagalli la nostra famiglia». (ancora dal quotidiano “Avvenire” – Anna Sartea)

Sono cattolico, ma non mi sono mai lasciato imprigionare negli schemi dogmatici e nei principi religiosi. Mi sforzo di essere attento ai problemi degli altri e di allungare la mano con grande rispetto e discrezione, senza giudicare per non essere giudicato. Ho cercato di farlo nel mio impegno cristiano a livello individuale e comunitario, nella mia vita professionale, nei rapporti sociali, nella mia partecipazione attiva alla vita politica. In contrapposizione ai miei innumerevoli difetti e limiti, tutti mi riconoscono un po’ di umana sensibilità.  Di fronte al tema dell’aborto cerco di capire, di ascoltare e di non giudicare. L’ho fatto anche in questa sede.

Papesatan papesatan Aleppo

Otto anni dopo la cacciata sotto i bombardamenti russi pro-regime di Bashar al Assad, le forze di opposizione siriane tornano ad Aleppo. Un esercito vero e proprio di circa 60mila soldati, nato dal raggruppamento di 13 bande divise, sfiduciate e poco collaborative tra loro. Ad Aleppo le forze lealiste se ne sono andate senza combattere, se non qualche scambio di fuoco in periferia, e ora che i ribelli puntano Hama le forze militari di Assad battono in ritirata seppure il presidente siriano ribadisce: «Sconfiggeremo i terroristi». Filoturchi, jihadisti, ex militanti di al Qaeda: chi c’è dietro l’avanzata elle forze ribelli in Siria? Un coacervo di gruppi che negli ultimi cinque anni hanno messo da parte le differenze per ribaltare il regime. Approfittando della debolezza di tutti i suoi alleati. Dall’Iran a Hezbollah alla Russia, i principali artefici della vittoria di Bashar al Assad ormai otto anni fa nella guerra civile scoppiata in Siria nel 2011 sono ora impegnati nei loro conflitti. Mentre l’esercito nazionale è sfibrato e sfiduciato da una guerra che non è mai veramente finita.

(…)

L’attacco si inserisce nella lunga timeline della guerra civile in Siria, mai esauritasi. Un conflitto che negli ultimi anni è diventato a bassa intensità ed è sparito dai radar dell’opinione pubblica internazionale anche per l’esplodere di altri conflitti. Ma in Siria si consuma da 12 anni l’attrito tra potenze per l’egemonia regionale. Qui operano in varie forme Stati Uniti, Russia, Iran, Israele, Libano, solo per citarne alcuni. E proprio per questo i ribelli hanno trovato ora il momento adatto per dare una spallata al regime. Nel 2016 furono decisive le bombe russe e le forze iraniane per cacciare gli oppositori da Aleppo e mettere in cantina i sogni di ribaltare il regime. Ora i bombardamenti della Russia avvengono per proteggere la ritirata e arginare l’avanzata dei ribelli. Dopo cinque anni di addestramento e la tessitura di una rete para-diplomatica, da Idlib è arrivato l’ordine di attaccare approfittando dell’indebolimento di tutti gli alleati di Assad. Le milizie di Hezbollah sono tornate in Libano per fronteggiare Israele. I russi sono impegnati in Ucraina. Gli avamposti iraniani sono stati distrutti dai bombardamenti israeliani. Quindi Tel Aviv ha avuto un ruolo fondamentale nell’indebolimento di due alleati su tre del regime siriano, distruggendo anche depositi di armi e fortezze, ma certo non auspica una presa del potere in Siria da parte dei jihadisti. (da OPEN online)

 

La guerra continua: le battaglie si susseguono, una tira l’altra, spuntano come i funghi dal momento che il terreno è ben preparato e coltivato. Ad Aleppo abbiamo una eloquente sintesi delle spinte e controspinte belliche: la concreta dimostrazione che la spirale della violenza è inarrestabile.

Anche la diplomazia rischia di rimanere completamente devitalizzata di fronte ad un simile impazzimento generale. Abbiamo seminato vento e raccogliamo tempesta. Nessuno riesce ad esprimere e proporre un piano di pace, troppe variabili dipendenti e oserei dire nessuna variabile indipendente da cui partire.

Tutto sommato la meno invischiata negli equilibri politici è l’Europa che però è la più danneggiata sul piano delle migrazioni e sul piano commerciale. Come può fare ad essere elemento di propulsione e non di arretramento? L’unica strada è quella di trovare una fortissima unità interna, di esprimere una classe dirigente degna di tale nome, di prendere la leadership dell’Occidente e di tessere la tela di un nuovo equilibrio internazionale.

Occorre però coltivare la fantasia della pace e abbandonare l’aridità della guerra, bisogna credere nell’impossibile a rischio di essere considerati visionari. Non vedo altre possibilità: ognuno deve fare la sua parte coraggiosamente per non farsi imprigionare nell’inevitabilità della violenza.

Non so andare oltre queste riflessioni anche se mi rendo perfettamente conto della loro relatività al limite della velleità. Però accettare questo mondo con rassegnazione è molto peggio. La realpolitik mi ha stomacato e non riesco che a vomitare sogni, forse più poeticamente che politicamente.

Mi sia consentita di chiudere con una speranzosa nota religiosa: “Ci serve doppia attenzione per vegliare sul nuovo che nasce, sui primi passi della pace anche tra di noi. E sul grammo di luce che si posa sul muro della notte di queste guerre infinite” (padre Ermes Ronchi).

 

Ai giudici l’ardua sentenza

Gino Cecchettin ha atteso 24 ore per far sedimentare le emozioni e soprattutto l’indignazione che ha provato nel sentire le parole del difensore di Filippo Turetta pronunciate nell’arringa nell’aula della corte d’Assise di Venezia dove è in corso il processo all’assassino della studentessa. E ha espresso parole dure; inedite per chi, come lui, finora non aveva voluto esprimere valutazioni ma solo auspicato che si facesse giustizia. «Mi sono nuovamente sentito offeso, e la memoria di Giulia umiliata», sono le parole con cui il papà di Giulia ha chiuso il post affidato ai social.

«La difesa di un imputato è un diritto inviolabile – ha scritto Cecchettin – ma credo sia importante mantenersi entro un limite dettato dal buon senso e dal rispetto umano. Travalicarlo rischia di aumentare il dolore dei familiari, e di suscitare indignazione in chi assiste». Un riferimento specifico alle parole che l’avvocato Giuseppe Caruso ha pronunciato martedì per chiedere che non venissero applicate a Turetta le aggravanti che lo porterebbero dritto all’ergastolo, in particolare quella della premeditazione, come chiesto dal pm: «Giulia Cecchettin – ha sostenuto in aula il legale – non aveva paura di Filippo Turetta. Andava da uno psicologo, ma non ci risulta che fosse per la relazione con Filippo. Nessuno dubita che Filippo fosse ossessionato da Giulia ma i tanti messaggi da “relazione tossica” non possono essere relativi alla loro relazione prima dell’ottobre 2023». E ancora, sull’efferatezza del delitto e il numero infinito di coltellate inferte alla povera Giulia: «Filippo era in preda a una tempesta emotiva […] Non è Pablo Escobar». La replica dei legali del giovane non s’è fatta attendere: «Come difensori siamo assolutamente certi di non aver travalicato in alcun modo i limiti della continenza espressiva, e di non aver mancato di rispetto a nessuno». (dal quotidiano “Avvenire” – Giulio Isola)

Sono diverse e delicate le questioni riguardanti la pena con cui dovrebbe concludersi il processo Turetta per l’omicidio di Giulia Cecchettin.  Innanzitutto viene in primo piano il discorso dell’ergastolo e della sua compatibilità con il principio costituzionale della rieducazione del condannato. Lecito che lo abbia sollevato la difesa dell’imputato, ma non è certamente questo il momento opportuno per affrontare un simile argomento a livello legislativo sotto l’effetto choc di un processo per un tremendo delitto. Il tema è di fondo ed è comunque da riprendere in sede culturale e parlamentare senza farsi influenzare dalle contingenze processuali.

Altro tema è quello dei limiti legali ed etico-professionali del sacrosanto diritto alla difesa: anche questo troppo delicato per essere affrontato a margine di un processo in corso di svolgimento. Mio padre, nel suo esagerato ed ingenuo giustizialismo, di fronte agli autori di certi efferati delitti, teorizzava addirittura la condanna dell’avvocato difensore, che osava trovare giustificazioni ed attenuanti per il colpevole. Al di là del paradossale istinto esternato da mio padre, non sono in grado di stabilire se la difesa di Filippo Turetta abbia varcato i confini del lecito. Entrare in questa materia è pericolosissimo e preferisco limitarmi a ritenere che la giustizia la esercitino i giudici senza comprimere alcun diritto dell’imputato salvo che nella foga difensiva vengano commessi ulteriori reati.

Arrivo però al dunque, vale a dire alla riflessione che mi viene spontanea alla luce della pubblicazione delle espressioni usate dal padre di Giulia Cecchettin. Perché utilizzare a fini mediatici il dolore e l’angoscia di un padre? Non ha senso, la cosa non è rispettosa del dramma umano vissuto da questa persona, così come non ha senso chiedere, in certi casi, se i parenti delle vittime siano disposti a perdonare. Sono questioni da lasciare scrupolosamente al di fuori del diritto di cronaca e all’interno delle coscienze personali.

Mi dispiaccio del fatto che “Avvenire” abbia fatto questa inopportuna e sgradevole scivolata giornalistica: dare in pasto all’opinione pubblica le emozioni del padre di una vittima di tanta violenza è un pessimo servizio alla verità. Un minimo di discrezione non guasterebbe. È pur vero che Gino Cecchettin ha dato prova di molta serietà, ma sarebbe meglio lasciarlo in pace con il suo dramma rivissuto nell’aula di Corte d’Assise. Questi interventi mediatici non fanno altro che allargare le ferite, stuzzicare la curiosità della gente e parlare nella mano dei giudici: non giovano alla ricerca della verità e della giusta punizione dei colpevoli.

 

 

Il centro-destra fra plàti e patonón

Le spaccature nel centro-destra (sostanzialmente destra-destra, ma di fatto armata brancadestra) non si contano più, non si riesce nemmeno a starci dietro, tanto sono numerose ed eclatanti. E il governo sembra non fare neanche una piega (fino a quando?). Nella, tanto ingiustamente bistrattata, prima repubblica i governi andavano in crisi per molto meno…

Non si riesce a comprendere se questa conflittualità sia dovuta a motivi politici o di pura spartizione di potere o di mera concorrenza elettorale o di irresponsabile gioco al massacro o di scelta di marciare divisi per colpire uniti. Di tutto un po’. Fatto sta che non ci si capisce più niente: non vorrei essere nei panni dell’elettore di destra, ma probabilmente a questo elettorato le cose, tutto sommato, vanno bene così.

Tatticamente parlando, Matteo Salvini ha parecchie gatte da pelare in casa propria: gli imprenditori dell’est non gradiscono lo sperpero di fondi pubblici sul ponte dello Stretto; i governatori regionali esigono spazio e continuità; i nordisti desiderano un pieno ed effettivo ritorno all’identità degli inizi; la base è fuorviata dalle vannacciate varie ed eventuali. E allora cosa c’è di meglio che alzare i toni dello scontro nel centro-destra per ritrovare un po’ di quiete fra le mura leghiste.

Antonio Tajani vuol fare il moderato, ma ha sul collo il fiato degli interessi di Mediaset e dintorni: basti pensare alla farsa degli extra-profitti bancari e a quella più recente del canone Rai. Alla fine tutto si riduce alla necessità di mostrarsi come il poliziotto buono che finisce col fare il gioco di quello cattivo. Se devo essere spietato direi che Forza Italia sta facendo la parte dell’utile idiota, vale a dire sta tenendo un tipico atteggiamento di ipocrita dabbenaggine o di abile furberia mascherata da ingenuità, buona fede e false intenzioni.

Giorgia Meloni lascia fare, sopporta un clima di perenne ricreazione che potrebbe trasformarsi in cagnara dell’ultimo giorno di scuola, riservandosi la leadership di questo coacervo di pecoroni: i suoi punti di forza stanno nel panorama internazionale, che però sta rapidamente evolvendo e scoprendo gli altarini di una politica altalenante e strumentale. La presidenza Trump mette a soqquadro i rapporti internazionali su cui si basano ruolo e tattica meloniani. Qui potrebbe cascare l’asino. Qui potrebbe iniziare lo spogliarello di Giorgia, presto fatto: sotto il vestito niente. Qui potrebbe bastare un giudice qualsiasi che grida: la regina è nuda!

Altro punto di forza del melonismo è il potere costruito e difeso a denti stretti con una stringente ed asfissiante strategia mediatica, che potrebbe cominciare a dare qualche segno di debolezza o cediemnto: mi riferisco ai precari equilibri sul mercato, ad una informazione che potrebbe sfuggire di mano, agli improbabili ma possibili risvegli sociali (i focolai di malcontento non mancano e prima o poi non basterà la repressione…), al fatto che un conto era l’elegante pugno berlusconiano un conto è l’insopportabile pugnetto meloniano (il primo la sapeva molto più lunga…e non è un caso che non gradisse la presunzione della seconda).

Mio padre diceva con molta gustosa acutezza: «Se du i s’ dan dil plàti par rìddor, a n’è basta che vón ch’a  guarda al digga “che patonón” par färia tacagnär dabón». Manca questo terzo incomodo che sappia rovinare il giochino. E pensare che basterebbe poco. La sinistra invece preferisce esercitarsi nella stessa direzione con la differenza che non possiede il collante dell’informazione drogata e della furba (?) capacità di sintesi tattica.

Ne esce un clima da “tutti contro tutti” in cui a rimetterci è il cittadino illuso o deluso: le due facce della stessa medaglia in tasca all’elettore sempre più distante per non dire assente.

 

 

 

Il conflitto sociale andante ma non troppo

La politica non è rimasta a guardare e a vario titolo sono diversi i parlamentari intervenuti a favore di uno dei due fronti contrapposti. La segretaria del Pd Elly Schlein è stata tra i più attivi e ha denunciato la «sordità del governo rispetto alle istanze della Cgil e della Uil», stigmatizzando «il rifiuto ad ascoltare le loro ragioni e la forzatura di negare il diritto allo sciopero che è un diritto costituzionale». Poi la “benedizione” alla protesta di oggi: «Un grande sciopero di cui condividiamo le ragioni e saremo al loro fianco». Attacchi simili anche dal M5s e da Avs, mentre lo schieramento opposto ha difeso in ordine sparso sia il governo sia il Garante. Esercizio in cui si è distinto il vicepresidente leghista del Senato, Gian Marco Centinaio, che ha sparato dritto su Landini, colpevole di «usare lo sciopero per le sue ambizioni politiche». (dal quotidiano “Avvenire”)

Che lo sciopero sia un evento divisivo è scontato, però bisogna verificare dove avvengono le divisioni. Che lo sciopero sia un diritto costituzionale è verità incontestabile, però bisogna vederne ed eventualmente discuterne l’opportunità. Che la manovra economica del governo sia inconsistente, contraddittoria e oserei dire provocatoria è facilmente accertabile, però bisogna chiedersi se lo sciopero, tatticamente parlando, serva a mettere il governo con le spalle al muro.

Parto dalle divisioni. La prima riguarda le confederazioni sindacali: la Cisl non ha aderito e non è un fatto marginale. Credo che questa divaricazione nel mondo del lavoro sia piuttosto grave anche perché parte da un diverso modo di rapportarsi col governo: chi ritiene indispensabile una contestazione forte e generale verso il governo attuale, chi ritiene utile comunque proseguire nel dialogo e nel confronto partendo dalle poche cose buone contenute nella manovra economica e tenendo conto dei limiti oggettivi imposti dalla finanza pubblica.

La seconda divisione è fra i lavoratori che protestano e i cittadini che vengono messi in evidenti difficoltà dallo sciopero: mi riferisco soprattutto agli utenti dei servizi pubblici e al fatto che sono i soggetti più deboli a soffrire le immediate conseguenze di una generale astensione dal lavoro. Uno sciopero generale finisce cioè per creare disagi a quei cittadini già puniti direttamente o indirettamente dallo sgovernare del centro-destra. Un autogol? Temo, almeno in parte, di sì.

La terza divisione avviene tra il mondo del lavoro e l’opinione pubblica, che fa molta fatica a capire la situazione sociale e tende a buttare tutto nella “pandana” della carenza di mezzi finanziari, della responsabilità dei governi passati e delle difficoltà internazionali. Tutti fattori che, pur nella loro evidente realtà, non possono giustificare le colpe di chi ci sta malamente governando.

La quarta divisione si registra in campo politico. Mentre il governo tende a squalificare o addirittura a “criminalizzare” il comportamento dei sindacati dei lavoratori, l’opposizione di sinistra ne sposa acriticamente e strumentalmente le ragioni. L’autonomia del sindacato rispetto ai partiti è un valore conquistato ed irrinunciabile, pena la perdita di credibilità e di efficacia. Un governo alla canna del gas si oppone aprioristicamente al sindacato inimicandoselo strumentalmente; l’opposizione, debole e divisa, sfrutta la scia e il coraggio del sindacato. Non ci siamo!

Arrivo al punto dell’opportunità o meno di proclamare lo sciopero generale, strumento molto delicato da usare con intelligenza strategica ed abilità tattica. Mi permetto di nutrire qualche dubbio sull’utilità dello sciopero del 29 novembre scorso. Temo che abbia creato confusione e, in fin dei conti, abbia rafforzato il governo, al quale non par vero di nascondere le proprie magagne dietro il nemico sindacale che avanza. Il sacrosanto discorso della rivolta sociale è molto più profondo, difficile e complesso ed è l’alternativa totale o parziale al discorso della concertazione di ciampiana memoria: non partiamo quindi lancia in resta e per la tangente!

Da una parte quindi massimo riguardo al valore delle lotte sindacali e dall’altra massima cautela per non passare da reazionari. Stiamo attenti a non cadere nelle trappole del pansindacalismo e del disfattismo. Due episodi tratti dalla mia vita possono aiutare al riguardo.

Eravamo nei primi mesi del 1969, avevo in tasca un fresco e brillante diploma di ragioniere, avevo appena incominciato a lavorare al centro elaborazione dati della Barilla, ero stato assunto in prova, c’era lo sciopero generale di solidarietà per i dipendenti della Salamini, azienda che stava per fallire. Ricordo con emozione il caso di coscienza che mi si poneva: aderire allo sciopero comportava qualche rischio non essendo ancora dipendente a titolo definitivo, gli stessi sindacalisti interni mi avevano concesso di comportarmi liberamente, i colleghi anziani facevano strani discorsi sull’opportunità di uno sciopero a loro avviso inutile, gli impiegati più scettici temevano di danneggiare ingiustamente la Barilla per colpa della Salamini. Credevo nel sindacato, nella solidarietà tra lavoratori, nello sciopero come diritto e come strumento di lotta, mi importavano i lavoratori della Salamini. che stavano rischiando il loro posto e non mi preoccupava il fatto di creare problemi al mio datore di lavoro. Alla fine andai a lavorare col “magone” dribblando il cordone sindacale posto all’ingresso della fabbrica. Mi è tornato alla mente questo piccolo episodio della mia vita in concomitanza con la riproposizione del dibattito sullo sciopero generale di questi giorni.

«I gh’ la fan» diceva mio padre fra sé, seduto davanti al video, ma in seconda fila, come era solito fare, per dare libero sfogo ai suoi commenti al vetriolo senza disturbare eccessivamente. Stavano trasmettendo notizie sulle battaglie sindacali a tappeto. Mi voltai incuriosito, anche perché, forse volutamente, la battuta, al primo sentire piuttosto ermetica, si prestava a contrastanti interpretazioni. «Co’ vot dir? A fär co’?» chiesi, deciso ad approfondire un discorso così provocatorio e intrigante. «A ruvinär l’Italia!» rispose papà in chiave liberatoria, sputando il rospo. Badate bene, mio padre era un antifascista convinto, di mentalità aperta e progressista, un tantino anarchico individualista: tuttavia amava ragionare con la propria testa e si accorgeva, fin dagli anni settanta, che la strategia sindacale può esagerare e compromettere il quadro socio-economico. Provocatoria testimonianza valida oggi più che mai.

Sulla regolamentazione del diritto di sciopero si discute da tempo immemorabile: non credo che questo problema si possa risolvere a suon di precettazioni e di ricorsi al Tar.  Serve un cambio di mentalità socio-politica, che vedo molto improbabile nei soggetti attualmente sulla scena italiana. Le forze sociali devono ritrovare il loro ruolo e la politica deve aprirsi ad esse. Le forze politiche devono rientrare nel gioco democratico per dare alla società garanzie di indirizzo e guida. Questa è la cornice di un quadro da dipingere e non da imbrattare.