In un contesto di risorse scarse, «per fare fronte a esigenze di contenimento della spesa pubblica dettate anche da vincoli eurounitari, devono essere prioritariamente ridotte le altre spese indistinte» prima di agire con tagli sulla sanità. Con un inedito intervento, la Corte costituzionale entra a pieno titolo sui meccanismi che regolano il bilancio dello Stato, ribadendo l’intento prioritario di «garantire il fondamentale diritto alla salute di cui all’art. 32 della Costituzione, che chiama in causa imprescindibili esigenze di tutela anche delle fasce più deboli della popolazione, non in grado di accedere alla spesa sostenuta direttamente dal cittadino, cosiddetta out of pocket (di tasca propria, ndr)». È il succo della sentenza n. 195 resa nota ieri, emanata – su ricorso della Regione Campania – per dichiarare l’illegittimità di una norma della legge di Bilancio per il 2024, a seguito del mancato versamento dei contributi dovuti allo Stato da parte delle Regioni nell’ambito della nuova governance economica europea.
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La decisione dei giudici della Consulta è destinata così a riaccendere il mai sopito dibattito sui tagli al servizio sanitario, già al centro di una disputa dai toni accesi anche al momento del varo dell’ultima manovra, con il governo che si difendeva sostenendo il primato storico di questa voce di spesa in valori assoluti (136,48 miliardi per il 2025), mentre le opposizioni imputano al centrodestra di averla ridotta in rapporto al Prodotto interno lordo, portandola al 6.05% da oltre il 7%. (dal quotidiano “Avvenire”)
Contro la priorità sanitaria ragion non vale: era ora che qualcuno ai massimi livelli istituzionali ribadisse questo concetto messo tra l’altro, in grave discussione dalle scelte del governo attuale. L’assetto istituzionale italiano ha un grande merito ascrivibile ai Padri costituenti, quello di fissare una pluralità di funzioni e competenze che segnano e garantiscono i limiti democratici all’esercizio del potere.
Mai come in questo periodo storico si è sentita la necessità di porre un freno agli intenti populisti di una classe di governo presuntuosamente arroccata su un assai relativo consenso elettorale e volta a spadroneggiare più che a governare.
Tocca ai due garanti della Costituzione arginare questa insulsa alluvione decisionista. Non c’è giorno che il presidente della Repubblica, pur col garbo e l’equilibrio che lo caratterizzano, non intoni il suo contro-canto, non intervenga a precisare, controbilanciare, ridimensionare l’azione del governo sia a livello interno che internazionale. La Corte Costituzionale ha recentemente posto un alt ai bollori secessionisti (si scrive autonomia si legge secessione), partendo dal principio irrinunciabile dell’unità nazionale e ora pone una precisa priorità nella spesa pubblica, chiedendo il rigoroso rispetto del sacrosanto diritto alla salute.
La morale della favola è che prima del governo e delle sue scelte viene la Costituzione con i principi da essa sanciti. Non c’è consenso elettorale che tenga, non c’è premierato che possa metterlo in discussione. Se ne facciano una ragione. Non si illudano di poter subdolamente attaccare la Costituzione stipulando accordi pseudo-riformatori nel chiuso delle stanze interpartitiche del centro-destra: un tortone al cioccolato per Meloni (premierato), un pasticciotto alla crema per Salvini (autonomie regionali rafforzate), una scatola di caramelle alla frutta per Tajani (riforma della Giustizia). Resteranno a loro in gola e le dovranno sputare se non vogliono soffocare. A meno che gli italiani non scelgano di fare ricorso al suicidio assistito.