I sospiri mattarelliani e i rutti meloniani

Il presidente della Repubblica allo scambio di auguri di Natale con le alte cariche dello Stato ha sottolineato come un segno di malessere sia la «radicalizzazione che pretende di semplificare escludendo l’ascolto, riducendo la complessità alle categorie di amico/nemico» in una «divaricazione incomponibile delle opinioni» che coinvolge anche temi che richiedono una visione condivisa.  (dal quotidiano “Avvenire”)

Mattarella invita ad uno stile sobrio di confronto e di dialogo. È verissimo, politicamente parlando, non si riesce più a ragionare: prendere o lasciare, chi non è con me è contro di me, chi non beve con me peste lo colga, molti nemici molto onore, l’insulto è sempre dietro l’angolo, la miglior difesa è l’attacco, chi grida più forte ha ragione, etc. etc.

Quando Giorgia Meloni veste i panni di leader di partito lo stile istituzionale cede il passo al piglio barricadero che ha accompagnato l’ascesa della premier a Palazzo Chigi. Lo dimostra l’intervento di chiusura di Atreju. Il bersaglio scelto per infiammare la platea del Circo massimo è la sinistra a cominciare dalla segretaria del Pd, ma non risparmia neanche Romano Prodi: «A Schlein si inceppa la lingua quando deve dire la parola Stellantis», accusa Meloni, che respinge al mittente anche le accuse di aver sforbiciato le risorse destinate alla sanità: «136 miliardi e mezzo di euro, è il fondo più alto mai stanziato… La calcolatrice serve a voi, con quale faccia e dignità parlate?». A Prodi invece rimprovera di averla accusata di sudditanza verso la Ue: «Quando ho letto questi improperi isterici di Prodi ho brindato alla mia salute. Siamo ancora dalla parte giusta della storia. Dalla svendita dell’Iri fino a come l’Italia è entrata nell’euro, all’accordo nel Wto, Prodi dimostra che di obbedienza se ne intende parecchio. Noi siamo all’opposto». E infine il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini: «La verità è che gli scioperi non li organizza per aiutare i lavoratori ma per aiutare la sinistra» e con il suo «incitamento alla rivolta sociale» ha utilizzato «toni che non hanno precedenti nella storia del sindacato italiano: se li avessimo utilizzati noi – ironizza Meloni – sarebbero arrivati i caschi blu dell’Onu». (dal quotidiano “Avvenire”)

Da ragazzo mi lasciavo andare a comportamenti inaccettabili: a tavola ad esempio mi divertivo ad emettere rutti clamorosi a cucina aperta. Mia madre mi rimproverava e io la lasciavo dire e poi riprendevo immediatamente a fare i miei porci comodi. Mio padre allora interveniva per rendere la scena più stringente e rivolgendosi a mia madre diceva: “At nin sit acòrta che al te tôz pral cul?”. Aveva mille ragioni, ma purtroppo la querelle rimaneva aperta.

Agli inviti del Capo dello Stato per un comportamento politico serio ed equilibrato, Giorgia Meloni risponde ruttando a più non posso, non solo ad Atreju, ma anche in Parlamento. Mattarella si accorgerà di essere preso per i fondelli? Penso di sì e allora si consolerà nelle braccia del suo vice, il presidente del Senato, quel distinto signore che si chiama Ignazio La Russa. Lui sì che sa dialogare e rispettare gli avversari…

Biancagiorgia e la gente nana

Non c’è nulla di più insidioso per un governo di una baruffa strumentale tra i partiti di governo. E non per gli effetti politici che la lite produce ma per i danni che questa miscela corrosiva provoca nel rapporto con l’opinione pubblica. È chiaro che lo scontro dell’altro ieri in maggioranza non mette in discussione la stabilità dell’esecutivo e dell’alleanza, ma comporta intanto la perdita di una piccola quota del credito che i cittadini ripongono in chi è chiamato a risolvere i problemi e non a crearli. Giorgia Meloni è consapevole di questa condizione, primo stadio di una difficoltà che, se non venisse affrontata e risolta rapidamente, causerebbe danni molto più seri. Perché la dinamica del braccio di ferro nel centrodestra esplicita come le relazioni politiche siano prive della solidarietà che dovrebbe invece accomunare forze alleate. È evidente infatti che il taglio di venti euro del canone Rai proposto da Matteo Salvini non fosse la riduzione delle tasse che il Paese si aspetta. Semmai è parso un gesto teso a provocare il fallo di reazione di Forza Italia, perché il tema delle tv ha evocato il conflitto d’interessi e lo ha scaricato sul partito di Silvio Berlusconi sorretto oggi dai suoi eredi.

La reazione c’è stata ed è così che si è prodotto il cortocircuito in Parlamento: per la prima volta dopo due anni di governo, Meloni ha visto la sua maggioranza dividersi in un voto. E questi derby, di piccolo o grande cabotaggio a seconda delle opinioni, tolgono energie alla coalizione e distolgono l’attenzione dell’esecutivo dalle prove che lo attendono. Di più. Per Meloni inducono i cittadini a pensare che «ci risiamo», che anche stavolta sia come tutte le altre volte. Perciò la presidente del Consiglio vuole intervenire per non far passare questa tesi che considera una minaccia più di quanto oggi non le appaiano le battaglie dell’opposizione. Ma imporre una linea che sia condivisa dagli alleati vuol dire avere una soluzione che li soddisfi. Non è un problema di poltrone. Oggi il governo deve fare i conti con tre riforme che per ragioni diverse sono ancora ferme: dal premierato all’autonomia regionale, fino alla revisione del sistema giudiziario. (dal “Corriere della Sera” – Francesco Verderami)

Nel governo esistono idee confusamente diverse, dettate più da interessi elettorali che da analisi politiche. Ci sono due motivi per essere preoccupati. Il primo riguarda il non poter contare, in mezzo a mille difficoltà, su un governo degno di tale nome. Il “tanto peggio tanto meglio” non può funzionare, perché purtroppo al momento non esistono alternative, se non nella improbabile inventiva costituzionale ed emergenziale di Mattarella. Un governo fine a se stesso, equivale ad un non-governo, che è ancor peggio di un governo balordo.

Il secondo motivo di preoccupazione è relativo al fatto che la convinzione democratica del Paese è vacillante: la gente non si rende conto di quel che stiamo rischiando e tutto passa (quasi) inosservato. Non ho idea di quanto tempo occorrerà per destarsi dal sonno: solo un evento clamoroso, come fu per il covid, potrebbe dare uno scossone. I danni provocati dal governo Meloni saranno incalcolabili sul piano istituzionale, politico e programmatico. Il sindacato sta tentano di suonare la carica, ma temo finisca col provocare solo alibi repressivi e reazionari in capo al governo.

Non prendo in considerazione la portata politica dell’opposizione, tanto appare stucchevolmente modesta: stiamo interessandoci del duello fra Grillo e Conte, roba da matti! E allora? Non vedo altro che una paziente ed insistente resistenza culturale attiva a livello di base. Cosa voglio dire?  Parlare, discutere, dialogare, confrontarsi a livello di base su un piano pre-politico per affondare i colpi al momento opportuno: prima o poi non mancheranno le occasioni al di là dei dibattiti sempre più scontati e superficiali offerti dai media.

 

L’Europa e gli schizzi migratori siriani

Mentre il ministro degli Esteri Tajani, dando voce a preoccupazioni diffuse, chiede ai nuovi governanti siriani garanzie di rispetto dei diritti delle minoranze, tra cui quelle cristiane, il governo italiano chiude le porte ai richiedenti asilo provenienti da quel Paese. È il primo atto politico nei confronti del nuovo corso di Damasco, emanato beninteso in buona compagnia europea. Come se interessasse soltanto che da quel Paese non giungano più fastidiose richieste di protezione umanitaria. Invece di preoccuparsi dell’instaurazione di un regime democratico, impegnato nel rispetto delle libertà fondamentali e dei diritti umani, alieno da propositi di vendetta nei confronti degli ex oppressori, i governanti europei sembrano avere in mente un solo problema: fermare i flussi di profughi. Anche a costo di attribuire una patente di Paese sicuro a un regime che non ha ancora neppure cominciato a rivelare quali saranno le sue autentiche linee di condotta, mentre già giungono notizie inquietanti dal confine interno con la regione nord-orientale del Rojava sotto controllo curdo.

Come per altri tentativi di transizione da governi oppressivi a un nuovo ordine tutto da costruire, dall’Unione Europea non giunge una proposta ambiziosa e costruttiva, capace di combinare apertura politica, aiuti economici e garanzie democratiche. A noi sembra premere soltanto che non arrivino più rifugiati da accogliere. La scelta di una linea di respiro così corto da parte dei governi Ue appare ancora una volta dettata dalla percezione di un’opinione pubblica vista come ostile ai rifugiati provenienti dal Sud del mondo e incline ad appoggiare agende politiche sovraniste. I leader europei sembrano oggi soprattutto ansiosi di mostrarsi capaci di chiudere le frontiere a chi fugge, di ridurre l’accoglienza, di accrescere i respingimenti. Pure profughi come quelli siriani che, se riuscivano a toccare terra sul suolo dell’Unione, ottenevano quasi sempre lo status di rifugiati riconosciuti, sono diventati da un giorno all’altro falsi rifugiati e ospiti sgraditi. (dal quotidiano “Avvenire – Maurizio Ambrosini)

La visione internazionale italiana ed europea non brilla certamente per apertura e lungimiranza. La novità siriana ne è ulteriore dimostrazione. Ci sarebbe da preoccuparsi di tanti aspetti inquietanti derivanti dalla svolta siriana e allora tanto vale preoccuparsi di parare preventivamente gli schizzi migratori, facendo magari pagare un assurdo prezzo a chi è già e magari da parecchio tempo in attesa di essere regolarmente ospitato in Italia e in Europa. Sì perché questa disumana misura è stata concertata a livello europeo.

Che pena! Siamo in mano a governanti che non vedono oltre il proprio naso, senza cervello e senza cuore, che puntano immediatamente ed esclusivamente alla pancia. È farisaico preoccuparsi della democrazia altrui se non si fa nulla per aiutarla ad instaurarsi e crescere: cosa combineranno i nuovi governanti siriani? Si potrà aiutarli a desistere dagli intenti terroristici per approdare ad un regime democraticamente accettabile? Non ci si preoccupa nemmeno dei contraccolpi in chiave di terrorismo internazionale, meglio ripiegare sugli immigrati, argomento che fa cassetta elettorale.

A niente sembra valere l’eventuale prospettiva che da Libano e Turchia rientrino in Siria i rifugiati fuggiti dal regime di Assad: varrebbe forse la pena aspettare un attimo prima di sbarrare i confini che magari si potrebbero aprire in senso contrario. In materia di blocco degli immigrati la ragion non vale: basti pensare alla vergognosa manfrina dell’esportazione in Albania.

La filosofia meloniana, salviniana e ursuliana assomiglia molto a quella di un mio zio, che viveva e lavorava a Genova: quando tornava a Parma e incontrava gli amici di un tempo ricreava immediatamente il rapporto cameratesco condito dai ricordi. Al termine di questi fitti dialoghi sparava quasi sempre una simpatica battuta. Al momento dei saluti rivolto all’amico di turno, dopo avergli dato una pacca sulla spalla e/o avergli stretto calorosamente la mano, diceva: «Veh, arcòrdot bén, quand at me vól gnir a catär…sta a ca tòvva».

 

 

Ruffiani sì, Ruffini no

Le dimissioni di Ernesto Maria Ruffini dalla direzione dell’Agenzia delle entrate sono in un certo senso la sintesi delle contraddizioni di un sistema avviato a diventare sempre più un vero e proprio regime a cui danno fastidio i funzionari che rispondono alla propria coscienza e alla Costituzione e non agli indirizzi, peraltro sconclusionati, del governo.

Anche a prescindere dall’attuale momento politico, esiste un problema di compatibilità fra la dirigenza della pubblica amministrazione e la dirigenza governativa: difficile delineare regole e condizioni del rapporto tra chi governa e chi guida la macchina operativa dello Stato. La burocrazia tende ad essere autoreferenziale e a bypassare le fonti normative piegandole spesso alla propria continuità di vita. Il governo tende a considerare la burocrazia come terreno di conquista, come macchina da guidare a proprio uso e consumo e non nell’interesse pubblico.

Credo che Ruffini sia rimasto schiacciato in questa tenaglia esercitando un sacrosanto diritto di critica nei confronti degli indirizzi governativi in materia di lotta all’evasione, condotta a forza di condoni e tarpata da una concezione minimalista del fisco visto come elemento di disturbo della quiete pubblica e non come fattore di equità contributiva e di redistribuzione reddituale.

Resta da chiedersi il perché Ruffini sia riuscito a trovare un modus vivendi coi precedenti governi e abbia invece registrato un insopportabile cortocircuito con l’attuale compagine governativa e in particolare con i ministri di riferimento. Evidentemente è cambiata l’aria che è diventata irrespirabile per chi voglia mantenere un minimo di autonomia a livello professionale e dirigenziale. Questo clima è tipico dei regimi anti-democratici!

Male ha fatto però Ruffini ad offrire su un piatto d’argento le farisaiche motivazioni a chi lo voleva emarginare: il suo pur legittimo interesse alla politica spicciola ha scatenato un processo alle intenzioni teoricamente incompatibili col ruolo amministrativo ricoperto. Così facendo, chi aveva mille ragioni per segnare la propria autonomia di giudizio e di comportamento rischia di passare dalla parte del torto con buona pace per il governo e le sue scorribande fiscali.

Non sono per mia natura ed esperienza portato a santificare i pubblici operatori, mantenendo verso di essi un innato scetticismo, ma non posso accettare le intromissioni governative a loro carico, l’insofferenza alla loro professionalità se non condita con l’opportunismo. Di opportunismo in giro ce n’è parecchio, basti pensare alla Rai trasformata in bollettino meloniano con l’assenso dei giornalisti che legano l’asino dove vuole il padrone di turno.

Da bambino ho chiesto ripetutamente a mio padre di darmi alcuni ragguagli su cosa fosse stato il fascismo. Tra i tanti me ne diede uno molto semplice e colorito. Se c’era da scegliere una persona per ricoprire un importante incarico pubblico, prendevano anche il più analfabeta e tonto dei bottegai (con tutto il rispetto per la categoria), purché avesse in tasca la tessera del fascio e ubbidisse agli ordini del federale di turno. «N’ éra basta ch’al gaviss la tésra in sacòsa, po’ al podäva ésor ànca un stupidd, ansi s’ l’éra un stuppid, ancòrra méj…».

Per dirla con mio padre, evidentemente Ernesto Maria Ruffini non corrispondeva ai suddetti cliché e ha dovuto trarne le conseguenze. Auguro a lui un roseo futuro professionale. Quanto all’eventuale carriera politica che non gli può essere minimamente preclusa, non vorrei che diventasse la buccia di banana su cui far scivolare la sua esemplare dignità.

 

 

 

Il lagerismo all’italiana

È durissimo il giudizio del Consiglio d’Europa sui Cpr d’Italia. Non è una novità che si alzino voci di dissenso contro i Centri di permanenza per il rimpatrio ma è la prima volta che arriva un rapporto-choc dal Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa, organizzazione internazionale non Ue con sede a Strasburgo. Migranti maltrattati e sedati con psicofarmaci, l’organo anti-tortura del Consiglio d’Europa, non usa mezzi termini e afferma di «aver riscontrato diversi casi di presunti maltrattamenti fisici e uso eccessivo della forza da parte di agenti di polizia». Inoltre, nel report si rileva «la pratica diffusa della somministrazione di psicofarmaci non prescritti e diluiti in acqua, come documentato nel centro di Potenza». (dal quotidiano “Avvenire” – Daniela Fassini)

Il CPT non è un organo investigativo, bensì uno strumento non giudiziario, a carattere preventivo, destinato a proteggere le persone private della libertà dalla tortura e da altre forme di maltrattamenti. Affianca e completa in tal modo le attività giudiziarie della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Questa notizia da una parte mette i brividi e ci sprofonda nella più vergognosa delle inciviltà, dall’altra parte oserei dire che risulta quasi ovvia in un sistema che sopporta in genere una situazione carceraria insostenibile che si sta addirittura tentando di peggiorare (vedi trattamento delle madri incarcerate e dei loro figli in tenera età).

In poche parole, se trattiamo male i nostri connazionali, o comunque le persone soggette alla nostra giurisdizione, detenuti nelle patrie galere, figuriamoci come potremo trattare i migranti in attesa di essere rimpatriati. Come volevasi dimostrare. Con la differenza che i migranti non sono colpevoli di reati da galera, ma solo di aver tentato di introdursi nel nostro territorio, più o meno clandestinamente, in cerca di umana sopravvivenza.

Il suddetto Comitato ammette le difficoltà nella gestione dei Cpr, ma chiede almeno che esista un organo terzo che sovrintenda e che controlli sistematicamente le situazioni. Campa cavallo che l’erba (non) cresce.

Ora partirà la difesa d’ufficio. Le colpe, come al solito, ricadranno sulla Ue che non è capace di coordinare la gestione dei migranti, sulle Ong che proditoriamente salvano i migranti e ne incoraggiano il flusso, sui buonisti che vogliono accogliere tutti indistintamente.

Mi viene spontaneo fare un parallelo fra le torture gratuite che vengono inflitte agli animali destinati al macello e quelle riservate ai migranti destinati al rientro nella loro disgraziata patria. Già azzardare tale paragone è qualcosa di inumano, ma purtroppo penso sia drammaticamente realistico. Mia madre direbbe che queste persone vengono trattate “cme i rosp al sasädi”. E in questa metafora ci sono due livelli di inciviltà: il fatto di considerare i migranti come rospi, ma non basta perché c’è il seguito della sassaiola.

Dal momento che non li possiamo accogliere il buongusto vorrebbe che almeno li trattassimo decentemente in attesa di rimpatriarli. Nossignori, li accatastiamo come rifiuti in attesa del loro smaltimento.

Poi non possiamo più stupirci di niente, non possiamo gettare pietre contro le fosse comuni, contro gli eccidi, contro le torture perpetrate in altre zone calde del pianeta. Abbiamo i nostri abbondanti peccati che ce lo impediscono.

La rana e il bue

La più chiacchierata, la più discussa, la più invidiata indubbiamente è lei, considerata personaggio dell’anno e persona più importante d’Europa dall’autorevole testata americana: “Politico” che ogni anno stila la top ten dei personaggi più influenti del mondo. Giorgia Meloni arriva sul podio. E se a livello europeo la considerazione del nostro Presidente del Consiglio acquista punti, questo lo si deve al fatto che in un decennio da ultra nazionalista che era Giorgia Meloni è diventata primo interlocutore con cui sia Europa che Usa possono fare affari. Se sul web impazza il suo bacio con Elon Musk frutto di uno scherzo montato con l’intelligenza artificiale, c’è da dire però che se si vuole interloquire con il magnate americano e consigliere chiave del presidente eletto Trump, sicuramente un buon mediatore è la Meloni. Questa è la motivazione per cui, la testata americana Politico nella sua versione europea, attribuisce il titolo di “persona più potente d’Europa” al primo ministro italiano. Se prima le sue decisioni sulla politica migratoria e i diritti gay e lesbian erano condannate, adesso sono guardate con indifferenza e persino approvazione. La testata a stelle e strisce afferma che: “La Meloni ha fatto notizia in tutto il mondo quando è diventata la prima donna Primo Ministro italiano”, ma pochi avevano previsto che sarebbe durata a lungo in carica. Gli esperti si aspettavano che le lotte intestine avrebbero inevitabilmente diviso la sua coalizione di governo composta da partiti di destra e invece è ancora lì in piedi a navigare con il vento in poppa l’intricato esecutivo nazionale. E nel biennio appena trascorso stime alla mano e volenti o nolenti la premier italiana Giorgia Meloni ha consolidato il suo governo come uno dei più stabili esistiti nell’Italia del dopoguerra. (da “Lo Speciale”)

E allora io sono la persona più debole del mondo e me ne vanto. Sì, perché se Giorgia Meloni è potente, io voglio essere debole a tutti i costi. Non ho capito se ci sono seri motivi dietro questa cavolata mediatica americana. Qualcuno sostiene che si tratti di una sorta di investitura diplomatica propedeutica allo svolgimento della funzione di problematico raccordo fra lo sbracato populismo trumpiano e l’elegante populismo meloniano: il neo-atlantismo rivisto in chiave populista.

Qualcosa di vero probabilmente ci sarà complice il potere mediatico di Elon Musk. Aggiungo una mia insinuazione fantapolitica. Vuoi vedere che il patto tra Meloni e Von der Leyen prevede questa paraculata filoamericana? Un modo, per i politicanti europei, di coprirsi le spalle contro i pericoli socio-economici di origine trumpiana.  Un modo, per Giorgia Meloni, di coprire una smaccata opportunistica svolta internazionale: le porte girevoli, si esce da stanza Biden e si entra in stanza Trump.

Preferisco scherzarci sopra anche perché tutto ha un limite. La realtà mediatica si sta da tempo distinguendo dalla realtà politica: siamo arrivati al massimo della frattura. Il pallone si sta gonfiando a dismisura e prima o poi dovrà scoppiare come successe alla rana che voleva imitare il bue. Temo che la deflagrazione però non sarà indolore. Nell’attesa conviene fingere, abbozzare, esagerare: Giorgia Meloni è la più potente di tutti i tempi!

La civiltà dell’inferno

Dieci chilometri al largo di Lampedusa. Gridava aiuto nel buio della notte, aggrappata a due camere d’aria. Una bambina di 11 anni, che dice di chiamarsi Yasmine e di provenire dalla Sierra Leone, è stata salvata alle 3:20 di mercoledì 11 dicembre a dieci miglia da Lampedusa dall’equipaggio della nave Trotamar III, dell’organizzazione non governativa tedesca Compasscollective. La piccola ha raccontato di essere sopravvissuta per tre giorni in mare dopo il naufragio del barchino su cui viaggiava con altre 44 persone, tra cui suo fratello. La carretta del mare sarebbe partita da Sfax, in Tunisia. Pare essere l’unica sopravvissuta: gli altri migranti sono, al momento, dispersi. (da wired.it)

Non indulgo a istintive ed emotive espressioni e non mi interesso all’inchiesta che vorrebbe appurare la verità sulla vicenda di questo ennesimo naufragio. Preferisco rifarmi al breve commento rilasciato da Massimo Cacciari durante la presentazione del suo libro “La passione secondo Maria” avvenuta nel programma Rai “Quante storie”: un libro che analizza in modo stimolante ed affascinante la figura di Maria madre di Gesù, lasciandosi guidare soprattutto ma non solo dal dipinto della Madonna del parto di Piero della Francesca.

Dopo aver visto la foto del drammatico salvataggio di questa bambina il noto filosofo ha dichiarato testualmente: «Da vent’anni assistiamo a queste cose e anche più, c’è un trauma, uno choc iniziale e poi non si riflette. Se questo è il nostro modo di accogliere e di donare, a quale civiltà apparteniamo? Alla civiltà emergente dalle immagini di Maria o all’inferno. Di chi siamo figli?».

Da credente mi trovo perfettamente in linea con queste ficcanti parole di un laico. Aveva ragione il cardinale Carlo Maria Martini quando affermava: «C’è in noi un ateo potenziale che grida e sussurra ogni giorno le sue difficoltà a credere».

Don Andrea Gallo diceva: «Io trovo del cristianesimo negli altri, trovo del cristianesimo nell’ateo… cioè la buona novella. Chi mi dà una buona notizia è un evangelista».

Quanto al merito del commento di Massimo Cacciari, vorrei sottolineare come egli abbia colto il nocciolo del problema dell’accoglienza ai migranti: una questione di civiltà. Se ci riteniamo persone civili abbiamo l’obbligo di rapportarci ai migranti in modo serio, diversamente cadiamo nell’inciviltà camuffata da realismo, da stato di necessità, da gestione dei flussi, da guerra agli scafisti, da politica europea, etc. etc. Tutte balle che stanno in poco posto. Il discorso vale per tutti, a maggior ragione per chi si considera cristiano.

Infatti «il cristiano non potrà mai accettare che carità fraterna, solidarietà, accoglienza siano variabili da sottomettere alle necessità della realpolitik» (Enzo Bianchi, Priore della comunità monastica di Bose).

 

 

 

 

Si muore anche di sanità pubblica

Non saprei come definire il sistema socio-politico americano: liberista? liberale? capitalista? consumista? tecnocratico? Di tutto un po’ in salsa populista trumpiana.

Ebbene questo tanto osannato sistema (non certo da me!) in questi giorni ha mostrato in modo paradossale i suoi limiti: il killer di un autorevole esponente della sanità privata ha sparato anche un implacabile atto d’accusa contro il contraddittorio, ingiusto, inaccettabile assetto sanitario degli Usa.

Interventi per cancro negati. Chemioterapia non rimborsata. Anziani dimessi prima del tempo e contro il parere dei medici. E rabbia, tanta rabbia. L’arresto del presunto killer del Ceo di United Healthcare, identificato come Luigi Mangione, un 26enne di origini italo-americane, incriminato per 5 reati, non ha messo un coperchio sul vulcano di frustrazione esploso dopo l’esecuzione a sangue freddo, nel centro di Manhattan, di Brian Thompson mercoledì scorso. Perché le emozioni contro le mutue private Usa sono in ebollizione da anni. (dal quotidiano “Avvenire” – Elena Molinari)

Al paradosso di uno Stato libero che uccide i suoi cittadini negandogli assistenza sanitaria risponde il paradosso di una protesta che uccide le persone simbolo del sistema sanitario. Occorre arrivare a tanto per mettere in evidenza le cose che non vanno? Se è così, c’è qualcosa che non va nella cosiddetta più grande democrazia del mondo. Non c’è alcuna garanzia che alle ingiustizie di base ci si possa opporre in modo non violento sul piano sociale e non demagogico sul piano politico? Dove stanno i diritti della persona umana? Nelle titubanze colpevoli di Biden e nelle delinquenziali fanfaronate di Trump?

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione della Giornata mondiale dei Diritti Umani ha rilasciato la seguente dichiarazione: «Nella vita della comunità internazionale, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, adottata all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, rappresenta una tappa fondamentale, riconoscendo l’insopprimibile dignità della persona, principio che ispira la nostra Costituzione. Nonostante la sottoscrizione della Dichiarazione da parte degli Stati aderenti alle Nazioni Unite, i diritti umani continuano a essere minacciati e violati in diverse parti del mondo. Violenze e abusi nei confronti delle donne, dei bambini e dei soggetti più fragili sono accadimenti quotidiani, soprattutto laddove sono in corso conflitti armati. In alcuni Paesi le più elementari libertà democratiche sono brutalmente ignorate, e perfino l’esercizio del voto – cardine di ogni democrazia – è vanificato. In una congiuntura internazionale caratterizzata da crisi occorre ribadire la necessità della tutela dei diritti di ogni persona, in ogni circostanza. In occasione della Giornata che sottolinea la centralità dei diritti umani, la Repubblica riafferma il valore delle norme del diritto internazionale e del diritto internazionale umanitario, senza le quali è illusoria ogni prospettiva di pace duratura e di sviluppo dei popoli».

Non credo che Mattarella si riferisse anche agli Usa, personalmente invece sono portato ad allargare il discorso anche a chi fa finta di difendere i diritti umani per poi metterseli bellamente sotto i piedi. Negli Usa i malati si devono arrangiare, i cittadini si devono guardare dalla tremenda invadenza delle forze di polizia, gli inermi si devono dotare di giubbotti antiproiettile contro un uso permissivo delle armi.

In materia di diritti umani, chi è senza peccato scagli la prima pietra. Se poi andiamo sul terreno dei rapporti internazionali, non ne usciamo vivi. Non intendo divagare strumentalmente. Cosa voglio dire? Che la democrazia è lungi dal trovare attuazione nel sistema capitalistico occidentale di cui gli Usa sono storicamente gli antesignani.

Recentemente una persona amica mi ha definito socialista-socialista-socialista. Ebbene mi ha fatto un grande complimento. Sono socialista dal punto di vista etico (i diritti umani appunto… e accoglienza verso chi soffre), sono socialista a livello dei rapporti fra le persone (massima considerazione per i sindacati dei lavoratori e per tutte le forze intermedie della nostra società), sono socialista sul piano politico (non partitico) nel senso che credo nell’intervento dello Stato nella soluzione dei problemi sociali (disoccupazione, sicurezza nel lavoro, emancipazione femminile, etc. etc.), sono socialista finanche nel coniugare la mia fede cristiana con l’impegno a favore del mio prossimo.

A questo punto non posso esimermi dal fare riferimento all’eredità culturale proveniente da mio padre, che era a tutti gli effetti un socialista dal volto umano.

Devo dire, ad onor del vero, che mio padre non ebbe mai in tasca tessere di partito: da quanto diceva al riguardo ho dedotto che non fosse assolutamente una scelta qualunquistica, ma al contrario un modo per mantenere intatto il suo incontenibile spirito critico e per dare sfogo al suo libero pensare.

Mio padre non era fatto per il gioco di squadra, non accettava schemi precostruiti, non era un militante. Temeva (aveva quasi un complesso al riguardo) i fanatismi, forse perché ne aveva visti troppi, e quindi riteneva di non rischiare non aderendo ad alcun partito politico. Questo non gli impediva di elaborare le proprie scelte, di esprimere le proprie idee e di partecipare al voto (cosa che aveva fatto con coraggio anche con gli addomesticati referendum del regime fascista, votando regolarmente “no”). Non condivideva le scelte, di mia sorella prima e mie poi, di adesione alla Democrazia Cristiana: non andava oltre un bonario scetticismo e le solite innocue battute satiriche.

Sul presunto socialismo di mio padre, sempre ad onor del vero, non ho mai avuto alcun preciso riscontro in merito,  ho dedotto dal suo modo di pensare e dal suo comportamento che fosse un “nenniano”, vale a dire un socialista autonomista: una notevole ammirazione per Pietro Nenni era facilmente desumibile da come ne commentava i comizi (allora era quello il modo di comunicare per un politico), ma credo fosse stato assai deluso dal vizio storico dei socialisti italiani  di legarsi  acriticamente al carro comunista prima e di giocare al miglior offerente tra comunisti e democristiani poi.

Quindi era un socialista senza socialismo ed anche questo lo si deduceva da come spesso sintetizzava la storia della sinistra in Italia, recriminando nostalgicamente sulla mancanza di un convinto ed autonomo movimento socialista, che avrebbe beneficamente influenzato e semplificato la vita politica del nostro paese.

Se era sferzante verso i sistemi di stampo comunista, lo sarebbe ancor oggi altrettanto verso le incongruenze del sistema capitalistico in nome appunto della sua opzione socialista con qualche innocua e simpatica venatura anarchica.

Quindi sono figlio di mio padre e faccio molta fatica a sopportare i meccanismi del capitalismo, vale a dire della nostra società sazia (?) e disperata (!).

Sono partito dalla enorme pecca della sanità negli Usa e chiudo con quello che era fino a qualche tempo fa il fiore all’occhiello del welfare italiano (un deferente pensiero a Tina Anselmi che fu artefice a livello governativo della riforma sanitaria). Oggi in Italia la sanità pubblica sta andando a pezzi a favore della sanità privata (gli Usa purtroppo fanno scuola).  Cosa si aspetta ad intervenire prima che sia troppo tardi? In occasione della pandemia da Covid la questione era esplosa in tutta la sua gravità. Aspettiamo la prossima pandemia? Magari quella che si intravede (speriamo non sia così) dalla malattia proveniente dal Congo?

Piromani di tutto il mondo scatenatevi

Ad ogni giorno (non) basta il suo casino internazionale. Ultimo per chi batte, l’inghippo siriano, autentico caleidoscopio conflittuale in cui si intersecano i contrasti tra tutte le potenze che da tempo immemorabile soffiano su questo fuoco.

Finito il turno di Assad, sembra essere iniziato quello di una imperscrutabile (almeno per il momento) rivoluzione terroristica, ma non sarà la volta buona, i giochi resteranno aperti e su di essi si sfogheranno un po’ tutti alla ricerca dei loro sporchi interessi. Non è da escludere che in futuro si possa rimpiangere Assad: è già successo con altri dittatori.

Il disordine mondiale aumenta sempre più, impazza e sembra non lasciare scampo. A livello occidentale solo la Ue potrebbe tentare di dipanare la matassa, ma non ha la compattezza, non ha la dirigenza, non ha la lungimiranza strategica e nemmeno l’abilità tattica.

Meglio allora lasciar fare a Donald Trump: lui sì che se ne intende! Pensiamo di spegnere il fuoco con la benzina e speriamo di non scottarci. Non mi stupirei che il futuro presidente Usa, nonostante l’antiterrorismo di facciata, avesse in testa di appoggiare strumentalmente i ribelli siriani in chiave anti-Russia e anti-Iran, lasciando fare magari il lavoro sporco a Israele che muore dalla voglia di intervenire. La Turchia dovrebbe stare coi ribelli, mettendo in imbarazzo la Nato, anche se una Nato forte val bene una messa turco-siriana.

Ho dato solo alcune pennellate paradossali in una tela dove tutto può essere dipinto. Torno alla casa comune europea. Qui la padrona è, scusate la volgarità, Ursula von der Kazzen (non è mia, è di un mio simpatico ed intelligente amico che non ne ha preteso il copyright) con la sua batteria di commissari allo sbaraglio. Trump, Putin e c. questi signori se li mettono in tasca e li tirano fuori per assestare loro le botte al momento giusto. L’Europa si guarda l’ombelico, mentre i potenti (?) mostrano ben altri attributi.

Dopo l’ingresso dei ribelli jihadisti a Damasco e la caduta del regime di Assad, l’intero quadro politico e militare del Paese sembra sospeso sul caos. Cosa accadrà? La polverizzazione del regime siriano, e il ridefinirsi del puzzle delle alleanze, a cosa condurrà? Per ora c’è una sola certezza: siamo davanti a un salto nell’ignoto. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha convocato per oggi una riunione straordinaria. Il responsabile per i diritti umani delle Nazioni Unite, Volker Turk, durante una conferenza stampa alla vigilia della Giornata internazionale per i diritti umani ha sottolineato come “bisogna prendere tutte le misure per proteggere le minoranze siriane ed evitare rappresaglie”. (dal quotidiano “Avvenire”)

Dopo il danno anche la beffa dell’intervento a cose fatte del sempre più imbelle Onu, che fa finta di preoccuparsi delle minoranze, le quali stanno fresche se aspettano l’Onu, fanno in tempo ad essere tutte massacrate e sacrificate sullo spettacolare altare siriano.

«Parlèmma ‘d robi alégri» intimarono gli amici di mio padre alla compagnia in vena di discorsi penosi: uno di loro, accettando il perentorio invito, rispose: «Co’ costarala ‘na càsa da mòrt?». Provo a parafrasare questo dialogo: «Parlèmma ‘d päza!». «Quand scoppiarala la pròsima guéra?».

 

Il manto rituale dell’ignoranza

In questi giorni c’è stata la concomitanza di tre eventi: la riapertura della restaurata cattedrale parigina di Notre-Dame, l’inaugurazione della stagione lirica alla Scala di Milano, la celebrazione del Concistoro per l’investitura ufficiale di nuovi cardinali.

Avvenimenti diversi, a loro modo significativi, in tutti i casi interessanti. Mi è venuto spontaneo individuare un filo che li (col)legasse. L’ho trovato nelle più bieca, vuota e fuorviante delle ritualità.

A Notre-Dame si doveva celebrare la festa dell’arte ripristinata in tutto il suo splendore: è diventata la penosa passerella dei potenti (?) della terra, che facevano finta di salutarsi e scambiarsi qualche parola importante per il futuro dell’umanità.

Alla Scala di Milano si doveva partecipare ad un ragguardevole evento musicale in onore di Giuseppe Verdi e del melodramma: è stata la solita festa mondana in cui la musica e il canto erano il pretesto per ben altre disgustose ostentazioni.

Alla Basilica di San Pietro si doveva pregare per e con i nuovi cardinali: invece la solita insistente ed irritante parata liturgica vaticana (se tanto mi dà tanto, chissà cosa succederà all’apertura e durante il Giubileo…). Una piccola digressione anticlericale richiamando a proposito di cardinali una gustosa barzelletta (bisogna anche sorridere…).

“Dio Padre osserva, con attenzione venata da una punta di scetticismo, l’attivismo dei cardinali di Santa Romana Chiesa, ma non riesce a capire fino in fondo lo scopo della loro missione. Con qualche preoccupazione decide di interpellare Dio Figlio in quanto, essendosi recato in terra, dovrebbe avere maggiore dimestichezza con questi importanti personaggi a capo della Chiesa da Lui fondata. Dio Figlio però non fornisce risposte plausibili, sa che sono vestiti con tonache di colore rosso porpora a significare l’impegno alla fedeltà fino a spargere il proprio sangue, constata la loro erudizione teologica, la loro capacità diplomatica, la loro abilità dialettica, ma il tutto non risulta troppo convincente e soprattutto rispondente alle indicazioni date ai discepoli prima di salire al cielo.  Anche Dio Figlio non è convinto e quindi, di comune accordo, decidono di acquisire il parere autorevole di Dio Spirito Santo, Lui che ha proprio il compito di sovrintendere alla Chiesa.  Di fronte alla domanda precisa anche la Terza Persona dimostra di non avere le idee chiare, di stare un po’ troppo sulle sue ed allora il Padre insiste esigendo elementi precisi di valutazione, minacciando un intervento diretto piuttosto brusco e doloroso. A quel punto lo Spirito Santo si vede costretto a dire la verità ed afferma: «Se devo essere sincero, anch’io non ho capito fino in fondo cosa facciano questi signori cardinali, sono in tanti, ostentano studio, predica e preghiera. Pregano soprattutto me affinché vada in loro soccorso quando devono prendere decisioni importanti. Io li ascolto, mi precipito, ma immancabilmente, quando arrivo col mio parere, devo curiosamente constatare che hanno già deciso tutto!»”.

Torno a bomba, vale a dire alla ritualità che tutto copre col suo manto e tutto riempie col suo vuoto pneumatico. Dell’arte non frega niente a nessuno; della musica invece pure; della religione, lasciamo perdere. Hanno trionfato e trionfa la politica fine a se stessa, ha prevalso e prevale l’istinto autocelebrativo, è passata e passa l’idea di una religione avulsa dalla realtà evangelica.

Se l’arte, la musica e la religione le riduciamo a questi minimi termini, cosa sarà della politica? Forse resterà solo l’ignoranza. Mi hanno detto che su internet gira una (quasi) barzelletta in cui Trump, imbucato di lusso a Notre-Dame, si sarebbe stupito della presenza della presidentessa della Georgia, Stato europeo confuso con lo Stato Usa, e si sarebbe chiesto: “Ma cos’ha combinato Biden con la Georgia? Ha creato uno Stato nello Stato? Dovrò correre ai ripari, prima di avere una concorrente in casa…”.

A proposito di ignoranza, c’è da considerare anche quella dettata dall’opportunismo. In questi giorni, ascoltando e leggendo i pareri degli addetti ai lavori, mi è parso che, dopo l’iniziale choc per l’elezione di Donald Trump con le conseguenti perplessità e preoccupazioni, sia subentrata, da una parte, una sorta di rassegnazione al peggio a cui non c’è limite, dall’altra parte la inconfessabile speranza che fra delinquenti, tutto sommato, ci si possa intendere. Ogni riferimento a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale (o causale?).

In questi giorni mi è stato acutamente ricordato che nell’uomo il cuore è situato circa a metà strada fra cervello e pancia, lasciando intendere che occorrerebbe trovare un equilibrio virtuoso fra questi tre stadi della vita umana. Ebbene con ogni probabilità in questa fase storica prevale ( a dir poco), a livello di classe politica, la parte bassa, vale a dire la pancia.