Ossigeno etico-politico in pillole

Oggi cedo la parola ad un amico col quale da tempo ho aperto un proficuo dialogo a trecentosessanta gradi e che mi regala preziose perle di politica spesso coniugata con l’ispirazione religiosa.

Quindi ritengo opportuno fare riferimento ai preziosi, acuti e provocatori messaggi che mi invia il caro amico Pino, mandandomi autentiche ventate di aria fresca e pulita, proveniente dal passato, ma capace di mettere a soqquadro il presente. Li riporto di seguito in ordine sparso: pillole che rientrano però in una organica terapia disintossicante rispetto alla infettiva narrazione che ci viene propinata.

Nel bel mezzo del “casino” del riarmo Nato, propongo due gesti programmatici: un “rutto” a Rutte (segretario generale della Nato) e uno “sberleffo” alla statista Meloni (NdR: diranno che è istigazione a perseguitare la nostra premier, insuperabile nella sua verve vittimista).

Nel casino totale mi chiedo dove sia finito Mario Draghi, scomparso dalla scena, mentre Trump e Putin stanno trascinando le “nazioni” in una economia di guerra.

Nel 1969 Giorgio La Pira, al Comitato per il disarmo, affermò che andavano denuclearizzati l’Europa e il Mediterraneo, togliendo la Nato e il Patto di Varsavia e piantando, a servizio dei popoli del Terzo Mondo e di tutti i popoli della terra, la tenda della pace! Il sogno che parte dal profeta Isaia e che deve ancora attuarsi. Preghiamo e speriamo!

Gli Stati si comportano come se la storia fosse opera dell’uomo ed ignorano che essa è fondamentalmente opera di Dio (così pensava Giorgio La Pira). La storia umana è mossa da un vento misterioso ma effettivo, lo Spirito di Dio, ecco il perché del valore incalcolabile della preghiera.

Speriamo che papa Prevost prenda le giuste misure alla Meloni, non si faccia intortare, perché la Meloni è una “intortatrice” di papi. Prima Francesco, adesso ci prova con Prevost.

Manca il laicato cattolico: pensiamo al rapporto franco De Gasperi-Pio XII e La Pira-Paolo VI. Quelli erano cattolici con le palle. Ora il tessitore è Alfredo Mantovano per conto di Giorgia Meloni. Pensiamo a come La Pira metteva a tacere quel mezzo liberale di don Sturzo. Ci siamo abituati alla mediocrità…

Parole di Giuseppe Dossetti sulla Costituente: “la collaborazione con l’intelligenza acuta e pensosa di Aldo Moro e il confronto con Lelio Basso e soprattutto con Palmiro Togliatti, che – pur nella diversità della concezione generale antropologica e quindi politica – molto mi arricchì con la sua vasta esperienza storica e con la sua passione per un rinnovamento reale del nostro Paese rispetto alla situazione prefascista…è incalcolabile quello che debbo alla fraternità e alla inesausta capacità di speranza e di amore di Giorgio La Pira, al suo fascino di purezza e di contemplazione” (dal libro “Giuseppe Dossetti. Con Dio e con la storia”).

Resta per me un mistero cosa aspettino in Vaticano a spingere per la beatificazione di Giorgio La Pira…ci deve essere di mezzo qualche ultraconservatore…

Valori no, interessi forse, ricatti sì

Ecco come funziona veramente la geopolitica. C’è una lezione canadese che vale un po per tutti noi. Dunque, Mark Carney, il premier canadese, era stato presentato come il leader della riscossa nazionale contro Donald Trump, contro le offese e le arroganze, le minacce del vicino di casa grosso e prepotente. Mark Carney, in realtà ha appena fatto una spettacolare retromarcia. Aveva annunciato una tassa digitale che di fatto era una tassa sui giganti di Big Tech americani, perché quelli dominano il settore digitale.

Trump aveva minacciato, come ritorsione, di cancellare l’accordo sul commercio bilaterale e Carney, il premier canadese, ha fatto subito marcia indietro. Ha rinunciato alla tassa digitale. Si può interpretare questo episodio come un ennesimo caso di cedimento di fronte alla legge del più forte, di fronte all’arroganza, alla prepotenza. Ma in realtà è una lezione di come funziona veramente la geopolitica, dove contano i rapporti di forza e più della buona morale o dei buoni sentimenti.

Questo va anche a giustificare, tra l’altro, il comportamento dell’Unione Europea in questa fase delle trattative commerciali con Washington. Molto pragmatico, molto prudente. Ogni tanto delude certi commentatori che vorrebbero un’Unione europea più battagliera, più cattiva nei confronti degli Stati Uniti. Ma le regole del gioco sono quelle da sempre. Nel caso Stati Uniti, Canada il comportamento è stato molto logico da ambo le parti.

Donald Trump è stato eletto per difendere gli interessi degli Stati Uniti. In questo caso ha difeso gli interessi dell’industria nazionale contro una tassa che sarebbe stata punitiva. Carney è stato eletto anche lui per difendere gli interessi canadesi e, naturalmente, soppesando i vantaggi che ricavava dalla tassa digitale, gli svantaggi, i costi, i danni da una rottura dell’accordo commerciale con gli Stati Uniti ha preferito rinunciare alla tassa digitale.
Così funziona il mondo, che ci piaccia o no. (Federico Rampini / CorriereTv)

Ci sono tre modi per impostare i rapporti fra gli Stati: basarsi sui valori provenienti da comuni visioni democratiche, mettere meramente in gioco gli interessi reciproci, far prevalere la potenza a livello di veri e propri ricatti. In questa fase storica se i valori non contano una cicca frusta, persino gli interessi non vengono discussi e confrontati per arrivare a soluzioni di compromesso; si va dritti all’applicazione del criterio della bilancia, quella dell’episodio in cui il capo gallo Brenno, dopo aver sconfitto i Romani e occupato Roma, pretese un riscatto in oro. Durante la pesatura dell’oro, Brenno aggiunse il peso della sua spada, esclamando “Vae victis!” (Guai ai vinti!). Questo episodio, narrato da Tito Livio, simboleggia la sconfitta romana e la crudeltà della vittoria gallica.

E ci dovremmo rassegnare, più cinicamente che pragmaticamente, ad un simile funzionamento della geopolitica? Contro la forza la ragione non vale? Non c’è spazio per la discussione, per il dialogo, per il confronto: tutto viene risolto in base alla legge del più forte. È la fine della politica che dovrebbe tenere conto della forza delle idee: nella deriva populista vince e decide tutto chi ha più voti (non importa come raccolti e come pesati), le istituzioni democratiche diventano una mera pantomima, il popolo si illude di decidere mentre in realtà consegna soltanto una delega in bianco; nell’impostazione sovranista ogni Stato si chiude a riccio e si illude di contare qualcosa mentre in realtà subisce i diktat del più forte.

Queste sono le scorciatoie anti-democratiche che vanno sempre più di moda. L’Europa, in questo desolante quadro. dovrebbe inchinarsi a questa imprescindibile logica, abbandonando ogni e qualsiasi intento di comune difesa dei valori e finanche degli interessi per ripiegare sulla difesa armata quale unica modalità per non arrendersi allo strapotere (certo) economico statunitense e a quello (ipotetico) militare russo?

L’Inghilterra ha scelto di andare per la tangente, la Germania mette in campo la sua residua forza economica, la Francia accarezza i soliti sogni di grandeur, l’Italia fa l’Italia e dà un colpo al cerchio europeo e un colpo alla botte americana, i Paesi dell’Est europeo hanno munto ben bene la vacca e ora giocano in modo piuttosto sporco a fare i populisti e i sovranisti scopiazzando un po’ Putin e un po’ Trump.

Mi dispiace per Federico Rampini, ma un mondo che funziona così non mi piace, non lo accetto e spero che prima o poi imploda. Il problema saranno i tempi e i modi dell’implosione. Tempi lunghi in attesa del risveglio delle coscienze e persino dei portafogli. Modi che purtroppo potrebbero consistere in bagni di sangue sempre più invasivi e pervasivi.

Tragedia americana e commedia italiana

Wag the dog, ovvero: «Fai scodinzolare il cane», creando l’illusione che sia la coda a far muovere il cane e non viceversa. La metafora si attaglia a meraviglia alla drammatica situazione a Los Angeles e San Francisco (ed altre città americane), dove migliaia di soldati della guardia nazionale, settecento marine in assetto di guerra, blindati per le strade e droni militari nei cieli sono stati chiamati direttamente da Donald Trump per reprimere la «rivolta» esplosa nel cuore della California per difendere gli immigrati dai raid ordinati da Washington. Los Angeles brucia e il ricordo dei disordini per la morte di Rodney King del 1992 non è poi così lontano. Solo che stavolta c’è il trucco di un illusionista.

(…)

Un caos gestito a fini mediatici che non fa che rafforzare l’immagine – ma diciamo pure la deriva – di un presidente-autocrate che dalla turbolenza delle piazze ricava la legittimità a spazzare via il pericolo-immigrati, vuoi con il transito temporaneo (sempre che lo sia) di centinaia di irregolari a Guantanamo, vuoi con la crescente repressione violenta delle manifestazioni pacifiche.

Cose che, tutte quante, erano state previste e modellate nel famigerato Project 2025 – il manifesto di destra della Heritage Foundation cui si ispirano Trump e il suo redivivo sodale (e avversario mortale di Elon Musk) Steve Bannon – nel quale si promuove la necessità di ricondurre l’intero potere esecutivo dello Stato federale sotto il controllo diretto del presidente, assumendo la guida di tutti i ministeri e di tutte le diciotto agenzie federali per la sicurezza (dalla Cia all’Fbi alla Nsa), riducendo drasticamente il welfare e promuovendo la deportazione in massa dei clandestini, degli illegali e di coloro che non hanno ancora maturato i diritti di permanenza sul suolo americano. Uno dei capitoli-chiave di Project 2025 si intitola “Riprendere il Paese dalla sinistra radicale”. Ed è quello che, fra un’ondata di arresti e l’altra, Donald Trump sta facendo. Con l’aiuto cruciale del disordine che sta infiammando le piazze. Inconsapevoli comprimarie di un disegno accuratamente ideato a tavolino. (dal quotidiano “Avvenire” – Giorgio Ferrari)

Quanto sta succedendo negli Usa, come si è (quasi) sempre verificato nel bene e nel male, è di ispirazione e di esempio per il nostro Paese?

Il cosiddetto premierato non è forse la morbida strada per ricondurre il potere esecutivo sotto l’egida del presidente e per condizionare in modo esiziale tutti gli altri poteri dello Stato?

Non c’è in atto un ridimensionamento del welfare, basti pensare alla sanità pubblica ridotta ai minimi termini, seppure camuffato all’italiana, vale a dire con la tipica falsa socialità della destra estrema sbandierata corporativisticamente con reiterati interventi strappa-applauso rivolti a platee compiacenti?

Non assomiglia alla deportazione il progetto, peraltro fallito prima di partire, di trasferimento in Albania degli immigrati più o meno irregolari? E i respingimenti di salviniana paternità? E la volontà di ridimensionare le ong impegnate nel salvataggio dei naufraghi? Non sono tutti inquietanti elementi di una strategia di muro all’immigrazione?

E che dire del tentativo di silenziare le proteste, di squalificare aprioristicamente le critiche, di criminalizzare le diversità, di gridare al complotto, di ridurre l’informazione pubblica a mera cassa di risonanza del potere inteso in senso più presidenziale che governativo? Non sono tutti escamotage rientranti nella solita manfrina dell’assimilazione di ogni e qualsiasi dissenso al comunismo strisciante?

E l’ossessionante puntare sul fuoco dell’insicurezza per offrire false sicurezze a suon di reati sparsi a piene mani, l’enfatizzazione di ogni piccolo disordine come attentato all’ordine pubblico non sono il presupposto per giustificare svolte antidemocratiche o per introdurre nella mentalità della gente subdole motivazioni al fine di sostituire più o meno gradualmente la difficile scelta democratica con il facile e sbrigativo regresso autoritario?

Come spesso accade l’imitazione è peggio dell’originale, infatti mentre Trump fa paura, Meloni fa pena, circondata da una classe dirigente squallida, costretta a fare i conti con una snervante rissosità all’interno della sua maggioranza, costantemente ed unicamente preoccupata della propria immagine e di verificarsi allo specchio quale donna più ammirabile del mondo politico.

Guardando agli Usa si assiste ad una vera e propria tragedia in cui sta morendo la democrazia, guardando all’Italia si vede, almeno per ora, una commedia tendente alla farsa, in cui la democrazia viene presa letteralmente in giro. La tragedia può trasformarsi in commedia, ma può succedere che la commedia si muti in tragedia.

La pace è un valore assoluto e irrinunciabile

La corsa al riarmo dell’Europa sembra essere ineluttabile, ma più che i propositi bellicosi in questa fase preoccupano le parole d’ordine. Non che i fatti delle ultime ore, messi in fila, non appaiano preoccupanti: solo ieri il cancelliere tedesco, Friedrich Merz, ha spiegato la decisione di Berlino di togliere limitazioni alla gittata delle armi vendute all’Ucraina come un allineamento del suo Paese alle scelte di altri partner europei, proprio mentre il Consiglio Ue dava il via libera al primo grande programma di investimento militare comunitario, il cosiddetto programma Safe, pari a 150 miliardi e destinato agli Stati membri che intendono rafforzare le proprie capacità in settori come la difesa missilistica e i droni.

Progetti e risorse destinate a cambiare per sempre l’economia del Vecchio continente. Davvero ci stiamo preparando ad abbandonare l’epoca gloriosa del welfare state per passare al warfare state? Dallo stato sociale a uno stato di guerra? Come ha ribadito ieri il presidente della Cei, cardinale Matteo Zuppi, nella sua Introduzione ai lavori del Consiglio permanente, «non possiamo non ribadire che la produzione industriale che vuole riconvertire in armi alcune delle aziende in crisi non fa bene né alla nostra economia né al mondo». Ma che ne pensano, in tutto questo, le opinioni pubbliche del vecchio Occidente?

(…)

L’insensata cavalcata bellica pare essere una strategia decisa a tavolino dalle cancellerie e dai palazzi del potere e il paradosso è che ciò sta avvenendo nel momento di maggior fulgore dell’avanzata populista. Proprio adesso che i leader si fanno vanto di interpretare gli stati d’animo genuini dei loro popoli, si avverte ancor più nettamente lo strappo tra le élite e la base che si voleva ricomporre. L’orrore per quanto sta avvenendo a Gaza e lo stato di assuefazione per la guerra in Ucraina, di cui ancora non si vede la fine, hanno avuto l’effetto di ricompattare tante persone di buona volontà cresciute in tempo di pace, ostili per formazione e per cultura ai nuovi slogan.

(…)

È inutile applaudire all’invito alla «pace disarmata e disarmante» di Papa Leone XIV se poi si procede in direzione contraria. Varrebbe forse la pena ascoltare i racconti di chi opera negli scenari di guerra per far tacere le armi. In questi giorni abbiamo visto in Italia lenzuola bianche esposte ai balconi per le vittime della Striscia, abbiamo assistito ai digiuni di solidarietà attuati dai sindaci, abbiamo raccolto proposte su ponti umanitari necessari a salvare i superstiti delle bombe in Medioriente. Ecco: sono questi segnali di ribellione civile, composta ma dignitosa, i pilastri su cui costruire una nuova architettura di pace. Nulla, per fortuna, è ancora perduto. (dal quotidiano “Avvenire” – Diego Motta)

Le opinioni pubbliche vanno in senso opposto rispetto ai governanti, ma i governanti sembrano fregarsene altamente. Fino a quando? Attualmente la prospettiva bellica non scalda i cuori come purtroppo avveniva un tempo.

Resta però un inquietante interrogativo: come mai la gente, che sembra prevalentemente e fortemente ostile alla logica bellica che sta imperversando, quando si tratta di andare al voto, concede così tanta preferenza per i partiti politici inguaiati nel pragmatismo se non addirittura nel fanatismo bellico? Voglio sperare che non esista una divaricazione nelle coscienze: ripudio della guerra a livello personale e sociale, accettazione della guerra a livello politico, come se la politica dovesse viaggiare necessariamente su un altro binario rispetto alla volontà popolare. In teoria siamo contrari, ma in pratica…

I governanti tendono furbescamente a squalificare le proteste di piazza, bollandole come sfogatoio di insensati visionari e di utili idioti. È comodo prendere a riferimento un gruppo di facinorosi per infangare una massa di cittadini che protesta civilmente. È altrettanto comodo assimilare i pacifisti ad irragionevoli venditori di fumo, dividere la gente fra buonisti e realisti.

La premier Giorgia Meloni ha rispolverato il famoso detto “si vis pacem para bellum” per giustificare la insensata scelta riarmista italiana: nemmeno mediata dalla necessità di una fantomatica difesa comune europea, ma situata nella logica di rispondere a livello nazionale alle provocazioni trumpiane in sede Nato.

La narrazione prevalente a livello politico europeo è quella di stare dalla parte del manico riarmista per difendersi dai pericoli dell’imperialismo russo. Rifiuto categoricamente questa logica per diversi motivi. Innanzitutto, sarò ingenuo, ma non vedo questo rischio immanente e questa conseguente necessità impellente. In secondo luogo sono convinto che la diplomazia rappresenti l’unico strumento strategico adottabile e che la politica abbia un senso solo se parte dal perseguimento della pace ad ogni costo. In terzo luogo, da cattolico credente e praticante, ritengo che il porgere l’altra guancia non sia una impossibile virtù, ma un’assoluta necessità. Da ultimo si intravede nelle prospettive riarmiste soprattutto la possibilità di rilanciare l’industria pesante a livello europeo, soprattutto germanico, e statunitense: il folle perseguimento di una economia di guerra.

E poi, non accettiamo anche la criminale e vendicativa guerra di Israele contro i palestinesi? Ci dobbiamo difendere anche dai palestinesi e magari da Hamas? Ma fatemi il piacere… Siamo dentro in una spirale e non riusciamo a venirne fuori.

Mi sembrano piuttosto flebili le voci pacifiche e decisamente deboli le unificanti iniziative per la pace: tuttavia insistiamo. La strada giusta è questa. Bisogna avere fede incrollabile a livello sociale (protestare) e… religioso (pregare).

Mio padre, ogni volta che sentiva notizie sullo scoppio di qualche focolaio di guerra, reagiva auspicando una obiezione di coscienza totalizzante: «Mo s’ pól där ch’a gh’sia ancòrra quälchidón ch’a pärla äd fär dil guèri?».

Un mio carissimo amico in questi giorni mi ha inviato il seguente messaggio: “Mi sembra che a dettare la traiettoria della pace non siano né Trump, né l’Europa, né la diplomazia vaticana (già, sembra, messa in discussione dai russi), ma solo Putin. Deve averlo capito bene Prevost, che a fine udienza di mercoledì ha invitato i fedeli a pregare ogni giorno il rosario per la pace, richiamando il messaggio di Fatima. Subito il pensiero va al grande Giorgio La Pira, che faceva pregare le suore di clausura di tutto il mondo, richiamandosi al messaggio di Fatima. Scriveva ad una superiora: ‘La più potente forza storica che muove i popoli e le nazioni, che finalizza la storia intera è l’orazione’. Come vorrei avere una briciola della sua fede!!! Preghiamo anche noi un po’ di più per la pace, per la fine del massacro del popolo palestinese e del martoriato popolo ucraino e perché lo Spirito Santo illumini qualche politico capace e umano di cuore”.

 

 

La briciolona di Bezos stuzzica l’appetito di giustizia

Il filosofo Massimo Cacciari è stato sindaco di Venezia per 12 anni. E oggi in un’intervista a Repubblica dice la sua sul matrimonio di Jeff Bezos nella città lagunare. Partendo da una presa di posizione ben precisa: «Non me ne frega niente. Se fossi ancora sindaco ignorerei mister Amazon e non l’avrei invitato». Riguardo al presunto merito di accendere i riflettori del mondo sull’agonia della città, secondo Cacciari è «falso, sono sicuro che nessuna luce brilli e che del nostro destino non interessi nulla a nessuno». Ma il problema è «la montagna di sciocchezze che si dicono per confondere le acque».

Secondo l’ex primo cittadino «se si infilano in un frullatore Bezos, Venezia, le guerre, Trump, le ingiustizie, la distruzione del pianeta, il capitalismo, l’evasione fiscale, l’overtourism, il lusso e via elencando, esce un liquido in cui nulla è più distinguibile. La confusione mira a impedire la comprensione dei problemi». In questa gara il peggiore è «il presidente del Veneto Luca Zaia. Ha attaccato l’Anpi, critica verso Bezos, ponendo sullo stesso piano mister Amazon, i suoi ospiti e lo sbarco degli americani che hanno liberato Europa e Italia dal nazifascismo. Sarebbe una barzelletta, o la conferma che all’idiozia non ci sono più limiti. Zaia però conosce la storia e dunque le sue parole da una parte segnalano che la classe dirigente dell’Occidente si è bruciata il cervello: dall’altra sono la prova dell’esistenza di un disegno deciso a smantellare i valori e i diritti democratici fondati sulla resistenza alle dittature».

Bezos invece «è qui per confermare che Venezia la si aiuta solo a patto che accetti di essere il palcoscenico a disposizione di chi ha bisogno di visibilità, o di ostentare il proprio potere. Chi falsifica questa realtà ricorda i folli proclami sull’Europa». Mentre da decenni la sinistra «lascia via libera ai neo-liberisti. Scopre a Venezia il loro disastro? Mille persone possiedono il doppio del Pil italiano: ai No Bezos voglio bene, ma le loro manifestazioni sono impotenti. Alla fine li contesta proprio chi è vittima del sistema che loro denunciano: quello che oggi permette la sopravvivenza a chi si era invece sempre sentito protetto dalla solidarietà».

I 3 milioni di donazione promessi da Bezos infine sono «briciole sparse perché detraibili dalle tasse grazie alle Fondazioni. Venezia nemmeno se ne accorge». Ma il denaro «è l’ultimo dio dell’umanità e se parliamo di oro Venezia non è un’isola. Ma se l’oro è dio, il muro della democrazia crolla. Il matrimonio veneziano di Bezos non può essere aperto e democratico: per questo dimostra che mattone dopo mattone il muro sociale dell’Occidente viene giù». (open.online)

Mio padre su questa vicenda di ricchi epuloni, che lasciano cadere qualche briciolona dalle loro tavole per i poveri mortali, sa la caverebbe con un semplice “Chi el lilù?”, riferito a Bezos, proprietario di Amazon. Reazione analoga a quella di Massimo Cacciari! Come (quasi) sempre, il filosofo coglie nel segno.

Eravamo nei primi mesi del 1969, avevo in tasca un fresco e brillante diploma di ragioniere, avevo appena cominciato a lavorare al centro elaborazione dati della Barilla, ero stato assunto in prova, c’era lo sciopero generale di solidarietà per i dipendenti della Salamini, azienda che stava per fallire. Ricordo con emozione il caso di coscienza che mi si poneva: aderire allo sciopero comportava qualche rischio non essendo ancora dipendente a titolo definitivo, gli stessi sindacalisti interni mi avevano concesso di comportarmi liberamente, i colleghi anziani facevano strani discorsi sull’opportunità di uno sciopero a loro avviso inutile, gli impiegati più scettici temevano di danneggiare ingiustamente la Barilla per colpa della Salamini. Il signor Barilla per loro era un benefattore dell’umanità e non lo si doveva disturbare.

Credevo nel sindacato, nella solidarietà tra lavoratori, nello sciopero come diritto e come strumento di lotta, mi importava dei lavoratori della Salamini, i quali stavano rischiando il loro posto, e non mi preoccupava il fatto di creare problemi al mio datore di lavoro disturbandone la verve benefica.

Alla fine andai a lavorare col “magone” dribblando il cordone sindacale posto all’ingresso della fabbrica. In un certo senso aveva vinto l’egoismo anche se gli stessi sindacalisti non avevano preteso da me un atto di coraggio.

Mi è tornato alla mente questo piccolo episodio della mia vita in concomitanza con la smodata ostentazione del benefico lusso spacciato per manifestazione del moderno sociologismo solidaristico.

Credo che Venezia e il mondo non abbiano bisogno di pur grosse pelose elemosine: questa è la giustizia dei ricchi! Non solo la loro mano sinistra, ma le mani sinistre del mondo intero, sanno quel che fa di buono (?) la loro mano destra.

Abbiamo bisogno di altro…

«Dobbiamo rilanciare l’etica della condivisione. E per etica della condivisione non intendo la condivisione del superfluo, ma una vera equità che parta dalla ridistribuzione di beni e risorse che non dovranno più essere nelle mani di pochi. Solo ad armi pari si potrà avere anche un’autentica meritocrazia. La redistribuzione dei dividendi non può che avvenire sull’esempio di Gesù che accoglie i poveri a tavola, con la loro dignità umana riconosciuta e valorizzata. Per me non c’è altra via: chi possiede molto deve dare a chi non possiede nulla. Gesù ci sprona a una solidarietà rivoluzionaria e a costruire un modello di società in cui la persona è al centro: l’uomo, la donna, il cittadino sono i sovrani, e non il mercato. Oggi pare siamo diventati sudditi del mercato» (don Andrea Gallo).

È molto pericolosa la bigotta legittimazione dell’ingiustizia così come la provocante ostentazione del lusso. Sono effettivamente la ciliegina sulla torta della confusione che, come sostiene Cacciari, impedisce la comprensione dei problemi.

Ricordo quando mi recavo all’Arena di Verona in estate per godere spettacoli d’opera indimenticabili. All’ingresso della platea si venivano a creare due vere e proprie ali di folla: erano i curiosi che “sgolosavano” al passaggio dei “vip” eleganti e famosi. I poveri senza dignità: piuttosto andatevene a casa e canticchiate l’opera lirica per tutta la sera, ma fregatevene dei ricchi e non invidiateli.

“Panem et circenses” è una locuzione latina che significa “pane e giochi (circensi)”. È una frase attribuita al poeta romano Giovenale, che la usò nelle sue Satire per criticare il modo in cui i governanti romani mantenevano il controllo sulla popolazione, offrendo cibo e intrattenimento (come i giochi nel circo) invece di affrontare i problemi reali. La storia si ripete con le moderne armi della distrazione di massa utilizzate a più non posso. Da una parte la “distruzione” di massa operata con le guerre, dall’altra la “distrazione” di massa operata anche dai Bezos di turno.

E chi protesta viene immediatamente emarginato e compatito se non addirittura criminalizzato. Il mondo va così…Guai a chi vuole scendere dal treno! Forse è vero, come afferma Cacciari, che la protesta si rivela impotente. E allora? Ci hanno tolto persino il gusto di gridare contro l’ingiustizia, scatenando la guerra fra i poveri che chiedono giustizia e quelli che si illudono di ottenerla da Bezos.

Attenti a Bibì e Bibohibò

Il processo a Bibi Netanyahu dovrebbe essere annullato immediatamente, o dovrebbe essere concessa la grazia a un grande eroe, che ha fatto così tanto per il suo Stato”. Lo scrive Donald Trump su Truth a proposito del processo per corruzione a carico del premier israeliano.  “Forse non conosco nessuno che avrebbe potuto lavorare in migliore armonia con il presidente degli Stati Uniti di Bibi Netanyahu. Sono stati gli Usa a salvare Israele, e ora saranno gli Usa a salvare Bibi Netanyahu. Non possiamo permettere questo paradosso della giustizia”, ha incalzato il tycoon.

“Sono rimasto scioccato nell’apprendere che lo Stato di Israele, che ha appena vissuto uno dei suoi momenti più grandi della storia ed è guidato con forza da Bibi Netanyahu, sta continuando la sua assurda caccia alle streghe contro il suo primo ministro! Bibi ed io abbiamo appena attraversato l’inferno insieme, combattendo un nemico di Israele tenace e di lunga data: l’Iran. Bibi non avrebbe potuto essere migliore, più acuto o più forte nel suo amore per l’incredibile Terra santa. Bibi Netanyahu è stato un guerriero come forse nessun altro guerriero nella storia di Israele, e il risultato è stato qualcosa che nessuno avrebbe mai pensato possibile: la completa eliminazione di una delle armi nucleari potenzialmente più grandi e potenti al mondo”, prosegue Trump. “Stavamo lottando, letteralmente, per la sopravvivenza di Israele, e non c’è nessuno nella storia di Israele che abbia combattuto più duramente o con più competenza di Bibi Netanyahu. Nonostante tutto questo, ho appena saputo che è stato convocato in tribunale lunedì per la continuazione di questo lungo processo – uno spettacolo dell’orrore da maggio 2020”, ha attaccato il presidente Usa. “Una tale caccia alle streghe, per un uomo che ha dato così tanto, è impensabile per me”, ha sottolineato Trump usando un’espressione con la quale era solito riferirsi ai processi a suo carico. 

 Il presidente israeliano Isaac Herzog ritiene opportuno che il processo contro Benyamin Netanyahu si concluda con un accordo di patteggiamento, ritenendo che Israele sia uno Stato di diritto sovrano e democratico, con un sistema giudiziario indipendente. Sullo sfondo delle dichiarazioni del presidente Usa Donald Trump, che ha invocato la cancellazione del processo, Herzog sostiene che le parti dovrebbero avviare al più presto un dialogo intenso, come suggerito anche dal tribunale. 

 Il primo ministro Benyamin Netanyahu ha commentato l’appello del presidente Usa Donald Trump ad annullare i processi nei suoi confronti, dichiarando: “Grazie presidente Donald Trump per il tuo commovente sostegno a me, a Israele e al popolo ebraico. Continueremo a lavorare insieme per sconfiggere i nostri nemici comuni, liberare i nostri ostaggi ed espandere rapidamente il cerchio della pace”. (ANSA.it)

Leggendo la notizia ho pensato dapprima al processo della Corte Penale Internazionale che ha dichiarato Netanyahu come criminale di guerra, invece Trump fa riferimento al procedimento per corruzione in corso nello Stato di Israele.

Infatti chissenefrega delle Istituzioni internazionali, quelle sono un semplice diversivo a cui prestare l’attenzione che si riserva al nonno sclerotico che gira per casa in mutande. Invece ripristinare l’immagine a livello israeliano ha la sua importanza, anche perché Trump ha vicende giudiziarie analoghe negli Usa, finite nella bolla di sapone presidenziale: per Netanyahu si tratterebbe della bolla di sapone (sic!) dell’eroismo bellico.

Questi se la cantano e se la suonano come vogliono, si fanno i complimenti con parole disgustose, si stringono mani lorde di sangue, e “il pubblico applaude ridendo allegramente” (Pagliacci di Ruggero Leoncavallo).

D’altra parte cosa successe fra Pilato ed Erode alle spalle di Gesù?

Udito ciò, Pilato domandò se era Galileo e, saputo che apparteneva alla giurisdizione di Erode, lo mandò da Erode che in quei giorni si trovava anch’egli a Gerusalemme. Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto, perché da molto tempo desiderava vederlo per averne sentito parlare e sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui. Lo interrogò con molte domande, ma Gesù non gli rispose nulla. C’erano là anche i sommi sacerdoti e gli scribi, e lo accusavano con insistenza. Allora Erode, con i suoi soldati, lo insultò e lo schernì, poi lo rivestì di una splendida veste e lo rimandò a Pilato. In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici; prima infatti c’era stata inimicizia tra loro”.

Personalmente sottoporrei a procedimento giudiziario davanti alla Corte Penale Internazionale anche Donald Trump, senonché questo tribunale non è stato a suo tempo riconosciuto dagli Usa, che evidentemente hanno messo le mani avanti. Ipotizziamo tuttavia, per un macabro gioco di fantasia, che il processo si svolga: probabilmente Trump verrebbe assolto per infermità mentale, vale a dire per schizofrenia politica, che è di gran lunga peggio di quella normale: mentre infatti la vera e propria schizofrenia può creare seri problemi alla limitata cerchia di interlocutori del malato, quella politica crea disastri a livello mondiale.

Della serie “chi schiva ‘n mat fa ‘na bón’na giornäda”, mentre “chi schiva Trump fa un piazér a tùtt al mónd”.

 

 

Fra trumpismo e melonismo preferisco il dossettismo

Il 1949 fu un anno davvero complicato. A marzo Giuseppe Dossetti si mise di traverso alla decisione di far aderire l’Italia al Patto atlantico. Alla fine votò a favore, ma «controvoglia» e rilasciò al giornale del suo partito, «Il Popolo», una dichiarazione maliziosamente superflua, in cui diceva di aver votato in quel modo nella convinzione che la Nato dovesse essere «una costruzione assolutamente difensiva, pacifica e democratica». 

Dopo settantacinque anni si può dire che la Nato sia stata e sia come l’aveva idealmente e rigorosamente pensata e faticosamente votata il grande Dossetti? Quale Nato esce dal recente vertice dell’Aia?

Difensiva? Non la è stata: in tutte le operazioni militari, anche le più sporche, c’è sempre stata la manina Nato. Vai a capire fin dove c’era un intento meramente difensivo o una volontà offensiva…

Pacifica? Forse era un’illusione che i fatti hanno inevitabilmente smentito. Armarsi fino ai denti come si sta pensando di fare anche oggi non è certo il presupposto per un’azione pacifica, tanto più che l’Unione sovietica non esiste più e la Russia, checché se ne dica, non rappresenta un pericolo serio per l’integrità occidentale, mentre la Cina è più interlocutore commerciale che antagonista bellico. E poi come può essere pacifica una Nato che mette in soffitta il multilateralismo per acconciarsi ad un equilibrio basato sugli imperialismi tra i quali l’Europa rischia oltre tutto di fare la parte del vaso di coccio tra quelli di ferro. All’Europa si chiede uno sforzo immane sul piano delle spese militari, che paradossalmente non servirà comunque a rafforzarne il ruolo ma solo a compiacere l’imperialismo statunitense di riferimento, subendo pedissequamente il trumpismo con tutto quel che ne segue.

Democratica?  All’interno dell’Alleanza il ruolo americano è sempre stato preponderante se non addirittura ricattatorio, all’esterno l’Alleanza ha appoggiato in nome dell’anticomunismo di facciata tutte le peggiori operazioni reazionarie, sostenendo dittature pur di salvaguardare innominabili equilibri (?). La morte di Aldo Moro non rientra forse in questa spaventosa logica di puro potere atlantico?

Potremmo dire che le ragioni dossettiane sono state dimostrate proprio dal martirio di Aldo Moro, sacrificato, direttamente e/o indirettamente sull’altare di un atlantismo invadente e sostanzialmente iniquo.

Ci sono tuttavia sempre stati modi diversi di essere membri della Nato: un modo acritico di legare l’asino dove vuole il padrone (oggi si chiama Trump) e un modo dialogante e propositivo in difesa di uno spirito, come diceva Dossetti, difensivo, pacifico e democratico. Sarà velleitario, ma io non vedo alternative a questo secondo stile.

Perché non si ha il coraggio di squadernare la verità, vale a dire il fatto che per i Paesi europei il riarmo non è compatibile con le loro esigenze di bilancio e con le loro situazioni socio-economiche? Si preferisce affrontare il problema alla tedesca (intascandone sconsideratamente i vantaggi economicamente contingenti, poi si vedrà…) o all’italiana (con i trucchi di bilancio, giocando al rinvio, puntando a ridicole contropartite…).

Perché non si ha la forza di rimboccarsi le maniche in una decisa ripresa europeistica, chiedendo agli Usa di agevolarla seriamente anziché giubilarla indegnamente?

Perché non si chiede di partecipare alla definizione di un nuovo ordine mondiale basato sul diritto internazionale, abbandonando le scorciatoie unilaterali e le sempre più consacrate leggi del più forte?

Perché non si ha il buongusto di dire a Donald Trump che la sua visione del mondo non corrisponde alla nostra e che quindi deve darsi una regolata se non vuole rimanere in pista a ballare il tango con la Russia e con la Cina con tutte le incognite di una simile avventura danzante.

Invece tutti, Italia in primis, a leccargli i piedi (per non dire di peggio, come lui stesso ha detto fuori dai denti…) in una penosa corsa ad ottenerne qualche favore: se questa è politica…

I profeti, come Giuseppe Dossetti, non hanno il potere di predire il futuro, ma di interpretare il presente alla luce delle prospettive future. L’adesione alla Nato nel 1949 non aveva alternative: scontavamo il disastro post-fascista e post-bellico. Nonostante tutto i governi italiani del dopo-guerra hanno cercato l’impossibile, vale a dire di coniugare gli aiuti americani con un minimo di autonomia politica: una vera e propria sfida, durante la quale avremmo potuto e dovuto ricordarci più spesso di quanto sosteneva Dossetti.

A maggior ragione oggi, come Italia, facendoci forza su una convinta partecipazione alla Ue e su una situazione non più disastrosa sul piano economico, potremmo e dovremmo riprendere il cammino atlantico in modo critico e con dignità: a proposito di dignità Alcide De Gasperi riuscì a mantenerla nonostante tutto, Giorgia Meloni la sta svendendo al peggior offerente.

 

Il matto che dà ordini ai matti

Trump furioso contro Israele e Iran. Prima l’annuncio della tregua poi, dopo il collasso in poche ore del cessate il fuoco, l’intervento da paciere: «Israele, non sganciate quelle bombe. Se lo fate, è una violazione grave». Così Donald Trump, scrivendo sul suo social Truth, aveva tentato di scongiurare una nuova escalation, dopo le minacce di Tel Aviv di «colpire con forza il cuore di Teheran». E poi si era rivolto direttamente alle forze militari israeliane: «Riportate a casa i vostri piloti, subito!». Parlando con i giornalisti, prima di partire per il vertice Nato, il presidente americano aveva inoltre condannato sia Israele che Iran per la violazione del cessate il fuoco: «Sono due Paesi che stanno combattendo da così tanto tempo e così duramente, che non sanno cosa c***o stanno facendo». In modo particolare si sarebbe detto deluso da Tel Aviv: «Ora Israele sta per colpire l’Iran a causa di un razzo che non è atterrato da nessuna parte. Devo far calmare Israele adesso, vedrò se riesco a fermarlo». (open.online)

“Tutt i mat i gan la sò virtù”: mi è venuto spontaneo reagire così alla sparata di Trump, irritato per l’accoglienza non proprio entusiastica degli israeliani e degli iraniani al cessate il fuoco patrocinato appunto dal presidente statunitense. Mi sono bastati però trenta secondi per riflettere e tornare in me stesso: con quale credibilità, al di là dell’arroganza del potere, questo signore fa la ramanzina ai belligeranti, proprio lui che alcuni giorni fa aveva sganciato bombe sull’Iran, lui che è culo e camicia con Netanyahu a cui ha dato  piena licenza d’uccidere, lui che non nasconde  simpatie putiniane (ogni simile ama il suo simile), lui paladino della fine del multilateralismo, lui accanito sostenitore della legge del più forte, lui che umilia gli interlocutori per poi offrire loro qualche biscottino più o meno avvelenato, lui che è il protagonista principale del disordine internazionale, lui che sta nascondendo la democrazia sotto il tappeto dell’imperialismo e dell’autarchia?

La deriva bellica che ci coinvolge e ci sconvolge parte dall’egoismo individuale, che diventa sociale, nazionale e internazionale: Donald Trump è l’uomo decisivo per questa escalation. Il discorso va ben oltre le analisi sociologiche sulla società americana e sulla debolezza del suo sistema politico, tutto risale alla istituzionale cavalcata trumpiana dell’istinto tribale alla violenza.

Due voci ho ascoltato in questi giorni. Massimo Cacciari, da filosofo ateo, ha ammesso che l’unica istituzione che fa un’azione seria e intelligente di pace è il Vaticano; Massimo D’Alema, da impareggiabile ex-politico, ha osservato come tutto lo sfacelo dipenda dalla crisi di valori a tutti i livelli (i valooori, come dice lui con la giusta enfasi).

Due voci di una sinistra del passato, che, pur con tutti i difetti, dava un senso alla politica. Non bisogna però vivere di nostalgia e l’unico modo per attualizzare le cose giuste è combattere senza credere alle fandonie delle narrazioni che ci vengono propinate e senza ubbidire agli ordini della (non) politica.

 

 

Il ben dell’intelletto

«Non siamo i nostri regimi». Comincia così la lettera aperta scritta in persiano, ebraico, inglese e francese da ventuno intellettuali e attivisti iraniani e israeliani «nell’arco di una giornata», come racconta Lior Sternfeld, uno degli autori. In dieci giorni di offensiva i sottoscrittori sono diventati oltre 2.100.

Nella lista figurano la Nobel per la Pace, Narges Mohammadi, il difensore dei diritti umani Mehrangiz Kar, l’ex parlamentare della Knesset, Mossi Raz, e il presidente dell’Accademia delle scienze e delle lettere di Gerusalemme, David Harel.

Con l’attacco Usa a Teheran di domenica, il loro grido di pace si fa ancora più forte. «No, non siamo i nostri regimi. Confondere popoli, Paesi e governi è un grosso errore. Nel caso dell’Iran, poi, data la confusione nelle cancellerie internazionali al riguardo, è macroscopico», sottolinea Sternfeld, docente di storia e studi ebraici alla Penn State University, tra i maggiori esperti di questioni iraniane. L’anno scorso, il docente ha partecipato, a margine dell’Assemblea generale Onu, a una riunione con il presidente Masud Pezeshkian, divenendo il primo cittadino israeliano a incontrare pubblicamente un leader della Repubblica islamica. «Il fraintendimento più grossolano nei confronti di Teheran riguarda l’opposizione interna».

L’opposizione agli ayatollah non solo esiste ma include gruppi consistenti della società. La sua ostilità nei confronti del regime non si traduce, però, nel sostegno agli interventi bellici di Israele e Usa. Gli iraniani non vogliono essere salvati da Benjamin Netanyahu o da Donald Trump. Al contrario: sono consapevoli che la guerra condotta da potenze straniere produrrà danni incalcolabili al proprio Paese. E qui viene il punto cruciale. Buona parte del popolo dell’Iran non ama gli ayatollah ma sì ama – e profondamente – la propria nazione. E non vuole vederla precipitare in una spirale di violenza senza fine, come è avvenuto in Iraq, Afghanistan o Libia. O cadere ancora una volta ostaggio di una dittatura sanguinosa. Hanno sperimentato sulla propria pelle i danni collaterali degli interventi occidentali. (dal quotidiano “Avvenire” – Lucia Capuzzi)

Come si fa a non essere d’accordo con i firmatari di questa lettera aperta? I raid non portano democrazia: così è titolata l’intervista di cui sopra. Esattamente il concetto opposto a quello blaterato da Trump e Netanyahu e subdolamente condiviso dall’Occidente di lor signori.

Visto che abbiamo perso il ben dell’intelletto, meno male che qualcuno ci aiuta a ritrovarlo, non certo nelle opache sedi politiche (al riguardo, la seduta del Parlamento italiano, che non merita più di una trista parentesi, è stata una sfilata di burocrati senza cuore e con poco cervello: di quanto ho sentito salvo l’intervento di Gianni Cuperlo), ma nel pensiero di chi ragiona e di chi soffre.

 

 

Burattina di Trump, burattinaia degli italiani

Via gli studenti stranieri da Harvard. L’ultima trovata di Donald Trump è un nuovo attacco all’Università più prestigiosa al mondo, che proprio accogliendo nelle sue aule ragazze e ragazzi da ogni angolo della terra ha costruito la sua reputazione. Una decisione giustificata con la motivazione di combattere l’antisemitismo. In realtà, un passo in avanti nella crociata contro quell’America liberal e progressista che il presidente detesta, cortesemente ricambiato. (La Stampa – Francesca Schianchi)

Forse non ci rendiamo conto del pericolo che sta correndo la democrazia: sì, perché purtroppo il “la” per l’esecuzione della sinfonia (anti) democratica, volenti o nolenti, lo danno gli Usa.

Davanti ai drammatici scenari di guerra che giorno dopo giorno si fanno più allarmanti, c’è chi si diverte a depistare il dibattito, ponendo il (falso) problema sul chi sia, fra Trump e Netanyahu, il burattino e il burattinaio: si accettano macabre pirandelliane scommesse. Propendo per la teoria dei reciproci burattini/burattinai. Il vero problema però è che il mondo è diventato un teatro di burattini.

In questo momento storico occorrerebbe tenere la spina dorsale ben dritta per non ascoltare le sirene d’oltreoceano. Invece, mentre l’Europa balbetta diverse lingue, tutte peraltro poco democratiche, l’Italia sta recitando la parte della spugna che assorbe opportunisticamente la dottrina Trumpiana, fatta di razzismo, discriminazione, egoismo, nazionalismo, etc. etc.

Adesso c’è di mezzo anche la scusa dell’antisemitismo, che serve a mettere la sordina all’indignazione sempre più larga e profonda verso la vergognosa politica israeliana. Trump ha concesso a Netanyahu una vera e propria licenza d’uccidere e quindi come può fare la più trumpiana fica del bigoncio europeo a rispettare una storica linea di politica internazionale che riusciva a combinare l’amicizia col popolo israeliano con l’attenzione e la solidarietà verso il popolo palestinese e il mondo arabo-musulmano?

E pensare che, al di là delle sacrosante motivazioni etiche, la politica estera italiana in passato ci ha preservato dall’impatto del terrorismo islamico, a dimostrazione che al terrorismo non si deve fare una guerra armata ma disarmata, al fine di rimuoverne le cause consistenti principalmente nel consenso dei disperati.

Invece stiamo sprofondando in un’acritica linea di collaborazionismo con Trump e Netanyahu: non si tratta di una passeggera ventata antistorica legata soltanto a squallidi personaggi, ma rischia di diventare un nuovo progressivo assetto geopolitico a prescindere dai valori e dai principi della tradizione democratica occidentale.

Trump non rappresenta soltanto la propria sete di potere a livello nazionale, personale e castale, ma una nuova cultura, vale a dire un diverso modo di intendere la vita politica e sociale: ecco spiegato l’accanimento verso le università, vale a dire le sedi dove l’eredità del sapere si combina con l’ansia della ricerca culturale e con l’ardore giovanile dell’impegno civile.

Netanyahu non è un incidente di percorso nella storia di Israele, ma incarna una mentalità profonda, diffusa e condivisa. Nemmeno la folle gestione della questione degli ostaggi è riuscita a innescare una consistente protesta nella popolazione israeliana.

Non ho idea cosa possa occorrere alle società americana e israeliana per smascherare gli inganni di cui sono prigioniere più o meno consapevoli.

Quando in Italia scattò la trappola del berlusconismo qualcuno sosteneva che occorresse una trentina d’anni per farne scoppiare le contraddizioni e preparare una classe dirigente alternativa. Di anni ne sono passati una cinquantina e siamo ancora impantanati nel berlusconismo riveduto e scorretto.

Persino la religione è coinvolta in questi autentici disastri anti-democratici, preferendo la compromissione col potere alla contestazione del potere: di qui la mia apprensione per il papato di Leone XIV, partito più sul piano dell’impossibile dialogo che su quello dell’aperto e fattivo dissenso. Riuscirà un papa americano a resistere all’attuale coinvolgente e ingannevole americanismo? Riuscirà a mettere i paletti all’ecumenismo (Chiesa ortodossa putiniana) e al confronto interreligioso (ebraismo guerrafondaio), non tanto dal punto di vista dogmatico, ma sul piano della prassi pacificatrice nei confronti delle coscienze, delle comunità e del mondo.

Non è un caso che la gerarchia cattolica statunitense abbia rilasciato qualche sciagurata cambiale al trumpismo, giustificata con l’anti-abortismo e il ritorno ai tradizionali e discriminatori schemi etici, mentre la gerarchia ebraica è da sempre addirittura parte integrante del sistema di potere israeliano, che ha in Netanyahu non una scheggia impazzita ma un interprete credibile e pertinente.

In questo pericoloso crocevia della storia attuale, quale ruolo può giocare l’Europa, che sembra più impegnata a guadagnare tempo che a decidere sulla fedeltà ai propri fondanti valori e principi. L’unico personaggio che si sforza di toccare questa fondamentale problematica è il nostro presidente della Repubblica.

“Un attore globale deve saper governare sfide strutturali di portata globale, stabilendo rapporti strutturati e proficui con tutti i Paesi del mondo”, ha insistito Mattarella. L’Europa, ha ricordato in ogni tappa della sua missione di due giorni a Bruxelles, vive un periodo di transizioni internazionale che porterà a nuovi equilibri. Un periodo segnato da guerre che portano “instabilità” e “sofferenza umana”.

E “se l’Ue sarà assente o inefficace negli scacchieri” internazionali, “altri attori prenderanno il sopravvento in queste aree del mondo, come stanno palesemente cercando di fare, sostituendosi all’Europa”, ha scandito il presidente della Repubblica. Senza tralasciare – con riferimento implicito agli Usa – il compito dell’Ue di tessere reti, in un periodo “di dichiarata sfiducia da diverse parti sul valore dell’apertura dei mercati. Quanto più le istituzioni comunitarie si dimostrano trasparenti e efficienti, tanto più se ne rafforza l’indispensabile consenso sociale”, ha rimarcato Mattarella. (ANSA.it)

Purtroppo alla tanta convinzione di Mattarella fa riscontro la vergognosa titubanza di Giorgia Meloni, che non è assolutamente in grado di rappresentare e interpretare le aspirazioni del popolo italiano, ma si accontenta di fare la burattina di fila in un’orchestra intenta a suonare la marcia funebre della democrazia e della pace.

Per proseguire nella metafora: qual è la differenza fra burattino e marionetta? Il burattino è manovrato dal basso dalle mani del burattinaio che infila la mano all’interno del burattino, usando il pollice e il medio (o il mignolo) per muovere le braccia, mentre l’indice sostiene la testa. In questo modo, il burattinaio può controllare i movimenti del burattino, facendolo parlare, camminare, e compiere altre azioni.

Una marionetta invece è animata tramite una serie di fili fissati al suo corpo e collegati a una struttura di controllo chiamata “croce” o “bilancino”. Il marionettista, muovendo questa croce con una mano, può tirare i fili e far compiere alla marionetta movimenti complessi, come camminare, parlare, gesticolare e persino esprimere emozioni.

Giorgia Meloni assomiglia più a un burattino o a una marionetta? E chi è il burattinaio e il marionettista che le dà vita? Trump e/o Netanyahu? Chissà chi lo sa!

Alla nostra premier basta lisciare il pelo alla sua qualunquistica minoranza popolare e parlamentare, dandole l’illusione di stare vicino ai manovratori del treno che viaggia sul binario del disastro. Il discorso si allarga: gli italiani sono burattini o marionette peraltro di secondo livello, vale a dire burattini o marionette non nelle mani di un burattinaio o di un marionettista, ma di un burattino/marionetta che li bastona fra le amare risate di un’assurda platea?