Chiesa nonostante i signori cardinali

La storica sera (era il 13 marzo 2013), in cui papa Francesco, appena eletto, si presentò, con atteggiamenti e simbologie rivoluzionari, sulla balconata di S. Pietro, ero davanti al video in compagnia di mia sorella Lucia. Eravamo entrambi convinti che fosse successo qualcosa di grande per la Chiesa cattolica. Questa volta lo Spirito Santo era arrivato in tempo. Ricordammo al proposito una gustosa barzelletta. Dicono piacesse molto a papa Giovanni Paolo II.

“Dio Padre osserva, con attenzione venata da una punta di scetticismo, l’attivismo dei cardinali di Santa Romana Chiesa, ma non riesce a capire fino in fondo lo scopo della loro missione. Con qualche preoccupazione decide di interpellare Dio Figlio in quanto, essendosi recato in terra, dovrebbe avere maggiore dimestichezza con questi importanti personaggi a capo della Chiesa da Lui fondata. Dio Figlio però non fornisce risposte plausibili, sa che sono vestiti con tonache di colore rosso porpora a significare l’impegno alla fedeltà fino a spargere il proprio sangue, constata la loro erudizione teologica, la loro capacità diplomatica, la loro abilità dialettica, ma il tutto non risulta troppo convincente e soprattutto rispondente alle indicazioni date ai discepoli prima di salire al cielo.  Anche Dio Figlio non è convinto e quindi, di comune accordo, decidono di acquisire il parere autorevole di Dio Spirito Santo, Lui che ha proprio il compito di sovrintendere alla Chiesa.  Di fronte alla domanda precisa anche la Terza Persona dimostra di non avere le idee chiare, di stare un po’ troppo sulle sue ed allora il Padre insiste esigendo elementi precisi di valutazione, minacciando un intervento diretto piuttosto brusco e doloroso. A quel punto lo Spirito Santo si vede costretto a dire la verità ed afferma: «Se devo essere sincero, anch’io non ho capito fino in fondo cosa facciano questi signori cardinali, sono in tanti, ostentano studio, predica e preghiera. Pregano soprattutto me affinché vada in loro soccorso quando devono prendere decisioni importanti. Io li ascolto, mi precipito, ma immancabilmente, quando arrivo col mio parere, devo curiosamente constatare che hanno già deciso tutto!»”

Quella sera io trattenevo con difficoltà le lacrime per l’emozione, Lucia era entusiasticamente propensa a cogliere finalmente il “nuovo” che si profilava. Erano gli ultimi mesi di vita di Lucia, che però trovavano esistenziale e incoraggiante riscontro, al livello più alto, di un cristianesimo vissuto sempre con l’ansia della novità che squarcia il dogmatismo, della scelta a favore dei poveri, del rispetto della laicità della politica, del protagonismo femminile. Lucia per oltre settant’anni si era sentita partecipe della comunità ecclesiale, militando con impegno totale nell’Azione Cattolica, vivendo intensamente le speranze conciliari, travasando nella politica i principi ed i valori metabolizzati nella prima parte della sua vita.

Sono passati 12 anni, il pontificato di Francesco si avvia alla fine, (non) è tempo di bilanci e di previsioni sulla successione. Alcuni nodi sono irrisolti nella misura in cui restano legati per sempre alle contraddizioni di fondo della Chiesa: la povertà concettualmente abbarbicata alle esigenze strutturali; la novità di vita temperata dalla necessaria (?) continuità; l’impostazione gerarchica giustificata dallo sganciamento rispetto ai mondani criteri politici e sociali.

Tali questioni sono presenti in filigrana nella pastorale di Francesco anche se lui le ha giustamente “nascoste” nello stile evangelico. Restano tuttavia dubbi, perplessità, incertezze. Mi aspettavo di più?! Poi, mi accorgo che senza di lui sarà una gara dura ed ho il timore che i “signori cardinali” ricomincino a spadroneggiare. Non so se ci siano le premesse di continuità o se si possa scatenare una sorta di ritorno al passato. L’insistenza con cui papa Francesco resta ancorato al soglio pontificio mi dà l’idea dell’incompiuta: i numerosi tasselli da lui accuratamente predisposti mi lasciano invece sperare in una morbida ma forte successione.

La domanda di fondo è: c’è un futuro nella Chiesa a misura di papa Francesco oppure tutto verrà inesorabilmente azzerato e ricominciato daccapo? Devo tornare alla simpatica barzelletta da cui sono partito: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

Dei papi ho una mia originale idea riguardo al loro atteggiamento verso la Curia e gli intrighi vaticani: Paolo VI soffriva, si macerava e poi si arrendeva all’impossibilità del cambiamento; Giovanni Paolo I somatizzò il dramma al punto da morirne in pochi giorni; Giovanni Paolo II se ne fregò altamente, andò per la sua strada, si illuse di cavare anche un po’ di sangue dalle rape; Benedetto XVI ci rimase dentro alla grande e gettò opportunamente la spugna: papa Francesco è ancora troppo schierato per essere sarcasticamente giudicato. Quando constato come tanti papi siano diventati o stiano diventando Santi, mi viene qualche dubbio. Pur con tutto il rispetto, temo che nell’aldilà troveremo parecchie novità, riguardo alla nostra vita e a quella della Chiesa.

Il mio caro amico don Domenico Magri mi scrisse una lapidaria risposta: «Caro Ennio, condivido in toto: purtroppo è così. Tertulliano già nel IV secolo aveva definito la Chiesa: “casta meretrix”: mica male! Comunque noi osiamo amarla lo stesso!».

 

E vo gridando pace, e vo praticando amor

In piazza per l’Europa o per questa Europa? Perché a seconda della risposta, si potrebbe scendere in due piazze diverse: una per sostenerla, una per contestarla.

Scendere per questa Europa? Questa Europa paralizzata da decenni dalle decisioni all’unanimità, che in ventiquattr’ore trova 800 miliardi per armarsi o per “difendersi” (da chi?)? Per questa Europa potrei desiderare una piazza per contestarla.

Questa Europa che non decide politiche comuni sull’immigrazione assistendo inerte alle tragedie nel Mediterraneo, rialza reticolati e muri, che si rifugia nella burocrazia e legifera sulle vongole mentre tace sulle grandi ingiustizie.

Questa Europa i cui Stati sembrano non andare d’accordo su niente e carezzano gli umori impauriti degli elettorati anziché indicare una rotta lungimirante anche se impopolare.

Questa Europa che dice «con l’Ucraina la guerra è tornata in Europa», rimuovendo la tragedia dei Balcani, guerra già nel cuore dell’Europa e di cui è corresponsabile.

Questa Europa che delude chi credeva nella solidarietà, nella giustizia, nella coesione, questa Europa, non è da applaudire ma, forse, da contestare.

Oppure scendere in piazza semplicemente per l’Europa? Per quel nome sorgivo che ha portato un’infinità di bene per milioni di persone e un modello ispirativo per il mondo. Per la sua genesi prima che per le occasioni mancate. Non un’entità geografica o un apparato burocratico, ma “un ideale storico concreto”. Se ascolto l’Europa embrionale, sussurrata nel Monastero di Camaldoli, quando un gruppo di giovani scrisse il Codice di Camaldoli, ispirandosi a un’utopia nel mezzo della Seconda guerra mondiale, il mio sentimento cambia. Se penso all’Europa sulle labbra di Jan Palach, torcia umana in Piazza San Venceslao, a Praga, per non arrendersi all’oppressione sovietica. Se leggo Europa negli scritti di Sophie Scholl, che con il suo gruppo La Rosa Bianca sfidò il nazismo e pagò con la vita il sogno di un continente libero.

Europa… Europa come la sognarono, la idearono e la realizzarono i padri fondatori. Riecheggia forte e lungimirante il loro pensiero appassionato: Altiero Spinelli, Alcide De Gasperi, Jean Monnet, Robert Schuman, Konrad Adenauer, Joseph Bech e Paul-Henri Spaak. Ma quel sentimento positivo si accende solo nel passato? Europa… se abbandono i confini politici e alzo lo sguardo sento il “respiro a due polmoni” evocato da san Giovanni Paolo II, che ci ha spinto a unire spiritualmente e culturalmente Oriente e Occidente.

(…)

Oggi siamo su un crinale assai pericoloso, un punto di svolta che potrebbe portare al disfacimento dei fondamentali della convivenza civile. E se archiviassimo questa memoria e scendessimo in piazza solo per contestare? O, peggio, se restassimo indifferenti? Se tagliassimo l’ultimo filo che ancora lega il passato a un possibile futuro di pace? Lo abbiamo detto: siamo attoniti, davanti agli scenari che di ora in ora sono sempre più cruenti, abbiamo bisogno di un tempo di latenza. Ma l’accelerazione storica non consente ulteriori indugi.

Forse, conservando tutti i dubbi senza i quali nessun miglioramento è possibile, potremmo ritrovarci in una piazza che si aggrega intorno a un’unica bandiera. Una piazza che non urla, ma che, ostinatamente ancorata alla memoria, continua a credere in un sogno di pace.

Perché non è più il tempo di dire “pace! pace!”. Occorre indicare una strada positiva, concreta, praticabile. Una linea e un orizzonte, un’azione. Europa è parola di pace che appartiene al passato – settant’anni senza guerre – che vive nelle difficoltà del presente e che ci attende nel futuro.

(…)

Quella piazza “per l’Europa” è una soglia rischiosa, ma carica di futuro. Una soglia in cui non ci sono solo cittadini, ma l’Europa stessa. Una soglia dove può sventolare ancora una bandiera sola: l’Europa. Logora, sgualcita, un po’ strappata, ma l’unica bandiera senza sangue. Un simbolo sospeso tra storia e sogno ostinato.

Non ho certezze, ma nel dubbio scelgo di non avere rimpianti: non ho paura di stare sulla soglia di questa piazza “per l’Europa”.

(dal quotidiano “Avvenire” – Franco Vaccari)

 

L’ortodossia democratica e l’eresia pacifista

Anche Romano Prodi, dopo Paolo Gentiloni e Enrico Letta, al contrario di Elly Schlein non boccia il piano von der Leyen: «È una tappa per arrivare alla difesa comune. Il riarmo è un primo passo necessario in questa direzione. Se avessimo avuto l’esercito europeo, la Russia non avrebbe attaccato l’Ucraina. Se si fa l’esercito comune, Putin si ferma». L’importante, secondo il Professore, è che non ci si limiti a questo, ma si «vada avanti».

Dunque anche Prodi, seppur evitando di entrare nella polemica diretta, prende le distanze dalle posizioni di Schlein. E pensare che, grazie all’ennesima uscita di Musk, il Pd sempre più diviso ieri cercava almeno per un giorno di dare l’impressione di un partito compatto. Tutti contro il consigliere di Trump che ha minacciato: «Se disattivo Starlink, l’Ucraina crolla». Ma quello che è successo in questi giorni non si può cancellare. Le divisioni sul piano von der Leyen hanno creato tensioni interne che difficilmente si placheranno a breve.

I riformisti non vogliono seguire la segretaria sul suo «no» a quel progetto di difesa europea. Anche perché, come ha spiegato il coordinatore di Energia popolare, Alessandro Alfieri, «il Pd con quelle posizioni rischia l’isolamento in Europa». Già, perché Schlein su questa vicenda ha una posizione ben diversa dai leader socialisti di Spagna e Francia e dal primo ministro laburista della Gran Bretagna Starmer.

I riformisti non riescono più a nascondere le loro perplessità e i loro timori. E a poco sono servite le parole del fondatore della corrente di minoranza del Pd, Stefano Bonaccini. Il presidente del partito ha «coperto» la segretaria anche in questa vicenda: «No al riarmo», ha detto come lei, prendendo una posizione ben diversa da quella dei «suoi».

Ma la verità è che l’ex governatore dell’Emilia-Romagna ha perso la presa sui riformisti. Ormai quella corrente dem è gestita da Alfieri (e da Lorenzo Guerini, che però, visto il suo ruolo di presidente del Copasir, si tiene sempre un po’ defilato). E uno dei punti di riferimento di quell’aerea è diventato Gentiloni. Come si arguisce chiaramente dalle parole di Stefano Ceccanti: «Da ex commissario, Paolo ribadisce la continuità della politica estera e chi non condivide le sue posizioni stia con Conte». O dalle affermazioni di Alfieri: «L’attivismo di Gentiloni è un fatto positivo, il Pd faccia sintesi e basta definire bellicista chi la pensa in un certo modo».

La distanza che ormai divide la maggioranza e la (corposa) minoranza dem è emersa anche nella polemica che è seguita dopo la pubblicazione, sui social del Pd, di una card in cui si facevano i complimenti a Salvini, accusato da Meloni di avere, sul riarmo, la stessa linea del Pd: «Bravo Matteo». Quella mossa comunicativa, che pure giocava sul filo dell’ironia, ha lasciato di stucco i militanti. E ha fatto irritare Pina Picierno, una delle esponenti dem più determinate sull’Ucraina e sulla difesa comune, che non ha avuto remore ad attaccare il suo partito: «Non c’è molto da dire se non che mi vergogno e mi dispiace molto». Anche Ceccanti ha avuto parole molto critiche nei confronti di quella card: «Una volta, per cose del genere, a torto o a ragione, si sarebbe usata una sola parola, deliramentum». Insomma, quasi un clima da separati in casa.

Il disagio si estende anche alla componente più moderata, come dimostra la decisione della ex segretaria della Cisl Annamaria Furlan di abbandonare il gruppo del Pd del Senato e aderire a Italia viva. Un addio i cui motivi, secondo Lorenzo Guerini, devono far riflettere: «Non condivido la scelta di lasciare, ma credo che dovremmo interrogarci sulle ragioni. Ignorarle sarebbe sbagliato». Parole simili a quelle pronunciate da Filippo Sensi. E alle dichiarazioni di Simona Malpezzi, secondo la quale «la scelta di Furlan non deve cadere nel silenzio».

Eppure, non ci sarà divorzio nel Pd, dove le due anime in cui è diviso il partito continueranno la loro difficile convivenza senza rotture. Chiosa un autorevole esponente del Pd con un’abbondante dose di malizia: «In fondo, sopra tutto, vince la difesa comune del seggio». (dal Corriere della Sera – Maria Teresa Meli)

 

Ammetto di avere una concezione aristocratica della politica. Cosa voglio dire? Dal momento che la considero un elemento importantissimo e fondamentale della vita comunitaria ed anche personale, esigo che venga discussa e praticata partendo dai valori messi seriamente e coraggiosamente a servizio della collettività. In politica è auspicabile innanzitutto la passione (l’arte dell’impossibile) e solo dopo di essa vengono la razionalità e il compromesso (sempre ai livelli più alti).

La Costituzione Italiana all’articolo 11 recita testualmente: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Nel dettato costituzionale non vedo scappatoie riarmiste e/o belliciste. Anche l’Europa vale a condizione che punti alla pace e alla giustizia e non diventi una mera alleanza di tipo militare seppure a scopo difensivo. Diversamente viaggiamo sul filo del rasoio e io non ho alcuna intenzione di farmi male.

Non ricordo la fonte, ma a suo tempo Gianfranco Fini fu definito da un intellettuale di destra, e quindi non a lui politicamente estraneo od ostile, come un soggetto che “non sa un cazzo, ma lo dice bene”. Attualmente la politica italiana è piena zeppa di gente che non sa un cazzo, ma lo dice bene o che addirittura lo dice male, ma sa conquistare un inspiegabile consenso.

L’indimenticabile esponente democristiano Mino Martinazzoli a chi gli chiedeva di “sputare” certezze, ammetteva di avere molti dubbi. Altra stoffa! Oggi tutti sparano certezze e nessuno ha il coraggio di esprimere qualche dubbio. Bisognerebbe diffidare e invece ci si prostra ai piedi di questi vanagloriosi personaggi. I media hanno enormi responsabilità nel legittimare l’ignoranza dei politici, inserendoli nel loro circo pieno di prestigiatori che si spacciano per acrobati.

Ebbene, di fronte alla prospettiva di un riarmo, più o meno giustificato dalla realpolitik di stampo europeista, la segretaria del partito democratico ha finalmente trovato il coraggio del dubbio atroce: non l’avesse mai fatto, le sono saltati tutti addosso con argomentazioni che non mi convincono affatto. Il beneficio del dubbio me lo concedo e quindi lo concedo anche ad Elly Schlein, checché ne dicano le cariatidi del partito democratico in vena di revival pseudo-europeista.

Fino ad oggi ad Elly Schlein veniva rimproverata la mancanza di coraggio a sinistra, oggi sembra che finalmente se lo sia dato e allora tutti le sono contro. Nemmeno il Padre Eterno mi convincerebbe dell’utilità di una scelta riarmista, figuriamoci la santissima trinità di Prodi, Letta e Gentiloni.

Se il partito democratico va in crisi su questa tematica, ne sono più che soddisfatto. Vogliamo ragionare di pace o vogliamo prepararci alla guerra? Ricordo come un noto esponente della sinistra democristiana affermò di preferire l’andata in crisi dell’allora governo di centro-sinistra per effetto della contestazione proveniente dalla sinistra cattolica piuttosto di quella promossa dagli allora moderati socialdemocratici di stampo saragattiano. Ebbene i socialdemocratici sono diventati tutti saragattiani, vedovi dell’atlantismo morto e sepolto di cui stanno elaborando il lutto.

Meglio che gli equilibri europei vadano in crisi sulla spinta delle idealità pacifiste piuttosto che rafforzarsi sulla base di scelte riarmiste.

 «Il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è l’ipocrisia» (Papa Francesco, discorso del 04 febbraio 2017 ai partecipanti all’Incontro “Economia di Comunione”, promosso dal Movimento dei Focolari).

Non siamo molto lontani da questa ipocrisia, ammantata di europeismo spicciolo.

«La corsa agli armamenti non risolve né risolverà mai. Essa serve solo a cercare di ingannare coloro che reclamano maggiore sicurezza, come se oggi non sapessimo che le armi e la repressione violenta, invece di apportare soluzioni, creano nuovi e peggiori conflitti» (papa Francesco nella sua Esortazione “Evangelii Gaudium).

I deludenti e pragmatici ragionamenti prodiani vanno purtroppo in questo senso. Romano Prodi abbia il coraggio di fare il notabile post-europeista: è ciò che gli rimane. Non ho mai avuto grande considerazione per la sua intelligenza politica, oggi ne ho ancor meno. Faccia autocritica, lasci in pace Elly Schlein e abbia rispetto per la sua sacrosanta pacifica incertezza.

Termino con la citazione delle parole del cardinal Zuppi sul capitolo Europa. «Dobbiamo investire nel cantiere dell’Europa che non sia un insieme di istituzioni lontane», ma una «madre della speranza di un futuro umano» che «non rinunci mai a investire nel dialogo come metodo per risolvere i conflitti, per non lasciare che prevalga la logica delle armi, per non consentire che prenda piede la narrazione dell’inevitabilità della guerra, per aiutare i cristiani e i non-cristiani a mantenere vivo il desiderio di una convivenza pacifica, per offrire spazi di dialogo nella verità e nella carità». Insomma, un’Europa che non punta soltanto sul riarmo, come invece viene dichiarato in questi giorni.

 

Anche Musk, prima o poi, piangerà.

Elon Musk fa e disfa a suo piacimento, intestandosi il ruolo di “picconatore” per conto di Donald Trump. L’imprenditore, presidente-ombra degli Stati Uniti, ha utilizzato come sempre il suo profilo X per accendere i riflettori sui rapporti ai minimi termini tra Washington e quelli che dovrebbero essere i suoi alleati, dall’Europea alla Nato, fino all’Ucraina che da tre anni fronteggia l’aggressione russa.

Sul suo social network dunque Musk minaccia e poi fa marcia indietro, insulta ministri e Paesi, in un comportamento senza limiti.

Si parte della Nato, l’Alleanza Atlantica che Trump vede ormai come un peso, sia politico che economico. Musk è ovviamente d’accordo e ad un utente che gli chiedeva su X di abbandonarla risponde così: “Dovremmo proprio farlo, non ha senso che l’America paghi per la difesa dell’Europa”.

Ma è solo l’inizio. Non contento Musk ha aggiunto che il suo sistema satellitare Starlink è una delle poche ancore di salvezza rimaste a Kiev, perché senza non potrebbe più difendersi dall’invasione russa. “Tutta la loro prima linea crollerebbe, se lo spegnessi. Ciò che mi fa star male sono anni di massacri in una situazione di stallo che l’Ucraina perderà inevitabilmente. Chiunque ha veramente a cuore la questione, riflette con serietà e vuole che questo tritacarne si fermi. Pace adesso”, il suo messaggio.

Parole che hanno spinto il ministro degli Esteri polacco Radosław Sikorski, marito dell’analista americana Anne Applebaum e responsabile della politica estera di un Paese che condivide con l’Ucraina centinaia di chilometri di confine, a insorgere e a ricordare che il governo di Varsavia paga i servizi Starlink per l’Ucraina: “A parte l’etica di minacciare la vittima di un’aggressione, se si dimostrerà un fornitore inaffidabile saremo costretti a cercarne altri”.

Parole che hanno innescato una incredibile rissa virtuale, con Musk che ha insultato apertamente Sikorski: “Stai zitto, ometto. Paghi una piccola parte del costo. E non c’è niente che possa sostituire Starlink”, le parole del miliardario sudafricano.

Soltanto ore dopo Musk, forse spinto da Trump, ha parzialmente ritratto quanto detto su Starlink: “Per essere estremamente chiari, non importa quanto io non sia d’accordo con la politica ucraina, Starlink non spegnerà mai i suoi terminali. Sto semplicemente affermando che, senza Starlink, le linee ucraine collasserebbero, poiché i russi possono bloccare tutte le altre comunicazioni! Non faremo mai una cosa del genere né la useremmo come merce di scambio”, ha sottolineato il Ceo di Tesla.

Le parole di Musk hanno aperto un fronte politico anche in Italia. Il post con cui l’imprenditore ha minacciato di privare l’Ucraina del sistema Starlink ha provocato la reazione della segretaria del Pd Elly Schlein, in prima linea come tutta l’opposizione contro il ddl Spazio recentemente approvato alla Camera.

“Musk sta dimostrando che l’unica cosa che vuole è estendere il proprio impero economico, anche se questo vuol dire farlo sulla pelle di un popolo aggredito che in queste ore sta subendo l’ennesima offensiva. Come fa Giorgia Meloni a voler consegnare le chiavi della sicurezza nazionale italiana a Musk anche dopo aver sentito le sue ultime gravissime parole? Il governo cambi subito rotta e sul ddl Spazio non si faccia dettare la linea da Musk. Senza una rete satellitare europea efficiente e competitiva la difesa europea non potrà mai esistere”, le accuse della leader Dem. (L’Unità – redazione esteri)

Come è possibile che improvvisamente gli Usa siano diventati lo zimbello culturale del mondo? Evidentemente qualcosa, da parecchio tempo, covava sotto la cenere. Per fortuna che non sono mai stato un filoamericano di vocazione: ho sempre guardato con scetticismo e sfiducia ad un Paese che l’ha fatta da padrone a destra e manca, combinando autentici disastri in tutto il mondo.

Tutto il mal non viene per nuocere: se l’alleanza atlantica deve essere un continuo ricatto per l’Europa, tanto vale disfarla. Ci arrangeremo. Se il sistema satellitare Starling deve essere la capsula entro cui chiudere la nostra democrazia, cercheremo alternative difficili ma serie.

È il momento di fare un po’ di chiarezza, costi quel che costi. Non voglio avere fra i piedi questa banda di mafiosi. Difendiamo la democrazia a pane e cicoria. Dovremo ridimensionare il nostro benessere? Tanto meglio! Diventeremo più poveri? Ne vale la pena! Vuoi vedere che in un colpo solo ci libereremo di Donal Trump, Elon Musk, Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni?

Smettiamola di trovare motivazioni plausibili per una inconcepibile deriva mondiale in cui siamo sprofondati. Non si sa da che parte voltarsi: sono saltati tutti gli schemi. Sto dalla parte degli sfigati e Dio sa quanti ce ne siano sparsi per il mondo. Bisogna rileggere la storia, ci siamo sbagliati, abbiamo preso lucciole capitalistiche per lanterne democratiche. Posso essere scurrile? Elon Musk infili tutti i suoi soldi nel suo capitalistico ano santo. E chi non combatte la povertà con me peste lo colga.  Mi resta solo la povertà e chissà che non si riesca una buona volta a far piangere i ricchi.

     

I cattolici di merda

Anche il progetto contro la violenza di genere a Cuzco, in Perù, dell’Ong romana Apurimac era evidentemente considerato uno spreco. «È stato eliminato – spiega il direttore Vittorio Villa – un programma di salute mentale e inclusione sociale per vittime di violenza di genere in famiglia. Un taglio indiretto che ha riguardato il nostro partner locale Associazione Santa Rita che ha avuto notizia di sospensione di un progetto finanziato dalla Iaf (Inter American Foundation, di derivazione governativa). Hanno anche inviato una richiesta di rimborso entro 15 giorni della parte non spesa della prima rata di circa 40.000 dollari erogata a dicembre». Dovranno pagare un ente che ha chiuso i battenti. «E il taglio – conclude Villa – colpirà centinaia di donne».

Un messaggio contraddittorio da un presidente che ha appena istituito per decreto marzo mese della donna. Non è l’unica contraddizione in questa storia catastrofica. I quattro giudici della Corte Suprema Usa (che avrebbero dovuto prevedibilmente sostenere Trump, ndr) che hanno votato contro il blocco dei tagli di Usaid, passato per un solo voto, sono tutti cattolici dichiarati di nascita e formazione. Come è cattolico (convertito) il vicepresidente Vance, che ha attaccato volgarmente i vescovi americani dopo che la conferenza episcopale Usa ha intentato una causa contro l’amministrazione Trump per la brusca interruzione dei finanziamenti per reinsediare i rifugiati. (dal quotidiano “Avvenire”)

I cattolici americani, aiutati purtroppo anche da un’incauta e provocatoria dichiarazione papale resa in campagna elettorale, si sono scherniti di fronte alla candidatura democratica abortista di Kamala Harris e hanno finito con l’appoggiare l’anti-abortista Donald Trump. E adesso, dopo avere scherzato col fuoco, si leccano le enormi bruciature. Fare confusione tra politica ed etica è estremamente pericoloso e a volte fuorviante. La politica è l’arte del possibile a prescindere dall’integralismo cattolico.

Mia sorella Lucia era implacabilmente severa nei confronti dei cattolici nel loro approccio alla politica: sintetizzava il giudizio con una espressione colorita, esagerata e disinibita come era nel suo carattere. Non andava per il sottile e li definiva “cattolici di merda”. Diffidava degli integralismi cattolici: quello di chi pensa di poter fare politica come si usa fare in sagrestia, bisbigliando calunnie e ostentando un insopportabile e stucchevole perbenismo; quello di chi ritiene di fare peccato scendendo a compromessi e negando quindi il senso stesso della politica per rifugiarsi nella difesa aprioristica, teorica per non dire astratta dei principi religiosi; quello di chi ritiene la politica qualcosa di demoniaco da esorcizzare, lavandosene le mani e finendo col lasciare campo ancor più libero a chi intende la politica come l’arte dei propri affari; quello di chi pensa di coniugare al meglio fede e politica confabulando con i preti, difendendo il potere della Chiesa e assicurandosi succulente fette di consenso elettorale; quello di chi pensa che i cattolici siano i migliori fichi del bigoncio e quindi li ritiene per ciò stesso i più adatti a ricoprire le cariche pubbliche. Così come non sopportava il clericalismo ad oltranza, a rovescio non digeriva i giudizi sommari contro i cattolici investiti di incarichi pubblici; così come non sopportava i bigotti del tempio, non gradiva i bigotti della cellula di partito. Si riteneva una cattolica adulta, capace pur con tutti i suoi limiti e difetti, di discernere in campo politico, senza fare ricorso agli ordini provenienti dal clero, soprattutto quello di alto bordo.

Adesso il pasticcio è stato combinato e ci vorranno anni per rimettere a posto i cocci. Votare a destra è un gravissimo errore anche e soprattutto per i cattolici, privi spesso di senso politico. Diamo pure la colpa alla sinistra incapace di rappresentare le istanze popolari.

Al riguardo considero stupendo, elegante ma giustamente sferzante il giudizio formulato da Massimo D’Alema su Federico Rampini (sempre più insopportabile amico del giaguaro statunitense): molto comprensivo verso la destra americana con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Attaccare la sinistra per finire col giustificare il voto a destra è uno sport estremo. Non voterei a destra nemmeno se la sinistra candidasse un Adolf Hitler. I cattolici americani, al contrario, non hanno esitato a votare per un gruppo di nazisti riveduti e scorretti. E adesso sono anche cazzi nostri!

 

 

 

Al guären di can in céza

Si riapre il caso Diciotti. La Cassazione, sezioni unite civili, il massimo livello della giustizia, ha accolto il ricorso di un migrante eritreo che era a bordo della nave della Guardia costiera che su ordine del ministro dell’Interno, Matteo Salvini, dal 16 agosto al 25 agosto 2018, nei primi quattro giorni non fu autorizzata ad attraccare in un porto italiano e nei successivi sei giorni, una volta permesso l’attracco nel porto di Catania, non ottenne il consenso allo sbarco sulla terra ferma. Per la Cassazione invece dovevano sbarcare subito e quindi il danno per i migranti c’è stato, e deve essere risarcito, diversamente da quanto deciso un anno fa dalla Corte d’appello di Roma. (dal quotidiano “Avvenire”)

Nei giorni scorsi abbiamo assistito a clamorose divisioni nella maggioranza di governo in materia di politica europea: la premier Meloni si è presentata al Consiglio europeo strordinario con alle spalle violenti scontri e divergenze sulle strategie difensive, sulle scelte inerenti le armi, sugli eventuali interventi a garanzia dell’integrità territoriale dell’Ucraina. Sono volati gli stracci fra Salvini e i partner di governo. Un paio di giorni ed ecco la ritrovata unità nel dare addosso alla magistratura ed ai migranti da essa difesi nei loro sacrosanti diritti.

«Non credo siano queste le decisioni che avvicinano i cittadini alle istituzioni e confesso che dover spendere soldi per questo, quando non abbiamo abbastanza risorse per fare tutto quello che sarebbe giusto fare, è molto frustrante». Lo afferma sui social la premier Giorgia Meloni, commentando la sentenza con cui la Cassazione ha accolto il ricorso di un gruppo di migranti a cui, dal 16 al 25 agosto del 2018, dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, fu impedito di sbarcare dalla nave Diciotti.

«Non so cosa rispondere, credo che il dovere del governo sia di difendere i confini nazionali, ma se tutti gli immigrati irregolari chiedessero un risarcimento così facciamo fallire le casse dello Stato. È una sentenza che non condivido, non ne condivido le basi giuridiche». Così il ministro degli Esteri e segretario di Forza Italia Antonio Tajani a una domanda sulla decisione della Cassazione sul risarcimento chiesto al governo per i migranti trattenuti sulla nave Diciotti.

«Sentenza della Cassazione sulla Diciotti? Ennesima vergogna. Chiedere dopo anni che siano i cittadini italiani a pagare per la difesa dei confini, di cui ero orgogliosamente protagonista, è indegno. Paghino i giudici e accolgano i clandestini, se ci tengono tanto». Lo afferma sui social il vicepremier e leader della Lega Matteo Salvini. (sempre dal quotidiano “Avvenire”)

Quando si litiga, è facile e comodo trovare l’accordo nel dare addosso ai poveri cristi, ai cani in Chiesa che nessuno sopporta. Il governo italiano è salvo! Che vergogna!

 

 

 

La pace, se non è giusta, che pace è

«Serve una pace giusta, che non crei un omaggio alla prepotenza delle armi». Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella nel corso della sua visita in Giappone ha rilasciati un’intervista all’emittente nipponica Nhk. «È da tre anni che l’Italia chiede che ci si sieda ad un tavolo per negoziare una pace naturalmente duratura e giusta. Occorre che si arrivi ad una soluzione che non mortifichi nessuna delle due parti».

Dopo gli attacchi arrivati dalla portavoce del ministro degli Esteri russo Lavrov, Maria Zakharova, Mattarella senza farvi esplicito riferimento ribadisce che «quella della Russia all’Ucraina è stata un’aggressione in violazione delle regole del diritto internazionale, della carta dell’Onu, di ogni regola di convivenza tra i Paesi». E ora «è evidente che una soluzione di pace deve essere circondata da garanzie che non si riprendano le ostilità. Ed essendo la Russia molto più potente e molto più armata dell’Ucraina significa garanzie per la sicurezza dell’Ucraina».

Tuttavia, i negoziati di pace non sono ancora iniziati e quindi, per Mattarella «è prematuro» discutere di soluzioni come l’eventuale invio di forze militari in Ucraina per svolgere una funzione di peacekeepers successivamente ad un cessate il fuoco.

Emerge sempre più chiaramente che «rafforzare la difesa europea è uno sviluppo naturale dell’integrazione europea che è andata avanti in questi decenni».

Guardando, in uno scenario più ampio, al nuovo corso avviato dall’Amministrazione Trump con la politica di dazi, «un mondo fatto di economie chiuse, in contrapposizione tra di loro, è un mondo invivibile. Invece un mondo fatto di economie aperte – conclude il capo dello Stato – è quello che nella storia ha sempre accompagnato la pace». (dal quotidiano “Avvenire” – Angelo Picariello)

Meno male che c’è Mattarella a portare un po’ di buon senso e di equilibrio nei rapporti internazionali. In un momento storico improntato alla improvvisazione e allo scontro, una boccata d’ossigeno ci fa del bene.

La difesa europea senza mettere il carro avanti ai buoi, l’invio di forze militari quale eventualità da valutare con calma in una logica di graduale pacificazione, le economie aperte da perseguire quale viatico alla pace, le garanzie per la sicurezza dell’Ucraina da basare come presupposto per il ritorno alle regole del diritto internazionale. La pazienza è il dato emblematico per la ricerca della pace giusta, che non si fondi sulla prepotenza delle armi.

Finalmente un messaggio positivo! Era ora…

 

 

Agenzie rare per lo sviluppo internazionale

“Cari amici, come sapete il 20 gennaio scorso il Presidente Trump ha firmato un ordine esecutivo che congelava per 90 giorni i finanziamenti gestiti da UsAid (l’Agenzia governativa statunitense per lo sviluppo internazionale) destinati ai programmi di aiuto umanitario. Il 27 febbraio questa sospensione è diventata definitiva e gli aiuti sono stati ridotti del 92%. Ma cosa significa per il nostro ospedale?”. Inizia così una lettera aperta firmata da Giovanna Ambrosoli, della Fondazione Ambrosoli, che sostiene un grande ospedale a Kalongo, nel nord dell’Uganda, fondato dal padre comboniano Giuseppe Ambrosoli. Per l’ospedale di Kalongo il taglio ai fondi UsAid “significa non poter più garantire materiali, medicine e cure salvavita a migliaia di persone, non poter contare su uno staff dedicato, non poter più raggiungere le comunità più vulnerabili e prive di risorse, tutte attività essenziali sostenute da oltre 15 anni dai finanziamenti UsAid per la lotta all’Hiv”.

“La loro improvvisa cancellazione ha causato la sospensione immediata dell’intero staff medico dedicato alla cura dell’Hiv e la cancellazione di tutti i servizi di prevenzione e cura sul territorio costringendo i pazienti dei villaggi più lontani a recarsi in ospedale o a interrompere il trattamento per la mancanza di mezzi e risorse per raggiungerlo e rassegnarsi a drammatiche prospettive future”. Giovanna Ambrosoli aggiunge: “Noi siamo al lavoro per cercare soluzioni immediate per non lasciare sole le 3.087 persone che sino ad oggi hanno potuto contare sulle eccellenti cure della clinica Hiv e perché il personale non perda il lavoro lasciando l’ospedale privo della presenza di questi operatori dediti e competenti. Nell’immediato abbiamo potuto garantire per 3 mesi la copertura del costo di 23 membri del personale della clinica per la cura dell’Hiv che di fatto rappresenta il 9% del personale dell’ospedale. Ma sappiamo che i nostri enormi impegni nel sostenere la continuità dei servizi ospedalieri non ci danno la certezza di poter mantenere questo ulteriore supporto perché la nostra maggiore responsabilità è garantire la continuità di tutti i servizi ospedalieri, non solo quelli dedicati all’Hiv”. “Restateci vicino – questi l’appello – per continuare a proteggere la vita dei più fragili e garantire un futuro di cure e speranza per tutti”. (SIR Agenzia d’informazione)

La Corte Suprema ha bloccato la sospensione dei fondi Usaid decisa da Trump e quindi non si sa come finirà questa folle interruzione degli aiuti umanitari. Se negli Usa rimaneva acceso un barlume di umanità, ci ha pensato Trump a spegnerlo di brutto.

Siamo alla demagogia dell’anti-demagogia! E se l’Europa anziché stanziare fondi per il riarmo costituisse un’Agenzia per lo sviluppo internazionale in sostituzione di Usaid?! Sarebbe una gran bella provocazione: il miglior modo per rendersi autonomi rispetto all’isolazionismo imperante avviato dall’amministrazione Trump.

Dal momento che gli schemi politici si stanno rivelando inadeguati a delineare un futuro di pace, tanto vale ripiegare su schemi etici. La risposta europea a suon di spese militari e di contro-dazi non porta da nessuna parte. Mettiamoci in una logica diversa, cerchiamo di rifondare l’Unione europea sull’aiuto a chi soffre. Proviamo! E se qualcuno intenderà invaderci, si accomodi pure, anziché terre rare ricche di minerali, troverà agenzie governative rare piene di debiti umanitari.

 

L’ubriacatura riarmista

«Viviamo in un’era di riarmo». Ursula von der Leyen punta dritta al nodo della questione: il mondo gioca alla guerra e l’Ue si prepara. La presidente della Commissione europea propone perciò un piano per rendere l’Unione a prova di questi «tempi pericolosi», come li definisce lei stessa. Un piano che sarà discusso già tra due giorni, in occasione del vertice straordinario dei capi di Stato e di governo dell’Ue del 6 marzo, e che snatura l’idea di pace alla base del progetto di integrazione, e che si palesa nel punto tre del piano inviato alle capitali e alle cancellerie di tutta Europa: gli Stati potranno usare i fondi di coesione per spese nel settore di difesa. Non più strade, ponti, ospedali, piste ciclabili, dunque. I fondi strutturali concepiti per rilanciare i territori e appianare i divari come quello nord-sud d’Italia verranno usati per altro. «Rearm Europe può mobilitare quasi 800 miliardi di euro in spese per la difesa per un’Europa sicura e resiliente», spiega Von der Leyen. (La Stampa – Emanuele Bonini)

Non so sinceramente se essere più preoccupato, meglio dire sconvolto, della orrenda piega impressa da Trump ai rapporti internazionali o della reazione avviata in sede europea. Speravo che l’attacco trumpiano potesse servire ad uno scatto di dignità, temo invece che serva a reagire in malo modo, mostrando i muscoli in una sorta di gara bellicista e riarmista. Ci stiamo accorgendo che è proprio quel che desidera Trump? Trascinarci in un vortice senza via d’uscita, diventando politicamente irrilevanti, commercialmente titubanti e strategicamente devitalizzati.

Possibile che l’unica risposta europea debba consistere nell’aumento delle spese militari, in una sorta di conversione da un’economia di pace ad un’economia di guerra? L’industria bellica si sta leccando i baffi e i mercati finanziari ne stanno prendendo atto: le armi le compreremo dagli Usa. La nostra economia soffrirà i dazi commerciali, ma respirerà con i polmoni d’acciaio.

Forse stiamo prendendo troppo sul serio le fandonie americane e ce ne facciamo condizionare. Anziché cercare nel nostro retroterra di civiltà, finiamo col rovistare nel laboratorio americano dell’inciviltà. È il momento di Irrobustire le mani fiacche, di rinsaldare le ginocchia vacillanti, di abbandonare la paura. Non c’è tempo da perdere? D’accordo, ma attenzione all’ansia cattiva consigliera.

I democratici non hanno mai applaudito, i repubblicani hanno consumato mani per applaudire il presidente Trump nel discorso davanti alle Camera riunite in stile Discorso sullo Stato dell’Unione. Una trasposizione dell’America divisa quella andata in scena a Capitol Hill ieri sera. Da una parte i conservatori a sostenere ogni virgola dell’agenda trumpiana, dall’altra gli orfani della presidenza Biden che hanno inscenato proteste mostrando palette nere con le scritte «Musk ruba» o «Falso» alzato ogni volta il presidente diceva qualcosa di poco aderente, secondo i criteri dem, al vero. Dopo pochi minuti è stato cacciato dall’aula il deputato del Texas Al Green che imperterrito ha interrotto più volte il discorso di Trump accusandolo di voler distruggere la sanità pubblica. Tre deputate poi a un certo punto si sono alzate, hanno dato le spalle a Trump si sono tolte la giacca e mostrato una maglietta nera con la scritta «Resist». Poi hanno lasciato l’aula. (La Stampa – Alberto Simoni)

Ebbene, dovremmo avere il coraggio di andare per la nostra strada. Come ho più volte ricordato e scritto, il presidente Sandro Pertini sosteneva, in un ammirevole mix di realismo, patriottismo e riformismo, che il popolo italiano non è né primo né secondo agli altri popoli. Il discorso vale a maggior ragione per il popolo europeo. Non facciamoci quindi prendere dal senso di inferiorità rispetto agli Usa. A tal proposito ricordo una simpatica barzelletta di uno storico personaggio di Parma, Stopàj. Questi, piuttosto alticcio, sale in autobus e, tonificato dall’alcool, trova il coraggio di dire impietosamente la verità in faccia ad un’altezzosa signora: «Mo salä che lè l’è brutta bombén!». La donna, colta in flagrante, sposta acidamente il discorso e risponde di getto: «E lu l’è imbariägh!». Uno a uno, si direbbe. Ma Stopaj va oltre e non si impressiona ribattendo: «Sì, mo a mi dmán la me pasäda!». Gli europei guardano la situazione e la trovano molto, troppo brutta, allora le si rivolgono contro assumendo toni disinibiti da ubriaco per farsi coraggio, con una differenza sostanziale: l’ubriacatura generale non dura solo un giorno, si protrae nel tempo e tutti sappiamo i danni irreversibili che può provocare.

 

   

Lo zoccolo duro dei valori condivisi

Il volto paonazzo, la postura aggressiva, le parole come pietre. Nulla di nuovo, purtroppo. Togliete Donald Trump dallo studio ovale mentre si scaglia contro Volodymyr Zelensky. Mettetelo in un’arena per comizi tra la folla osannante, in chiesa mentre ascolta le suppliche umanitarie di una donna vescovo o in un video creato dall’intelligenza artificiale nel quale prende il sole lungo la Striscia di Gaza insieme all’amico Benjamin Netanyahu. Sarà sempre lo stesso Trump, quello che da 40 giorni vuole sconvolgere il mondo. «C’è un nuovo sceriffo in città» direbbe J.D. Vance, il suo vice pronto ad aizzarlo e a blandirlo come ha fatto venerdì a Washington scatenando lo sdegno del leader ucraino. «Non fa nulla per correggersi, nulla per aderire alla missione pubblica che gli è stata affidata per la seconda volta dai cittadini americani» spiega Mario Morcellini, professore emerito di comunicazione all’Università La Sapienza di Roma. L’uomo più potente al mondo «fa di tutto per scuotere dalle sue spalle i pesi gravosi dell’incarico, moltiplicando all’infinito il suo istinto bestiale».
È la prova che la comunicazione politica è finita, perché è diventata tutto e il contrario di tutto. Un’arma potente da usare, ma anche un boomerang. «Siamo davvero alla regressione morale, alla secessione delle nostre certezze» ribadisce lo studioso quando gli si chiede se e come sopravvivremo a questo magma verbale, in cui escono ammiccamenti, paranoie, battute. «Donald Trump sta infliggendo alla coscienza pubblica occidentale una serie di colpi senza precedenti. Lavora sulle nostre percezioni e sulla nostra anima, provocando in noi un male oscuro, quasi psicologico».

(…)
Di questo passo, chissà quando misureremo i danni di questa sovreccitazione. «Alla fine resterà in piedi solo chi deciderà di non entrare in questo gioco perverso: chi non si servirà solo di una comunicazione fatta di punti esclamativi, ma anche di frasi più complesse, che prevedono soggetti, verbi e persino il congiuntivo» argomenta Morcellini. È l’unica buona notizia per l’Europa e per quella parte di Occidente che oggi è sgomenta: restare capaci di un pensiero e di una visione forse ci salverà. (Dal quotidiano “Avvenire” – Diego Motta)

In un simile disarmante contesto fanno sorridere le domande su cosa ne pensi Giorgia Meloni: è il personaggio totalmente incapace di un pensiero e di una visione; non aspettiamoci niente se non l’invito a rassegnarsi opportunisticamente. Gli altri leader europei, bene o male, stanno impostando una reazione, anche se ne vediamo i limiti. La risposta non può essere calata dall’alto della politica, ma salire dal basso della coscienza popolare. Anche i migliori commentatori stanno balbettando, le loro categorie di analisi non reggono.

Non è un caso se sto rinunciando all’ascolto dei dibattiti televisivi, anche i più seri e impegnati, per ripiegare sul dialogo interpersonale, che faccia rifermento alle esperienze concrete di vita democratica. C’è il rischio della nostalgia: a volte serve più la nostalgia che costringe a ripartire dallo zoccolo duro dei valori condivisi, piuttosto che andare in cerca di traballanti risposte nuove.

A livello europeo stiamo cadendo nella trappola: cerchiamo risposte comuni nel riarmo, nei riti pseudo-diplomatici, nei vuoti tatticismi. È cambiato il mondo, dobbiamo scendere per ripartire da un bastimento carico di…