Il dopo-referendum ha costretto la politica italiana in uno striminzito recinto i lati della cui staccionata sono costituiti: dalla pronuncia della Corte Costituzionale sull’Italicum (24 gennaio 2017); dalla necessità, precedente e conseguente a tale sentenza, di varare una legge elettorale omogenea per i due rami del Parlamento, che possa garantire rappresentatività, governabilità e stabilità; dalla celebrazione dei due referendum in materia di lavoro (voucher e appalti) quale misera rimanenza di uno spropositato attacco sindacale (CGIL) al Jobs act; dalla insulsa e impossibile contingenza di coniugare una certa continuità nell’azione di governo (emergenze interne e internazionali) con la smania miracolistica di ricorrere alle urne per tastare il polso all’elettorato.Dentro questo recinto si è ficcato anche Matteo Renzi condizionato dalla bruciante sconfitta elettorale sulle riforme costituzionali, dalle estenuanti diatribe interne al suo partito, dalla voglia di frettoloso riscatto e sopratutto dalla volontà di risalire rapidamente in sella per proseguire un discorso riformatore avviato e precocemente interrotto.Il segretario Pd sta tentando di mettere assieme il doveroso appoggio al governo Gentiloni, che sta lavorando nel segno della continuità, con la spasmodica corsa alle elezioni, fattore di per sé automaticamente vocato alla discontinuità politica, la forte ripresa nell’azione politica del Partito democratico con una verifica interna che neutralizzi le divisioni nel bagno purificatore delle primarie. Una gara durissima al limite dell’impossibile, che, tra l’altro, richiederebbe doti politiche di mediazione che sinceramente fanno a pugni con il piglio decisionista di Renzi.In questo momento storico, se Renzi vuole provare ad essere uno statista e non solo un, seppur bravo, governante e ancor meno un semplice, seppur forte, segretario di partito, deve dare la precedenza ai tempi istituzionali senza farsi trascinare nella bagarre pre-elettorale. Lasci che il Parlamento, anche e soprattutto ad iniziativa costruttiva del PD, vari una seria legge elettorale, consenta al governo, appoggiandolo convintamente, di affrontare i numerosi nodi programmatici che ha di fronte (compreso il varo delle misure necessarie per disinnescare i referendum in materia di lavoro), permetta al Paese di presentarsi dignitosamente ed autorevolmente agli imminenti appuntamenti europei ed internazionali, lasci al Presidente della Repubblica la delicata decisione su quando eventualmente sciogliere anticipatamente le Camere.Quando la pazienza non è mero attendismo ma solerte e costruttiva azione preparatoria, occorre sforzarsi di portarla, senza paura di perdere il treno: meglio aspettare quello giusto che salire sul primo che passa rischiando di deragliare assieme ai troppi improvvisati macchinisti.Il tempo oltretutto potrebbe essergli utile per colmare le lacune del suo partito non solo con forti iniziative mediatiche e con un conflittuale rapporto con le minoranze: si preoccupi dell’ insufficiente legame col territorio, della scarsa attenzione alla dirigenza periferica, dell’ anemica vitalità politica nella base degli iscritti.Se fossi Renzi farei così. Non lo sono e chiedo scusa.
Fate come dico e non come faccio
Non entro nel merito dell’ammissibilità dei referendum promossi dalla CGIL in materia di riforma del lavoro. La Corte Costituzionale ha emesso l’ardua sentenza. Uno dei tre, ed è stato ammesso, riguarda la cancellazione dei voucher, l’eliminazione cioè del modo sbrigativo ma concreto di regolarizzare le prestazioni temporanee ed accessorie difficilmente inquadrabili nelle fattispecie contrattuali civilistiche, contributive e fiscali vigenti: si vorrebbero eliminare in quanto utilizzati per finalità molto differenti da quelle che il legislatore si era proposto.Il presidente dell’Inps, intervistato al riguardo afferma: «Dai nostri dati nell’ultimo anno la Cgil ha investito 750 mila euro in voucher; non si tratta quindi né solo di Bologna né solo di pensionati. Anche altri sindacati hanno massicciamente usato questi strumenti, ad esempio la Cisl ne ha utilizzati per un valore di 1 milione e mezzo di euro».Più avanti nel corso della medesima intervista Tullio Boeri si toglie un sassolino dalla scarpa della sua proposta di razionalizzazione del sistema contributivo e pensionistico e dichiara senza mezzi termini: «Abbiamo pronta una circolare che interviene sulle modalità di calcolo delle pensioni dei sindacalisti. Alla luce di una sentenza della Corte dei Conti possiamo intervenire per via amministrativa anche su prestazioni in essere ad ex-sindacalisti. Basta solo l’ok del ministero del Lavoro e partiamo. Oggi alcuni sindacalisti distaccati possono fare versamenti anche molto consistenti negli ultimi anni di Lavoro. E questi versamenti episodici hanno un impatto sulla pensione molto rilevante al contrario di quanto avviene per gli altri lavoratori. Questa prassi ha portato ad aumenti del trattamento fino al 60%. Sono coinvolte circa 40 persone già in pensione e 1400 sindacalisti in attività. Piccoli numeri, ma con un forte valore simbolico di equità».Di fronte a queste imbarazzanti situazioni sindacali, penso innanzitutto a Luigi Di Vittorio, a Fernando Santi ed altri storici sindacalisti non più in vita che si capovolgeranno nella loro tomba per lo sdegno, mentre quelli ancora in vita arrossiranno di vergogna.Un tempo ai sacerdoti che si comportavano male, pregiudicando la credibilità del contenuto delle loro prediche, si era soliti applicare il discutibile detto “Fate come dico e non come faccio”.Lo dobbiamo estendere anche ai sindacalisti? Sono quasi sicuro che dal coro dei lavoratori, iscritti e non iscritti al sindacato, verrebbe un Sì urlato a squarciagola.D’altra parte la mia modesta esperienza mi ha messo talora a confronto con sindacalisti prestati all’imprenditoria: peggio dei peggiori padroni!Discorso analogo per i sindacalisti prestati alla politica: incapaci di passare dall’interesse di parte a quello generale.Mi capitò diversi anni fa, nell’ambito della svolgimento della mia funzione a livello di un’organizzazione imprenditoriale, di partecipare alle trattative sindacali in rappresentanza delle cooperative agricole. Si discuteva il rinnovo del contratto di lavoro dei loro dipendenti. Dopo un mio intervento, peraltro piuttosto moderato e rispettoso della controparte, fui malamente apostrofato da un operaio agricolo che mi invitò provocatoriamente a togliermi la giacca e ad andare a lavorare con lui per capire la situazione. Non ci pensai un attimo e risposi: «Dal momento che lo stipendio non me lo paga lei e nemmeno il suo sindacato, tengo la giacca e continuo a fare il mio mestiere. Quanto alle sue reprimende demagogiche veda di riservarle ai suoi sindacalisti in giacca e cravatta…». Probabilmente se lo incontrassi oggi, con le arie che tirano, mi darebbe ragione.
Sbornia o alcolismo?
Quasi in contemporanea al nobile e affascinante discordo d’addio di Barack Obama, durante una trasmissione televisiva è stata riproposta la scena disgustosa nella quale Donald Trump ha ridicolizzato un giornalista portatore di handicap reo di avergli posto domande fastidiose. Non contento di essere caduto in questo penoso incidente, lo ha negato facendolo passare come una bufala ed allora è stato puntualmente smentito e la verità è venuta a galla in tutto il suo squallore.Di fronte a queste stomachevoli immagini, due autorevoli (?) giornalisti, Enrico Mentana e Marco Travaglio, si sono trovati d’accordo nel dare vita breve al neo presidente americano qualora prosegua in questo snocciolamento di cazzate giornaliere, che vanno, come portata politica, ben oltre la presa in giro di un handicappato per arrivare alla presa in giro di tutto il mondo trattato come un accozzaglia di minus habens.Non sono troppo convinto che Trump imploda velocemente: ormai in politica non si è perso solo il limite del buon senso, ma anche quello del buon gusto. Vorrei capire cosa passa nel cervello della minoranza (sic!) degli americani che lo ha votato. Possibile che un cittadino dello Stato democratico per eccellenza si lasci abbindolare da un simile squallido personaggio e decida di metterlo alla Casa Bianca? Possibile! E allora i casi sono due: o la democrazia americana è moribonda o gli Americani sono cretini. La verità sta nel fatto che la gente ha molti problemi (fin qui niente di nuovo, anzi in passato ne aveva di più), ma non trova punti di riferimento ideali e valoriali a cui fare riferimento per sperare in una loro soluzione. In mancanza di forti idealità, la politica non è riuscita a trasferirsi sul piano della concretezza programmatica ed ha preferito rifugiarsi nella personalizzazione e leaderizzazione. Questo meccanismo per la verità è da sempre un connotato caratteristico degli USA: legare le sorti del Paese a un personaggio politico è molto pericoloso, se si sbaglia è un disastro, non c’è bilanciamento di poteri che tenga. Questa volta gli americani l’hanno fatta grossa: sono andati al bar, hanno alzato il gomito e poi sono andati a votare.Buttare nella pattumiera la bussola della democrazia sta diventando un gioco piuttosto in voga in tutto il mondo e dappertutto emerge questa tendenza alla “goliardizzazione” della politica.Beppe Grillo in Italia sta diventando (forse lo era in partenza) il protagonista non tanto della cosiddetta antipolitica, ma della ridicolizzazione della politica. L’ultima vicenda del ricollocamento europeo dei suoi parlamentari ha segnato, per ora, il culmine di questo processo. Nigel Farage non va più bene perché ha ottenuto quel che voleva (la brexit) e allora dobbiamo cercare un altro partner, proviamo con i liberal-democratici (i più europeisti di tutti). Cosa ne dite? Smarrimento nelle file del movimento cinque stelle, ma la cosa passa. Non passa però con Alde il partito dei liberali europei, i quali rifiutano sdegnosamente questo strano apparentamento. E allora? Niente, ci (Grillo e Casaleggio) siamo sbagliati, torniamo all’Ukip, chiediamo scusa, paghiamo il disturbo e…come non detto. Tutta colpa dell’establishment europeo che ha paura di noi.Qualcuno, forse in vena di scherzare, vede in questi continui sbandamenti grillini il prezzo da pagare per passare dal libro dei sogni alla realtà politica e sostiene che chi bolla l’incoerenza vorrebbe inchiodare i 5stelle ai vizi originari impedendo loro un percorso di maturazione democratica. L’elogio dell’incoerenza virtuosa vista come stage per gli apprendisti stregoni dell’antipolitica. Follia della follia.Mi viene alla mente un carissimo e simpatico amico, il quale, di fronte ad un suo conoscente incappato nelle maglie della giustizia e messo in carcere per qualche giorno, se la cavò dicendogli a posteriori: «Nella vita bisogna provarle tutte, lei adesso ha vissuto anche questa esperienza…».A chi aveva espresso riserve Grillo ha personalmente inviato uno screenshot del regolamento firmato prima delle elezioni europee in cui si prevede che la decisione sulle strategie da adottare al Parlamento spettano solo al capo politico, che le sottopone alla ratifica della rete; la penale per chi non rispetta la linea è di 250mila euro.No mi sembra proprio il caso di un anti-politico alla disperata ricerca della politica, di un soggetto che sbagliando sta imparando.Possibile che un cittadino italiano si lasci abbindolare da un simile comico personaggio (per cortesia lasciamo stare il suo ideologo che c’entra come me) e decida di candidarlo (magari per interposta persona) a governare il Paese? Possibile!E allora i casi sono due: o la democrazia italiana è moribonda o gli Italiani sono cretini.Mi fermo. Preferisco girare la domanda: quali e quanti guasti ha combinato la classe politica italiana per averci portato ad ubriacarci al bar di Beppe Grillo? L’importante è che si tratti di una sbronza e non dell’inizio di una vera e propria dipendenza dall’alcool.Ricordiamoci di quella barzelletta che ha per protagonista il mitico Stopàj. È in autobus, piuttosto ubriaco, guarda attentamente una donna e le dice senza ritegno: «Sale che lè l’è brutta c’me la paura?!». «E lu l’è imbariägh cmé ‘na topa!» contrattacca la malcapitata. «Sì, mo a mi dmán la m’è pasäda…» conclude Stopaj.E a noi quando passerà la sbornia?
Vizi privati pubbliche virtù
Ogni tanto, a livello di stampa, emergono incredibili dati su abusi, ingiustizie e privilegi nel settore del pubblico impiego. Il tempo di scandalizzarsi, gridare “basta” e poi tutto ritorna nella normalità.Non credo sia una questione legislativa: le leggi ci sono, ma non vengono applicate o vengono applicate in modo distorto o vengono apertamente violate.E i controlli? A parte la storica tendenza ad incappponirsi sulla pagliuzza formale lasciando correre la trave sostanziale, ho la netta sensazione che viaggino a scartamento ridotto rispetto a quanto viene fatto nel settore privato. Della serie cane non mangia cane.In questi giorni vengono pubblicati dati paradossali relativamente all’inchiesta sugli imboscati, coloro che riescono, grazie a certificati di inabilità e permessi, a evitare i lavori più faticosi o in orario disagiato. IL 12% dei dipendenti della sanità pubblica sono inidonei al lavoro per il quale sono stati assunti; il 13,5% dei dipendenti pubblici è beneficiario della legge 104 quanto a disabililità grave o a parentela con soggetti in tale situazione. Credo sia solo la punta dell’iceberg, non voglio generalizzare e tanto meno criminalizzare i dipendenti pubblici, ma le sacche di assenteismo, disimpegno, privilegio sono sicuramente molto grosse.E i sindacati? Qui si apre un discorso delicato: il corporativismo e il clientelismo li hanno imprigionati e coinvolti in una difesa di tutti e a tutti i costi, accettando una politica di bassi salari (giustificata da ragioni di carattere erariale) compensati da privilegi (apparentemente non costosi), ma in realtà a scapito del merito e della produttività.Mia sorella aveva riscontrato questa magagna dal fronte professionale e da quello amministrativo, in parole povere da dipendente pubblico e da pubblico amministratore. Mi raccontava un episodio piuttosto emblematico accaduto all’interno dell’amministrazione comunale parmense. Una mattina l’assessore al personale, senza preoccuparsi di presentarsi come tale, telefonò in un ufficio comunale per mettersi in contatto con un dipendente. In sua assenza rispose il commesso che spiegò come il collega fosse momentaneamente assente seppure regolarmente in servizio. L’assessore non indagò oltre e preannunciò una successiva chiamata. Il commesso diligentemente (?) si permise di consigliare la richiamata entro le 13,30 (l’orario d’ufficio scadeva alle 14,00) dicendo apertamente che dopo tale ora non avrebbe più trovato nessuno, perché tutti (o quasi) se ne andavano per tempo… L’assessore a quel punto si inorecchiò e rispose: «Bene, allora facciamo così: quando il suo collega rientra mi faccia chiamare…». «Chi devo dire?» chiese il commesso sentendosi rispondere seccamente: «L’assessore al personale!». La cosa si riseppe e non vi dico gli improperi che l’ingenuo commesso raccolse dai colleghi messi a nudo nella loro sommersa ed omertosa trasgressività.Giacché sono, come spesso mi accade in vena di ricordi famigliari, voglio riportare come rifletteva ad alta voce mio padre di fronte alle furbizie varie contro le casse pubbliche: «Se tutti i paghison e i fisson col c’lè giust, as podriss där d’al polastor ai gat…».
La scoperta degli altarini americani
Non vorrei essere troppo condizionato dalla nostalgia obamiana, ma aspetto con terrore l’inizio della presidenza americana di Donald Trump. Spero nel noto detto che dice: “A volte il diavolo è meno brutto di quanto si possa pensare”.È vero che, come sosteneva Aldo Moro, le spie sono i peggiori soggetti esistenti e quindi la Cia (altro non è che un covo di spioni) penso abbia un’attendibilità piuttosto limitata, tuttavia quanto emerge dal suo rapporto in ordine alle interferenze russe nella campagna elettorale statunitense aggiunge una luce sinistra alla imminente già preoccupante epopea trumpiana.Il presidente entrante considera questa indagine una caccia alle streghe e la vicenda viene da lui retrocessa a mera guerra tra spie che non avrebbe comunque influito sul voto.Ammettiamo pure che la questione sia così come la mette Trump. Resta comunque il dato inquietante – non tanto quello che i servizi segreti russi siano riusciti a trafugare le email al partito democratico (gli hackeraggi e i cyber-attacchi sono all’ordine del giorno a tutti i livelli), né che i russi avessero l’obiettivo di minare la fiducia dell’opinione pubblica americana nel processo elettorale democratico e di denigrare Hillary Clinton (tra nemici storici ci può stare anche il boicottaggio) – che è costituito dalle prove del coinvolgimento degli uomini di Putin per “pilotare” le elezioni Usa a favore di Trump e dal fatto che i servizi segreti americani abbiano intercettato diversi funzionari russi i quali hanno esultato per la vittoria del tycoon considerandola un successo geopolitico e congratulandosi al riguardo fra di loro.Donal Trump insomma piace molto alla Russia di Putin e a tutti i più retrivi e assurdi politici al di fuori degli Usa che lo attendono con ansia (Netanyahu in testa), più che agli americani i quali avrebbero una voglia matta di fare marcia indietro (le manifestazioni contrarie a Trump si sprecano anche se questo attivismo protestatario del poi avrebbe fatto meglio a sfogarsi nel voto elettorale del prima) e, sbollita la sbornia, rimpiangono già Barack Obama (i sondaggi danno ad Obama il massimo grado di approvazione dei presidenti in uscita) al punto da attaccarsi alle lacrime di Michelle (lei gode addirittura del favore di due americani su tre) come un bambino impaurito si attacca alla gonna della mamma. Strano Paese gli Usa, la più grande e contraddittoria democrazia che rischia di mettere la parola fine alla democrazia, elegge a presidente, con una netta minoranza di voti, un pazzo che vuol portare indietro le lancette della storia, un uomo che forse interpreta al meglio proprio tutte le contraddizioni di un popolo allo sbaraglio, un innovatore che mette al posto del tanto bistrattato establishment statale il suo entourage, che protegge i posti di lavoro a livello nazionale mettendo sul lastrico gli occupati o gli occupandi del resto del mondo, che lascia intendere di voler governare sulla base di un chiaro motto: ognuno per sé, Trump per tutti.Questa simpatia, peraltro comprensibile, di marca russa non è certo di buon auspicio per una cordiale intesa tra leader in cerca di pace, non è la premessa per un incipiente gentleman agreement fra le due superpotenze, ma, a mio giudizio, è la sconcertante base per un ignobile connubio tra due personaggi spregiudicati, capaci, con l’aiuto delle loro reciproche oligarchie e sull’onda dei poro populismi, di fare i propri sporchi e loschi affari, spartendosi il potere sulla pelle del mondo intero.Spero di sbagliarmi, ma considerata la storia, lo stile e il programma di questi leader, c’è di che essere molto preoccupati. Se la democrazia è appesa ai fili di Putin e Trump, non ci resta che sperare nella Cina, visto che l’Europa tende all’inesistenza. Oppure sperare che due soggetti in mega-conflitto di interessi possano perseguire l’interesse del mondo: il ragionamento che fecero gli Italiani dando fiducia a Berlusconi. Magari nel nuovo quadro internazionale tornerà ad essere protagonista anche lui: amico di Putin lo è, di Trump fa presto a diventarlo (la somiglianza persino fisica è sorprendente), e noi Italiani avremo un motivo in più per sperare: la speransa di mäl vesti, cha faga un bón invèron.
Le ovvietà dei sociologi e i colpi bassi del sindaco
Se devo essere sincero, nutro poca stima nei confronti di tre categorie di esperti, studiosi (no scienziati): psicologi, sociologi ed economisti. Spero di non offendere o irritare nessuno perché di paradossi si tratta. Gli psicologi hanno sempre ragione in quanto, per il dritto o per il rovescio, in un modo o nell’altro, in un senso o nel suo contrario, trovano sempre una spiegazione, piuttosto campata in aria, e nessuno è in grado di confutarla.I sociologi, come detto più autorevolmente da altri, si dedicano, più o meno abilmente, alla elaborazione sistematica dell’ovvio, fanno una fotografia, più o meno nitida, della situazione. Gli economisti elaborano teorie che si rivelano sempre e sistematicamente sbagliate: in parole povere non ci pigliano mai.Lasciamo stare, per il momento, psicologi ed economisti, verrà anche il loro turno ed occupiamoci di sociologia. In questi giorni sono usciti i risultati di una indagine statistica, condotta da Demetra, che fornisce i dati per il rapporto “Gli Italiani e lo Stato”, realizzato da Demos &Pi per la Repubblica. Al di là dell’emergente ovvietà della sfiducia degli Italiani nello Stato e nei partiti – cosa che si respira nell’aria senza bisogno di lunghi e costosi studi che spesso hanno il solo scopo di far lavorare e guadagnare ricercatori ed esperti – si notano alcuni risultati in paradossale controtendenza rispetto ai dati elettorali del recente referendum sulla riforme costituzionale, altri in preoccupante ascesa a livello di tenuta del sistema democratico, altri ancora in contraddizione fra di loro.Innanzitutto la riduzione del numero di parlamentari è vista con favore dal 92% degli intervistati, così come il bicameralismo perfetto tra Camera e Senato andrebbe superato per il 61% degli Italiani. L’esperto di turno commenta così: vuole le riforme anche chi votò No al referendum. I casi sono due: o sono errati i sondaggi (cosa ormai dimostratasi piuttosto probabile) oppure gli Italiani hanno votato senza capire cosa era loro richiesto (ipotesi che, per carità di patria e di compatrioti, vorrei non prendere in considerazione) oppure il referendum è stato completamente falsato nel suo oggetto, vale a dire riportato a mero, semplicistico e sintetico giudizio sul governo e forse ancor più sul sistema partitico (con il curioso fatto che i cittadini hanno raccolto l’indicazione al No che veniva proprio da tutti i partiti ad esclusione del Pd che vedeva schierata per il No gran parte della sua corrente di sinistra).In secondo luogo emerge che per il 48% degli Italiani la democrazia potrebbe funzionare senza partiti politici: il dato è inquietante se associato a quello della fiducia ai partiti stessi misurata da un 6% (ultima istituzione in classifica), ancor più se consideriamo che un italiano su tre avrebbe affermato di preferire, in alcune circostanze, un regime autoritario, oppure di essere indifferente tra regime autoritario e democratico. Roba da far tremare le vene ai polsi e da far rivoltare nella tomba tutti coloro che hanno dato la vita per conquistarci la democrazia. Qui si trova la conferma del vento populista che a livello mondiale, europeo e italiano sta soffiando dietro la solita e stupida motivazione dello spazzar via l’establishment, i poteri forti, le élite, la burocrazia, etc. etc.In terzo luogo un osservatore consequenziale da una così diffusa sfiducia nei confronti dello Stato si aspetterebbe percentuali da prefisso telefonico sulla soddisfazione verso i servizi pubblici (scuola, ferrovie, trasporti urbani, assistenza sanitaria), mentre questi dati non sono disastrosi e soprattutto in quasi parità rispetto ai servizi privati, 39% per il pubblico rispetto ad un 46% per il privato (nel 2015 il dato era addirittura in perfetta parità al 42%).Al di là del valore assai relativo di queste indagini e delle teorizzazioni sociologiche ad esse sovrapposte, abbiamo la conferma della debolezza della politica nei confronti dei problemi e delle aspettative della gente con il rischio delle scorciatoie pseudo-democratiche (leggi soprattutto M5S) e/o delle derive populiste (leggi soprattutto Lega).Non c’è alcun dubbio che la politica debba fare un profondo, autocritico e credibile bagno di umiltà, rimuovendo l’elemento scatenante della sfiducia costituito dalla corruzione: davanti ad essa infatti scompaiono tutti gli argomenti razionali sul valore della democrazia, sulle difficoltà oggettive, sull’enormità dei problemi da affrontare.Bisogna però essere molto attenti a coloro che cavalcano lo scontento e pretendono di avere in mano la bacchetta magica. Costoro hanno la presunzione di avere la verità in tasca e, quando qualcuno alza il ditino per far loro presenti contraddizioni e limiti piuttosto evidenti, si difendono, distogliendo il discorso dai contenuti e postandolo sul piano della rissa, attaccando in modo sguaiato, gridando trivialmente al lupo mediatico in combutta col potere (Beppe Grillo in penosa difesa dei propri metodi e delle debacle amministrative dei suoi adepti), oppure arrivando a volgari e vomitevoli insinuazioni (Luigi De Magistris in risposta alle critiche di Roberto Saviano).Voglio soffermarmi con poche parole su quest’ultimo episodio. Ammetto di avere letto con una certa soddisfazione il giudizio critico di Saviano nei confronti del sindaco De Magistris l’indomani dell’episodio camorristico di gravi intimidazioni a mano armata nei confronti degli ambulanti-immigrati rei di non voler pagare il pizzo, con ferimento casuale di una bambina di 10 anni che oltretutto c’entrava come i cavoli a merenda.Cosa ha detto di tanto irritante? Aveva solo criticato severamente il sindaco napoletano e la sua facilona autoincensazione a livello di sviluppo turistico e di ritrovata immagine della città: «È in carica da sei anni, ma parla come se si fosse appena insediato. Chi invita a distogliere lo sguardo da questa realtà mi fa paura quasi quanto le paranze che sparano». In buona sostanza Roberto Saviano ha chiesto un bagno di sano realismo comunale nel combattere la camorra, uscendo dai facili entusiasmi e dai virtuali risultati. Un richiamo forte al quale il sindaco ha ritenuto di rispondere non contrapponendo argomenti e dati, ma attaccando sul piano personale: «Stai facendo ricchezza sulle nostre sofferenze, sulle nostre lotte. Che tristezza non voglio crederci. Caro Saviano, non speculare più sulla nostra pelle. Sporcati le mani di fatica vera. Vieni qui, mischiati insieme a noi». La rissa verbale innescata da De Magistris è ovviamente proseguita, non la riporto anche se la risposta di Saviano meriterebbe di essere considerata molto attentamente. Io però non volevo entrare nel merito e non ci entrerò, volevo soltanto evidenziare l’insofferenza assoluta alle critiche da parte della cosiddetta anti-politica. Se questa è l’antipolitica mi permetto di preferire di gran lunga la politica con tutte le sue magagne.Ho recentemente rivisto, con grande nostalgia, uno spezzone di Tribuna politica, relativo agli anni sessanta, in cui, con tono aggressivo verso Aldo Moro, l’allora giornalista Mauro Paissan dava, in modo manicheo e demagogico, tutte le colpe alla Democrazia Cristiana ed al suo governo. L’allora presidente del consiglio non si difese promettendo qualche improbabile referendum, né promettendo mari e ponti, né imprecando alla falsità delle critiche, né tanto meno insultando l’interlocutore o squalificandolo sul piano personale. Con flemmatica ma carismatica eloquenza, Moro rispose (cito a senso): «Non sono d’accordo con le sue secche e sbrigative sentenze, penso che anche gli elettori non lo siano, aiutiamoli e lasciamoli ragionare, aspettiamo…». Per ovvi motivi non aveva potuto dargli del cretino apertamente, lo fece solo di sponda… Altri tempi, altri uomini, altro stile, altra politica!
La strage degli innocenti
Le catastrofi naturali e belliche fanno spettacolo e audience mentre la fame e la miseria fanno pubblicità: non voglio essere troppo dissacrante, ma guardando la TV si passa continuamente dalle immagini di macerie da terremoti, trombe d’aria, alluvioni (se non ci sono si ricordano quelle del passato) alle immagini di bambini sofferenti o agonizzanti per denutrizione e malattie contenute negli spot a favore delle varie organizzazioni umanitarie (?). Non si tratta di seri impegni divulgativi orientati alla cultura della solidarietà, ma di pietistici alibi volti a coprire le profonde ingiustizie e incapacità a monte e valle dei disastri. Ricordo che mio padre, con la sua solita e sarcastica verve critica, di fronte agli insistenti messaggi statistici sulla morte di un bambino per fame ad ogni nostro respiro, si chiedeva: «E mi alóra co’ dovrissia fär? Lasär lì ed tirär al fiä?».La storia, passata e presente, è costellata di immagini emblematiche e strazianti di bambini vittime innocenti di persecuzioni, guerre, ingiustizie e violenze. Ricordo le tre più recenti: la foto di Alan Kurdi, il bimbo siriano di tre anni, annegato nel settembre 2015 al largo della Turchia che è diventata il simbolo del dramma dei migranti nel Mediterraneo; quella del bambino ad Aleppo, seduto sull’autoambulanza con lo sguardo perduto nel vuoto, dopo essere stato estratto vivo dalle macerie dei bombardamenti, simbolo dell’orrore per la guerra e le sofferenze che provoca alle persone più deboli e indifese; ultima in ordine di tempo, quella del piccolo Mohammed Shohayet, di 16 mesi, di etnia Rohingya, annegato mentre la sua famiglia tentava di fuggire dallo Stato birmano di Rakhine verso il Bangladesh, simbolo della discriminazione culturale e religiosa portata alle estreme conseguenze (nel caso, dei buddisti verso i musulmani: una sorta di spietato, storico e ingiusto contrappasso rispetto all’intolleranza del radicalismo islamico nei confronti dei cristiani).Queste choccanti immagini, inserite nel tritacarne virale del web, rischiano però, come si diceva, di essere direttamente o indirettamente sfruttate per il loro forte impatto emotivo, capace di creare audience fine a se stessa e di diventare una facile e comoda copertura per le coscienze individuali e collettive.Ricordo di avere avuto uno scambio di battute con un caro amico a proposito della impenetrabile coscienza dei governanti. Ci chiedevamo come facesse un sindaco di una nostra città (Parma compresa) a dormire la notte, sapendo che c’era chi moriva o rischiava di morire di freddo e di stenti sotto i ponti. «Se è per quello, ribattè il mio interlocutore con realistico scetticismo verso la sensibilità umana, dormivano tranquilli o addirittura festeggiavano anche i capi nazisti durante e dopo le loro torture ed esecuzioni di massa…».Non illudiamoci quindi che queste immagini possano toccare in profondità e smuovere le coscienze dei responsabili (siamo tutti, più o meno responsabili delle disastrose situazioni a monte di queste stragi), anche se lèggere nelle coscienze non è nelle nostre possibilità e capacità.Ricordo che un altro amico (quanti ne ho avuti e quanti ne ho, per fortuna…) a volte, di fronte a queste colpevoli catastrofi umanitarie si sfogava dicendo: «Non capisco cosa aspetti il Padre eterno ad annientarci, facendo piazza pulita di tutto e di tutti».Poi però, come mi confidava un gesuita (concedendomi il perdono in nome di Dio durante la confessione), che aveva fatto importanti esperienze nelle carceri a servizio spirituale dei detenuti, nel mondo c’è tanto male, ma anche nella più desolata e bruciata terra c’è sempre un filo d’erba che spunta…Una sera, guardando in compagnia di mia sorella un telegiornale, da cui eccezionalmente emergeva un episodio di piccola ma significativa solidarietà umana, mi venne spontaneo esternare questa riflessione, che in qualche modo rispondeva all’appello giustizialista dell’amico di cui sopra: «Il Padre eterno vede tutti i disastri che combiniamo, ma ci conosce molto bene e forse sa che non siamo proprio cattivi fino in fondo e ci sopporta…altrimenti poveri noi!».Resta da sperare che quelle immagini di bambini, “raccapricciantemente delicate”, possano portare a galla quel pochettino di buono che, nonostante tutto, rimane nelle nostre coscienze.Dicevo quella sera che Dio ci sopporta. No, ha fatto molto di più, è sceso in terra ed è entrato nella schiera dei bambini messi nel mirino dalla violenza dei potenti, è fuggito, ma solo per tornare nel mirino da adulto. I potenti non lo avevano dimenticato, se la erano legata al dito e lo massacrarono. La strage degli innocenti!
Mamma li Turchi!
Dove potremmo geograficamente collocare oggi i “maghi” orientali che fecero quella strana visita a Gesù Bambino? Forse nella Turchia di Erdogan? Al loro ritorno dovrebbero guardarsi dai rischi incombenti: avrebbero un Erode che li attende in patria e probabilmente li riterrebbe troppo amici dell’occidente e di Israele; se venisse loro l’intenzione di scappare rischierebbero di cadere nelle grinfie dei terroristi dell’Isis che non perdonerebbero loro il peccato di apostasia per aver adorato un re nemico.Se la situazione medio-orientale era piuttosto incasinata ai tempi della nascita di Gesù, continua ad essere anche oggi, come sempre, estremamente complicata: religioni a go-go, petrolio, rapporti commerciali, Israele e Palestina, Usa e Russia, armi a volontà, miseria a bizzeffe, disuguaglianze sociali spaventose, guerre, attentati, oriente e occidente, dittature laiche e religiose, sciiti e sunniti, chi più ne ha più ne metta.In questo caleidoscopio esplosivo i due principali equivoci in campo arabo sono rappresentati da Arabia Saudita e Turchia, che giocano a strizzare l’occhio alle superpotenze, strumentalizzano le divisioni interne all’Islam, fomentano dissidi al fine di spadroneggiare, ondeggiano persino di fronte all’Isis che è diventato il principale elemento destabilizzante dell’intera area oltre che la spina nel fianco dell’Occidente.La Turchia, in questo gioco perverso, ha finito con l’esagerare diventando il bersaglio principale del novello califfato islamico, quell’Isis che sta colpendo i musulmani traditori, gli amici dei crociati, gli apostati per eccellenza.Di fronte alle disgrazie turche verrebbe spontaneo affermare maliziosamente: chi è causa del suo mal pianga se stesso. Sul fatto che la Turchia sia la causa del suo male non c’è dubbio, quanto al piangere su se stessa il problema è che le vittime degli attacchi terroristici subiti non hanno niente a che vedere con il gioco sporco di Erdogan e c.Paradossalmente l’Isis non ha tutti i torti nei suoi giudizi implacabili sulla Turchia.Musulmani traditori: è innegabile che abbia appoggiato le primavere arabe e i loro sbocchi in chiave islamica, che fino a qualche tempo fa sia stata schierata in campo sunnita e abbia addirittura foraggiato subdolamente l’Isis, dando ospitalità ai foreign fighters provenienti da tutto il Medio Oriente, illudendosi di strumentalizzare il rinascente Stato islamico in chiave antisiriana, antiiraniana e antiseparatismo curdo. Poi, visto il rischio di essere stritolata nella morsa anti-Isis stretta da Usa e Russia, ha pensato bene di cambiare fronte passando in campo filo-russo, non considerando più come nemici giurati Iran e Siria (Bashar el Assad), mandando un consistente numero di soldati a combattere in Siria contro l’Isis e in difesa del regime del precedente nemico Bashar el Assad, fregandosene altamente degli amici sunniti, tagliando i viveri allo Stato islamico, addirittura combattendolo apertamente e preoccupandosi soprattutto di salvarsi dagli odiati curdi.Amici dei crociati: la Turchia è alleata dell’Occidente, fa parte della Nato, chiede di entrare nella Unione Europea, tratta con l’Europa sulla pelle degli immigrati, si dice paese islamico ma adotta usi e costumi del più smaccato consumismo occidentale, finge di essere democratica ma comprime e reprime i diritti fondamentali quali la libertà di stampa e di associazione, usa metodi e sistemi spietati consoni alle più dure dittature fingendosi sotto attacco di fantomatici golpisti. Amica dell’Occidente ma populisticamente a braccetto con Putin in Medio-Oriente, in attesa del terzo compagno di merende, Donal Trump.Apostati per eccellenza: lo sdegno morale puritano nei confronti della decadenza e la sensazione di adempiere a un dovere religioso portano gli islamici radicali a colpire la Turchia quale Paese “apostata”. La teologia e l’escatologia musulmana arrivano ad una visione distorta della storia islamica al punto da considerare la moderna Istanbul, capitale turca, come la moderna Bisanzio da abbattere (assieme a Roma) nello scontro finale tra il bene e il male.Il signor Erdogan sta prendendo per i fondelli tutto il mondo e non stupisce se l’Isis, che non va troppo per il sottile, gliela voglia far pagare cara.Devo fermarmi, perché rischio di spezzare indirettamente una lancia a favore del terrorismo islamico, tale e tanta è la confusione che regna nei rapporti internazionali, tali e tanti sono gli equivoci turchi (e non solo turchi…).Se l’Occidente avesse finalmente voglia di agire seriamente, dovrebbe tagliare definitivamente e totalmente i ponti con i “sottanoni” dell’Arabia Saudita, con la Turchia del burattinaio-burattino Erdogan, mettere finalmente in riga Israele e le sue smanie espansionistiche camuffate dall’ipocrita difesa della propria esistenza, fregandosene dei problemi petroliferi, delle ripercussioni a livello di immigrazione, financo del futuro dei regimi più o meno dittatoriali dell’area medio-orientale. Faremo più fatica sul fronte delle fonti energetiche? Avremo un’ondata forte di immigrati in libera uscita? Avremo un alleato strategico in meno a livello Nato? Consegneremo la Turchia alla sfera di influenza russa? Soffriremo le dittature pseudo-islamiche? Tutti prezzi pagabili in nome della democrazia e dei rapporti pacifici. D’altra parte il problema dell’energia va ormai ben oltre gli assetti medio-orientali; l’immigrazione va affrontata e risolta tramite il dialogo con i Paesi di provenienza senza cedere ai ricatti di un Erdogan qualsiasi; il problema palestinese, volenti o nolenti, andrà risolto una volta per tutte senza piegarsi al volere della casta religiosa israeliana; i rapporti tra i blocchi sono da rimettere in discussione, oltretutto condizionati dalla spada di Damocle della follia trumpista che incombe sull’Occidente; l’Europa ha sufficienti problemi senza andarsi a impelagare in un rapporto sui generis con la Turchia; l’evoluzione democratica dei Paesi arabi va favorita senza interventismi bellicisti e senza soffiare sul fuoco, come hanno ampiamente dimostrato i fallimenti delle cosiddette primavere arabe.Non vado oltre. Mio padre sarebbe oltremodo d’accordo e mi direbbe: “Sì. At pàr vón ed coi che all’ostaria con un pcon ad gess in sima la tavla i metton a post tutt; po set ve a vedor a ca’ sova i n’en gnan bon ed far un o con un bicer…”.
Lo scarica-immigrato
La morte di Sandrine, la 25enne Ivoriana ospite a Cona (Ve) del centro di prima accoglienza in cui i migranti vengono smistati in attesa della definizione del loro status per alleggerire i territori già gravati dall’onere di primo soccorso, ha scatenato una rivolta frutto del sospetto che i soccorsi siano stati tardivi, ma soprattutto conseguenza di una struttura sovraffollata, degradata, decisamente invivibile, stando alle descrizioni emergenti dalle cronache e dalle immagini relative.Accanto alle proteste, non certo blande e moderate, dei migranti ammassati in questo magazzino di uomini (così lo ha definito il sindaco di Cona, il comune in cui è allestito) sono partite le critiche, le lamentele, gli sfoghi, le polemiche, le denunce, le inchieste da parte di amministratori, volontari, partiti, Chiese locali, commentatori, esperti etc.Il problema è molto complesso e delicato, anche se spesso si tende a drammatizzarlo nelle sue proporzioni, e coinvolge il diritto di queste persone ad essere trattate con rispetto e umanità, il dovere dell’accoglienza verso soggetti in gravi e insormontabili difficoltà, il diritto alla sicurezza e alla ordinata convivenza dei cittadini italiani, l’obbligo della mano pubblica a governare il fenomeno e ad intervenire ai vari livelli, la disponibilità del privato-sociale a gestire i centri in questione, la solidarietà della popolazione verso i profughi, il ruolo svolto dal volontariato, l’impegno a verificare in tempi ragionevoli le motivazioni reali alla base delle richieste di asilo, il rimpatrio controllato e agevolato di coloro che non hanno diritto ad essere definitivamente accolti, la ricerca di spazi per il lavoro, l’integrazione e l’aiuto a quanti meritano di essere mantenuti sul nostro territorio.Occorrerebbe una grande e proficua sinergia tra Europa e Italia, tra pubblico e privato, tra governo centrale e regioni, tra regioni e comuni, tra comuni e popolazione, tra prefetti e volontari, tra comunità cristiana e autorità civili, tra enti vari e singoli cittadini.Si assiste spesso invece ad una sorta di scaricabarile, un gioco piuttosto sgradevole in mezzo al quale i profughi vengono sballottati e finiscono con l’accumulare ulteriore tensione al limite della disperazione, che si scarica a volte in proteste, violenze e atti delinquenziali (non è il caso di scandalizzarsi e di gridare all’immigrato che viene qui solo per rubare e/o stuprare).Se scendiamo dai gradini più alti a quelli più bassi della scala troviamo positività di impegno, ma anche molta inettitudine se non addirittura parecchia ostilità preconcetta. L’Europa non è riuscita ad instaurare meccanismi di intervento solidale fra gli Stati membri finendo col piegarsi indirettamente alla logica dell” a chi tocca leva”, se non addirittura a quella dei muri di respingimento, che, oltre ad essere un tuffo nel peggior razzismo, ributtano i profughi verso le aree oggettivamente più esposte e abbandonate a loro stesse.Il governo centrale smista questi poveracci in un ginepraio di centri adibiti alla loro accoglienza di cui non è facile capire funzioni, limiti e finalità di intervento. Basta elencare le sigle, Cie, Hotspot, Cpsa, Cara, Cpa, per capire la confusione che ne può derivare. Poi ci sono i tempi e le procedure per verificare i dati anagrafici, la provenienza e le ragioni della fuga di queste migliaia di persone: mesi per non dire anni, durante i quali sale l’ansia per l’incertezza assoluta sul proprio futuro.Le regioni si guardano a vicenda e sono più tese a controllare la spartizione della sgradevole torta, a verificare l’impegno altrui che non ha disporre gli interventi necessari sul proprio territorio.I prefetti brancolano nel buio, tra le proteste dei comuni e delle popolazioni e la indisponibilità di locali; molto spesso, chiusi nella loro visione burocratica, non hanno grande dimestichezza con le comunità di loro competenza e a volte hanno rapporti difficili o addirittura conflittuali con il mondo del volontariato e del sociale.I comuni e per essi i sindaci sono imprigionati dalle opzioni dei loro cittadini magari restii e talora indisponibili al sacrificio di ospitare sul proprio territorio gruppi anche piccoli di immigrati. La mappa dei comuni più accoglienti aderenti volontariamente alla rete comunale Sprar, che offre un tetto ai profughi, riserva non poche sorprese: è piuttosto limitata (14% del totale), il sud domina nei piccoli e grandi comuni, la gestione dello Sprar non è omogenea e su 8mila comuni solo 500 gestiscono progetti.Il cosiddetto privato sociale mostra le sue contraddizioni nel coniugare le proprie imprescindibili esigenze economiche con l’auspicabile ed istituzionale respiro sociale: episodi anche gravi di speculazione e di incuria gettano a volte una luce equivoca su queste iniziative.Anche i privati cittadini, quando non si lasciano irretire dalla sbrigativa e comoda equivalenza “immigrato uguale terrorismo” o “immigrato uguale delinquente” o “immigrato uguale concorrente sleale dei nostri poveri”, ondeggiano tra ammirevoli gesti di solidarietà e vomitevoli atteggiamenti speculativi.Persino la Chiesa soffre non poche contraddizioni tra le sacrosante parole del Papa e le carenti disponibilità delle periferie diocesane, parrocchiali e associative.In un quadro così problematico e frastagliato non sorprende la levata di scudi contro l’intenzione del ministero degli Interni, di rimettere realisticamente ordine e di dare un segnale di equità geografica, riaprendo un Cie (Centro di identificazione ed espulsione) per ogni regione: questi centri non godono di buona fama, caratterizzati anche da rivolte, incendi di protesta, maltrattamenti, condizioni igienico-sanitarie vergognose, pericolose promiscuità, tempi di attesa biblici, espulsioni impossibili e rapporti difficili con il territorio circostante.Non basta però dire dei no, registrare i fallimenti del passato, fare appello alle buone opere, teorizzare un’accoglienza diffusa e a piccoli gruppi: bisogna che le entità coinvolte o coinvolgibili non facciano solo lamentele generiche o proposte globali, ma che diano concrete e precise disponibilità, interrompendo lo stucchevole scarica barile.Non è vero che l’Italia stia facendo poco, sta facendo molto, sta salvando migliaia di profughi da morte certa (purtroppo sono tanti anche quelli che ci lasciano le penne), sta dimostrando di essere un paese civile nonostante certi rigurgiti razzisti ed egoisti. Però non basta, occorre fare di più, è necessario prima fare per poi magari lamentarsi perché gli altri non fanno. Nessuno ha la ricetta facile, tutti però dovrebbero mettersi a disposizione.
Chi semina intransigenza raccoglie terrorismo
Alla vigilia della strage di capodanno nel locale da ballo di Istanbul l’Autorità per gli affari di culto aveva invitato i musulmani turchi, attraverso i suoi ottantamila imam ufficiali, a non conformarsi a pratiche d’importazione come i festeggiamenti per l’imminente arrivo del nuovo anno, ritenute estranee alla tradizione religiosa e destinate a “corrompere lo spirito del popolo turco”.Lo scrittore Jason Burke, sempre in merito all’attacco terroristico al Reina, il prestigioso e lussuoso locale notturno di Istanbul, sostiene: «Una ragione per prendere di mira questi locali è lo sdegno morale puritano nei confronti della decadenza che incarnano; un’altra ragione è la sensazione di adempiere a un dovere religioso. Nella sua rivendicazione l’Isis ha spiegato che l’organizzazione voleva colpire i cristiani e una potenza musulmana che li protegge».È inutile girarci intorno, gli atti di terrorismo islamico hanno un retroterra culturale anche nell’intransigente purismo radicale e trovano una loro fanatica giustificazione nella lotta contro i costumi di vita in contrasto con le regole religiose. Non si può quindi sostenere che gli attentati non abbiano alcun fondamento nella religione islamica, lo hanno eccome dal momento che la religione viene portata al massimo livello di intolleranza e di integralismo. Gli ottantamila imam che hanno demonizzato i festeggiamenti di capodanno dovrebbero rendersi conto che nelle menti fanatiche ed esaltate di certi musulmani ciò viene recepito come un invito a colpire gli infedeli che ballano e cantano in un night oltretutto collocato nel pieno di un Paese islamico.Non posso negare che anche a me certi festeggiamenti esagerati ed eclatanti danno fastidio nella loro provocatoria ostentazione, urtano la mia sensibilità nella loro forzata e lussuriosa impostazione, non tanto per un fatto di sessualità trasgressiva (ho fatto e so fare ben di peggio), ma per la mancanza di rispetto verso chi soffre in gravi difficoltà esistenziali. Non per questo mi metto a predicare contro chi adotta questo stile di vita e a criminalizzare chi balla seminudo aspettando il nuovo anno.Che l’etica conseguente alla fede possa rifiutare certi comportamenti è quasi normale, la differenza sta nel laico rispetto verso chi ritiene di operare scelte diverse e di adottare stili di vita contrari.Se proprio vogliamo rendere l’idea del limite esistente tra l’intransigente scelta di vita propria ed il rispetto per quella altrui, pensiamo a Giovanni Battista che smazzolava a tutta canna i beoni e i mangioni dell’epoca, mentre Gesù andava a pranzo con loro per capirne e smascherarne le contraddizioni.Se le religioni non adottano una mentalità laica nei confronti della società che le circonda, possono diventare fattori di divisione, di discriminazione e di violenza. Credo che per l’Islam, con tutto il rispetto per il loro Libro, il cammino verso la laicità politica sarà ancora molto lungo e le donne ne dovranno essere le protagoniste così come ora sono le vittime di un integralismo assurdo e antifemminista.È seminatore di odio chi dolosamente spinge l’altro a compiere atti di violenza contro un nemico giurato, ma rischia di esserlo anche chi, magari in buona fede, spara condanne esistenziali a destra e manca: qualcuno, non troppo equilibrato, alla fine si sente legittimato a prendere un arma e a sparare nel mucchio. In un certo senso successe così anche per il terrorismo a sfondo politico.Non basta quindi piangere sul latte versato, ma occorre mettere una chiusura di sicurezza ai contenitori del latte. Altrimenti…
