Lo scarica-immigrato

La morte di Sandrine, la 25enne Ivoriana ospite a Cona (Ve) del centro di prima accoglienza in cui i migranti vengono smistati in attesa della definizione del loro status per alleggerire i territori già gravati dall’onere di primo soccorso, ha scatenato una rivolta frutto del sospetto che i soccorsi siano stati tardivi, ma soprattutto conseguenza di una struttura sovraffollata, degradata, decisamente invivibile, stando alle descrizioni emergenti dalle cronache e dalle immagini relative.Accanto alle proteste, non certo blande e moderate, dei migranti ammassati in questo magazzino di uomini (così lo ha definito il sindaco di Cona, il comune in cui è allestito) sono partite le critiche, le lamentele, gli sfoghi, le polemiche, le denunce, le inchieste da parte di amministratori, volontari, partiti, Chiese locali, commentatori, esperti etc.Il problema è molto complesso e delicato, anche se spesso si tende a drammatizzarlo nelle sue proporzioni, e coinvolge il diritto di queste persone ad essere trattate con rispetto e umanità, il dovere dell’accoglienza verso soggetti in gravi e insormontabili difficoltà, il diritto alla sicurezza e alla ordinata convivenza dei cittadini italiani, l’obbligo della mano pubblica a governare il fenomeno e ad intervenire ai vari livelli, la disponibilità del privato-sociale a gestire i centri in questione, la solidarietà della popolazione verso i profughi, il ruolo svolto dal volontariato, l’impegno a verificare in tempi ragionevoli le motivazioni reali alla base delle richieste di asilo, il rimpatrio controllato e agevolato di coloro che non hanno diritto ad essere definitivamente accolti, la ricerca di spazi per il lavoro, l’integrazione e l’aiuto a quanti meritano di essere mantenuti sul nostro territorio.Occorrerebbe una grande e proficua sinergia tra Europa e Italia, tra pubblico e privato, tra governo centrale e regioni, tra regioni e comuni, tra comuni e popolazione, tra prefetti e volontari, tra comunità cristiana e autorità civili, tra enti vari e singoli cittadini.Si assiste spesso invece ad una sorta di scaricabarile, un gioco piuttosto sgradevole in mezzo al quale i profughi vengono sballottati e finiscono con l’accumulare ulteriore tensione al limite della disperazione, che si scarica a volte in proteste, violenze e atti delinquenziali (non è il caso di scandalizzarsi e di gridare all’immigrato che viene qui solo per rubare e/o stuprare).Se scendiamo dai gradini più alti a quelli più bassi della scala troviamo positività di impegno, ma anche molta inettitudine se non addirittura parecchia ostilità preconcetta. L’Europa non è riuscita ad instaurare meccanismi di intervento solidale fra gli Stati membri finendo col piegarsi indirettamente alla logica dell” a chi tocca leva”, se non addirittura a quella dei muri di respingimento, che, oltre ad essere un tuffo nel peggior razzismo, ributtano i profughi verso le aree oggettivamente più esposte e abbandonate a loro stesse.Il governo centrale smista questi poveracci in un ginepraio di centri adibiti alla loro accoglienza di cui non è facile capire funzioni, limiti e finalità di intervento. Basta elencare le sigle, Cie, Hotspot, Cpsa, Cara, Cpa, per capire la confusione che ne può derivare. Poi ci sono i tempi e le procedure per verificare i dati anagrafici, la provenienza e le ragioni della fuga di queste migliaia di persone: mesi per non dire anni, durante i quali sale l’ansia per l’incertezza assoluta sul proprio futuro.Le regioni si guardano a vicenda e sono più tese a controllare la spartizione della sgradevole torta, a verificare l’impegno altrui che non ha disporre gli interventi necessari sul proprio territorio.I prefetti brancolano nel buio, tra le proteste dei comuni e delle popolazioni e la indisponibilità di locali; molto spesso, chiusi nella loro visione burocratica, non hanno grande dimestichezza con le comunità di loro competenza e a volte hanno rapporti difficili o addirittura conflittuali con il mondo del volontariato e del sociale.I comuni e per essi i sindaci sono imprigionati dalle opzioni dei loro cittadini magari restii e talora indisponibili al sacrificio di ospitare sul proprio territorio gruppi anche piccoli di immigrati. La mappa dei comuni più accoglienti aderenti volontariamente alla rete comunale Sprar, che offre un tetto ai profughi, riserva non poche sorprese: è piuttosto limitata (14% del totale), il sud domina nei piccoli e grandi comuni, la gestione dello Sprar non è omogenea e su 8mila comuni solo 500 gestiscono progetti.Il cosiddetto privato sociale mostra le sue contraddizioni nel coniugare le proprie imprescindibili esigenze economiche con l’auspicabile ed istituzionale respiro sociale: episodi anche gravi di speculazione e di incuria gettano a volte una luce equivoca su queste iniziative.Anche i privati cittadini, quando non si lasciano irretire dalla sbrigativa e comoda equivalenza “immigrato uguale terrorismo” o “immigrato uguale delinquente” o “immigrato uguale concorrente sleale dei nostri poveri”, ondeggiano tra ammirevoli gesti di solidarietà e vomitevoli atteggiamenti speculativi.Persino la Chiesa soffre non poche contraddizioni tra le sacrosante parole del Papa e le carenti disponibilità delle periferie diocesane, parrocchiali e associative.In un quadro così problematico e frastagliato non sorprende la levata di scudi contro l’intenzione del ministero degli Interni, di rimettere realisticamente ordine e di dare un segnale di equità geografica, riaprendo un Cie (Centro di identificazione ed espulsione) per ogni regione: questi centri non godono di buona fama, caratterizzati anche da rivolte, incendi di protesta, maltrattamenti, condizioni igienico-sanitarie vergognose, pericolose promiscuità, tempi di attesa biblici, espulsioni impossibili e rapporti difficili con il territorio circostante.Non basta però dire dei no, registrare i fallimenti del passato, fare appello alle buone opere, teorizzare un’accoglienza diffusa e a piccoli gruppi: bisogna che le entità coinvolte o coinvolgibili non facciano solo lamentele generiche o proposte globali, ma che diano concrete e precise disponibilità, interrompendo lo stucchevole scarica barile.Non è vero che l’Italia stia facendo poco, sta facendo molto, sta salvando migliaia di profughi da morte certa (purtroppo sono tanti anche quelli che ci lasciano le penne), sta dimostrando di essere un paese civile nonostante certi rigurgiti razzisti ed egoisti. Però non basta, occorre fare di più, è necessario prima fare per poi magari lamentarsi perché gli altri non fanno. Nessuno ha la ricetta facile, tutti però dovrebbero mettersi a disposizione.