Il Natale del giorno dopo

Il Natale ha un’enorme portata laica nella sua essenzialità e semplicità. Tre elementi infatti emergono con evidenza e attualità provocatorie: l’alloggio al completo; l’annuncio ai pastori; la pace invocata dagli angeli.

A proposito di Giubileo, stiamo bene attenti a non aprire le porte per cancellare i nostri peccati, salvo chiuderle in faccia a chi non ha una casa, a chi non ha lavoro, a chi vive nell’assoluta precarietà: teniamo ben presente che in essi c’è il Natale, non certo quello sdolcinato e consumistico che ci attanaglia.

Le persone che hanno accolto il Natale sono stati i pastori, che venivano considerati gentaccia emarginata e disprezzata: anche oggi trionfano i nostri perbenismi ed i nostri schemi sociali. La generosità viene da gente da cui meno te l’aspetti e a cui spesso mettiamo i bastoni fra le ruote.

E poi, la pace. La dichiarano gli angeli, i potenti possono solo subirla: a significare che viene come un dono di Dio da accogliere con umiltà e impegno, da costruire quotidianamente e concretamente. Non è un invito alla diplomazia, ma a schierarsi dalla parte dei deboli e degli oppressi.

Ebbene questa provocatoria e indiscutibile essenzialità fa decisamente a pugni con l’enfasi liturgica che accompagna il Natale, accentuata quest’anno dalla “sbrodolata” giubilare, con la pompa magna della benedizione urbi et orbi con tanto di forze armate presenti, di inni nazionali, di papa acclamato come capo di Stato.

I contenuti dei messaggi papali contrastano con questo invadente e fuorviante contorno. Si continua a sostenere che il giubileo abbia un significato socio-politico in quanto prevede e comporta milioni di pellegrini-turisti e una capitale mobilitata al riguardo. Non sono d’accordo. Qualcuno vede addirittura nel Giubileo, che mobilita risorse e collauda strutture, un modo per superare le divergenze politiche, un miracolo di collaborazione tra le istituzioni. Giorgia Meloni ha inaugurato il sottopasso di Piazza Pia a Roma, alla presenza del sindaco, Roberto Gualtieri, il presidente della Regione Lazio, Francesco Rocca, il ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, il sottosegretario Alfredo Mantovano, l’amministratore delegato di Fs Stefano Donnarumma, l’arcivescovo Rino Fisichella e il cardinale Pietro Parolin. Per cortesia siamo seri e non facciamo del trionfalismo fuori luogo.

Dice papa Francesco: «Dio perdona sempre, Dio perdona tutto». E allora mi sono posto una domanda un tantino luterana: stiamo mettendo una sovrastruttura tradizionale sulla struttura portante evangelica col rischio di caricare religiosamente la base portante della fede? Forse sfondiamo una porta aperta, che però rimane stretta in senso evangelico. La porta stretta non è quella tramite la quale ci presenteremo a san Pietro, ma quella che dobbiamo attraversare per arrivarci. La porta stretta è la scelta di entrare ogni giorno nelle vie della giustizia, della misericordia, della fedeltà a Dio. In una parola si tratta della via della pace.

Al riguardo mi permetto di aggiungere di seguito il testo di una bella preghiera per la pace scritta dal cardinale Zuppi che ne consiglia la recita quotidiana.

“Signore, che ci hai creati e ci chiami a vivere da fratelli, che vieni sulla terra per portare luce nelle tenebre, dona al mondo la pace. Donaci la forza per essere ogni giorno artigiani della pace. Donaci la capacità di guardare con benevolenza tutti i fratelli che incontriamo sul nostro cammino. Infondi in noi il coraggio di compiere gesti concreti per costruire la pace. Amen.”

Non dobbiamo quindi aspettare i risultati della diplomazia vaticana, utile ma non decisiva, non dobbiamo illuderci che il giubileo possa rappresentare una sorta di riscossa religiosa, non viviamo il Natale come la stalla di Betlemme trasformata nella reggia vaticana, non inneggiamo a Gesù Bambino bloccandolo rigorosamente nella sua umana ed emozionante piccolezza che ci affascina ma non ci coinvolge.

Lasciamoci provocare fino in fondo non per lucrare uno straccio di indulgenza più o meno plenaria, ma per sforzarci di vivere da cristiani autentici: un Natale sovversivo, che solo in questo senso diventa anche un Natale socio-politico.

 

Più povero di così…più indifferenti di cosà…

“Oggi in Italia – si legge nel Rapporto 2024 su Povertà ed esclusione sociale di Caritas italiana, pubblicato in vista della Giornata mondiale dei Poveri istituita da papa Francesco – vive in una condizione di povertà assoluta il 9,7% della popolazione, praticamente una persona su dieci. Complessivamente si contano 5 milioni 694mila poveri assoluti, per un totale di oltre 2 milioni 217mila famiglie (l’8,4% dei nuclei). Il dato, in leggero aumento rispetto al 2022 su base familiare e stabile sul piano individuale, risulta ancora il più alto della serie storica, non accennando a diminuire”. “Se si guarda infatti ai dati in un’ottica longitudinale – si legge ancora -, dal 2014 ad oggi la crescita è stata quasi ininterrotta, raggiungendo picchi eccezionali dopo la pandemia, passando dal 6,9% al 9,7% sul piano individuale e dal 6,2% all’8,4% sul piano familiare”.

Numeri che hanno dell’incredibile per un Paese civile e democratico come dovrebbe essere l’Italia, di fronte ai quali mi concedo una piccola trasgressione rispetto al solito taglio dei commenti ai fatti del giorno. Scelgo cioè di partire da un evento piuttosto “insignificante” per arrivare a trarne una morale politica e religiosa anche riguardo al tema della povertà da cui sono partito.

Sto per entrare nella chiesa dell’Oratorio dei Rossi in via Garibaldi e noto uno strano soggetto appoggiato al muro, a piedi nudi e sporchi, con lo sguardo fisso nel vuoto: un accattone sui generis che non chiede elemosina, un immigrato probabilmente clandestino rassegnato a vivere di taciti espedienti, forse una persona con seri problemi mentali.

Ho fatto qualche passo, poi sono tornato indietro per fare un tentativo di dialogo, ma ho capito che non sarebbe servito a niente. Allora ho pensato di entrare in chiesa e di verificare se qualcuno lo avesse conosciuto, ma soprattutto cosa si sarebbe potuto fare per aiutarlo in qualche modo. Non ho fatto in tempo: si è allontanato forse perché aveva capito di essere stato notato e aveva paura.

Avrei dovuto intervenire e provare a parlare con lui: sono stato incerto e lui non me ne ha comunque e giustamente dato il tempo. Ci ho riflettuto a lungo, prima, durante e dopo la messa a cui ho partecipato. Sono arrivato a due acide e demagogiche riflessioni.

La prima è di carattere politico. Nella nostra città il sindaco non è di sinistra? Se sì, dovrebbe occuparsi un po’ di queste persone e lasciare perdere le fanfaronate culturali in cui eccelle. Cosa avrebbe fatto davanti a un simile strano soggetto il sindaco Giorgio La Pira? Probabilmente lo avrebbe portato a casa sua per capire di cosa avesse bisogno e poi sarebbe magari intervenuto di tasca propria. Tanti anni fa a Firenze La Pira faceva così. Demagogia? Democrazia!

La seconda è di tipo religioso. Non sono forse un cristiano? Se sì, dovrei occuparmi di queste persone e lasciare perdere le forbite e vuote devozioni in cui mi esercito. Cosa avrebbe fatto in un caso simile san Francesco, che ricordiamo enfaticamente a livello liturgico? Lo avrebbe soccorso con la sua geniale semplicità e avrebbe ringraziato Dio per avercelo donato. Tanti anni fa ad Assisi e zone limitrofe san Francesco faceva così.  Sognante solidarietà? Vangelo!

Quando Michele Guerra si presenterà alle prossime lezioni, ci sarà qualcuno che gli chiederà cosa ha fatto per la povera gente?  E magari lo provocherà: “Ma tu non dovevi essere un amministratore di sinistra? Faresti meglio a cambiare mestiere o casacca…. Forse hai bisogno di essere adibito ai servizi sociali. Sì, perché l’indifferenza è un furto e quindi della tua rielezione ne riparleremo a pena scontata…”. Lui risponderà sventolando i risultati di un’indagine che lo considerava un ottimo sindaco. Gli ribatteranno che non si vota in base ai sondaggi, ma ai giudizi spassionati sulle scelte amministrative, quindi… meglio non ripresentare la candidatura.

Sicuramente quando, dopo la morte, mi accosterò al trono dell’Altissimo, il Padre Eterno mi chiederà conto. “Guarda, mi dirà, che in quel poveraccio c’ero io, e tu non hai avuto il coraggio di dirmi nemmeno una parola… Forse hai bisogno di un po’ di purgatorio. Meriteresti l’inferno, ma dal momento che sono misericordioso…”. Io proverò a scusarmi, affermando di avere recitato tante preghiere e di avere partecipato a tanti sacri riti. Ancora peggio e allora mi converrà stare zitto per non finire dritto-dritto all’inferno.

Non possiamo far finta di non vedere la povertà, pensare che non esista, che sia un’invenzione della politica di sinistra, che poi i poveri magari non li ha neanche in nota (vedi sopra), che sia un’opzione per poche anime belle e buone, che sia un fenomeno inevitabile da rimuovere mentalmente. La Caritas ce lo sbatte in faccia con i suoi report e quel poveraccio di cui sopra in carne ed ossa rientra negli scioccanti numeri in essi contenuti.

L’atlantismo ridotto a sciocchezzaio internazionale

La mia posizione è che l’Ucraina deve essere messa in una posizione di forza per poi decidere quando e come aprire i negoziati. Se ora iniziamo a parlare fra di noi che forma prenderà la pace, rendiamo la vita molto facile ai russi che potranno rilassarsi, fumare un sigaro e guardare il nostro dibattito in tv”. Lo ha detto il segretario della Nato, Mark Rutte, dopo l’incontro con il presidente lituano Nauseda. Rutte ha tuttavia precisato che nei regimi democratici “un certo grado di dibattito è inevitabile”. (Rai News.it)

Si tratta della perfida riformulazione della locuzione latina “si vis pacem, para bellum” («se vuoi la pace, prepara la guerra»). Si parte dall’idea che i rapporti fra le genti siano simili ad una partita a poker con la necessità di saper bluffare: vince chi tiene duro a costo di incendiare le sorti di mezzo mondo.

Questa è la posizione strategica della Nato, alleanza atlantica a cui noi aderiamo, molto spesso, acriticamente. Forse è opportuno fare una breve digressione storica (da Wikipedia), per capire il logorio bellico dell’atlantismo e la modernità pacifica del neoatlantismo.

L’atlantismo è la visione dello sforzo cooperativo tra l’Europa occidentale e le nazioni del Nord America (soprattutto gli Stati Uniti) in tema di economia, politica e difesa militare, con lo scopo dichiarato di mantenere sicure le nazioni partecipanti a questo sforzo cooperativo e proteggere i valori che li accomunano quali libertà individuale, democrazia, economia di mercato e stato di diritto.

La NATO è il luogo principale nel quale si discute e si prendono le decisioni su temi di interesse atlantico. In tale ambito vengono anche portati avanti progetti comuni. 

Il termine neoatlantismo indica una visione della politica internazionale che si diffuse in Italia nel secondo dopoguerra. Secondo questa visione, l’Italia doveva collaborare con gli Stati Uniti nella difesa dell’Occidente dalla minaccia comunista, ma doveva anche impegnarsi a dialogare coi paesi del Medio Oriente e del Terzo mondo, con l’obiettivo di conquistare al Paese una posizione strategica all’interno dello scacchiere mediterraneo. Fu uno strumento di tale politica il sostegno delle aspirazioni indipendentiste delle ex colonie francesi e britanniche. La migliore “arma” di questa nuova politica italiana fu il dialogo culturale, politico ed economico.

Un’applicazione del neoatlantismo fu la decisione di Enrico Mattei, presidente dell’Eni, di siglare accordi petroliferi con l’Iran, che determinarono un notevole ribasso del prezzo della benzina. Fu tuttavia una politica non coronata dal successo. Tra le cause, la sopravvalutazione della posizione politica internazionale dell’Italia, la mancata accettazione dell’apertura a sinistra da parte del partito di governo, la Democrazia Cristiana, e la difficoltà di avere adeguate risorse finanziarie, che fruttarono più volte all’Italia le accuse di “dilettantismo” e di “inaffidabilità atlantica”.

Meglio il dilettantismo di chi batte difficili sentieri di pace che il professionismo di chi percorre collaudate strade di guerra. Meglio la tormentata inaffidabilità della scontata adesione degli yes-country.

In buona sostanza, la storia dovrebbe insegnarci a stare nell’alleanza occidentale con la schiena dritta, non supinamente attestati sulla visione che trova nella guerra il suo caposaldo e il suo assoluto marchingegno. Esattamente l’opposto di quanto da tempo sta facendo l’Italia, che col governo Meloni sta addirittura impostando la politica estera sul mero opportunismo di galleggiamento.

Al di là delle autentiche e contraddittorie sciocchezze propinateci da Mark Rutte resta il problema di elaborare una strategia di pace su cui innestare un serio e costante impegno diplomatico, che attualmente dovrebbe venire dalla Ue e, all’interno dell’Europa, anche e soprattutto dall’Italia, la quale nel tempo ha conquistato (grazie alle coraggiose intuizioni dei cattolici al potere) una considerazione internazionale, che va ben oltre il potere economico e militare del nostro Paese.

Forse l’ultimo personaggio politico italiano capace di incarnare, pur con tanti limiti e difetti, questo ruolo autonomo del nostro Paese sulla scena mondiale è stato Romano Prodi. Ecco spiegata “l’inspiegabile acredine” riservata a lui da Giorgia Meloni. Ricordate le fette di mortadella e i brindisi parlamentari esibiti in Parlamento dai berlusconiani alla caduta del governo Prodi? Siamo ancora lì!

Non c’è più Berlusconi, in compenso c’è Trump. La posso dire grossa? Mussolini stava a Hitler come Berlusconi sta a Trump. Cosa ci possiamo aspettare dall’attuale governo, se non una sbrigativa, acritica e masochistica adesione alle politiche di Trump via Musk. Questo è il neoatlantismo di Giorgia Meloni, ben tollerato da Ursula von der Leyen e dai traballanti dei dell’Europa disunita.

Una conclusione in musica: “È bella la guerraevviva la guerraevviva!” (la Forza del destino di Giuseppe Verdi).

Una conclusione consumistica alla maniera di Mike Bongiorno: “Grappa Trumpino sigillo nero (ogni riferimento a questo colore è puramente causale!)”.

L’abc costituzionale

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella difende il diritto d’asilo, «tra i principi della Costituzione», il compito della diplomazia, degli organismi sovranazionali come strumenti di promozione della pace e le Corti di giustizia internazionali. Denuncia che i «drammi migratori» diventano talvolta «oggetto di gestioni strumentali da parte di alcuni Stati, per trasformarli in minaccia nei confronti dei vicini, in palese violazione di convenzioni internazionali liberamente sottoscritte» aggiunge. Un fenomeno strettamente collegato al ritorno delle «sirene del settarismo nazionalistico, etnico, quando non arbitrariamente religioso» che fa uso anche di «ostili strumenti di manipolazione delle informazioni e condizionamento dell’opinione pubblica». Mattarella parla alla Farnesina, dove la XVII Conferenza delle Ambasciatrici e degli Ambasciatori d’Italia nel mondo e gli Stati Generali della Diplomazia diventa un’occasione di confronto sull’azione internazionale del nostro Paese, con la partecipazione di oltre 150 titolari delle Sedi diplomatiche italiane all’estero.

L’articolo 10 della Costituzione, al terzo comma, recita: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Uno dei tanti articoli della Costituzione che ci stiamo mettendo sotto i piedi.

Così come ci stiamo dimenticando dell’importanza degli organismi sovranazionali e delle Corti di giustizia internazionali: li consideriamo aria fritta che passa e va, lasciando un profumato alone di pace.

E che dire dei nazionalismi risorgenti, cavalcati da governanti senza scrupoli per varare la globalizzazione dell’egoismo, che tutto avvolge e tutto chiude.

Sembra di essere all’asilo pre-costituzionale, mentre pensiamo di essere all’università post-costituzionale. Abbassiamo la cresta, facciamo un bagno di umiltà e smettiamola di pensare, dire e fare cazzate. Abbiamo un’idea relativamente sbagliata di diplomazia, vista come l’arte di fare i propri affari, di usare tatto, finezza, abilità nel trattare questioni delicate o nel mantenere rapporti con persone suscettibili.

La diplomazia ha il compito principale di tutelare gli interessi dello Stato e si concretizza in vari modi: dalla cura delle relazioni politiche, economiche, culturali o scientifiche con gli altri Stati all’impegno a livello internazionale per i diritti dell’uomo o per la composizione pacifica delle controversie.

Senonché la diplomazia non dovrebbe impegnarsi solo nella certosina azione di mettere assieme i cocci emergenti dalle crisi e dalle guerre, ma dovrebbe lavorare alacremente per prevenire i conflitti e le guerre. In questo senso dovremmo tutti recuperare la capacità diplomatica nell’impostazione dei rapporti di vario tipo e di vario livello. Ce lo sta pazientemente insegnando il presidente della Repubblica, ma ho la netta impressione che le sue parole entrino da un orecchio per uscire immediatamente dall’altro.

Mio padre raccontava spesso una simpatica gag. “Tra mi e ti a ghè un stuppid: mi n’al son miga …”. “Co vrisot dire, che al son mi …”, risponde l’altro. “No, mi an l’ho miga dìtt!”, ribatte il primo.  Speriamo che Mattarella non si stanchi di farci le ramanzine e non ci tratti così, ce lo meriteremmo.

 

 

Ai confini della coscienza

Quando un imputato al termine di un processo viene assolto, sono solito tirare un sospiro di sollievo per lui e per l’intera società: un istintivo, se volete un tantino anarchico, moto dell’animo, che rimanda la palla dal campo relativo della giustizia umana a quello assoluto della coscienza individuale.

È così anche per l’assoluzione di Matteo Salvini: se la vedrà con la sua coscienza. Non ho idea di come sopporterà il peso di aver fatto soffrire tanta gente in mezzo al mare, considerando tale comportamento come legittima difesa dei confini nazionali. Etica e politica mi sembra che facciano a pugni, ma forse nella coscienza salviniana le cose stanno diversamente e tutto si tiene.

Alla sentenza assolutoria si sono registrate reazioni entusiastiche: c’è poco da entusiasmarsi, perché il problema migratorio rimane davanti a noi con tutta la sua tragica realtà e mette in evidenza la nostra incapacità ad affrontarlo se non in chiave meramente ed egoisticamente difensiva. Anche se Matteo Salvini non ha compiuto reati perseguibili penalmente, non ha certo portato un contributo positivo alla soluzione di un enorme ed epocale problema.

La morale della favola filo-salviniana è che la politica non mira ad affrontare i problemi, ma a scaricarli sui soggetti più deboli ed indifesi: la logica dell’attuale governo è questa ed emerge in brutta evidenza in ogni passaggio politico-programmatico (non è forse così anche la filosofia della recente manovra economica? Fare le nozze coi fichi secchi è difficile, ma togliere anche i fichi secchi dalla bocca degli affamati è vergognoso!).

Voglio però soffermarmi un attimo sulla reazione del presidente del Consiglio. Anche lei tira un sospiro di sollievo, ma in senso completamente opposto al mio provocatorio sollievo di cui sopra.

Ma è la premier Giorgia Meloni a tirare un sospiro di sollievo. Una diversa sentenza avrebbe messo in difficoltà l’esecutivo, anche solo per la reazione prevedibilmente dura del suo vicepremier. «Grande soddisfazione per l’assoluzione del vicepresidente e ministro Matteo Salvini nel processo Open Arms, commenta. Un giudizio che dimostra quanto fossero infondate e surreali le accuse rivoltegli». Poi annuncia: «Insieme proseguiamo con tenacia» per «difendere la sovranità nazionale». (dal quotidiano “Avvenire”)

Difendere la sovranità nazionale? Un obiettivo demagogico: è come sparare alla mosca migratoria con il cannone razzista. Si guardi bene attorno. La nostra sovranità è messa molto più in pericolo dalle subdole intromissioni muskiane, trumpiane, orbaniane, che, guarda caso, sono uscite allo scoperto a margine del processo contro Salvini. La sovranità nazionale è messa in pericolo da una politica estera ondivaga e da una politica interna divisiva e inconcludente. I giudici, pur tra limiti e difetti, fanno il loro mestiere previsto dalla Costituzione, mentre chi li critica ad ogni piè sospinto mina la fiducia dei cittadini verso lo Stato di diritto.

Strano il concetto di sovranità nazionale a corrente alternata.

Il Consiglio d’Europa scrive a Ignazio La Russa e chiede di modificare il ddl Sicurezza, attualmente all’esame del Senato, perché diversi articoli “restringono il diritto a manifestare e esprimersi pacificamente”. Ad affermarlo è Michael O’Flaherty, commissario per i diritti umani in una lettera inviata al presidente del Senato, in cui ha invitato i senatori ad “astenersi dall’adottarlo, a meno che non venga modificato in modo sostanziale per garantire che sia conforme agli standard del Consiglio d’Europa in materia di diritti umani”. Ignazio La Russa ha replicato: “Da Consiglio d’Europa inaccettabile interferenza”.

Tutto bene invece per quanto riguarda le dirette sparate di Elon Musk contro i giudici italiani e gli indiretti assist di Orban e altri a favore di Salvini imputato. Vi ricordate come Orban difendeva l’inqualificabile comportamento dei giudici ungheresi contro Ilaria Salis dalle critiche provenienti dall’Italia?

Proviamo ad ipotizzare una sentenza di condanna a sei anni di carcere per Matteo Salvini: si sarebbe gridato allo scandalo per una magistratura che vuol fare politica. Dopo la sentenza assolutoria abbiamo invece lo scandalo della politica che vuol fare giustizia della giustizia. In mezzo gli immigrati che aspettano la giustizia e la politica.

 

 

Babbo Musk e la slitta antidemocratica

Penso sia utile ricordare che il sistema capitalistico fa correre da sempre la democrazia sul filo del rasoio impugnato da potere economico (monopoli e corporazioni), da potere tecnico (tecnocrazia) e da potere di apparato (burocrazia). Negli ultimi tempi si è inserito anche e soprattutto il potere mediatico che si è peraltro combinato con quello economico e tecnico, creando una miscela di vero e proprio contropotere rispetto alla politica, confinata nel populismo di facciata e/o nella dipendenza sostanziale.

L’aperta intromissione di Elon Musk costituisce la plastica rappresentazione di questo assetto socio-politico che, da una parte, concede al popolo l’illusione di decidere tutto con un voto di mera ratifica dello strapotere del più forte, e, dall’altra parte, sottrae al popolo ogni significativo percorso di incidenza democratica sulle istituzioni politiche ridotte a mera cassa di risonanza rispetto alla combinazione di governo decisa in ben altre sedi.

Il presidente della Repubblica italiana ha descritto in modo molto efficace la rischiosa situazione che sta vivendo la democrazia.

La concentrazione in pochissime mani di enormi capitali e del potere tecnologico, così come il controllo accentrato dei dati – definibili come il nuovo petrolio dell’era digitale – determinano una condizione di grave rischio.

Gli effetti sono evidenti. Pochi soggetti – non uno soltanto, come ci si azzarda a interpretare – con immense disponibilità finanziarie, che guadagnano ben più di 500 volte la retribuzione di un operaio o di un impiegato. Grandi società che dettano le loro condizioni ai mercati e – al di sopra dei confini e della autorità degli Stati e delle Organizzazioni internazionali – tendono a sottrarsi a qualsiasi regolamentazione, a cominciare dagli obblighi fiscali.

Sembra che – come in una dimensione separata e parallela rispetto alla generalità dell’umanità – si persegua la ricchezza come fine a sé stessa; in realtà come strumento di potere molto più che in passato perché consente di essere svincolati da qualunque effettiva autorità pubblica.

A questi fenomeni si aggiunge il timore che si faccia spazio la tentazione di un progressivo svuotamento del potere pubblico. Fino ad intaccare la stessa idea di stato per come l’abbiamo codificata e conosciuta nei secoli.

Un esempio. Lo stato moderno si è fondato sul monopolio dell’uso della forza militare e della moneta. Ebbene, questi due pilastri sono oggi messi in discussione dalla prospettiva di una progressiva privatizzazione del potere pubblico, dall’iniziativa di potenze finanziarie private, capaci di sfidare le prerogative statuali anche su quei due fronti. Proprietari di immense ricchezze che oggi hanno di fatto il monopolio in diversi settori fondamentali. E costruzione di circuiti monetari paralleli, privati.

Chi può garantire che questo trasferimento di potere dalla sfera pubblica a quella privata abbia come fine la garanzia della libertà di tutti? La sicurezza di tutti? I diritti di ciascuno? Il bene comune inteso come bene di ogni persona, nessuna esclusa?

Questa garanzia oggi dipende da una sola condizione: la tenuta e il consolidamento delle istituzioni democratiche, unico argine agli usurpatori di sovranità.

Di fronte a questo invadente e pericolosa azione di occupazione del sistema democratico, il sistema stesso tende ad indebolirsi e a gettare la spugna. Sergio Mattarella ne coglie i gravi sintomi.

Leggo con queste lenti il crescente e preoccupante fenomeno dell’astensionismo, registrato nelle tornate elettorali da diversi anni a questa parte.

Una democrazia senza popolo sarebbe una democrazia di fantasmi.

Una democrazia debole.

È necessario operare per recuperare fiducia, adoperandosi prima di tutto, per ricostruire il rapporto tra persone e istituzioni.

Perché le istituzioni vivono della partecipazione e dell’impegno personale.

È inutile quindi stracciarsi le vesti di fronte allo strapotere di personaggi che non vengono dalla luna, ma dalle porte accanto spalancate sul nostro sistema. V’è chi si illude di strumentalizzare gli ingordi commensali garantendosi comunque il potere di decidere il menù (vedi Donald Trump). V’è chi pensa di lucrare politicamente cibandosi delle briciole che cadono dalla tavola dei Musk (vedi Giorgia Meloni). V’è chi si nasconde dietro lo storico scetticismo del lasciamo fare a chi la sa lunga: sempre meglio un imprenditore, che sa fare il suo mestiere, di un politico, che non sa fare un cazzo (tutti coloro, e sono tanti, che votano non in base al loro portafogli ma consegnandolo a chi dimostra di saperci fare…). V’è chi non vuole avere niente a che fare con un sistema malato e non vuole contaminarsi (tutti coloro che si astengono dal voto e da ogni forma di partecipazione).

Non illudiamoci che prima o poi il binomio Trump/Musk possa rompersi: cambieranno i mugnai e cambieranno i ladri. Non speriamo che Giorgia Meloni si imbrodi con le lodi muskiane: cambieranno i suonatori, ma la musica sarà sempre quella. Non pensiamo che la democrazia abbia gli anticorpi o almeno che riesca a sopravvivere agli attacchi: una democrazia malata e tenuta in vita dai suoi competitor è una prospettiva da esorcizzare.

I discorsi di Mattarella, se non saranno seguiti dall’impegno delle persone e dalla resipiscenza della classe politica, rischieranno di diventare mozioni degli affetti democratici. La certezza di una società in dissoluto bilico si può sconfiggere con l’incertezza di una società in virtuoso cambiamento.

 

 

Le armi hanno sempre torto

E dieci. Nuovi armamenti in partenza prossimamente dall’Italia a sostegno della difesa ucraina. Il decimo pacchetto di aiuti militari italiani a Kiev – e il quarto firmato dal governo Meloni – è contenuto in un nuovo decreto interministeriale, che sarà illustrato domani al Copasir dal ministro della Difesa Guido Crosetto. Pezzo forte dell’invio dovrebbero essere i missili Aster per il sistema di difesa aerea italo-francese Samp-T. «Il continuo invio di armi non ha cambiato gli esiti del conflitto – commenta Rete italiana pace e disarmo – e secretare il tipo di armamenti è indice di poca trasparenza, che può essere usata strumentalmente per giustificare nuovi acquisti al fine di colmare gli arsenali che sarebbero svuotati dagli invii».

(…)

«Il continuo invio di sistemi di arma si è rivelato inefficace per arrivare a una soluzione di pace vera – afferma Francesco Vignarca di Rete italiana pace e disarmo – o quantomeno per abbassare il livello del conflitto. Servirebbe invece un vero percorso per un cessate il fuoco e un successivo negoziato. È quello che il movimento pacifista in tutto il mondo chiede da tempo, facendo eco alle parole di Papa Francesco». L’analista della rete di associazioni pacifiste sostiene poi che «è incredibile che a quasi tre anni dall’inizio della guerra il nostro Paese sia uno dei pochi a non dare trasparenza sull’invio di sistemi d’arma. Non c’è nessuna necessità bellica – afferma Vignarca – ma è una scelta dettata solo dalla volontà di silenziare le critiche interne. Siccome però da un ipotetico depauperamento dei nostri arsenali passa anche la giustificazione all’acquisto di nuove armi – quest’anno la Manovra stanzia 13 miliardi in armamenti – ecco allora che questa opacità è un problema, perché favorisce ancora una volta l’interesse dell’industria militare». (dal quotidiano “Avvenire” – Luca Liverani)

Continuo ad essere convinto che con le armi si preparano, si fanno e si continuano le guerre. L’unico personaggio che si spende contro la perfida logica delle armi è papa Francesco. Ecco perché cedo a lui la parola.

«Chi parla della pace spesso non è attendibile, perché il proliferare degli armamenti conduce in senso contrario. Sarebbe un’assurda contraddizione parlare di pace, negoziare la pace e, al tempo stesso, promuovere o permettere il commercio delle armi» (Papa Francesco ai diplomatici, 15 maggio 2014).

«Perché armi mortali sono vendute a coloro che pianificano di infliggere indicibili sofferenze a individui e intere società? Purtroppo la risposta, come tutti sappiamo, è semplicemente per denaro: denaro che è intriso di sangue, spesso del sangue innocente. Davanti a questo vergognoso e colpevole silenzio, è nostro dovere affrontare il problema e fermare il commercio di armi» (Papa Francesco, discorso all’Assemblea plenaria del Congresso degli Stati Uniti d’America).

«Lancio un appello a tutti quelli che usano ingiustamente le armi di questo mondo: deponete questi strumenti di morte. Armatevi piuttosto della giustizia, dell’amore e della misericordia, autentiche garanzie di pace» (Papa Francesco, viaggio in Centrafrica).

«Il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è l’ipocrisia» (Papa Francesco, discorso del 04 febbraio 2017 ai partecipanti all’Incontro “Economia di Comunione”, promosso dal Movimento dei Focolari).

«La corsa agli armamenti non risolve né risolverà mai. Essa serve solo a cercare di ingannare coloro che reclamano maggiore sicurezza, come se oggi non sapessimo che le armi e la repressione violenta, invece di apportare soluzioni, creano nuovi e peggiori conflitti» (papa Francesco nella sua Esortazione “Evangelii Gaudium).

Dal livello etico scendo a quello politico e mi chiedo dov’è la sinistra in Italia, in Europa e nel mondo? Non la sento e non la vedo: è allineata, coperta e appiattita sulla inevitabilità della guerra. Fintanto che non troverò un pronunciamento programmatico contro le armi e il riarmo non voterò il partito democratico. Rifiuto categoricamente ogni e qualsiasi ragionamento riconducibile alla realpolitik e alla ragion di Stato. Sono forzature inaccettabili le teorie sulle armi difensive, sulle guerre giuste, sull’uso equilibrato, dissuasivo e pacifico degli armamenti. Ritengo che in merito al discorso delle armi la politica italiana sia un autentico e continuo tradimento della Costituzione, che usa un termine forte ed inequivocabile nei confronti della guerra: ripudio! Introdurre eccezioni e parlare di legittima difesa è improprio e fuorviante.

Tornando al Pd constato come si faccia influenzare (anche troppo) dalla cultura radical chic. Non sarebbe il caso di sposare un po’ in modo intelligente e coraggioso la causa pacifista? Signora Elly Schlein, tenga conto che nel mondo non esistono solo i sacrosanti diritti della galassia lgbt, ma anche quelli altrettanto sacrosanti della gente che vuole vivere in pace senza se e senza ma.

 

 

I sospiri mattarelliani e i rutti meloniani

Il presidente della Repubblica allo scambio di auguri di Natale con le alte cariche dello Stato ha sottolineato come un segno di malessere sia la «radicalizzazione che pretende di semplificare escludendo l’ascolto, riducendo la complessità alle categorie di amico/nemico» in una «divaricazione incomponibile delle opinioni» che coinvolge anche temi che richiedono una visione condivisa.  (dal quotidiano “Avvenire”)

Mattarella invita ad uno stile sobrio di confronto e di dialogo. È verissimo, politicamente parlando, non si riesce più a ragionare: prendere o lasciare, chi non è con me è contro di me, chi non beve con me peste lo colga, molti nemici molto onore, l’insulto è sempre dietro l’angolo, la miglior difesa è l’attacco, chi grida più forte ha ragione, etc. etc.

Quando Giorgia Meloni veste i panni di leader di partito lo stile istituzionale cede il passo al piglio barricadero che ha accompagnato l’ascesa della premier a Palazzo Chigi. Lo dimostra l’intervento di chiusura di Atreju. Il bersaglio scelto per infiammare la platea del Circo massimo è la sinistra a cominciare dalla segretaria del Pd, ma non risparmia neanche Romano Prodi: «A Schlein si inceppa la lingua quando deve dire la parola Stellantis», accusa Meloni, che respinge al mittente anche le accuse di aver sforbiciato le risorse destinate alla sanità: «136 miliardi e mezzo di euro, è il fondo più alto mai stanziato… La calcolatrice serve a voi, con quale faccia e dignità parlate?». A Prodi invece rimprovera di averla accusata di sudditanza verso la Ue: «Quando ho letto questi improperi isterici di Prodi ho brindato alla mia salute. Siamo ancora dalla parte giusta della storia. Dalla svendita dell’Iri fino a come l’Italia è entrata nell’euro, all’accordo nel Wto, Prodi dimostra che di obbedienza se ne intende parecchio. Noi siamo all’opposto». E infine il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini: «La verità è che gli scioperi non li organizza per aiutare i lavoratori ma per aiutare la sinistra» e con il suo «incitamento alla rivolta sociale» ha utilizzato «toni che non hanno precedenti nella storia del sindacato italiano: se li avessimo utilizzati noi – ironizza Meloni – sarebbero arrivati i caschi blu dell’Onu». (dal quotidiano “Avvenire”)

Da ragazzo mi lasciavo andare a comportamenti inaccettabili: a tavola ad esempio mi divertivo ad emettere rutti clamorosi a cucina aperta. Mia madre mi rimproverava e io la lasciavo dire e poi riprendevo immediatamente a fare i miei porci comodi. Mio padre allora interveniva per rendere la scena più stringente e rivolgendosi a mia madre diceva: “At nin sit acòrta che al te tôz pral cul?”. Aveva mille ragioni, ma purtroppo la querelle rimaneva aperta.

Agli inviti del Capo dello Stato per un comportamento politico serio ed equilibrato, Giorgia Meloni risponde ruttando a più non posso, non solo ad Atreju, ma anche in Parlamento. Mattarella si accorgerà di essere preso per i fondelli? Penso di sì e allora si consolerà nelle braccia del suo vice, il presidente del Senato, quel distinto signore che si chiama Ignazio La Russa. Lui sì che sa dialogare e rispettare gli avversari…

Biancagiorgia e la gente nana

Non c’è nulla di più insidioso per un governo di una baruffa strumentale tra i partiti di governo. E non per gli effetti politici che la lite produce ma per i danni che questa miscela corrosiva provoca nel rapporto con l’opinione pubblica. È chiaro che lo scontro dell’altro ieri in maggioranza non mette in discussione la stabilità dell’esecutivo e dell’alleanza, ma comporta intanto la perdita di una piccola quota del credito che i cittadini ripongono in chi è chiamato a risolvere i problemi e non a crearli. Giorgia Meloni è consapevole di questa condizione, primo stadio di una difficoltà che, se non venisse affrontata e risolta rapidamente, causerebbe danni molto più seri. Perché la dinamica del braccio di ferro nel centrodestra esplicita come le relazioni politiche siano prive della solidarietà che dovrebbe invece accomunare forze alleate. È evidente infatti che il taglio di venti euro del canone Rai proposto da Matteo Salvini non fosse la riduzione delle tasse che il Paese si aspetta. Semmai è parso un gesto teso a provocare il fallo di reazione di Forza Italia, perché il tema delle tv ha evocato il conflitto d’interessi e lo ha scaricato sul partito di Silvio Berlusconi sorretto oggi dai suoi eredi.

La reazione c’è stata ed è così che si è prodotto il cortocircuito in Parlamento: per la prima volta dopo due anni di governo, Meloni ha visto la sua maggioranza dividersi in un voto. E questi derby, di piccolo o grande cabotaggio a seconda delle opinioni, tolgono energie alla coalizione e distolgono l’attenzione dell’esecutivo dalle prove che lo attendono. Di più. Per Meloni inducono i cittadini a pensare che «ci risiamo», che anche stavolta sia come tutte le altre volte. Perciò la presidente del Consiglio vuole intervenire per non far passare questa tesi che considera una minaccia più di quanto oggi non le appaiano le battaglie dell’opposizione. Ma imporre una linea che sia condivisa dagli alleati vuol dire avere una soluzione che li soddisfi. Non è un problema di poltrone. Oggi il governo deve fare i conti con tre riforme che per ragioni diverse sono ancora ferme: dal premierato all’autonomia regionale, fino alla revisione del sistema giudiziario. (dal “Corriere della Sera” – Francesco Verderami)

Nel governo esistono idee confusamente diverse, dettate più da interessi elettorali che da analisi politiche. Ci sono due motivi per essere preoccupati. Il primo riguarda il non poter contare, in mezzo a mille difficoltà, su un governo degno di tale nome. Il “tanto peggio tanto meglio” non può funzionare, perché purtroppo al momento non esistono alternative, se non nella improbabile inventiva costituzionale ed emergenziale di Mattarella. Un governo fine a se stesso, equivale ad un non-governo, che è ancor peggio di un governo balordo.

Il secondo motivo di preoccupazione è relativo al fatto che la convinzione democratica del Paese è vacillante: la gente non si rende conto di quel che stiamo rischiando e tutto passa (quasi) inosservato. Non ho idea di quanto tempo occorrerà per destarsi dal sonno: solo un evento clamoroso, come fu per il covid, potrebbe dare uno scossone. I danni provocati dal governo Meloni saranno incalcolabili sul piano istituzionale, politico e programmatico. Il sindacato sta tentano di suonare la carica, ma temo finisca col provocare solo alibi repressivi e reazionari in capo al governo.

Non prendo in considerazione la portata politica dell’opposizione, tanto appare stucchevolmente modesta: stiamo interessandoci del duello fra Grillo e Conte, roba da matti! E allora? Non vedo altro che una paziente ed insistente resistenza culturale attiva a livello di base. Cosa voglio dire?  Parlare, discutere, dialogare, confrontarsi a livello di base su un piano pre-politico per affondare i colpi al momento opportuno: prima o poi non mancheranno le occasioni al di là dei dibattiti sempre più scontati e superficiali offerti dai media.

 

L’Europa e gli schizzi migratori siriani

Mentre il ministro degli Esteri Tajani, dando voce a preoccupazioni diffuse, chiede ai nuovi governanti siriani garanzie di rispetto dei diritti delle minoranze, tra cui quelle cristiane, il governo italiano chiude le porte ai richiedenti asilo provenienti da quel Paese. È il primo atto politico nei confronti del nuovo corso di Damasco, emanato beninteso in buona compagnia europea. Come se interessasse soltanto che da quel Paese non giungano più fastidiose richieste di protezione umanitaria. Invece di preoccuparsi dell’instaurazione di un regime democratico, impegnato nel rispetto delle libertà fondamentali e dei diritti umani, alieno da propositi di vendetta nei confronti degli ex oppressori, i governanti europei sembrano avere in mente un solo problema: fermare i flussi di profughi. Anche a costo di attribuire una patente di Paese sicuro a un regime che non ha ancora neppure cominciato a rivelare quali saranno le sue autentiche linee di condotta, mentre già giungono notizie inquietanti dal confine interno con la regione nord-orientale del Rojava sotto controllo curdo.

Come per altri tentativi di transizione da governi oppressivi a un nuovo ordine tutto da costruire, dall’Unione Europea non giunge una proposta ambiziosa e costruttiva, capace di combinare apertura politica, aiuti economici e garanzie democratiche. A noi sembra premere soltanto che non arrivino più rifugiati da accogliere. La scelta di una linea di respiro così corto da parte dei governi Ue appare ancora una volta dettata dalla percezione di un’opinione pubblica vista come ostile ai rifugiati provenienti dal Sud del mondo e incline ad appoggiare agende politiche sovraniste. I leader europei sembrano oggi soprattutto ansiosi di mostrarsi capaci di chiudere le frontiere a chi fugge, di ridurre l’accoglienza, di accrescere i respingimenti. Pure profughi come quelli siriani che, se riuscivano a toccare terra sul suolo dell’Unione, ottenevano quasi sempre lo status di rifugiati riconosciuti, sono diventati da un giorno all’altro falsi rifugiati e ospiti sgraditi. (dal quotidiano “Avvenire – Maurizio Ambrosini)

La visione internazionale italiana ed europea non brilla certamente per apertura e lungimiranza. La novità siriana ne è ulteriore dimostrazione. Ci sarebbe da preoccuparsi di tanti aspetti inquietanti derivanti dalla svolta siriana e allora tanto vale preoccuparsi di parare preventivamente gli schizzi migratori, facendo magari pagare un assurdo prezzo a chi è già e magari da parecchio tempo in attesa di essere regolarmente ospitato in Italia e in Europa. Sì perché questa disumana misura è stata concertata a livello europeo.

Che pena! Siamo in mano a governanti che non vedono oltre il proprio naso, senza cervello e senza cuore, che puntano immediatamente ed esclusivamente alla pancia. È farisaico preoccuparsi della democrazia altrui se non si fa nulla per aiutarla ad instaurarsi e crescere: cosa combineranno i nuovi governanti siriani? Si potrà aiutarli a desistere dagli intenti terroristici per approdare ad un regime democraticamente accettabile? Non ci si preoccupa nemmeno dei contraccolpi in chiave di terrorismo internazionale, meglio ripiegare sugli immigrati, argomento che fa cassetta elettorale.

A niente sembra valere l’eventuale prospettiva che da Libano e Turchia rientrino in Siria i rifugiati fuggiti dal regime di Assad: varrebbe forse la pena aspettare un attimo prima di sbarrare i confini che magari si potrebbero aprire in senso contrario. In materia di blocco degli immigrati la ragion non vale: basti pensare alla vergognosa manfrina dell’esportazione in Albania.

La filosofia meloniana, salviniana e ursuliana assomiglia molto a quella di un mio zio, che viveva e lavorava a Genova: quando tornava a Parma e incontrava gli amici di un tempo ricreava immediatamente il rapporto cameratesco condito dai ricordi. Al termine di questi fitti dialoghi sparava quasi sempre una simpatica battuta. Al momento dei saluti rivolto all’amico di turno, dopo avergli dato una pacca sulla spalla e/o avergli stretto calorosamente la mano, diceva: «Veh, arcòrdot bén, quand at me vól gnir a catär…sta a ca tòvva».