Vivendo con Vivendi

Il salotto buono di Lilly Gruber (otto e mezzo su La 7) mi serve, quando ho il tempo e la pazienza di seguirlo, da autoesame del sangue politico presente nelle mie vene. Nell’ultima occasione si parlava del nuovo governo di Paolo Gentiloni, del futuro congresso del Partito democratico e della scalata di Vivendi a Mediaset. Tre validi test per le mie idee, operati da tre laboratori: il sussiegoso mondo accademico (Massimo Cacciari), il pretenzioso mondo dei talk show di livello (Giovanni Floris), il giornalismo brillante (Nicola Porro).Il piatto forte cucinato da Floris era l’allarmistico e dolente elenco di tutte le massime aziende italiane ormai in mano al capitale straniero: l’ardita intenzione della francese Vivendi di intromettersi nell’italiana e berlusconiana Mediaset veniva inquadrata nel complessivo panorama economico nazionale, colonizzato dalle multinazionali. Roba da “Stato Imperialista Multinazionale” di brigatistica e rossa memoria.Massimo Cacciari, oltre assentire su questa arcaica analisi, auspicava un “vero” congresso chiarificatore del Pd, che ne ascoltasse la base ben individuata (solo gli iscritti al partito o ad un impegnativo albo speciale), che ne facesse il partito democratico e non più il partito di Renzi (questa volta Cacciari era a corto di fantasia), che ne delineasse un gruppo dirigente allargato (oltre lo striminzito cerchio magico). Considerava inoltre una quisquiglia la presenza di Maria Elena Boschi nel nuovo governo, problema piccolo, ma che, tra l’altro, segnava il titolo del dibattito stesso (in filigrana, la solita supponenza cacciariana e forse una punta di maschilismo di ritorno).Sulle tre questioni Nicola Porro si differenziava notevolmente dai suoi interlocutori: sulla questione “Vivendi”, pur parlando da un pulpito di parte (la redazione de “Il giornale”), aveva il coraggio di globalizzare il discorso sostenendo che il capitale straniero, a patto che comporti, come in molti casi, rafforzamento e sviluppo della aziende italiane, non può essere che il benvenuto. Sulla questione del congresso Pd poneva la sibillina e ironica domanda: alla fine è Roberto Speranza il sinistro competitor di Matteo Renzi? E su Maria Elena Boschi non sottovalutava la mossa di Meb (così la chiamano gli amici) e il suo impatto, negativo o positivo sull’opinione pubblica.Mi sono trovato d’accordo, su tutto il fronte degli argomenti trattati, con Nicola Porro, giornalista di libero pensiero, ma certo non di sinistra. Cosa mi sta succedendo? I casi sono due, anzi tre: o invecchiando, come spesso accade, sto annacquando la mia storica ispirazione di sinistra; oppure l’opinione riconducibile alla sinistra marca visita in senso anacronistico, nostalgico e schematico; oppure il mondo sta cambiando al punto da rimescolare culturalmente le menti e da richiedere un riposizionamento su tante questioni.Fatto sta che, tornando agli argomenti di cui sopra, io la penso come sinteticamente di seguito.Il Pd non può prescindere da Renzi, pur con i limiti soggettivi dimostrati (e chi non ne ha) e gli errori oggettivi compiuti (e chi non ne fa). Il dibattito congressuale franco ed approfondito potrà solo servire ad aggiustare il tiro renziano, non certo ad accantonare l’unico leader plausibile.In campo economico non significa nulla la difesa patriottica del capitale italiano: questo può rivelarsi e spesso si rivela ben più speculativo e conservatore di quello straniero. Semmai bisognerebbe puntare a rendere sempre più appetibile il nostro Paese per gli investimenti produttivi stranieri. Siamo in Europa, non vogliamo muri e poi diventiamo protezionisti in economia? La pensiamo come Trump, come Salvini, come Grillo, come i brexit?Maria Elena Boschi è stata un ottimo ministro con una mission difficile e purtroppo non è riuscita a portare a termine felicemente (Sì a livello parlamentare, No a livello popolare) la legge di riforma a cui ha lavorato. Niente di drammatico e di scandaloso quindi che sia rimasta nel governo Gentiloni, con un diverso incarico dal momento che di riforme costituzionali non si parlerà per decenni. Tra l’altro, senza sottovalutare la sua capacità politica e senza indulgere a maschilismo camuffato, un tocco di graziosissima femminilità non guasta mai. Non vorrei che l’ostracismo nei confronti della Boschi non fosse tanto una questione di omogeneità dimissionaria col leader Renzi (a proposito, com’è strano il mondo, si diceva che Meb fosse una ventriloqua del suo capo e poi, quando sceglie di testa sua, sbaglia, perché dovrebbe seguire le orme del capo), ma fosse dovuto ad un ragionamento del tipo: ben vengano le donne, poi però, quando il gioco si fa serio e importante, meglio se vanno a casa.Dalla pancia al … il tratto è breveNon so se la politica sia diventata il pretesto e l’occasione per sfogare le proprie sciocchezze latenti o se addirittura si pretenda di parlamentarizzare lo sciocchezzaio imperante a livello di social network e di media in genere. Anche per un accanito ed appassionato osservatore della politica come il sottoscritto, questa progressiva brutalizzazione del dibattito rischia di avere non tanto un effetto nervosamente coinvolgente, ma quello di provocare una sorta di alienante fuga nel dibattito politico virtuale (come dovrebbe essere), rincorrendo magari il passato (andava molto meglio quando andava peggio…). Ho fatto fatica a leggere le cronache odierne: giravo e rigiravo le pagine su reportage squallidi (non si dovrebbero nemmeno considerare e commentare certi fatti) dal contenuto ancor più squallido (stiamo veramente e pericolosamente raggiungendo l’apice della demenza). Alla fine ha vinto la voglia di reagire e quindi di mettere per iscritto alcune riflessioni.La nuova ministra della Pubblica Istruzione, Valeria Fedeli, viene messa al pubblico ludibrio per avere inserito nel suo sito internet, a livello di curriculum, il “diploma di laurea in Scienze sociali” mentre è in possesso solo di “diploma per assistenti sociali”. Su questo dettaglio insignificante (quante persone più o meno in buona fede si fanno o si lasciano chiamare dottore senza esserlo) è stata costruita una delegittimazione, arrivando a sostenere che non si può fare il ministro dell’istruzione senza essere dotati di laurea (e dove è scritto?) e che non è credibile l’invito all’impegno nello studio rivolto ai giovani se viene da un personaggio istituzionale che non ha studiato granché (fate come ho fatto e non come dico). Siamo alla pura follia polemica che si perde non in un bicchiere d’acqua ma in un vasetto di urina.Un ex-deputato viene insultato, malmenato e quasi-sequestrato in una sorta di finto arresto riconducibile a giustizia sommaria popolare, improvvisata dal movimento dei forconi (ribattezzato per l’occasione Comitato per la legalità). Ma il bello sta nel fatto che a tale movimento aderisce un generale dei carabinieri in pensione (sic!) che si fa portavoce degli autori del blitz: «Sono passati tre anni dalla sentenza della Consulta che ha dichiarato illegittima la legge elettorale e i parlamentari abusivi sono ancora lì. Non dovremmo arrestarli noi, i politici, ma le stesse forze di polizia. La nascita del governo Gentiloni, con la prospettiva di un altro anno di legislatura, ha fatto esasperare gli animi. Devono andare a casa tutti, la gente non ne può più. Sono gli onorevoli abusivi a determinare tutto ciò. Altri “arresti”? Non si possono escludere». Siamo alla pura follia che passa alle vie di fatto: sono convinto che in molti applaudirebbero queste provocatorie dichiarazioni, propedeutiche ad azioni illegali e violente (io comincerei a mettere in galera questo generale in pensione).Beppe Grillo non si è presentato alle consultazioni del Capo dello Stato e tanto meno a quelle del presidente incaricato, ma viene a Roma, bazzica assieme a Davide Casaleggio locali e salette di Senato e Camera, incontra i parlamentari cinque stelle e sputa intenti programmatici al limite dell’eversione: «Bisogna portare il Parlamento tra la gente», dopo avere disertato e disturbato quello istituzionale durante il dibattito sulla fiducia al governo. In compenso nemmeno una parola sulle dimissioni di Paola Muraro, assessora grillina del comune di Roma, indagata dalla Magistratura: «Sono un problema che riguarda il Comune». E la gente vota Grillo…Dentro il Senato ci pensa Mario Monti a dare aria ai denti, oscurando grillini e Lega. L’ex premier parla di Renzi. Lo definisce “totalmente inadeguato alla politica”, ma “bravo motivatore”. Considera l’indirizzo europeo di Renzi “povero di risultati, solo toni alti”, parla di un premier uscente che è stato un danno per il Paese. Si sente vittima di “linciaggi” e conclude dicendo: «Chi parla è stato iscritto addirittura in un nuovo raggruppamento dell’accozzaglia». Mario Monti è un senatore a vita. Se così si esprime un cittadino che ha illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario (art. 59 della Carta costituzionale), un cittadino normale…Concludo con la chicca di Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera, che così si prenota sul possibile referendum abrogativo in materia di Jobs act: «Noi voteremo contro il Jobs act assieme alla Cgil, perché Renzi è un politico eversivo e noi stiamo con la democrazia». Se parla così un deputato di lungo corso, coinvolto nelle malefatte del ventennio berlusconiano, un normale elettore… Mi piacerebbe sapere però cosa ne pensa Silvio Berlusconi, alla disperata ricerca di una sponda governativa che lo aiuti a difendere la sue aziende dagli attacchi francesi. La malafede associata alla demenza!

Le dimissioni dei poveri

Erano nell’aria da mesi. Si sono concretizzate quando l’attenzione generale era tutta concentrata sul nuovo governo post-referendario. Mi riferisco alle dimissioni di Paola Muraro da assessore all’ambiente del comune di Roma. In odore di indagine in materia di reati ambientali, in particolare sulla gestione non autorizzata dei rifiuti, in periodo antecedente rispetto all’entrata in funzione della giunta capitolina guidata dal sindaco Virginia Raggi, ha aspettato, contravvenendo ad una regola interna del movimento cinque stelle, la convocazione in procura per un interrogatorio, prima di rassegnare le dimissioni. È una vicenda strana: non si è capito se Paola Muraro fosse stata iscritta nel registro degli indagati, da quando e se questa iscrizione fosse stata ufficializzata.Non essendo un giustizialista non trovo niente di clamoroso nell’atteggiamento attendista dell’interessata. Diverso il discorso a livello del movimento, che sembra applicare due pesi e due misure a seconda dei personaggi inquisiti (vedi Parma e Palermo): una ulteriore prova che non si può fare politica solo gridando “onesta! onesta!”: in questo modo si dà soltanto soddisfazione epidermica alle lamentazioni della gente , ma poi viene il bello della soluzione dei problemi.Ed è qui che restano molte perplessità. I casi sono due: o Virginia Raggi ha operato la scelta di assessori e collaboratori in modo a dir poco opaco o comunque lasciandosi, volontariamente o involontariamente, irretire dall’avvolgente rete di potere capitolina; oppure si è mossa e si sta muovendo alla cieca, senza un disegno e senza una squadra.In entrambi i casi emerge una preoccupante improvvisazione a giustificare la quale non basta l’inesperienza o l’ingenuità dei neofiti: ad un movimento che si candida a guidare il Paese è richiesto molto di più.Tutto sommato la tanto discussa esperienza parmense di Federico Pizzarotti, da tempo misconosciuta dai cinque stelle e ultimamente segnata dalla definitiva presa di distanza del sindaco di Parma dal movimento, il quale si avvia a concludere regolarmente il mandato, pur nella quasi disastrosa inconcludenza amministrativa, ha fatto in oltre quattro anni meno danni in casa grillina che non la giunta Raggi in quattro mesi.Resta, al di là degli insopportabili e vuoti toni protestatari, la forte perplessità rispetto ad una prospettiva di alternativa grillina nel governo del Paese.Due fatti si verificano contemporaneamente in questi giorni: la crisi di governo riconducibile alla crisi del Partito Democratico; la crisi dell’amministrazione capitolina riconducibile al movimento cinque stelle. Penso non sia un caso. Proviamo a rifletterci sopra un attimo.Lasciamo stare l’onda populista, non scomodiamo il discorso dell’antipolitica, stiamo a Grillo ed ai grillini e chiediamoci: è possibile che un elettore italiano su tre dia loro fiducia. Sono convinto che tutto rientri in un sentimento distruttivo, in una rappresentazione della società in cui la tragedia sfocia nella comica e viceversa.I poveri nel primo dopoguerra trovarono sciaguratamente risposte nel fascismo pilotato da ben altri interessi; nel secondo dopoguerra trovarono ospitalità e rappresentanza ideologica nel partito comunista e nella democrazia cristiana, che, partendo dalle “lamentazioni” di un popolo distrutto dalla guerra, seppero ricostruire un Paese democratico facendolo progredire su tutti i piani. Poi arrivarono il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro e si chiuse questa fase, con il Pci e la Dc (messi in gravi difficoltà dal craxismo) alla ricerca di rigenerazione a livello di potere e di revisione ideologica. La macchina dei poveri aveva perso la benzina, i poveri c’erano ancora, ma cambiavano i loro bisogni e soprattutto non c’erano gli interlocutori. La politica si distaccava progressivamente dalla gente e andava per la propria strada senza freni etici: e fu tangentopoli…Arrivò Berlusconi, frutto bacato del craxismo e della modernità mediatica: i poveri (almeno una parte) ci cascarono, ci provarono e fu un disastro. I post-comunisti ed i post-democristiani si ripulirono col digiuno e con la battaglia dell’antiberlusconismo, ma non fu come per l’antifascismo che plasmò una nuova classe dirigente. Le macerie c’erano ma non c’era lo spirito del ricostituente. Tentarono il compromesso storico fuori tempo massimo: l’ulivo e poi il Partito democratico. Le due culture non riuscirono a fondersi e ridiedero vita a due visioni contrapposte di società: quella burocratica e monolitica della sinistra classica (i Bersani e i D’Alema) e quella confusionaria e provvisoria dei cattolici progressisti. Romano Prodi e Matteo Renzi hanno tentato in tempi e modi diversi il miracolo, che non è riuscito. I poveri sono tuttora vedovi di queste due culture e vanno alla disperata ricerca del salvatore. Da qualche anno si illudono di averlo trovato in Beppe Grillo. Quando si è disperati ci si attacca a tutto, ma poi finisce che ci si suicida. Siamo nella fase intermedia fra l’annaspamento sulle scialuppe di un impossibile salvataggio e il definitivo naufragio. Il partito democratico, nonostante tutto rimane l’unica possibilità di salvezza vera: chi vende salvezza finta lo ha capito e ne ha fatto il nemico. I poveri devono avere uno scatto di dignità fatto di pazienza e scegliere tra l’illusione di non affogare e l’attesa di una concreta ciambella di salvataggio. Scelta difficile, ma obbligata. La lamentazione affascina, Grillo diverte, Renzi non piace, Gentiloni traccheggia. Che sia Mattarella il punto d’attacco? E come? E quando? Non lo so.

A chi tocca leva

È stato varato il governo Gentiloni. Non va bene quasi a nessuno, come sempre… Bene le critiche, ma il governo lo vara il Capo dello Stato e la fiducia gliela concede il Parlamento. Fortunatamente il Presidente Mattarella, dopo avere puntualmente e rigorosamente ascoltato tutti, ha deciso: l’Italia ha bisogno di un governo, delle elezioni se ne riparlerà semmai dopo che il Parlamento avrà varato, possibilmente a larga maggioranza, una legge elettorale che risponda al quadro istituzionale ripristinato dal referendum ed alle esigenze di rappresentatività e governabilità del Paese.“Linea al collega che stava parlando”, dicevano un tempo i cronisti di tutto il calcio minuto per minuto, costretti ad interrompersi e a darsi sulla voce. “Linea all’Istituzione a cui tocca di operare”, sembra dire Sergio Mattarella. Molto bene!Il governo Gentiloni da una parte riscontra l’ignorante avversione e contrarietà da parte degli “elezioni continue”, quelli che, ringalluzziti dal risultato referendario, vorrebbero andare subito alle urne (cosa che la Costituzione prevede ogni cinque anni), vorrebbero un governo eletto dal popolo (cosa che la Costituzione non prevede, configurando una repubblica parlamentare), vorrebbero sciogliere le Camere ad ogni piè sospinto (cosa che la Costituzione riserva al Presidente della Repubblica), vorrebbero votare immediatamente (cosa impensabile senza una valida e armonica legge elettorale), vorrebbero aspettare il responso elettorale prima di governare (cosa assurda visti i problemi e gli impegni assillanti che ha il Paese a tutti i livelli).Dall’altra parte si richiedeva comunque al Pd, nonostante il passo indietro di Renzi, di farsi carico di una soluzione governativa ponte per non lasciare il Paese allo sbaraglio in balia delle onde post-referendarie e in attesa delle (de)rive elettorali. Quasi tutte le altre forze politiche si sono dichiarate rigidamente e acidamente indisponibili a qualsiasi forma di governo allargata.Il Presidente Mattarella su questo punto è stato consequenziale e intransigente ed ha preteso un governo che potesse governare perché, prima dei partiti e delle loro mire, vengono i problemi degli Italiani, terremotati in primis.Ma è un governo fotocopia! Così hanno detto in tanti. Gli elettori al referendum hanno chiesto un forte cambio di indirizzo politico. Veramente gli elettori hanno solo bocciato una legge di riforma costituzionale (molti fautori del No, stanno cautamente prendendo le distanze dall’inevitabile disfattismo, anche se è un po’ tardi). Sì, ma c’era in ballo molto di più: la protesta dei giovani e del meridione. Ma questo di più, che andrebbe approfondito e valutato attentamente e non sbrigativamente come sta avvenendo, avrebbe comunque bisogno di conferma a livello di elezioni politiche (“La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione” e non semplicisticamente a furor di referendum). Si torna da capo.E allora, come avrebbe potuto il Pd, forza di maggioranza, voltare pagina, cestinare o distruggere il proprio operato e la propria classe dirigente in una furia iconoclasta verso i suoi stessi simboli personali e programmatici. Cambio di premier (il precedente si è irrevocabilmente dimesso), qualche ritocco alla compagine governativa e al programma, e poi pedalare…Ecco spiegato il governo Gentiloni. Chi è favorevole, chi è contrario, chi si astiene?

Bianchi, rossi e…Verdini

Solo i verdiniani sarebbero impresentabili e il PD si dovrebbe vergognare di averne talora l’appoggio? E Berlusconi quando fece il pieno elettorale in Sicilia pensiamo che non avesse cavalcato certi legami con la mafia? Poi con lui si fece la grande coalizione, prima per sostenere Monti e poi per appoggiare Letta. Salvo avere da ridire sul coinvolgimento di Forza Italia proprio sulla riforma costituzionale da parte di Renzi (cosa tentata in passato e clamorosamente fallita da D’Alema): era il giusto approccio non tanto per sdoganare o riabilitare un Berlusconi messo fuori gioco per motivi giudiziari, ma per dare alla riforma un respiro parlamentare oltre il recinto della maggioranza di governo. Questo passaggio, fu improvvisamente e pretestuosamente interrotto nel 2015 da parte berlusconiana per l’elezione di un Presidente della Repubblica non troppo gradito e per la solita paura di alienarsi le simpatie leghiste e filo-leghiste, dopo che Forza Italia aveva ripetutamente votato a favore della riforma in base all’accordo del Nazareno. Ebbene tutto ciò viene bellamente dimenticato dai protagonisti forzitalioti di oggi presentatisi alle consultazioni di Paolo Gentiloni suonando due spartiti con due diversi musicisti (Brunetta e Romani): il primo ha fatto il duro attaccando Renzi, il secondo ha cucito aprendo spiragli collaborativi verso Gentiloni in nome di una fantomatica discontinuità. Berlusconi non c’era: quando c’è da fare la figura del pirla preferisce stare in disparte. Ma la cosa più curiosa è stato affermare che Renzi ha gestito la riforma costituzionale e quella elettorale a livello di governo, mentre in realtà esisteva un patto collaborativo proprio con questi signori, che prima se ne sono vergognosamente sganciati e oggi addirittura lo misconoscono. E nessun giornalista che assiste ai riti ha il buongusto di farglielo rilevare in diretta. Ormai la politica, come sta dimostrando la vicenda Trump, è preda della post-verità. Si sparano balle a tutti i livelli e in tutti i modi al punto che diventa quasi impossibile controbattere, le balle diventano verità, la società muore.Dopo questa breve divagazione punto alla sinistra dem ed alla sua mancanza di strategia.È arrivato il referendum sulla riforma costituzionale: il piatto forte per la sinistra dem, che ha giocato tatticamente su questo tavolo tutte le sue residue carte politiche, non facendosi scrupolo di allearsi almeno indirettamente con cani e porci (altro che Verdini…), pur di sfrattare l’ingombrante Renzi. Risultato ottenuto, ma a quale prezzo? A prezzo di una assurda debacle politica. L’area della maggioranza politica si è addirittura ancor più chiusa a sinistra; il programma governativo è lo stesso; il governo è presieduto da un renziano convinto. Non solo ma Gentiloni fa parte del gruppo (per la verità non entusiasmante) dei pulcini della chioccia Rutelli, i quali non hanno mai sopportato la Ditta, cioè la nomenclatura post-comunista che per anni ha avuto il controllo del Pd. Gentiloni così ricorda il momento in cui Renzi diventò segretario del Pd: «Il giorno più bello è stato quando Renzi ha vinto le primarie: lì abbiamo battuto il Moloch comunista»; Matteo Renzi rimane saldamente segretario e si dedicherà ancor più al partito convocando a tambur battente il congresso, puntando decisamente alla riconferma dopo aver rinsaldato attorno a sé la stragrande maggioranza negli organi di partito e rinverdito il feeling con la base del partito (iscritti ed elettori).Al contrario, la sinistra dem risulta divisa al suo interno, intenta solo a guadagnare tempo, senza candidature consistenti per la segreteria, con il rischio di isolamento rispetto alla base elettorale del partito (non a caso chiede le primarie limitate agli iscritti: evviva la partecipazione e il collegamento con la società!) che le contesta la macchia indelebile di aver tramato contro il partito stesso (i grillini fanno l’antipolitica, la sinistra dem fa l’antipartito, il proprio), scavalcata da una parte dall’extra-sinistra ragionevole avviata a proporre un patto al Pd, dall’altra dalla extra-sinistra dura e pura vocata alla minoranza perpetua.Giovanna Casadio scrive: «La sinistra interna potrebbe sfilarsi da un congresso-referendum su Renzi. Lasciano trapelare la disobbedienza, che sarebbe l’anticamera della scissione, quella che hanno sempre escluso anche nei giorni del No al referendum costituzionale e degli aspri botta e risposta con i renziani». Sembrano addirittura non fidarsi e chiedere che sia un comitato a gestire il congreso garantendo imparzialità. Siamo a questo punto. Non resta loro che continuare scopertamente a fare i guastatori, gioco che diventerà scopertamente difficile a livello parlamentare, vista l’esigua maggioranza al Senato (Verdini infatti ha preso le distanze con la sua pattuglia).Siamo ben oltre una vittoria di Pirro, questa è la brutta e ingiusta fine dell’eredità post-comunista: Togliatti e Berlinguer si rovesceranno nella tomba (il secondo in compenso ha la figlia che continua imperterrita a corteggiare televisivamente Massimo D’Alema).

Le gentilone risposte al fronte del No

Non posso credere che la sarabanda promossa col No alla riforma costituzionale fosse prevalentemente (o esclusivamente) volta a colpire il prestigio, la figura e il ruolo di Matteo Renzi. Se invece fosse stato così, il risultato, almeno momentaneamente, sarebbe stato raggiunto: Renzi è tornato formalmente a casa.Ma penso che il discorso politico precedente e successivo alla vittoria del No fosse assai più complesso: sovvertire l’equilibrio politico-governativo per poi, nel segno della totale discontinuità, andare precipitosamente alle urne. Obiettivi completamente mancati, complice la freddezza istituzionale di Sergio Mattarella e le preoccupazioni europee.Mattarella ha stoppato inequivocabilmente le smanie elettorali imponendo un percorso, che, al di là degli attesi e imminenti pronunciamenti della Corte costituzionale sulla legge elettorale recentemente varata (il cosiddetto Italicum), garantisca una omogeneità di regole tra Camera e Senato, una corretta rappresentatività dei cittadini, una razionale funzionalità delle Camere e una stabilità e continuità di governo.Poi dal contesto europeo e mondiale è venuta direttamente e indirettamente una pressante richiesta di poter contare su un governo autorevole che operi nel segno della continuità e senza sbandamenti nei delicati rapporti esistenti a livello internazionale.Quindi, nonostante la penosa, insistente e velleitaria litania per una svolta immediata e per il ricorso frettoloso alle urne, ci troviamo con un governo nei pieni poteri, senza limiti di tempo, nel segno della continuità e della stabilità di governo, nel perimetro della precedente rinsaldata maggioranza. Un governo che qualcuno ha definito ironicamente un “Renzi bis senza Renzi” e che ha scatenato la rabbia di quanti pensavano che valessero i loro calcoli in cui due + due fa quattro, mentre in politica le cose sono (fortunatamente) più complicate e non basta urlare nelle piazze o sul web per cambiare le situazioni. In passato qualcuno aveva ipotizzato come spesso alle piazze piene corrispondano urne vuote: questa volta addirittura si può dire che a urne piene corrispondono spazi istituzionali vuoti e regole costituzionali nette.Scrive Michele Serra: «Ora che la Costituzione, restituita alla sua collocazione originale, come la Gioconda scampata a un viaggio tempestoso e indesiderato, può essere contemplata con calma, tutti possono verificare che non c’è neanche una riga che assegni al Popolo e non al parlamento il diritto di eleggersi un nuovo governo, come tutti vorremmo domattina, massimo domani pomeriggio. E neanche una riga che levi ai Quirinale il dovere di spremere da ogni legislatura quello che gli riesce, anche fossero le poche gocce del governo Gentiloni o affini. Del resto, tecnicamente, il No questo era: tutto azzerato, dunque tutto come prima di Renzi e anche prima di prima di Renzi».Sul piano politico al centro della scena rimane il Pd, forza di maggioranza, nonostante i protagonismi da strada dei Cinque stelle e della Lega, al punto che tutto il quadro rischia di essere condizionato dal congresso del Partito democratico: probabilmente lo si celebrerà in tempi ravvicinati e dovrà delineare la strategia del partito, la sua classe dirigente, i tempi e i modi di governo, nonché prefigurare i percorsi politici futuri.Gli autori della precedente legge elettorale (il cosiddetto Porcellum) riconducibili al centro-destra (artefice principale del capolavoro: Roberto Calderoli della Lega), in base alla quale sono state elette le attuali Camere, l’avevano pensata e varata solo ed esclusivamente per mettere i bastoni fra le ruote di un incombente vittoria del centro-sinistra. Ebbene, dal momento che anche in politica il diavolo insegna a fare le pentole e non i coperchi, questa legge ha finito per dare e garantire una centralità, persino esagerata, al Pd, complice anche lo sfarinamento progressivo di Forza Italia.Gran parte del discorso politico ruota quindi attorno al Pd e non a caso al suo interno si sono da tempo scatenate rivalità correntizie, personalismi storici, visioni alternative: per anni fu la Democrazia Cristiana il perno della politica italiana e al suo interno si giocavano le questioni fondamentali del Paese. C’era un fortissimo partito di opposizione, il Pci, che sapeva fortunatamente stare al suo posto, aveva una notevole maturità istituzionale, un forte ancoramento costituzionale e riusciva a condizionare gli andamenti, funzionando come “governo ombra”, partito di lotta e di governo, dotato di personaggi altamente carismatici e rappresentativi delle istanze popolari (senza essere populista).Tornando ai giorni nostri non so se il Pd avrà il senso dello Stato della Dc, mentre sono certo che grillismo e leghismo non hanno sfortunatamente nulla da spartire con l’eredità comunista: sono impiccati infatti all’albero dell’antipolitica, sono chiusi nel magazzino del loro populismo d’importazione, hanno merce spendibile al mercatino, ma le loro bancarelle non entrano nel vero e proprio mercato. Sono convinto che l’elettorato italiano li voti e li voterà fino al momento in cui i giochi si faranno pesanti; allora i Grillo e i Salvini diventeranno figure meramente folkloristiche e continueranno, non so per quanto tempo, a giocare solo nei cortili recintati dell’antipolitica politicante.Sulla portata velleitaria del cambiamento con le cambiali firmate a questi personaggi inaffidabili, che vogliono uscire dall’Europa, scrive Eugenio Scalfari: «In fondo anche i No referendari volevano un cambiamento. Con Grillo e Salvini? Per l’Italia purtroppo è avvenuto, spesso ci scordiamo delle pessime esperienze vissute. La storia dovrebbe insegnarlo, soprattutto ai giovani: essi hanno votato il No in massa. Ora dovrebbero rileggersi alcuni classici della nostra storia politica e sociale fino in fondo. Il No vuole un vero cambiamento in avanti o all’indietro?».E il Pd? Dovrà fare i conti non tanto con le dispute tra Renzi e Bersani, ma dopo aver evitato di incartarsi nello storico ma nominalistico contrasto tra social-democrazia e social-liberismo, dovrà puntare ad una sinistra umanista, ambientalista, pragmatica, di governo, europeista, mondialista, che sappia tuttavia mettere regole e limiti al rigorismo europeo e alla globalizzazione e che sappia affrontare, in modo aperto ma razionale, il discorso dell’immigrazione.E il gruppo dirigente? Non vedo alternative serie a Matteo Renzi se saprà aprire qualche ponte e abbattere qualche muro. Se le alternative provenienti dalla cosiddetta sinistra dem si riducono alle infantili velleità di Roberto Speranza, ai tronfi proclami periferici di Michele Emiliano, ai nostalgici richiami di Enrico Rossi o addirittura ripiegano sul maligno ritorno del “molochiano” Pier Luigi Bersani, penso che Renzi farà il segretario dem per molto tempo, forse persino troppo.Messaggio in codice al fronte del No, interno ed esterno al Pd: tanto tuonò che non piovve.

Le salite al Colle

Tutti gli osservatori politici hanno bollato come paradossale la interminabile sfilata dei numerosi gruppuscoli parlamentari per le consultazioni al Quirinale in vista della formazione del governo post-referendario (che al limite potrebbe anche essere quello pre-referendario). Una inutile e massacrante maratona per il Capo dello Stato, che deve tuttavia rispettare l’istituzione parlamentare e queste Camere le quali oltretutto lo hanno eletto. Ebbene anche questa manfrina è, indirettamente e in prospettiva, un frutto paradossale del No alla riforma costituzionale ed elettorale. Si parla di bipartitismo, di bipolarismo, di tripolarismo e siamo arrivati a 23 gruppi parlamentari: troppa gente, troppi partiti, così da anni dice il popolo. Poi, quando si arriva al dunque, si vota per lasciare tutto com’è, magari solo perché chi propone di semplificare il sistema è antipatico, logorroico, fanfarone, toscanaccio.Come sostiene acutamente la giornalista, attenta analista e narratrice della politica italiana Marcelle Padovani, siamo di fronte ad “un paradosso totale, anche all’interno del Pd: come può la minoranza fare una battaglia contro Renzi pur chiedendogli di rimanere presidente del Consiglio e senza proporre un leader che possa gestire il partito? C’è qualcosa di imbarazzante in questo ragionamento. Vedo un povero Renzi accerchiato da un mucchio di irrazionalità contraddittorie, ma con una nota sicura e ricorrente che è: ‘Matteo non ti vogliamo, però tu devi fare quello che noi diciamo’ ” .D’altra parte basta le candidature emergenti in alternativa a Renzi per la segreteria del Pd sono molto modeste dal punto di vista qualitativo, improvvisate dal punto di vista storico, estremamente deboli sul piano politico. La minoranza dem è alla fase dei convegni per ricostruire il centro-sinistra. La maggioranza dem ha, come scrive Giovanna Casadio a cui bisogna fare un po’ di sconto, iniziato la gara tra “renziani” e “renzisti”, tra “ragionevoli e “tifosi”: può darsi che la giornalista lavori un po’ troppo di fantasia tra simpatie berlusconiane di Franceschini e velleità consultive del comitato del No, resta comunque un quadro paradossale, che purtroppo non finirà con la lunga processione al Quirinale. In un clima di tutti contro tutti venutosi a creare, sarà ben difficile varare una riforma elettorale razionale: probabilmente torneremo ad un sistema proporzionale quasi puro, in cui tutti, piccoli, grandi, destra, sinistra, centro, si sentono garantiti e sperano di essere rappresentati. E poi, l’inevitabile grande ammucchiata di governo con tanti saluti alla governabilità e alla stabilità. Se in primavera non si terranno le elezioni politiche, ci sono dietro l’angolo ben tre referendum promossi dalla Cgil : per tornare al vecchio articolo 18 dello statuto dei lavoratori, per abrogare i voucher e una norma sugli appalti che alleggerisce le responsabilità degli appaltanti in caso di violazioni nei confronti dei lavoratori da parte degli appaltatori. Si fa politica con lo stile di Penelope in attesa di un Ulisse che non arriverà mai.Benito Mussolini diceva che era impossibile governare l’Italia e conseguentemente fece quel che fece. Sul fatto che l’Italia sia ingovernabile sono d’accordo: la vicenda referendaria ne è una dimostrazione lampante. Negli Usa Trump ha risolto il problema: sta facendo esattamente l’opposto di quanto ha promesso in campagna elettorale. «La sua vittoria, scrive Michele Serra, è stata salutata come la presa del potere della classe lavoratrice bianca contro l’establishment politico finanziario. Fra un paio d’anni sarà chiaro che non ha vinto il popolo in rivolta, ma i ricconi con gli stivali, gli affaristi con il sigaro, i marines rapati a zero che vogliono spezzare le reni all’Iran e infine pochissime donne, però tutte rigorosamente maschiliste».Stiamo dunque attenti che anche in Italia non arrivi qualcuno che renda governabile il Paese con scorciatoie molto pericolose. Comportava rischi di autoritarismo la riforma Renzi-Boschi? Ma fatemi il piacere…“Se il Monte non va da Renzi, Renzi deve andare al Monte”Il difficile futuro del Monte dei Paschi di Siena turba mercati, risparmiatori, banchieri, politici, Italia, Europa. L’Europa da una parte ci tranquillizza relativamente con la perseveranza di mari Draghi, dall’altra ci sventola un cartellino giallo in materia di bilancio, dall’altra ancora ci sventola un cartellino rosso in materia di banche. Non voglio esagerare, ma anche questo prevedibile sviluppo non è estraneo al referendum. In un ritrovato clima di instabilità, senza continuità di riferimenti politici, è probabile che gli organismi europei competenti non se la siano sentita di concedere proroghe al tentativo di capitalizzazione che l’Istituto bancario ha avviato sul mercato. Anche perché i privati che avessero voluto investire avranno sicuramente e precipitosamente cambiato idea davanti al fantasma di un Paese ingovernabile e inaffidabile. Altro capolavoro del No. Se il monte Paschi è in questa situazione, molti fautori del No hanno in passato contribuito a portarglielo: mi riferisco agli ex-pci poi diventati Pd, di cui questa banca era il riferimento finanziario ed in cui hanno maneggiato assai; mi riferisco ai governi precedenti che non hanno voluto o potuto salvare questa banca quando le regole comunitarie lo consentivano e gli altri Paesi lo fecero; mi riferisco ai liberisti del cavolo che oggi addebitano a Renzi il tentativo fallito di attingere al capitale privato scommettendo sul futuro dell’Italia.È a dir poco curioso come improvvisamente sia diventato compatibile o addirittura vantaggioso impiegare soldi pubblici per ricapitalizzare una banca in difficoltà: ma non era operazione di finanza allegra intervenire a coprire i buchi di gestioni clientelari (erogazioni creditizie agli amici e agli amici degli amici), manager incompetenti (difesa della senesità a tutti i costi, gestioni fuori controllo), di operazioni spericolate (acquisizioni pressappochiste)? Non era quasi doveroso provare prima a verificare la disponibilità di capitale privato? La risposta è che si è tergiversato cercando interlocutori privati per evitare la brutta figura di stanziare fondi pubblici durante la campagna referendaria. Ma allora è buona cosa o no che il governo intervenga in Monte Paschi? Mi sembra, e vorrei sbagliarmi, che in un contesto di problemi difficilissimi il dibattito politico, ma anche il clamore mediatico, siano stati improntati al tifo da stadio.Si voleva un politica espansiva, salvo considerare tutto quel che faceva Renzi come manovre elettoralistiche e mance clientelari coi soldi pubblici. Dice l’autorevole sindaca di Parigi Anne Hidalgo: «Penso che il nostro governo socialista avrebbe dovuto chiedere più flessibilità, in particolare per rilanciare gli investimenti. Matteo Renzi ha tentato di farlo. Purtroppo è stato lasciato solo, non è stato sostenuto dalla Francia». Vorrei comunicare alla Hidalgo che purtroppo non è stato sostenuto neanche dall’Italia: non andava bene puntare i piedi a Bruxelles perché si rischiava di farci buttare fuori dall’Europa, almeno da quella che conta. Per impuntarsi bisogna avere i conti in ordine…, così dicevano gli autorevoli sfondatori di bilancio, gli euroscettici, gli economisti del piffero.Sul Monte Paschi Renzi ha deciso di non intervenire coi soldi pubblici tentando il ricorso al capitale privato. Sbagliato perché doveva utilizzare i fondi pubblici.Morale della favola Renzi ha sbagliato sempre e tutto. Staremo a vedere chi verrà dopo di lui…se non sarà ancora lui. Alternative serie non ne vedo, né prima né dopo le elezioni che tutti vogliono, assegnando ad esse un effetto taumaturgico, mentre in realtà una consultazione elettorale ravvicinata non farà che fotografare la penosa situazione politica esistente.

Il referendum e lo scaricabarile sociale

La chiave di lettura sociale dei risultati referendari dà il No particolarmente attivo tra i giovani e nel meridione. Se il disagio per mancanza di lavoro e crescente stato di povertà è alla basa del voto del No, qualificabile quindi anche come espressione elettorale di protesta, risulta conseguente che tale “ribellione” si annidi soprattutto nelle categorie ed i territori in cui le difficoltà economiche si sentono maggiormente e drammaticamente. Probabilmente inoltre per una fascia di elettorato sfiduciato e scontento, che prima trovava una (non) espressione nell’astensione dal voto, il referendum sulla riforma costituzionale ha paradossalmente rappresentato l’opportunità di tornare in cabina a tracciare un chiaro rifiuto sul sistema.Su questa saldatura tra il No e la protesta sociale, almeno per i giovani, ha certamente influito anche la benzina che il movimento 5 stelle sparge sul fuoco della insoddisfazione. Indubbiamente i grillini hanno intercettato un moto di ribellione, dandogli, bene o male, una rappresentanza politica e quindi, allorché questo movimento ha spinto in modo sguaiato ma efficace, verso il No, è stato seguito. Credo che questo fenomeno, di traduzione del disagio sociale in voto contrario alla riforma, sia solo parzialmente avvenuto sotto la spinta grillina: noto infatti che Grillo più che sul disagio sociale punta sull’antipolitica che è un sentimento trasversalmente e psicologicamente diffuso e che non sempre si sposa con il più oggettivo disagio sociale.Il No dei giovani e dei meridionali ha indubbiamente un significato da cogliere con realismo e serietà: un ulteriore segnale per una politica che voglia affrontare lo sviluppo dando prioritariamente risposte a chi ha motivazioni forti per chiederle a gran voce.Sono due discorsi diversi. Quello meridionale, antico, annoso, con mille sfaccettature di ordine sociologico (mafie), politico (clientele e spreco di finanziamenti), psicologico (inerzia individuale e di gruppo), educativo (scuola e attenzione alle giovani generazioni), economico (valorizzazione del patrimonio naturale, culturale, artistico, artigianale), europeo (solo in Europa e con l’aiuto dell’Europa si affronta questo problema).Il problema giovanile, che nelle aree meridionali si sovrappone a quello territoriale, è legato all’evoluzione del sistema economico e sociale: il calo occupazionale dovuto all’informatizzazione dei processi produttivi, alla razionalizzazione delle aziende pubbliche e private, al contenimento della spesa pubblica, al rialzo dell’età pensionabile, alla intellettualizzazione eccessiva della formazione culturale, alla mancanza di collegamento fra indirizzi scolastici e mondo del lavoro, alla deresponsabilizzazione dei giovani a livello famigliare, alla crisi valoriale generalizzata.Discorsi enormi che tuttavia stridono con il No alla revisione della Carta Costituzionale: si potrà certo dire che eliminare il bicameralismo perfetto non è la bacchetta magica per dare nuove opportunità di lavoro ai giovani, ma semplificare e rendere più efficace il sistema istituzionale è senza dubbio un presupposto per avviare un complessivo progetto rinnovatore e sviluppatore. Forse però pretendere questa fredda razionalità politica da chi si trova in gravissime difficoltà è un po’ troppo: gravi responsabilità incombono invece su chi soffia sul fuoco, creando false illusioni e proponendo assurde scorciatoie. Non è certamente serio prefigurare un presente roseo ed un futuro ancor più roseo: appunto che viene mosso al renzismo e che in parte ha una sua validità. Tuttavia mi sembra che sia in atto il maldestro tentativo di scaricare sull’esperienza governativa di Renzi problemi irrisolti da decenni o comunque riconducibile al sistema economico occidentale. Se non altro in questi ultimi anni qualcosa di concreto si è cercato di fare e mi sembra ingeneroso, oltre che poco credibile, l’appunto proveniente da personaggi e partiti carichi di enormi responsabilità nel passato remoto e recente, nonché da movimenti improvvisati e precipitevolissimevolmente risolutivi.Ecco perché giudico un passo indietro il No alla riforma costituzionale, un passo indietro che non serve affatto a prendere la rincorsa, ma a tenere bloccata tutta la situazione in attesa di cosa non ho ben capito.Il panico del PDChe il partito democratico potesse soffrisse di contraccolpi dalla sconfitta al referendum era facile prevederlo: una leadership messa in discussione, i partiti allo sbando, un quadro politico sfilacciato e frammentato, una crisi economica pesante, un rapporto difficile con l’Europa, un quadro istituzionale farraginoso e litigioso.Il motivo per cui non ho aderito al PD è sintetizzabile in una espressione che ho usato spesso nei miei scritti e nei miei dialoghi: il PD ha tutti i difetti della DC senza averne i pregi.Il dopo-referendum mi sta dando purtroppo ragione. Le correnti e i loro capi stanno esagerando e cadono nella trappola dell’anarchia, innescata da D’Alema e c. con una scriteriata e dissonante campagna elettorale, e proseguita con il ritorno isterico a certe pratiche che lasciano intendere accordi di mero potere (il doroteismo, vizio storico della democrazia cristiana). Tiro in ballo D’Alema, perché nutro nei suoi confronti una grande ammirazione sul piano intellettuale e financo culturale (ho sempre detto: se D’Alema mi proponesse di lavorare politicamente nel suo gruppo avrei serie difficoltà a dirgli di no). In questa fase politica non gli rimprovero tanto il risentimento verso Renzi per non essere stato designato alla carica di “ministro degli esteri europeo”, ruolo che avrebbe svolto con indubbia capacità, avvalendosi del carisma indiscutibile e dell’esperienza acquisita a livello mondiale; ritengo oltretutto un errore strategico e tattico di Renzi non avere recuperato D’Alema in questo ruolo, anche perché non sarebbe stato in contrasto col discorso della rottamazione (una questione generazionale e politica tutta italiana). Renzi in questi frangenti ha rivelato gravi limiti, anteponendo la sua strategia alla strategia del Paese e non sapendo ripiegare tatticamente su soluzioni atte a superare certe contrapposizioni eccessive e stucchevoli. Rimprovero invece a D’Alema il vizio di ripiegare continuamente sulla logica di potere camuffata da furbi tatticismi: con il referendum poi ha esagerato e ora forse sta perseverando e trascinando altri nell’errore. Mi dispiace.Non può essere quella degli accordicchi interni (di potere) la risposta. I problemi non mancano, ma proprio per questo dovrebbe prevalere il senso di responsabilità, la volontà di volare alto rispetto al prendere tempo in funzione del mero mantenimento del potere (il discorso vale per tutti) e basso rispetto ai problemi del Paese.Sul piano istituzionale il Pd si dovrebbe rimettere alle decisioni del Quirinale, dando al Presidente della Repubblica tutta la disponibilità e la collaborazione possibili: è lui, in questo momento più che mai, il garante della situazione e della tenuta del sistema democratico.Sul piano politico si abbia il coraggio di aprire il dibattito senza accentuare ulteriormente le già deleterie divaricazioni, ma al contrario recuperando un senso di unità sostanziale del partito. Questo nei momenti topici la DC lo sapeva fare. Ricordo di avere partecipato, da giovanissimo uditore, al congresso DC in cui Moro si staccò dalla maggioranza del partito (allora era segretario Flaminio Piccoli) di cui non condivideva più la linea politica. Fece un intervento di una profondità storica e di una bellezza incantevole. Non risparmiò attacchi durissimi al punto che nella platea dei delegati si scatenò un putiferio, volavano letteralmente le seggiole. Ebbene, Moro, che stava parlando, e Fanfani, che presiedeva il congresso, si scambiarono un paio di battute, facendo indirettamente capire che si poteva discutere anche aspramente senza rovinare tutto. Tornò la calma. Erano i cavalli di razza, già…La corsa contro gli immigratiIl comitato del No al referendum, quello più serio (promosso da Gustavo Zagrebelsky e Alessandro Pace) sta valutando di mantenere una mobilitazione e di considerarsi un soggetto civile nella partita politica. Questi illustri studiosi, a cui va tutto il mio rispetto, sostengono infatti che c’è vita al di fuori dei Palazzi della politica tradizionale e che la stravittoria del No è bene che non se la intestino i partiti politici, perché il movimento è stato assai più capillare e diffuso: la voce dei cittadini. La giudico una opportuna azione di indebito arricchimento verso i partiti, che, sentendosi vincitori, stanno cavalcando la situazione in modo indegno. Non sono convinto che questo comitato possa avere un futuro: si parla di Italicum, di referendum Cgil… La faccenda si complicherebbe.Sempre meglio comunque discutere di politica con certi professori che con i grillini Di Battista e Di Maio, i quali inebriati e accecati dall’illusorio successo, stanno brancolando nel buio e, come scrive Alessandra Longo, cominciano a gareggiare con la Lega, scoprendo il loro celodurismo di seconda mano anche nella delicata materia dei migranti, esibendo i muscoli dei pretendenti leader e premier, lanciando messaggi alla viva il parroco nel mare della Rete. D’altra parte l’Italia avrebbe raggiunto il triste primato in Europa per la xenofobia (il 52% degli italiani non si sente più a casa sua per colpa degli immigrati), mentre 5.400 comuni non ospitano alcun rifugiato. È molto interessante il raffronto di Ilvo Diamanti, che paragona il Movimento Cinque Stelle ad un “autobus”: gli elettori salgono con diversi obiettivi e destinazioni, al caso scendono sostituiti subito da altri passeggeri. In “questo momento storico”, l’autobus non può non intercettare l’umore medio degli utenti. Grillo ha lanciato da tempo l’allarme : «Attenti, gli immigrati portano Ebola!».

Il referendum delle beffe

Il No al referendum sulla riforma costituzionale aveva motivazioni politiche espresse, ma soprattutto carsiche, il cui collegamento con il merito delle nuove norme rimesse al giudizio dei cittadini era ed è non proprio fondato.In realtà, lo si è respirato durante la campagna elettorale e ancor più a risultato acquisito, si voleva soprattutto e innanzitutto mandare a casa Renzi. Ebbene, dopo un’ora e trenta minuti dall’inizio dello spoglio il premier prendeva atto onestamente e gagliardamente della sconfitta e ne tirava le conseguenze annunciando le sue dimissioni. Lasciamo stare se questa mossa sia stato un po’ avventata e imprudente: poteva almeno riservarsi di concordare modalità e tempi con il Presidente della Repubblica, ma bisogna anche capire la sua condizionante delusione e il suo carattere impulsivo. Reazione immediata e successiva dei politologi? La pretesa che fosse lo sconfitto a proporre soluzioni per il dopo: della serie “adesso però tocca a lui togliere le castagne dal fuoco”, dopo che gli altri ce le avevano buttate a più non posso. La prima assurdità, forse la più importante, dell’immediato dopo referendum. Sì, perché essendo lui anche il segretario del maggior partito italiano (questa la canonica giustificazione dei grilloparlanti), gli spetta comunque l’obbligo di proporre una via d’uscita al labirinto in cui ci siamo infilati. A mio modesto avviso sarebbe compito dei vincitori, di tutti quei signori che brindavano, indicare una strada nuova. È comodo distruggere per poi aspettare un nuovo progetto di costruzione. Fatto sta che Renzi è ancora al centro della scena politica, il pallino, anche dopo la formalizzazione delle dimissioni, è nelle sue mani, alla faccia di chi voleva mandarlo a casa in quattro e quattr’otto.Una seconda paradossale conseguenza, una vera e propria beffa, riguarda la vecchia politica, quella fatta di alchimie, di equilibrismi, di patti sotterranei, di tatticismi etc. Questo vecchiume andava spazzato via in nome dell’antipolitica, uno dei cavalli di battaglia del fronte del No (almeno di una parte non secondaria). Siamo ripiombati al contrario in una fase di incredibile e immemorabile confusione politico-istituzionale in cui ci vuole solo la freddezza e la razionalità di Mattarella per non soccombere. Si sovrappongono le ipotesi più disparate di governi, maggioranze, equilibri provvisori, combinazioni politiche le più strane. Tutto ciò la dice lunga sul velleitarismo semplificatorio a furor di popolo. Sciocchezze!La terza beffa: si voleva dare una sberla ai partiti, metterli in secondo piano, relegarli nel limbo se non all’inferno, ed essi ritornano “più belli, inconcludenti, litigiosi e superbi che pria”.La palma del migliore in assoluto va assegnata al Pd: era quasi scontato che in esso si scatenassero le correnti tenute faticosamente a bada dal leader-segretario. Non è parso vero a capi e capetti di tornare in gioco. Sembra che, come scrive Tommaso Ciriaco, “si aggirino in Transatlantico con l’elenco dei deputati da blindare. Fanno tutti così, perché non è più una guerra tra correnti, piuttosto un risiko tra fazioni”. Non mi scandalizzo, ne ho viste e sentite di peggio. Penso solo a chi ha votato No con la pancia e adesso si trova a fare i conti con la diarrea. Qualche esponente Pd (in vena di scherzare?) sembra che cerchi addirittura di strizzare l’occhio a Berlusconi: dopo tanta ostilità verso Verdini e Alfano si preferirebbe addirittura affogarsi nel mar grande. Il discorso ha coinvolto anche la base del partito scombussolata non poco dal referendum e dalle divisioni interne che lo hanno caratterizzato e condizionato (probabilmente anche nella dimensione dello scarto del Sì). Scrive Giovanna Casadio: «Davanti al Nazareno piovono insulti all’indirizzo dei dirigenti della minoranza del partito. È lo specchio della guerra civile che da domenica notte attraversa tutto il Pd, nelle piazze, in tv, sui social. Circola un volantino con le facce dei leader dem del No – D’Alema, Bersani, Speranza, Gotor, Emiliano – e la scritta: “Espulsione”». Capisco che queste manifestazioni politiche assomiglino al tifo da stadio, ma confesso che, per gli insulsi bastian contrari della cosiddetta sinistra Pd, sotto sotto ci godo, anche perché, come ha ricordato Renzi alla direzione del partito “nel Pd qualcuno ha festeggiato in modo prorompente e non elegantissimo la vittoria del No. Lo stile è come il coraggio di don Abbondio…” (sembra che qualcuno volesse proiettare durante la direzione del partito un video tv, quello in cui D’Alema e Speranza brindano alla sconfitta del premier e loro segretario politico nel corso della nottata referendaria). Dopo il capolavoro cucinato dalla sinistra dem, l’ex segretario Pierluigi Bersani, l’ex capo-gruppo della Camera Roberto Speranza, l’altro ex-segretario Guglielmo Epifani sono entrati in direzione dalla porta carraia, in auto, per evitare le contestazioni. Qualcuno, preso dal panico, ha addirittura chiesto ai vertici del partito una sorta di protezione per poter partecipare ai lavori della direzione senza rischiare insulti e financo percosse. Non sono un violento, ma questa volta confesso che due pattone ben date a questi signorNo non mi dispiacerebbero. Ho vissuto in prima persona la battaglia correntizia all’interno della DC dalle fila della sinistra interna di allora: fare la sinistra nella Democrazia Cristiana era un compito ben più arduo che non farla nel Partito democratico, infatti era una cosa seria, molto diversa dalle esercitazioni retoriche di chi magari viene dal Pci e non ha fatto in tempo ad esercitarsi sulla democrazia interna laddove vigeva un regime di centralismo burocratico.Anche gli altri partiti, magari un po’ più sotto traccia, stanno litigando. Forza Italia parla dieci o dodici lingue con i suoi diversi esponenti (non mi fanno rabbia, mi ispirano compassione e tenerezza, perché si sa che non contano un cazzo e la berranno dalla botte Fininvest o finiranno nelle grinfie di Salvini), mentre Berlusconi (sempre più pitturato nella testa e nel cuore: auguri sinceri, comunque) ne parla già tre o quattro per conto suo e delle sue aziende.Nella Lega sembra che tutto viaggi sulle ali di Salvini, ma Umberto Bossi, per quanto gli riesce, scalpita, Roberto Maroni spesso indossa il doppiopetto e anche la base tradizionale credo non sia tutta entusiasta della deriva nazionalista del segretario.Il nuovo-centro destra (nuovo soprattutto perché in continua evoluzione o involuzione) sta perdendo voti, colpi e pezzi davanti alle difficili prospettive elettorali o governative: tutti preoccupati di accasarsi al meglio senza rischiare di incespicare sulle soglie.I grillini litigano sulla tattica (tra la precipitosa e strumentale conversione all’Italicum e la tramontata opzione per il proporzionale), sulle candidature a premier (forse stanno precorrendo i tempi: porta sfortuna), sui provvedimenti da adottare nei confronti dei falsificatori di firme (c’è che rischia di salvarsi e chi no), sul giudizio verso la sindaca Raggi (chi non la sopporta e chi la supporta), sulla faccia che qualcuno teme di cominciare a perdere (sul web o in piazza). Beppe Grillo, il gran furbacchione se ne sta accorgendo e se ne tiene in disparte. Forse si accontenta degli endorsement populisti d’oltre confine (prima o poi dovrà risponderne, soprattutto su Euro e migranti).La sinistra extra Pd, messa a soqquadro anche dalla provocatoria iniziativa pisapiana di rassemblare l’area progressista in collegamento col Pd renziano, si spacca ancor più di quanto non sia già spaccata (Sel, SI, sindaci irrequieti). Come scrive Michele Serra “in base ai requisiti cari alla sinistra-sinistra più tipica, che sono il settarismo e l’insensatezza, i vari partitelli e clubbini che annaspano alla sinistra del Pd, spartendosi non si capisce bene quale eredità ideologica, se la cavano soprattutto con alzate di spalle e con qualche insolenza”. Loro sono contro Renzi (hanno trovato il nemico), il resto non conta nulla. Mantengono intatta la loro vocazione rigidamente minoritaria. Molti di essi giudicano le proposte riaggreganti e dialoganti di Pisapia fuori dal mondo: in quell’area politica è una gara dura capire chi lo è di più.La beffa dulcis in fundo: ai tortuosi percorsi istituzionali ed alle confuse tattiche di partito rischia di sovrapporsi, come scrive Alberto D’Argenio, “una guerra generazionale che attraversa il Palazzo. Giovani contro vecchi. Anche se questa volta i ruoli si rovesciano e a difendere il privilegio sono i giovani. Che meditano, ne parlano nei classici capannelli nei corridoi di Camera e Senato. E studiano il blitz. Con un solo obiettivo: mettere le mani sulla pensione. Urgenza che potrebbe anche mandare all’aria i piani dei leader che aspirano a chiudere subito con questa legislatura e giocarsi tutto al voto”. Il parlamentare infatti matura il diritto al pensione, da incassare al compimento del 65esimo compleanno, dopo 4 anni, sei mesi e un giorno e per i deputati attuali di primo pelo il giorno fatidico è il 15 settembre 2016. È possibile, azzarda D’Argenio, “che il trasversalissimo partito dei giovani cerchi un escamotage per arrivare alla pensione senza clamori e senza tradire i propri partiti: una delibera di Presidenza di Camera e Senato che cambi le regole (di soppiatto, senza passare dall’aula) e anticipi a quattro gli anni per arrivare alla pensione”. Si tratterebbe di traccheggiare fino al 15 marzo, poi tutti salvi.Sarebbe la ciliegina sulla torta referendaria. Auguri! È la nuova politica del dopo referendum, stupido! Ammetto che davanti a questi scenari le dissertazioni accademiche dei professori (Stefano Rodotà) su quanto conti la voce dei cittadini dopo il referendum assumono un carattere patetico, quasi commovente. Qualcuno sostiene che i professori dovrebbero restare in cattedra e non immischiarsi con la politica: auspicio forte, ingeneroso, ma …Non incespichiamo sulla Scala…L’inaugurazione della stagione lirica alla Scala di Milano ha avuto il solito contorno esterno di proteste sociali a fare da contraltare al lusso ed alla mondanità del contorno interno. In un certo senso due facce della stessa anacronistica medaglia.Quando capiremo che l’importanza di un evento culturale non dipende dalla cornice vip, che per andare a teatro, come sosteneva mio padre, non occorre l’abito di gala ma il biglietto? Certo, anche la cultura ha la sua ritualità esteriore, ma un po’ di sobrietà non farebbe male alla cultura, alla musica lirica, alla Scala di Milano e a Milano (questa città ha enormi potenzialità, grandi capacità realizzative, ma poco stile…).Quando capiremo che l’attenzione ai problemi sociali non passa dalla contestazione degli eventi di alto livello artistico-mondano (entro cui e dietro cui oltretutto si muovono tanto lavoro, tante imprese, tanto turismo, tante possibilità di sviluppo): l’arte e lo spettacolo sono infatti, per l’Italia in particolare, una miniera da sfruttare per la crescita culturale, ma anche per quella economica. Capisco la rabbia di chi combatte a denti stretti per difendere il suo posto di lavoro o di chi addirittura l’ha perso e quindi non condanno le proteste, che tuttavia non servono a nulla, rischiano addirittura di essere controproducenti. Altro discorso è valutare l’impatto del teatro lirico sulle casse nazionali, fare il bilancio costi-benefici, non sprecare danaro pubblico e non difendere i privilegi, gli sprechi, i corporativismi, le sovrastrutture e il sottobosco teatrali.Quest’anno la Rai ha pensato (bene) di offrire al suo vasto pubblico la diretta dell’inaugurazione scaligera con una ripresa della partitura originale di Butterfly. Un successo inevitabile ed eloquente per una proposta interessante e accurata da parte della Scala di Milano (resta il più grande teatro lirico del mondo). La Rai però potrebbe fare qualcosa di meglio: non farsi condizionare troppo dall’arido riscontro dei dati audience (non siamo al festival di San Remo); smetterla di rincorrere l’aspetto mondano della manifestazione puntando sui contenuti culturali, dando magari in mano il microfono a qualche musicologo ed esperto (togliendolo alle Carlucci, alle Scorzoni, ai Di Bella che c’entrano come i cavoli a merenda), che, senza esagerare, sappia rendere al grande pubblico il servizio di presentare i contenuti dell’opera e guidarlo ad un più consapevole ascolto; collocare con più rigore e buongusto i messaggi pubblicitari (vedere al riguardo il concerto di Capodanno da Vienna); rispettare e trasmettere anche i momenti di breve ma intensa attesa, le entrate del direttore, gli applausi finali: il teatro è fatto anche di queste cose e bisogna consegnarle intatte allo spettatore televisivo senza privarlo dell’atmosfera teatrale che è qualcosa di meraviglioso. Chissà perché al pubblico televisivo non è stato proposta la lettura del messaggio inviato dal presidente della Repubblica e letto al proscenio dal sovrintendente, nel quale il capo dello Stato giustificava la sua assenza per problemi istituzionali molto importanti. Sarebbe stato un modo per collocare l’evento nel contesto nazionale senza paura di disturbarne l’appeal squisitamente culturale o di rovinare la serata deconcentrando il pubblico; ne avrebbe oltretutto guadagnato anche l’esecuzione dell’inno nazionale, sempre emozionante, ma che trovava poca rispondenza emotiva nel basso profilo della prima fila delle autorità in palco reale.

Costituzionalisti italiani smettetela…

Le analisi post-referendarie dei costituzionalisti del No lasciano il tempo che trovano: osannano il risultato nella convinzione che sia stata la risposta positiva e ragionata alle loro accademiche perplessità. Parlano e scrivono come se il referendum fosse stato un seminario universitario da essi condotto e tirano tutta una serie di conclusioni a loro uso e consumo, convinti di avere reso un gran servizio al Paese ed alla sua Carta costituzionale. Il 60% di No è carico di ben altre motivazioni assai preoccupanti che c’entrano poco o niente con la riforma costituzionale.Il voto è stato in larga parte un’espressione piuttosto sgangherata di antieuropeismo e, come sostiene giustamente Massimo Riva, “un oggettivo incoraggiamento a ulteriori pulsioni in chiave nazionalista”. Lo dimostrano i petulanti e soddisfatti complimenti che arrivano ai Salvini e ai Grillo dai loro colleghi europei in vena di allargamenti del loro fronte scriteriato che da Brexit a Trump sta influenzando in modo nefasto il futuro europeo (disgregazione progressiva del progetto europeo) e mondiale (un asse Mosca Washington che cambiando gli equilibri internazionali giocherebbe a indebolire l’Europa, a ripiegare su un protezionismo spinto, a manovrare mettendo i loro interlocutori uno contro l’altro).Scrive ancora Massimo Riva: «In questo scenario è già un danno che la crisi italiana abbia spento l’unica voce forte che si stava battendo contro quella politica dell’austerità che ha così tanto alimentato la crescita dei movimenti nazionalpopulisti. Ora la vittoria del No rischia di far gettare via insieme all’acqua ritenuta sporca della riforma costituzionale anche il bambino dell’Europa. Occorre perciò che siano proprio i pochi o tanti europeisti nel fronte del No i primi a impedire ai Grillo e ai Salvini di usare il successo elettorale il chiave antieuropea».Il voto referendario è stato inoltre condizionato da forti pulsioni anti-immigrazione al limite del razzismo: è inutile nascondersi dietro il dito del maggior controllo dei flussi migratori, l’occasione ha dato libero sfogo ai “muratori” nostrani. Basta leggere certi reportage e osservare certe reazioni di rigetto agli immigrati “che se ne devono andare” e di fattive e sbrigative urla di “prima gli Italiani e poi loro”.Una terzo connotato del voto è quello dell’antipolitica, mascherata da allergia alle élite e all’establishment, (in)degna continuatrice del peggior qualunquismo. Su questo terreno si è oltretutto venuto a creare il paradosso dell’espulsione della politica (quella più politicante) dalla porta con il risultato di vedersela rientrare dalla finestra dei governi tecnici, di scopo, di responsabilità, di transizione (la crisi politica va pur affrontata e gli strumenti sono questi, salvo che non si voglia votare tutte le settimane).Sta cominciando anche il pianto di tutti coloro che stavano aspettando gli effetti, ancora in bilico, delle altre riforme in cantiere: con la crisi di governo tutto fermo se non addirittura compromesso (accordi sui contratti del pubblico impiego; riforma delle banche popolari; riforma della pubblica amministrazione; abolizione di equitalia; riforma del lavoro). Ci potevano pensare prima: mi aspetto che prima o poi scenderanno in piazza molti a protestare contro il NO, come è successo negli Usa dopo l’elezione di Trump o in Inghilterra dopo la Brexit. Il buon senso a scoppio ritardato non serve a niente.I maestri del No possono essere più che soddisfatti del loro lavoro: hanno seminato vento e raccolgono tempesta. Ma si difendono dicendo che il vento lo ha seminato Renzi…Una sinistra in eterna fibrillazioneSul fronte della sinistra il risultato referendario sta dando spinta e coraggio a Pisapia e c. che stanno vagheggiando un (ri)Lancio del Campo Progressista, da cui aprire una collaborazione col Pd relegato al centro della politica. Se l’iniziativa vuol portare alla ragione l’estremismo di sinistra fine a se stesso, ben venga anche se non ci credo perché il “purismo” sinistrorso non ha limiti ed ogni volta che qualcuno parte con un nuovo movimento o partito, sperando di inglobare il tutto, finisce con l’aggiungere un ulteriore gruppo nel panorama frastagliato della sinistra estrema. Se invece vuole evitare alla sinistra di fare i conti con la storia e col mondo moderno, non ci siamo. La serietà dei personaggi in ballo (Pisapia, Zedda, Cuperlo, Merola) lascia qualche speranza: almeno toglierebbero lo spazio sotto i piedi ai Bersaniani e Dalemiani, che sarebbero ulteriormente spiazzati ed ai quali non resterebbe che andare finalmente a casa dopo avere da tempo fallito la loro azione politica. Ma si atteggiano a vincitori. In questo referendum è ritornato di moda il ritornello della politica di un tempo, quando tutti vincevano; questa volta vogliono anche passare subito all’incasso elettorale (Grillo e Salvini in testa) o all’incasso correntizio (molti dentro al Pd).Ultima per chi rischia di sbattere: la sinistra dem ha fatto della demonizzazione di Verdini un suo punto qualificante. Vuoi vedere che finiranno con l’accettare il ritorno di Berlusconi sotto la pressione di Mattarella che ha le sue buonissime ragioni per quadrare il cerchio? Com’è piccolo il mondo!

Opportunisti italiani scatenatevi…

In questi giorni, insulsamente post-referendari, sto vivendo una battaglia, tutta personale e interiore, contro editorialisti, commentatori politici, giornalisti, cronisti, politologi, esperti, etc. etc. Innanzitutto ho dovuto notare un repentino cambio d’atteggiamento piuttosto generalizzato: si è girata l’aria e allora tutti in libera uscita per riprendersi quella libertà di espressione, che, per la verità, nessuno aveva loro tolto o conculcato (non credo infatti alla favola della oppressiva mano renziana sui media: né più né meno di quanto succede per tutti i governi di questo mondo), ma che essi stessi avevano sacrificato sull’altare della piaggeria e dell’opportunismo.Renzi è diventato un personaggio da riporre in cantina, accompagnato da una serie di dotte e insopportabili analisi del senno di poi. Contemporaneamente non si può parlar male del fronte del No perché da questo groviglio di personaggi e programmi (?) potrebbe spuntare il nuovo potere a cui genuflettersi precipitosamente: i grillini sono improvvisamente diventati cantierabili; i leghisti sono considerati legittimi portatori sani del virus populista; i forzitalioti vengono salutati come perspicaci aghi della bilancia pre-elettorale; i democratici invece sono diventati recalcitranti e fastidiosi portatori di grosse responsabilità governative ed istituzionali; gli appartenenti alla sinistra dem sono finalmente visti come salvatori della patria sociale; persino i sinistrorsi più accaniti trovano attenzione e riguardo, insperati fino a qualche giorno fa.I più sofisticati analisti, tra cui eccelle Ezio Mauro per accattivante e sbrodolante capacità di onniscienza, elaborano le linee del salvataggio facendo quadrare il cerchio con la loro abilità di dire contemporaneamente tutto e il contrario di tutto, condito con una punta di acredine accumulata nel recente passato. Al riguardo, merita una menzione speciale Francesco Merlo, giornalista impareggiabile, che però riesce sempre ad aggiungere ai suoi pezzi una stomachevole cucchiaiata di cattiveria. Questa volta ce la metto anch’io nel leggerlo: pochi giorni prima del referendum si era improvvisamente smarcato dalla Rai, che lo aveva ingaggiato nella squadra di rinnovamento editoriale varata da Campo Dall’orto (nuovo plenipotenziario messo in campo da Renzi). Una presa di distanza che ha liquidato genericamente e frettolosamente ogni e qualsiasi intento riformatore in sede Rai: Merlo è uscito sbattendo la porta con un radicale respingimento della situazione troppo condizionata e frenata, in cui sarebbe impossibile lavorare seriamente per una seria riforma. Arriva il referendum, sui risultati del quale sicuramente Francesco Merlo conosceva per tempo tutti i sondaggi possibili e immaginabili, e si smarca. Due giorni dopo il voto ci scodella un paginone su la Repubblica dedicato, con la solita ostentazione culturale, ma con pesante intendimento malignamente distruttivo, alla metamorfosi renziana, da rottamatore a potente, dal renzidiprima al renzidipoi, da uomo della novità a scarafaggio della conservazione. Questa kafkiana virata non mi è piaciuta e alla fine anche il dottissimo autore del pezzo deve aver sentito un rimorso, al punto da concedere al presidente del consiglio l’onora delle armi scrivendo: «E però, poiché nella fine c’è sempre la perfezione dell’inizio, l’altro ieri Renzi ha dimostrato di saper perdere, di essere ancora un capo nel Paese dei maggiordomi e dei militanti ossessivi. Domenica notte, con accanto Agnese che lo rendeva elegante, Renzi ha provato che si può vincere perdendo. Sia pure per il tempo di un discorso, il renzidiprima infatti ha avuto la meglio sul renzidipoi». Nella coda niente veleno, già sparso in precedenza a piene mani, ma un po’ di dolce… Mi viene spontaneo porre una domanda: «Non è per caso che nel Paese dei maggiordomi e dei militanti ossessivi sia finito malauguratamente anche Francesco Merlo?».Da questo insano esercito si salvano in pochi. Tra i salvabili mi sento in dovere di citare Michele Serra, che, al sempre notevole sforzo di obiettività storica e di autocritica personale , aggiunge un tocco di classe, una punta di polemica garbata e mai offensiva: Ha scritto due giorni dopo il fattaccio: «Ovviamente , nel vuoto politico, sarà il famigerato establishment a dirigere il gioco, con viva meraviglia di chi saluta il trionfo del No come sconfitta dell’establishment. Si spera che Mattarella non sia Napolitano-tris e cerchi la maniera di andare finalmente a votare, magari perfino con una legge elettorale scelta nel ricco bouquet disponibile. Nel frattempo le vedremo tutte: il ritorno trionfale di Berlusconi e D’Alema (nella categoria “Nuove proposte”), Salvini che trumpeggia, Grillo che sospende i vaffanculo per darsi un tono da statista. Quanto alla proposta di Micromega di un governo Rodotà-Zagrebelsky sono entusiasta, a patto che l’Economia vada a Rosa Luxemburg, la Cultura a Catullo e lo scudetto all’Inter». Ho catalogato questa meravigliosa “Amaca” aggiungendole il titolo: “Il dopo referendum è tutto qui”.Io, allergico per indole mentale e per rigidità generazionale, alle scorribande sui social, devo ammettere che gli sfoghi a questo livello sono molto meglio delle sofisticate e irritanti analisi dei politologi. Ne riporto alcuni assai acuti e interessanti. “Adesso ci becchiamo un governo tecnico, dati alla mano sarà lacrime e sangue, perché noi siamo specialisti solo a demolire, a costruire nessuno è capace”. E ancora: “Non interpretava la mia concezione di sinistra, ma Renzi ha tentato di cambiare le cose”. Un altro scrive: “Ogni volta che sentirò un grillino parlarmi di tagliare gli enti inutili o i costi della politica, gli accarezzerò teneramente la testa”. La polemica continua: “Qualcuno ha avvertito Salvini che il referendum non era Roma-Lazio?”. In chiusura di questa breve rassegna: “Bene, ora ribeccatevi D’Alema, Berlusconi, Brunetta, Amato, Prodi, Meloni, Salvini, Santanchè. L’Italia che avanza, nuove facce alla ribalta…”. Filosofia spicciola da web, forse molto meglio della scatenata accademia degli scrittori d’occasione.Il Paese degli spaesatiDai reportage sul disagio sociale, che avrebbe trovate facile sfogo nel No del voto referendario, emergono tutte le proteste accumulate e represse da tanto tempo: la loro origine risale a molto prima dell’avvento di Renzi al potere. Prescindo dal merito di queste reazioni impulsive: si va dalle barricate anti-profughi ai dimenticati (?) delle aziende in crisi, dalla frustrazione giovanile all’emarginazione periferica. Se dobbiamo dare in questo senso un significato socio-politico al referendum, rischiamo di farlo diventare lo sfogatoio (o sfigatoio) degli arrabbiati: una ghiotta occasione per gridare nelle urne, pur sapendo che non servirà, anzi ciò comporterà un ulteriore arretramento parolaio della politica, che illude e non risolve nulla.Nel passato, ormai piuttosto remoto, i partiti avevano, oltre la capacità di rappresentare il disagio e i problemi della gente, anche la funzione di educare gli iscritti e gli elettori alle regole di funzionamento della politica. Mancano entrambe queste mediazioni e se ne sente tutta la drammatica mancanza. Ciò che partiva dalla pancia era convertito alle idealità a livello del cuore e culturalmente tradotto a livello cerebrale. Niente di tutto ciò: qualcuno ha addirittura invitato gli elettori a votare solo ed elusivamente con la pancia. Invito purtroppo accolto.Adottando questo nuovo stile(?) a livello di elettori ed eletti, siamo entrati ufficialmente nella peggiore Europa. I populisti ci guardano con rispetto e interesse, ci strizzano l’occhio, ci incoraggiano e ci stimolano a proseguire su questa strada, che ormai tocca tutti i maggiori Paesi dell’Europa, per non parlare degli Usa. Tutti ad applaudirci: gli euroscettici di destra protagonisti in Gran Bretagna, Francia, Germania, Austria, Olanda. Ma la sconfitta di Renzi è stata festeggiata anche dagli euroscettici di sinistra. In Spagna si rallegra il partito Podemos. «Occorre ora costruire l’Europa della gente», ha detto Inigo Errejon, il numero due del partito viola, che vede nella sconfitta di Renzi la “caduta dell’establishment europeo”. In Francia, Iean-Luc Mélenchon vede nel risultato addirittura il “fallimento della social-democrazia”. Un tempo si diceva: “Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”.