Ovviamente…non c’è niente di ovvio

Avevo un compagno di classe che, quando veniva interrogato a sorpresa, senza essere adeguatamente preparato, sciorinava dei “diciamo così” a tutto spiano, suscitando l’irritazione degli insegnanti e l’ilarità degli alunni.

Una cara amica di mia madre era invischiata in una serie interminabile di intercalari dialettali, che compromettevano gravemente il filo del discorso: “al fa’”, “al dis”, “at capì”, “al g’ha ditt”.

Molte persone più colte e raffinate si rifugiano in “è vero”, “mi spiego” e roba del genere.

Da qualche tempo va di gran moda “ovviamente”: non c’è personaggio rispettabile che non vi faccia ricorso con una frequenza assurda e irritante. Anche perché, mentre gli altri intercalari sono abbastanza neutri, questo assume un rilievo provocatorio: per il fatto che non c’è proprio niente di ovvio sotto il sole.

Giornalisti, commentatori, conduttori, attori, cronisti, politici, ministri, presidenti, chiunque insomma prenda in mano un microfono o se lo veda sbattere sotto il naso, ripiega su questa litania di “è ovvio”, “ovviamente” etc. etc.

Credo che le scelte a livello di linguaggio abbiano sempre un loro significato, al di là dell’effetto emulazione: se un grande e importante personaggio televisivo fa uso frequente di questi termini, finisce che chi ascolta, per non essere da meno, si lascia influenzare e ripete a macchinetta questo assillante “ovviamente”.

Partiamo dal vero significato dell’aggettivo “ovvio” con la sfilza dei suoi sinonimi: ciò che si presenta subito alla mente, di immediata comprensione, evidente, logico, naturale, patente, lampante, comprensibile, chiaro, facile, banale, lapalissiano. Innanzitutto quindi si potrebbe ogni tanto, almeno per rompere la monotonia, fare ricorso a uno di questi sinonimi: ne guadagnerebbe la brillantezza del discorso.

Credo però ci sia nel subconscio personale e collettivo la voglia di atteggiarsi a chi la sa lunga e che quindi può dare per scontato tanti concetti. Faccio un esempio: “questa legge in discussione dovrà, ovviamente, essere approvata dai due rami del Parlamento prima di entrare in vigore. Una volta entrata in vigore, ovviamente, dovrà essere rispettata dai cittadini e, ovviamente, applicata dai giudici.

Non è affatto ovvio che una legge presentata in Parlamento venga discussa e tanto meno approvata. Ammettiamo che succeda. In quel momento non è per niente ovvio che i cittadini la osservino: probabilmente è più ovvio il contrario, se vale il detto “fatta la legge, fatto l’inganno”. E i giudici? Tra lentezze, interpretazioni cavillose, punti controversi, contrasti con la Costituzione, prassi, giurisprudenza e dottrina, quella legge avrà ottime probabilità di finire nel conto delle tante fonti del diritto di cui (non) tenere conto.

Voglio raccontare in forma anonima un episodio effettivamente capitatomi durante   l’attività professionale. Stavo aspettando con ansia il varo di un provvedimento che esentasse le cooperative dall’imposta di registro in caso di aumento del capitale sociale.   Finalmente ebbi la certezza della sua approvazione dalle pagine del sole 24 ore: aveva pubblicato integralmente il decreto che entrava immediatamente in vigore. Dovevo procedere al deposito di un atto di aumento del capitale e quindi con una certa tranquillità informai il collega addetto all’esecuzione di queste pratiche. Dopo un paio d’ore ritornò e mi chiese: «Sei sicuro che questa norma sia stata approvata e sia in vigore? Perché   il funzionario addetto mi ha categoricamente smentito e allora per evitare guai ho ritirato la pratica e chiederei gentilmente a te di seguirla direttamente». Capito, ci penso io. Contemporaneamente mi chiamò il direttore di questa cooperativa che doveva presentare l’atto, dopo la sua registrazione, nell’ambito di una urgente e importantissima pratica di finanziamento pubblico. Gli spiegai l’inghippo e lo pregai di pazientare un minimo di tempo affinché potessi recarmi direttamente all’ufficio competente e sbrigare la faccenda. L’esenzione in ballo riguardava una cifra tutt’altro che insignificante, però alla cooperativa stava a cuore la pratica principale per cui, al limite, mi dissero, siamo disposti a pagare l’imposta pur di sveltire i tempi e le procedure. Capii il ragionamento, ma insistetti e mi recai immediatamente, con la documentazione necessaria, all’ufficio competente in materia fiscale.

Il funzionario mi disse innanzitutto, con una certa presunzione burocratica, che gli uffici pubblici dialogano con i pubblici poteri non tramite il Sole 24 ore, ma con le circolari applicative: fino a quel momento non era arrivato nulla al riguardo e quindi… Mi irritai immediatamente, anche perché pensai, senza dirlo, che al cittadino non è permessa l’ignoranza della legge, mentre al burocrate evidentemente sì. Non trattavo una mia pratica personale e quindi cercai di rimanere calmo e dialogante.

Spiegai che la legge era già in vigore e gliene porsi il testo, illudendomi che andando alla sostanza si sarebbe potuto superare la forma. Nemmeno per sogno. Il funzionario lesse attentamente il testo e mi disse che la mia interpretazione era sbagliata e che quindi la cooperativa, in quel momento da me rappresentata, doveva pagare l’imposta. La calma cominciava a farmi difetto, ma provai a spiegare la cosiddetta “ratio” del provvedimento che conoscevo da tempo, ben prima che fosse approvato definitivamente. Niente da fare, trovai il muro. Mi allontanai dalla scrivania di questo impiegato e uscii. A quel punto, per orgoglio personale, per rispetto dei diritti e per convenienza, decisi di andare a parlarne con il capo in testa. Per fortuna era presente e, seppure in modo molto freddo, mi accolse e mi fece descrivere la questione. Gli spiegai l’accaduto, gli misi sotto il naso il testo della legge, lo prese e lo lesse attentamente e pignolamente, più di una volta. Me lo restituì e mi disse: «Ha ragione lei!». Rinfrancato da questo primo risultato ebbi comunque l’ardire di chiedere il suo intervento sul funzionario in questione, dal momento che la pratica non poteva essere sbrigata dal capo, ma da quel suo testardo sottoposto.

«Mi faccia la cortesia, dottore, di informare il suo funzionario e di convincerlo al riguardo» gli chiesi con molto garbo. Capì, accettò, sollevò il telefono è parlò con l’impiegato del No. Niente da fare, compresi che anche lui stava trovando del duro, al punto che si alzò e mi disse di seguirlo: andavamo direttamente in bocca al “leone”. Dentro di me dicevo: “Sono curioso di vedere come va a finire…”. Il direttore spiegò il significato della legge, ma non riuscì a convincere il suo collaboratore, certamente irritato dal fatto di essere stato da me bellamente scavalcato. Cosa che non mi piaceva, ma a cui avevo dovuto fare ricorso: ad estremi mali, estremi rimedi.

Il direttore insistette, garantì di prendersi lui la responsabilità di questa decisione e finalmente la questione si sbloccò, l’atto venne regolarmente registrato in esenzione da imposta. Il direttore mi salutò con un piccolo accenno di sorriso e, se ben ricordo, aggiunse: «Ci vuole molta pazienza…». Ricambiò cordialmente il saluto e ringraziai.

Uscendo comunicai con un pizzico d’orgoglio l’esito della mia missione alla cooperativa, che incassò il risultato senza concedermi (giustamente dal suo punto di vista) nessun particolare merito.

Arrivai in ufficio, chiamai il collega che aveva iniziato la trafila di quella sofferta pratica e lo invitai caldamente a non rivolgersi più, per altre eventuali situazioni difficili, a quel funzionario testardo: i motivi li lascio intuire a chi avrà la pazienza di leggere questo raccontino.

Penso di essere stato chiaro e di avere reso l’idea del perché mi irrito, quando sento abusare dell’intercalare da cui siamo partiti. Non c’è niente di ovvio, prendiamone atto e soprattutto finiamola con questo pedante “ovviamente”. Caso mai, torniamo al classico “vero…”. Da ovvio a vero: forse è ancora peggio. Beh, allora, lasciamo stare e parliamo come mangiamo e come dice il Vangelo: Sì, sì’, No, no. Il resto viene dal maligno!

 

 

Il populismo alla viva il…sindaco

Il famoso musicologo Rodolfo Celletti, a proposito del pubblico e del loggione del Teatro Regio, diceva: «Quando strigliate qualche grosso cantante dimostrando di non avere timore reverenziale verso i mostri sacri dell’opera lirica, confesso che, sotto-sotto, ci godo; ma forse vi piacciono un po’ troppo gli acuti sparati alla “viva il parroco”…».

Nei giorni scorsi in concomitanza con le colorite, stizzite, orgogliose intemperanze napoletane verso la presenza del comiziante Matteo Salvini, precipitosamente convertito ai problemi meridionali dopo anni di insulti alla gente del sud, ho provato le stesse sensazioni che Celletti riservava al loggione di Parma: sotto sotto, pur capendo che il diritto di parola è sacrosanto e non lo si può certo negare ad un parlamentare della Repubblica, godevo nel vedere fortemente strigliato e sbeffeggiato un personaggio, che non è un mostro sacro della politica, ma che va per la maggiore e, come si suol dire, vuol far credere che Cristo è morto per il freddo ai piedi.

Poi però sono purtroppo arrivati gli acuti sparati alla viva il sindaco: sì, perché Luigi De Magistris si è talmente investito della parte da finire col fomentare, seppure indirettamente e involontariamente, i violenti, gli sfasciacarrozze, i quli hanno colto al volo l’occasione per scatenare la guerriglia urbana, finendo col fare un sommo piacere a Salvini, pronto a sciorinare il suo vittimismo ed a trasformare la meritata e sacrosanta contestazione in discriminazione e in comportamento anti-democratico. Si fa presto a passare dalla ragione al torto e viceversa.

Un populista che fa del sistematico ricorso alla pancia degli Italiani (li invitò a votare al referendum seguendo questi istinti intestinali) il proprio stile politico, non può scandalizzarsi e gridare al lupo quando il lupo si è stufato di essere preso per i fondelli e reagisce da lupo. Quindi non mi commuovo di certo alle lamentazioni strumentali di Salvini: è stato ripagato con la sua moneta. Punto e stop.

Mi sono invece stupito dell’eccesso di zelo dei Napoletani: non sono soliti fare ricorso alla violenza, preferendo generalmente lo sberleffo alla spranga di ferro. Evidentemente le infiltrazioni erano tali e tante da perdere il controllo della situazione. Vale anche per loro un richiamo: se si spinge troppo sull’acceleratore è fatale perdere il controllo della macchina e finire fuori strada. Posso capire l’insofferenza, l’orgoglio, la forte contestazione, ma non capisco e rifiuto categoricamente la violenza.

Un discorso a parte merita il sindaco di Napoli. Va bene che un sindaco debba stare dalla parte dei suoi concittadini, va bene che debba difendere l’onore e la dignità della sua città, va bene che si opponga strenuamente a chi vuole strumentalizzare i problemi del meridione per cavalcarli indegnamente, va bene che sia infastidito dal comizio di un politico che si è sempre dichiarato nemico delle genti del sud, va bene e posso capire. Da qui a cadere nella trappola degli sfascisti, dando la colpa al ministro degli Interni (cosa doveva fare?), c’è un bel pezzo di strada. Un sindaco non può comportarsi così: prima delle convenienze politiche viene la Costituzione Italiana, prima dei Napoletani vengono tutti gli Italiani (Salvini e c. compresi), prima di Napoli e dei suoi problemi viene l’Italia che fra i tanti problemi deve mettere anche quelli di Napoli. De Magistris ha risposto, in buona fede (glielo concedo sinceramente), al populismo leghista con il suo populismo, certo meglio di quello alla Salvini, ma sempre populismo è.

Mi sono ricordato dei tempi in cui a Parma negli anni cinquanta e sessanta non si accettavano i comizi dei missini: una volta aprirono il gas dell’impianto dell’ex Cobianchi in piazza Garibaldi e Giorgio Almirante fu costretto a interrompere il suo discorso ed a fare fagotto. Il missino Romualdi   non si azzardò mai a mettere piede in quel di Parma, dati i suoi trascorsi drammaticamente intersecanti la nostra città e le sue vittime dell’antifascismo. Anche allora si poneva il problema se certi personaggi politici potessero o meno vantare diritti costituzionali essendo nemici della Costituzione. Non è proprio il caso di Salvini, ma quasi. I sindaci parmigiani riuscirono però sempre a restare fuori dalla peggiore mischia, che tuttavia non arrivava ai livelli della guerriglia napoletana di questi giorni.

In conclusione, se è vero che De Magistris ha politicamente esagerato e sbagliato, e che quindi bisogna essere intransigenti verso di lui, bisogna essere molto più attenti e intransigenti verso chi sta portando il nostro Paese su una pericolosa deriva anti-democratica. Come fare? Tolleranza e rispetto sì, ingenuità e buonismo no.

Don Andrea Gallo diceva: «Non mi curo di certe sottigliezze dogmatiche perché mi importa solo una cosa: che Dio sia antifascista! ». E Salvini non è molto lontano dal fascismo. De Magistris non si senta Dio. Noi però non dormiamo da piedi, per favore. Prima che sia troppo tardi.

 

Le primarie e le primine

Il tormentone del congresso PD è partito in quarta. Non si capisce bene se sia un congresso o se sia una campagna elettorale in vista delle primarie. Certamente un’altra cosa rispetto alle comunarie social indette dai grillini a Monza e in altri siti: candidature strappate sul filo delle poche decine di preferenze espresse sul web.

Paese strano l’Italia, dove chi è accusato di essere antidemocratico non finisce mai di discutere, consente una libertà di comportamento quasi paradossale ai propri parlamentari (non voto di fiducia al governo, campagna elettorale per il No al referendum, etc.), fa una conta dietro l’altra a tutti i livelli, mentre chi si atteggia a difensore della democrazia vive in regime autoritario (comanda uno solo, il resto è fuffa), non accetta contestatori, che al primo accenno vengono poco educatamente invitati a togliere il disturbo, candida a ricoprire cariche pubbliche i propri rappresentanti scelti in base a gassose consultazioni.

I casi sono due: o il partito democratico è tutto fumo e niente arrosto, tutta forma e niente sostanza, tutta scena e niente dramma oppure è una formazione politica che, seppure faticosamente e contraddittoriamente, cerca un contatto con la base degli iscritti e degli elettori; o il movimento cinque stelle è talmente carismatico da essere tutto arrosto e niente fumo, tutta sostanza e niente forma, tutto dramma e niente scena oppure è una formazione politica che non cerca il contatto con la base dei propri aderenti e dei propri elettori, ma dà ragione agli scontenti raccattandoli tutti e quindi non ha bisogno né di contarli né di farli discutere, anche perché aprendo il dibattito la ragione e il torto potrebbero diventare concorrenziali.

Le primarie del PD, un partito immaturo e lacerato, rischiano di radicalizzare all’italiana le contrapposizioni, creando lacerazioni difficilmente rientrabili all’indomani del voto, quando occorrerà ricompattarsi per andare alle successive istituzionali gare elettorali. Sinceramente, stando a quanto emerge dalla dialettica in atto, faccio fatica a capire se le differenze politiche fra Renzi i suoi competitor interni non siano l’anticamera di veri e propri partiti diversi. Non so se lo strumento delle primarie si attagli al nostro sistema partitico ed alla nostra tradizione politica: in teoria dovrebbe essere un passo avanti nel confronto e nel dibattito, temo che in pratica possa aggiungere solo benzina sul fuoco polemico; sulla carta dovrebbe essere un modo per ancorare la politica ai problemi concreti ed alle loro soluzioni, vedo invece che diventa l’occasione per rituffarsi negli scontri ideologici e nelle disperate ricerche di identità storiche e culturali; culturalmente parlando dovrebbe essere il marchingegno per fondere a caldo democrazia e leaderismo, mentre spesso diventa la fuga in avanti dei personalismi.

Gli strumenti non sono mai buoni o cattivi di per sé, dipende dall’uso che se ne fa. Se le primarie vengono celebrate all’acqua di rose (riservate agli iscritti) finiscono nel tritacarne degli apparati di partito che se le giocano dall’alto orientando la base; se si fanno sul serio scatenano una bagarre da cui i partiti possono uscire a brandelli.

L’overdose di democrazia può essere antidemocratica tanto quanto un’astinenza dai meccanismi democratici.   Tutto è relativo. Io tuttavia preferisco rischiare giocando all’attacco che chiudermi in difesa: meglio perdere quattro a tre che uno a zero all’ultimo minuto. Come nel calcio però, sono convinto che non si vince con gli schemi, con le tattiche, ma con giocatori validi, preparati, esperti e seri. Le primarie restano cioè solo un’opportunità, possono addirittura diventare delle “primine”, dipende da come e da chi le pratica.

Persino il Papa ha lanciato le primarie (molto soft, ma per la Chiesa è un fatto enorme…) per nominare il suo vicario a Roma: tutti potranno inviare le loro proposte, formulando anche nominativi, poi lui deciderà. Nelle novità introdotte da Francesco c’è propria la cifra sinodale: le vere primarie tematiche della Chiesa.

In questi casi l’ultima parola spetta al capo, ma, con tutto il rispetto per i capi politici, il Papa ha dietro le spalle un consenso piuttosto pesante, di quelli che non si contano ma si pesano. Speriamo non succeda come avvenne con Paolo VI, il quale aprì una grande consultazione sul problema del controllo delle nascite, sentì esperti, scienziati, teologi, commissioni, etc. Tutti dissero che la maggioranza dei pareri raccolti era favorevole all’uso degli anti-concezionali. Lui prese tempo, ci soffrì sopra e ne usci il capolavoro (lo è in tutti i sensi) di immobilismo dell’Humane vitae (e non ci si schioda di lì. È come per le riforme costituzionali italiane, bloccate quelle promosse da Renzi, se ne parlerà fra vent’anni nella miglior delle ipotesi).

Anche la Conferenza Episcopale Italiana, che si appresta a nominare il suo presidente, ha deciso di chiedere a tutte le diocesi ed ai loro vescovi di indicare almeno un identikit del futuro candidato. Strano atteggiamento quello della CEI: da una parte rifiuta la nomina in autonomia, come avrebbe preferito il Papa, dall’altra sceglie di rifugiarsi sotto la gonna del pontefice lasciando a lui la scelta all’interno di una rosa di tre candidati, dall’altra ancora imposta una consultazione della periferia. Si mettessero d’accordo. Posso essere malizioso? I vescovi amano comandare, ma preferiscono farlo dietro le quinte e senza rischiare troppo. Se ci scapperà un presidente non all’altezza del compito sarà tutta colpa del Papa, che in fin dei conti l’ha scelto e delle diocesi che ne avevano disegnato il profilo; se sarà un buon presidente sarà tutto merito loro che lo hanno selezionato democraticamente a due livelli, senza mancare di deferenza verso il Papa. Finezze da Vaticano III.

Legittima difesa… dall’odio e dalla paura

Di fronte a fatti di cronaca come quello della rapina notturna a Gugnano, in una locanda di paese, finita in tragedia, provo una grande pena a livello individuale, sociale e politico. Lascio alla magistratura lo scrupoloso accertamento dei fatti, che sostanzialmente non sposterà nemmeno una virgola del profondo e drammatico significato della triste vicenda.

Individualmente capisco la tragedia di un uomo che si addormenta cittadino esemplare, lavoratore indefesso, nonno premuroso e si sveglia omicida: un sogno orribile che gli rimarrà tremendamente impresso nella mente per tutta la vita. Sì, perché uccidere un tuo simile, anche se per legittima difesa o per istintiva reazione ad un’aggressione, anche se l’ucciso era un ladro che voleva violare i tuoi beni e, magari, i tuoi affetti, è pur sempre un atto contro natura, che inquieta la coscienza e segna l’esistenza. Quante volte quella scena gli tornerà alla mente e lo sconvolgerà, il tempo attutirà il colpo, ma non cancellerà un’esperienza tanto travolgente. Sì, perché anche quel cadavere ci deve fare pietà e ci interroga tutti. È morto un uomo! Ma era un ladro…Era un uomo prima e dopo di essere un ladro.

Non mi permetto di giudicare, mi chiedo come avrei (re)agito io in simili circostanze, cerco di condividere umanamente questo dramma. Auguro al ristoratore di Gugnano di risollevarsi positivamente da questa batosta: l’onestà che gli si legge in volto, la dedizione al suo lavoro, il senso della famiglia e della comunità lo aiuteranno a superare questo momento difficilissimo.

Sul piano sociale si intravede a monte di questa vicenda il corto-circuito tra delinquenza aggressiva e ansia difensiva, tra prepotenza e paura, tra scorciatoia dell’egoismo e   strada maestra della correttezza e del lavoro. A valle si prende atto dei limiti nella difesa della sicurezza dei cittadini, ma prima ancora dell’incapacità a cercare una soluzione ai problemi sociali che spesso stanno alla radice di tanta inquietudine e di tanta violenza. I ladri e i delinquenti ci saranno sempre, dice qualcuno. Non riusciremo a togliere dall’animo umano gli istinti bestiali, accontentiamoci di provare a togliere dalla cascina delinquenziale il fieno dell’ingiustizia, della ghettizzazione e della miseria.

Dal punto di vista politico si corre subito alle leggi. Certo, occorrono anche le leggi. Non escludo che una revisione delle norme in materia di legittima difesa possa essere utile, ma mi sa tanto di chiusura della stalla quando i buoi sono scappati o addirittura macellati. Sono convinto che un certo maggiore impegno delle forze dell’ordine sul territorio possa prevenire o almeno scoraggiare il dilagare della criminalità. Ma non riduciamo tutto alla lotta tra guardie e ladri: quello è un gioco che si fa da bambini. Se proprio vogliamo tuffarci nella nostra infanzia, quasi a ripulire le nostre esistenze, giochiamo almeno a fare “i dottori” per lenire le piaghe di una società malata.

Respingo quindi con tutte le mie forze lo sciacallaggio di chi strumentalizza questi eventi per giustificare l’uso improprio delle armi, per criminalizzare tutti gli immigrati, per avallare ed istituzionalizzare il clima di paura atto a giustificare le maniere forti a tutti i livelli.

Non illudiamoci di risolvere i problemi fomentando paura e reazioni violente, non cavalchiamo l’odio razziale, non vaneggiamo sull’inasprimento delle pene, non trasformiamo i problemi sociali in fantomatiche guerre politiche.

Gli episodi come quello di Gugnano sono purtroppo piuttosto frequenti: ci sconvolgono, ci interrogano, non ci devono chiudere in una egoistica difesa, ma ci devono aprire al mente e il cuore alla solidarietà umana e sociale. Non è facile, ma è l’unica strada che abbiamo davanti. Il resto lasciamolo ai demagoghi di turno.

La magistratura cincischiante

Reati gravissimi che cadono in prescrizione nelle more di procedimenti giudiziari ventennali o giù di lì; una giustizia che non arriva mai o giunge quando la vittima è morta e sepolta, magari dopo essersi suicidata; una giustizia che si contraddice spesso e che, dopo avere consentito una gogna mediatica in capo agli indagati, arriva ad assolverli a distanza di anni, quando la frittata della loro dignità è stata cucinata, mangiata e digerita; una giustizia che “assolve” quando l’imputato si è già tolto la vita; una giustizia che crea continuamente corto-circuiti tra indagine e colpevolezza; una giustizia zeppa di errori che incidono pesantemente sulla vita e sulla carriera di persone indagate e/ rinviate a giudizio con leggerezza, per poi vedere le relative inchieste archiviate o i processi terminare con assoluzioni; una giustizia che funziona male o funziona “troppo bene”, che rovina persone innocenti e lascia in pace i colpevoli.

Questa è una innegabile, seppur parziale, realtà, che dovrebbe far riflettere la politica, i giudici e l’informazione: intorno a questi tre poteri si articola il gioco giudiziario nel nostro Paese. Purtroppo il dibattito è storicamente falsato in partenza per la grande responsabilità del berlusconismo che ha messo la politica in guerra con la magistratura: la politica a difendersi fuori dal processo, con attacchi alla categoria ed ai singoli giudici, a sottrarsi ai giudizi tramite il varo di frettolose leggi ad personam, mirate ad ostacolare il normale corso processuale (immunità, prescrizioni, etc.); la magistratura a proteggersi vendicandosi con accanimenti e rivalse e scendendo apertamente sul piano di guerra con i politici nemici più o meno giurati. Ricucire un rapporto talmente deteriorato non è e non sarà cosa facile.

Bisogna tuttavia provare ad uscire dalle reciproche trincee. Come? Prima di ogni e qualsiasi riforma bisogna che gli uomini politici investiti di incarichi pubblici accettino di essere sottoposti ad indagini e a processi, senza gridare immediatamente al complottismo, senza strumentalizzare i “guai” giudiziari degli avversari, senza voler influenzare minimamente il corso della giustizia.

A loro volta i giudici devono essere rigorosamente portati alla difesa della propria irrinunciabile autonomia, ma molto attenti ad evitare anche il minimo sospetto di intromissioni in campo politico, scegliendo tempi e modalità di intervento inattaccabili, accettando che il corso dalla giustizia possa e debba essere riformato senza gridare allo scandalo, senza arroccarsi nel bunker dell’Asociazione Nazionale Magistrati, senza sentirsi vessati e criticati se qualcuno osa sottolineare carenze e manchevolezze piuttosto evidenti se non addirittura macroscopiche, senza dire dei No pregiudiziali a qualsiasi nuova regola si profili all’orizzonte parlamentare o governativo.

I media devono lavorare rispettando la dignità delle persone e la verità, difendendo con le unghie e con i denti il loro diritto-dovere di raccontare i fatti, senza violare segreti, senza falsi scoop, senza calpestare alcuna garanzia per gli indagati, senza condannare immediatamente gli inquisiti sulle prime pagine dei giornali, senza soffiare sul fuoco del giustizialismo, senza fare di ogni erba un fascio, senza giocare sulla pelle della gente con le intercettazioni pubblicate a vanvera.

Ci sono alcuni punti in sacrosanta discussione legislativa: i tempi della giustizia, le carriere più o meno separate, i mezzi e le risorse umane da investire, la regolamentazione dell’uso delle intercettazioni, la segretezza dell’avviso di garanzia, la produttività dei magistrati, l’esercizio dell’azione penale o la richiesta di archiviazione entro un periodo relativamente breve rispetto alla fine delle indagini preliminari, i tempi della prescrizione, le carceri, le pene alternative, etc.

Se si continua a nascondersi dietro la stucchevole contrapposizione tra garantisti e giustizialisti, se ogni potere difende l’orticello in cui coltivare ed innaffiare i propri privilegi, se la politica vuole insegnare ai magistrati a fare le indagini e i processi, se i magistrati intendono parlare continuamente e minacciosamente nella mano del legislatore, se i giornalisti si divertono a fare casino in mezzo all’incrocio pericoloso tra politica e giustizia, non si va da nessuna parte: avremo una giustizia sempre più inefficiente e ingiusta, una politica sempre più politicante e intrigante, un’informazione sempre meno obiettiva e corretta.

Arriveremo cioè alle peggiori riforme costituzionali possibili e immaginabili: un terzo ramo del Parlamento che controlli l’operato dei giudici e dei media; un terzo ramo della magistratura, quello della magistratura cincischiante e invadente che si aggiunga a quella requirente e giudicante;   un quinto potere, quello dell’informazione falsa e taroccata, che si sovrapponga al quarto, quello della stampa tradizionale. Poi faremo un referendum e magari, questa volta, vinceranno i Sì. Così va il mondo…

 

Il canal stretto dei cattolici progressisti

L’indomani dell’elezione a Presidente della Repubblica di Sergio Mattarella scrivevo la seguente riflessione: «Superando di petto l’ironia sulle origini del nuovo Presidente della Repubblica (un democristiano, un personaggio della prima repubblica, un uomo d’altri tempi), se si è voluto trovare qualcuno che rappresentasse veramente gli Italiani, si è dovuto fare ricorso anche e soprattutto alla cultura del cattolicesimo progressista. Resta poco di questa scuola, ma quel poco vale di più del molto (troppo) della vuota scuola moderna. Fa scalpore lo stile sobrio del Presidente: un bagno d’umiltà dopo una sbronza di superbia, una boccata d’ossigeno dopo l’anidride carbonica. Non so bene il perché, ma quando vedo il nuovo Presidente, senza nulla togliere al suo predecessore, mi commuovo. Forse sto invecchiando. Oggi mi è rinata una piccola speranza, come ai tempi di Zaccagnini, di Moro, di Ermanno Gorrieri e di Carlo Buzzi. Mattarella non ha forse detto di guardare alle speranze degli Italiani. Io, fino a prova contraria, sono Italiano e spero…»

Qualche giorno fa Alberto Melloni su la Repubblica si chiedeva, con la sua contorta e sussiegosa lucidità, dove fossero politicamente finiti i cattolici progressisti. Mi sono sentito toccato nel vivo e direttamente interpellato, dal momento che mi sono sempre considerato un cattolico progressista in cerca di una casa politica accogliente e definitiva (per quello che di definitivo ci può essere su questa terra).

Tento di seguito una brevissima e spannometrica ricostruzione storica, mescolando opzioni personali alle fasi storiche degli ultimi cinquant’anni e oltre. Nella DC ci stavo molto stretto: non era affatto, per me e per la sinistra cattolica, una rassicurante sponda (Melloni oggi la considera tale), era l’unico spazio in cui si poteva provare ad impegnarsi cercando di stiracchiare faticosamente un partito di centro verso sinistra o quanto meno costringendolo a guardare a sinistra. Ricordo al riguardo quanto affermava Ermanno Gorrieri, uno dei leader tra i cattolici progressisti, rivolto ai più intemperanti aderenti alla sinistra cattolica, quella sociale in particolare: non illudiamoci, siamo in un partito che non è e non sarà mai di sinistra.

Sono stato, nel mio piccolo ed al mio modesto livello, un fautore del dialogo con i comunisti: quando Aldo Moro sembrava dare uno sbocco politico e programmatico, seppur provvisorio, a tale dialogo, lo hanno ucciso e non certo per caso. A mio giudizio la vedovanza della sinistra cattolica comincia lì, come del resto tutta la precarietà della storia politica italiana ha origine dalla morte di Aldo Moro. Dopo un periodo di collaborazione tra DC e PCI, atto a sdoganare definitivamente i comunisti dal socialismo reale e a trasformare il partito cattolico in una forza laica moderata ma aperta al nuovo, sarebbe dovuto intervenire quel bipolarismo tra questi due partiti capaci di attrarre tutto (o quasi) il resto, quel bipolarismo che ancor oggi cerchiamo disperatamente con “il lanternino”. Era questo il progetto politico di Moro bruscamente interrotto e di cui ancor oggi si sente la mancanza: nella politica italiana si è saltata una fase, quella ipotizzata appunto da Aldo Moro, e tutto ne è risultato scombinato.

Poi venne il craxismo (ho sempre pensato che, in presenza di Moro, Bettino Craxi avrebbe sì e no fatto l’assessore ai lavori pubblici al comune di Milano) in cui non riuscirono a riconoscersi né i comunisti né i cattolici di sinistra, gli uni costretti ad accordi di potere a livello periferico e para-politico con i socialisti, gli altri testardamente legati alla DC, mentre alcuni rispondevano al proprio smarrimento approdando coraggiosamente al Pci e venendone regolarmente delusi. De Mita non riuscì a riprendere il discorso di Moro: ne aveva l’intelligenza, ma non la pazienza, il carisma, la sensibilità e la credibilità. Il suo capolavoro rimane l’elezione di Francesco Cossiga a Presidente della Repubblica, per il resto si impantanò nell’anticraxismo e nella gestione del potere.

Quando terminò la segreteria DC di De Mita, uscii dalla Democrazia Cristiana e fui facile profeta, perché di lì ebbe inizio l’ultima bruttissima fase della cosiddetta prima repubblica.

La sinistra cattolica ebbe un sussulto con il partito popolare nato dalle ceneri della DC, ma a sinistra non c’erano interlocutori e dopo tangentopoli fu leghismo in esplosione, “destrismo” in ristrutturazione, “democristianismo” in libera uscita e berlusconismo in salsa aziendal-mediatica, mescolati abilmente dal cuoco di Arcore nella pentola di un vero e proprio regime.

L’anti-berlusconismo ridiede fiato alla sinistra cattolica che trovò in Prodi, pur con tutti i limiti di un personaggio che non mi ha mai convinto fino in fondo, il tessitore di una nuova alleanza politica a sinistra, che, tra mille vicissitudini ed alcuni aggrovigliati passaggi, approdò al Partito democratico in modo forse un po’ troppo sbrigativo.

Il progetto politico di Moro era un altro: probabilmente lui vedeva che i cattolici non avrebbero potuto convivere con la visione politica di una sinistra seppur pienamente democratica, che il loro canale fondamentale non sarebbe stato questo, ma i cattolici progressisti, senza riferimenti al centro, furono costretti a tentare strade diverse, a rendere definitivo quel che Aldo Moro considerava utile ma provvisorio, rischiando probabilmente di buttare assieme all’acqua sporca delle ideologie anche il bambino delle idealità e della politica intesa come servizio.

Il PD ha indubbiamente superato quel che rimaneva della contrapposizione ideologica tra le sue due componenti fondamentali, ma non ha trovato il giusto collante e alla fine l’ideologismo è rispuntato, non certo fra post-comunismo e post cattolicesimo di sinistra, ma fra conservazione socialista identitaria e sperimentazione liberal, fra tradizione e innovazione.

Il cattolicesimo di sinistra non è riuscito ad inserirsi nell’orchestra, ha fornito alla Repubblica alcuni importanti solisti, che, giustamente, Melloni individua in Leopoldo Elia, Nino Andreatta, Pietro Scoppola, Sergio Mattarella, fino addirittura a comprendervi, con una certa forzatura, Mario Draghi.

Siamo ai giorni nostri. Sono senza partito. Dalla metà degli anni ottanta in poi ho votato in modo diversificato: alle elezioni europee Rifondazione comunista quando candidò il missionario padre Eugenio Melandri, poi i Verdi, ultimamente il PD. Alle elezioni politiche i Popolari con qualche residua illusione, la Margherita con molto sforzo, il PD con tanta speranza, Renzi quale ultima e unica spiaggia. Adesso è venuto il bello. Qualcuno si illude di riportare indietro le lancette dell’orologio. Follia pura, se non fosse anche sete di potere. Torno ad Alberto Melloni. Lui chiede un nuovo canale per la sinistra cattolica e paventa il rischio di dover attendere vent’anni, il tempo utile per rifare una classe dirigente. Io sarò già morto e probabilmente il mio cadavere sarà già stato esumato. Vedrò tutto da un altra angolazione.

 

 

 

 

Quel cartello la dice e la sa lunga

Mentre tutti fanno un gran parlare e scrivere sull’approccio dei giovani alla politica e viceversa, andando, come spesso mi succede, contro corrente, vorrei fare qualche riflessione sul rapporto tra gli anziani e la politica.

Me ne offre lo spunto il cartello esposto da una persona di 84 anni, iscritto al Pci dal 1948 ed ora militante PD, partecipante alla recente manifestazione del Lingotto, a Torino, la kermesse di presentazione del programma sulla base del quale Matteo Renzi si è ricandidato alla guida del PD.

Il cartello, artigianalmente e simpaticamente confezionato, non ci gira intorno e dice così: “D’Alema cospiratore al telefono con Berlusconi. Il capo dei 101 che affossò Prodi alla presidenza. Odioso, viscido e presuntuoso. Sei diventato ricco, io no. Bersani sei anonimo”.

Per un comunista di lungo corso e alto bordo, come D’Alema, sentirsi dire da un ex-compagno, che oltretutto potrebbe essere per età quasi suo padre, cose del genere non dovrebbe essere piacevole. Col suo impareggiabile sarcasmo saprà dialetticamente far fronte al piccolo (?) incidente di percorso, magari con espressioni del tipo: “Renzi è alla ricerca di compagni, ne ha trovato finalmente uno…”. Sì, perché questo anziano e perseverante iscritto è un sostenitore di Renzi. “È il meglio su piazza” afferma e non so dargli torto.

Penso tuttavia che una qualche riflessione D’Alema sarà costretto a farla. Anche perché non è una novità che la base comunista fosse piuttosto insofferente verso di lui, eticamente, prima e più che politicamente, come del resto esprime in modo assai efficace il testo del cartellone sopra riportato testualmente.

Nei lontani anni ottanta il mio carissimo amico Walter Torelli, comunista tutto d’un pezzo, durante una delle solite chiacchierate, mi chiese, dal momento che mi sapeva piuttosto informato sulla cronaca politica, di riferirgli dell’episodio relativo a Massimo D’Alema, il quale, in occasione di una sua presenza in un salotto romano, rimbrottò vivacemente il cane di casa che gli era montato sulle scarpe. Ammise snobbisticamente che gli erano costate una grossa cifra. L’amico Walter innanzitutto mi confessò tutta la sua indignazione e la sua riprovazione per un comportamento eticamente inaccettabile: «Da un dirigent comunista robi dal gènnor an ja soport miga!». Poi aggiunse con tanta convinzione: «Lé propria ora chi vagon a ca tùtti».

Walter Torelli ha fatto in tempo a morire e D’Alema è ancora lì a pontificare ed a spiegarci come si fa ad essere di sinistra, lui che non lo è mai stato. Sono pertanto sicuro che l’indimenticabile Walter si ripeterebbe di fronte alle più recenti prese di posizione di D’Alema, stizzose, altezzose, insopportabili ed incoerenti. D’altra parte, per restare a Parma, anche il grande Mario Tommasini aveva un pessimo concetto di D’Alema e lo liquidava in poche pesantissime battute: «Al neg crèdda miga…».

Vorrei però riportare il discorso dal piano etico a quello più squisitamente politico. D’altra parte il rudimentale cartellone fotografa anche la patente incoerenza del personaggio. Gli anziani ne hanno viste troppe e quindi hanno una marcia in più nel giudicare i politici.

Mi sono ricordato come D’Alema durante la campagna referendaria abbia irriso al fatto che il Sì risultasse maggioritario e vincente nel voto dei cittadini di una certa età, mentre era minoritario nelle fasce di età giovanile. Continui pure a ironizzare (a parte che anche lui non è più giovanissimo), ma sappia che dagli anziani c’è sempre molto da imparare.

Durante il periodo del berlusconismo imperante mi stupivo spesso come proprio le persone più avanzate negli anni non si lasciassero per niente incantare dalle sirene mediatiche del nano di Arcore: sono dotate infatti di quel sano scetticismo, di quella irrinunciabile capacità critica, che consentono loro di giudicare in modo più oggettivo e “documentato”.

Ho letto e riletto più volte il testo di questo cartello. Senza esagerare, lo giudico la migliore analisi politica che ho visionato sull’attuale sinistra italiana. Dice tutto. Provare per credere.

Correggimi, se non sbaglio

Mentre i premier europei stavano balbettando le solite parole di circostanza sul futuro della Ue, esce la notizia che Londra dovrà rispondere all’abbandonanda Europa per circa due miliardi di truffa sulle importazioni cinesi. Piove sul bagnato della brexit.

Cosa succedeva? Da quanto ho potuto capire, la Gran Bretagna faceva da ponte alle esportazioni cinesi nel settore tessile e calzaturiero verso il territorio europeo, che venivano colpite da tassazione molto leggera (0,91 euro per un chilo di prodotto importato, rispetto ai 17 euro della Germania e i 137 del Lussemburgo)   e quindi smistate in tutto il continente a prezzi ulteriormente ribassati con grave pregiudizio per l’industria degli altri Paesi manifatturieri. Gli Inglesi col loro comportamento permissivo hanno lucrato vantaggi dall’aumento del traffico di merci sul loro territorio, hanno indirettamente sottratto fondi alla Ue (i proventi dei dazi vanno infatti per l’80% nelle casse comunitarie e nel caso venivano applicati con tariffe stracciate e addirittura su valori sottostimati), hanno danneggiato le industrie dei Paesi partner produttori di calzature e tessuti (Italia in primis).

Poi gli Italiani sarebbero disonesti e approfittatori. Tutto il mondo è paese, nel nostro caso tutta l’Europa è paese. Vorrei però fare un altro tipo di riflessione meno etica e più politica.

L’Italia è costantemente sul banco degli imputati (forse solo degli indagati) per comportamento trasgressivo verso le regole comunitarie in parecchi campi, dall’economia ai diritti civili, dal bilancio alle carceri. Ben venisse, se fosse uno stimolo positivo a migliorare e a progredire sulla strada dell’integrazione europea. Purtroppo resta una continua e professorale contumelia, politicamente frustrante ed economicamente squalificante.

Più che di Europa a due velocità integrative, si può parlare di Europa a due velocità correttive. Tutti sgarrano, in modo anche pesante, tutti fanno i cazzi loro, solo l’Italia (in compagnia della Grecia) deve sottostare a questa gogna perpetua.

Gli Inglesi nell’Europa non hanno mai creduto, hanno fatti i loro porci comodi, sul più bello hanno deciso di uscirne, hanno creato danni a destra e manca, finiranno col non pagare alcun dazio (in senso proprio e figurato), si atteggiano a più amici tra gli amici degli USA, trattano la brexit come se ne andasse a loro.

I Tedeschi si sentono i primi della classe, hanno un enorme surplus commerciale che danneggia gli altri e che si guardano bene dal reinvestire per la crescita economica complessiva, si sono unificati con l’aiuto dell’Europa, adesso nessuno li schioda dalla cattedra in cui si sono autocollocati.

Se sbaglio…mi corregge Mattarella

I Francesi sono europeisti a targhe alterne, giocano sempre sull’equivoco, si appoggiano opportunisticamente alla Germania, violano bellamente i parametri di bilancio, rischiano politicamente di trascinarci tutti nel loro baratro lepenista, tengono i piedi in due paia di scarpe, quelle del mediterraneo e quelle del nord-europa, combinano disastri a livello internazionale (vedi scriteriata guerra alla Libia di Gheddafi), sono corrotti come e più degli altri, hanno una classe politica di basso profilo, ma…sono la France, tutto il resto conta poco, vive la France.

Non voglio dare ulteriore sfogo a storiche riserve mentali, né scadere a livello di comodi e facili pregiudizi. Quel che è vero, è però vero. Sono curioso, per tornare all’argomento contingente dei dazi sulle importazioni dalla Cina, di vedere alla fine quanto pagherà la Gran Bretagna dei due miliardi di euro accertati a livello di frode dall’autorità competente di Bruxelles.

In un certo senso mi risponde il Presidente della Repubblica, che dice: «Non viene, alle volte, adeguatamente rammentato che, dopo due guerre mondiali devastanti nate in Europa, dopo gli stermini di massa provocati da fanatismi nazionali, da rivalità e contrasti di interessi economici, alcuni statisti illuminati – e i loro popoli che allora li hanno seguiti – hanno scelto la strada della collaborazione e dello sviluppo in comune. Tutto questo ha comportato decenni di pace e di benessere crescente mai verificatosi in Europa nel corso della storia. Questo valore è incommensurabile. Non c’è difetto dell’Unione Europea, non c’è carenza nel suo modo di essere e di vivere che possa giustificare il ritorno alle rivalità, alla diffidenza, ai contrasti e al pericolo che si ritorni a quello che abbiamo voluto lasciarci alle spalle oltre mezzo secolo addietro».

Accetto con grande rispetto la bacchettata. Non ritiro quel che oggi ho scritto: ormai è scritto. Ringrazio il Presidente. Accolgo la lezione, ripasserò la storia, rinnoverò la mia fede europeista come si fa con le promesse battesimali durante la Veglia Pasquale. Il mio grande e indimenticabile amico Giampiero Rubiconi scriveva nei suoi sparpagliati pensierini: «Correggimi, se non sbaglio». Ho l’ardire di ripeterlo a Sergio Mattarella.

Crescete e…non moltiplicatevi

Gli esperti non sono affatto d’accordo sul rapporto tra le risorse del nostro pianeta e le esigenze dei suoi abitanti. Secondo una corrente di pensiero prevalentemente laica gli uomini sulla terra sarebbero troppi e mal distribuiti e bisognerebbe di conseguenza mettere in atto morbide e civili procedure di controllo delle nascite, soprattutto in certe aree sottosviluppate, proprie quelle in cui il tasso di natalità è più alto.

A queste opinioni si contrappongono coloro, prevalentemente di matrice cattolica, che sostengono come le risorse sarebbero più che sufficienti agli abitanti del pianeta, anche in prospettiva, a condizione che fossero equamente e proporzionalmente distribuite, senza alcuna necessità quindi di calare dall’alto meccanismi di contenimento delle nascite.

Sono due approcci molto diversi che partono oltretutto da dati scientifici e statistici contrapposti. Viene spontaneo chiedersi: bastano o no le risorse a coprire adeguatamente le necessità di tutti   i cittadini del mondo? Domanda a cui nessuno, credo, possa dare risposte precise.

Ragion per cui propendo per stare, come si suol dire, nei primi danni. Pur condividendo appieno la tesi di chi auspica un’equa distribuzione dei beni, concentrati in poche mani mentre i molti soffrono e rischiano di morire d’inedia, non mi pare il caso di insistere sul no etico al controllo delle nascite per i popoli in cui tale controllo semmai viene di fatto eseguito a livello di mortalità infantile e dovuta a denutrizione e malattie conseguenti a (per dire poco) precarie condizioni igienico sanitarie.

Ritengo quindi socialmente arretrata e dogmaticamente arroccata la posizione della Chiesa cattolica, allorquando non ammette una seria e ragionata istituzione di procedure anticoncezionali. Ricordo che mia sorella, cattolica convinta e praticante, di fronte alle immagini di popolazioni sofferenti per fame e denutrizione, diceva senza evidenziare dubbio alcuno: «Occorrono vagoni e vagoni di pillole anticoncezionali, altro che balle…».

Tanto come di fronte alla piaga dell’AIDS: si sta a sottilizzare sulla liceità dell’uso del   preservativo, mentre migliaia di persone muoiono distrutte da questo virus. «Vagoni e vagoni di preservativi, altro che balle…» aggiungo io. D’altra parte i missionari, unici portatori credibili di principi cristiani in questi ambienti martoriati, credo non si facciano alcun scrupolo nel distribuire preservativi a difesa dell’integrità fisica di tante persone. Qualcuno, bello come il sole, dice che non basta e che il metodo non è sicuro. Beh, intanto cominciamo così, poi viene il resto…

Certamente viene il discorso politico dell’equa distribuzione delle risorse: problema enorme che li riassume tutti. Quindi non mi sembra possibile affrontarlo in questa sede, se non per auspicare che tutti facciano l’impossibile per superare la vergognosa situazione esistente.

Vorrei invece spendere due parole sui dati della natalità nel nostro Paese, nettamente ed in continuo calo, dovuto, a detta dei soliti sociologi chiacchieroni, alla difficoltà nell’occupazione giovanile, al problema abitativo, alle carenze nei servizi all’infanzia, alle deboli politiche di sostegno alla famiglia e alle coppie giovani.

Si è radicata l’idea che, in poche parole, in Italia si facciano pochi figli, perché le condizioni economiche delle nuove generazioni sono piuttosto critiche. Non ne sono mai stato convinto. A supporto dei miei dubbi ricordo innanzitutto quanto mi diceva un carissimo amico di una certa età: «Se ai miei tempi si fosse aspettato a sposarsi e a fare figli di avere lavoro, casa, condizioni economiche, discrete, stabilità, etc., non si sarebbe sposato nessuno e nessuno avrebbe fatto figli, invece…». Osservazioni molto elementari, sociologia spicciola, a volte molto meglio di quella sbandierata prezzolatamene sui giornali e sui media in genere.

Poi arrivano anche i dati statistici, che, se non erro, dimostrano come ci sia una corrispondenza storica tra aumento del benessere e calo della natalità. E allora? Tutto diverso da quel che si sostiene con tanta enfasi. Può darsi che la verità stia nel mezzo.

Se guardo ai miei genitori ed alla storia della mia famiglia posso raccontarvi che mio padre e mia madre si sposarono senza alcuna copertura economica alle spalle: mio padre era un lavoratore edile e quindi soffriva una disoccupazione stagionale piuttosto prolungata, mia madre aveva l’intenzione di aprire un laboratorietto di maglieria (sapeva l’arte, ma sposandosi l’aveva messa da parte, in attesa di risorse da investire), la casa era una topaia in comune con la famiglia paterna di origine. Mia sorella nacque in questo contesto. Io nacqui a distanza di tempo, quando la situazione era un pochettino migliorata, ma feci in tempo a trascorrere la mia prima infanzia in un ambiente di grande e dignitosa povertà. Poi le cose, pian piano, a furia di enormi sacrifici, migliorarono. Se i miei potenziali genitori avessero adottato le loro scelte esistenziali sulla base dei criteri odierni, io sarei ancora nella mente di Dio. Magari l’umanità ci avrebbe guadagnato, ma questo è un altro discorso.

 

Giovani per gioco

Intervista televisiva su Rai news 24. Si parla della triste morte di un tredicenne travolto, in provincia di Catanzaro, sui binari da un treno in corsa. L’ipotesi è che si sia trattato di un gioco o di una prova di coraggio a livello di gruppo: scattare un selfie con un treno che sta sopraggiungendo, per poi magari circolarizzarne l’immagine a livello internet. Uno ci lascia le penne, gli altri amici si salvano per un pelo oppure osservano inorriditi.

Un tempo si diceva: divertimento innocuo per bambini scemi. Oggi bisognerebbe correggere questo modo di dire: divertimento estremo per ragazzi alienati.

Prima però due parole a commento dell’intervista. La cronista di turno parla con l’avvocatessa di uno dei ragazzi sopravvissuti, la quale esclude categoricamente si sia trattato di un selfie estremo. Sembra più preoccupata della buona riuscita dell’inquadratura su di sé e della propria acconciatura che non del chiarimento sul drammatico caso. Da parte sua l’intervistatrice prende atto burocraticamente delle affermazioni, ma non le passa nemmeno per l’anticamera del cervello di chiedere all’avvocatessa: “Allora, se lei è così sicura su come sono andati i fatti al punto da poter con certezza escludere il tragico gioco, ci dica cosa è successo, ci aiuti a capire”. Nemmeno per sogno, tutto finisce lì. Mi sembra ci sia di che lavorare per Antonio Di Bella, il direttore di questo canale Rai. L’informazione è altra cosa, caro direttore. Lei personalmente la sa fare, gliene do atto con piacere e riconoscenza, ma i suoi collaboratori…

Mi auguro che la dinamica dell’incidente sia diversa rispetto alle prime ipotesi. Ho letto con angosciosa attenzione le ricostruzioni assai poco convincenti dei compagni sotto shock di questo ragazzo, che ridurrebbero l’episodio ad una bullistica escursione finita in tragedia: dal gioco estremo retrocederemmo alla bullata giocosa, ad una scorciatoia improvvisata con un dribbling ferroviario finito con un macabro e tragico autogol. Siamo comunque, credo, alla pura follia trasgressiva giovanile. Sarei ben contento di sbagliarmi, perché, almeno, la tragedia avrebbe motivazioni meno drammatiche e sconvolgenti.

Le cronache dicono tuttavia che non si tratti di episodi inediti: ancor peggio se sta diventando una corrente di “pensiero giovanile”. Il fatto non comporta, a mio avviso, alcun ulteriore commento, rappresenta infatti di per sé la (perfetta) sintesi etica, storica, sociologica, psicologica, politica dello sbando della nostra epoca.

Nello stesso giorno leggo alcuni stralci di un’intervista concessa dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, rilasciata a “La civiltà cattolica” in occasione della pubblicazione del numero 4mila di questa prestigiosa e interessante rivista.

Parlando di impegno sociale e politico il Presidente, con la connaturale profondità di pensiero e la credibile linearità di proposta, dice: «Non soltanto c’è la consapevolezza dell’esigenza di garantire ai giovani una certezza di prospettive, ma si avverte anche l’esigenza che si impegnino in maniera attiva nella vita istituzionale e politica. Tra le lettere dei condannati a morte della Resistenza c’è n’è una molto bella di un giovane di neanche vent’anni, il quale, la sera prima di essere fucilato dai nazifascisti, scrive ai genitori: “Tutto questo avviene perché voi un giorno non avete più voluto saperne di politica”». L’intervista prosegue, ma io mi fermo qui.

Facendo un ardito parallelismo, con grande commozione e forte inquietudine, provo ad immaginare cosa avrebbe potuto scrivere ai genitori quel giovane calabrese prima di mettere a repentaglio la vita per gioco. Ecco le parole della sua (im)probabile lettera: “Tutto questo avviene perché voi, e tutta la vostra generazione, non avete saputo testimoniarci cosa vuol dire vivere e allora noi, non capendo il senso della vita, rimasti bambini, abbiamo giocato a vivere e …a morire”.

Non ho fatto parte, per mia fortuna, ma soprattutto per merito dei miei educatori palesi ed occulti, dei giovani allo sbando esistenziale. Faccio parte però degli uomini che non hanno saputo testimoniare ai giovani un senso della vita o almeno il senso del cercare seriamente di vivere, ne sento tutta la responsabilità e la colpa, assieme a molti altri della mia generazione.