Guerra: tutti la vogliono, nessuno la voleva

L’intervento armato in Libia nel 2011 per abbattere il regime di Gheddafi, oltre ad essere dettato dal solito discorso petrolifero, fu chiaramente ed espressamente voluto dalla Francia di Sarkozy (soprattutto per ribadire il suo ruolo internazionale e per rafforzare la scricchiolante presidenza) a cui si aggiunse la solita Gran Bretagna (quando si tratta di fare guerre gli Inglesi non mancano mai l’appuntamento). Europa e Usa subirono questo conflitto armato: nessuno ce la vedeva, per diversi motivi, ma tutti finirono per accodarsi con differenziati impegni. Mio padre sosteneva, con un tollerabile pizzico di qualunquismo, che per fare star bene la gente non si trova mai l’accordo, per fare la guerra ci si mette sempre d’accordo.

Come era facile prevedere la Libia cadde nel caos e c’è tuttora. È inutile nascondere che certi dittatori, paradossalmente, alla fine, sono meglio delle esplosive e improvvise situazioni conseguenti alla loro caduta. La coscienza democratica non si improvvisa, non si cambia regime come cambiare camicia, non basta abbattere i simulacri del potere autoritario per esercitare il potere in modo democratico. Le primavere arabe sono miseramente fallite proprio perché velleitariamente e ingenuamente spinte a voltare pagina, senza sapere cosa scrivere nella pagina bianca successiva: altre dittature, teocrazie, conflitti etnici, divisioni e scontri.

Tornando alla Libia, mentre non si riesce a quadrare il cerchio delle divisioni interne a questo Paese, mentre ci si rende conto che occorrerebbe un interlocutore serio ed affidabile per regolare i flussi migratori e combattere lo scafiamo, mentre si cerca di ricucire rapporti difficilissimi, mentre si è scatenata una sorta di concorrenza tra Italia e Francia per tenere in mano il pallino nel bigliardo libico, mentre l’Europa continua a non avere una sua politica estera degna di questo nome, mentre gli Usa di Trump se ne sbattono le balle e fanno solo ulteriore confusione flirtando con i Sauditi, in Italia si litiga di brutto su chi abbia la responsabilità in quella guerra del 2011.

È triste doverlo ammettere, ma nessuno, a livello istituzionale e politico, ebbe il coraggio di chiamarsi fuori fino in fondo da questo sciagurato intervento. Tutti, a babbo morto, sono contrari e ribaltano su altri le colpe, in un penoso, inutile e deleterio gioco allo scaricabarile…di petrolio. Chi era al governo butta, scorrettamente, sgangheratamente e trivialmente, la croce addosso alla Presidenza della Repubblica di allora, chi era all’opposizione crocifigge chi era in maggioranza, chi era in maggioranza gioca ai tardivi ed inutili distinguo, chi era all’opposizione si nasconde e si divide sul tasso di contrarietà all’epoca timidamente espresso.

Mi rifugio negli insegnamenti paterni, vista l’incoerenza della politica. Mio padre era estraneo alla mentalità militare, ne rifiutava la rigida disciplina, era allergico a tutte le divise, non sopportava le sfilate, le parate etc., era visceralmente contrario ai conflitti armati. Quando capitava di ascoltare qualche notizia riguardante provocazioni fra nazioni, incidenti diplomatici, contrasti internazionali era solito commentare: “S’ag fis Mussolini, al faris n’a guera subita. Al cominciaris subit a bombardar”. Non c’è più Mussolini in Italia, anche se ce ne sono altri sparsi per il mondo, magari riveduti e (s)corretti, ma le guerre purtroppo si fanno ancora. Ogni volta che sentiva notizie sullo scoppio di qualche focolaio di guerra reagiva auspicando una obiezione di coscienza totalizzante: “Mo s’ pól där ch’a gh’sia ancòrra quälchidón ch’a pärla äd fär dil guèri?”.

E con questo interrogativo, molto più profondo di quanto possa sembrare, termino la riflessione: chi è senza peccato scagli la prima pietra. In materia bellica e non solo.

 

Fate come dico e non come faccio

In questi giorni, si capirà dopo il perché, mi sovviene un’esperienza fatta durante la mia vita professionale. Andai a rappresentare le cooperative parmensi (quelle sociali in particolare) aderenti all’associazione in cui prestavo il mio servizio. Dove? In Prefettura! A Parma si intende. Era stata convocata una riunione dei rappresentanti delle forze economiche e sociali in occasione dell’emergenza creatasi in Italia, ed anche a Parma, per la fuga in massa degli Albanesi dal loro Stato in piena bagarre post-comunista. Eravamo alla fine degli anni ottanta, se non erro. Era un afoso pomeriggio estivo: arrivai senza giacca e cravatta e con un po’ di ritardo (fatto strano ed eccezionale per la mia quasi maniacale puntualità) alla riunione che si teneva in un’ampia sala della prefettura, ricca di stucchi ed affreschi. L’incontro si svolgeva attorno ad un grande e lungo tavolo. Non era in funzione l’impianto microfonico e quindi non si capiva nulla. Il collega a cui era seduto vicino, ad un certo punto mi chiese perché tutti parlassero a così bassa voce. Me la cavai con una stupida battuta: «Probabilmente, bisbigliai, non si può parlare ad alta voce per il pericolo che gli stucchi possano deteriorarsi in conseguenza delle onde sonore?!». Chi riuscì a sentirmi mi guardò scandalizzato: ero arrivato in ritardo, senza giacca e cravatta ed ora osavo fare lo spiritoso in Prefettura? Il dibattito si trascinò stancamente e francamente non ricordo granché dei contenuti: se gli Albanesi arrivati a Parma si fossero aspettati qualcosa di concreto da quell’incontro… Ad un certo punto il Prefetto (non ricordo il nome) fece un attacco nei confronti delle associazioni di volontariato e del privato-sociale in genere, sostenendo che, a suo giudizio, l’impegno non era all’altezza della situazione emergenziale. Non seppi tacere, non sopportai un simile “becco di ferro”. Non ricordo le testuali parole, ma dissi sostanzialmente: «Da uno Stato incapace di affrontare le difficoltà, non sono accettabili critiche a coloro che si stanno comunque impegnando. C’era solo da dire grazie e tacere…». Non ebbi molte solidarietà. Mettersi contro il Prefetto non è tatticamente il massimo dell’opportunismo, ma …

Ebbene, a mio giudizio, sta succedendo così nei rapporti tra l’Europa, gli Stati membri e le Ong impegnate nel soccorso in mare ai disperati in fuga. Può darsi ci sia qualche comportamento ai limiti della legalità nei rapporti con gli scafisti, può darsi che certe regole non vengano perfettamente rispettate, può darsi persino che non ci sia perfetta trasparenza nei fondi utilizzati. Di qui a mettere i bastoni fra le ruote a chi si fa il mazzo per salvare migliaia di persone che rischiano di affogare, ci passa una bella differenza. Oltre tutto la predica viene da un pulpito menefreghista e/o assenteista. Mentre folle di disgraziati ci tendono la mano, noi non troviamo di meglio che cavillare sui protocolli da siglare e sulle regole da osservare. È come se dentro una piscina un bagnante stesse affogando e i bagnini si mettessero a discutere fra di loro se tuffarsi, se gettargli una ciambella di salvataggio, a litigare su chi dovesse intervenire, etc.

Ho grande stima per Minniti, ministro degli Interni italiano attivo e capace, ma, per cortesia, non mi scivoli sulla buccia di banana della burocrazia trasferita in   mare aperto. Ogni vita salvata val bene una regola trasgredita o un comportamento disinvolto da parte delle Ong. Pensiamo un attimo se non ci fossero queste organizzazioni: quanta gente in più sarebbe affogata in mare, quanta sporca coscienza in più avremmo. Sì, ma la coscienza non è nei protocolli e negli accordi. Già, me ne stavo scordando…

 

La precarietà della moglie piena e della botte vuota

Negli Usa di Donald Trump abbiamo una girandola di nomine, dimissioni, sostituzioni in cui non ci si raccapezza più (probabilmente non ci si raccapezza più nemmeno Trump). Ormai non passa giorno senza che un alto dirigente della Casa Bianca venga sfrattato e sostituito in fretta e furia. Il presidente americano va probabilmente per tentativi e, al di là del pesante condizionamento delle inchieste di cui è oggetto (direttamente o indirettamente), brancola nel buio delle sue assurde promesse elettorali e sta portando alla deriva tutto l’Occidente pur di sopravvivere sul mare agitato della sua (non) politica. Siamo in una situazione di precarietà nei rapporti internazionali, in cui quel che vale oggi verrà messo in discussione domani e non varrà niente dopodomani: incertezza, confusione, incoerenza e improvvisazione.

Se scendiamo di livello, pur restando tuttavia nel variegato mondo degli anti-sistema, arriviamo a Roma: se Donald Trump è un ballerino (il Bolle della politica internazionale), Virginia Raggi è la “Carla Fracci” della politica italiana. Le sue piroette, i suoi cambi di passo, i suoi volteggi non finiscono di stupire. Anche in Campidoglio, con la giunta grillina, si è scatenata una girandola di nomine al di sotto della quale la città rischia di affogare: ho perso il conto, anzi ormai mi rifiuto di tenere dietro ai giornalieri ribaltoni assessoriali, funzionariali e manageriali. Se la Casa Bianca è nel caos, il Campidoglio è nel casino totale. La precarietà domina, non si capisce chi decide, chi comanda, chi amministra. Forse è un modo come un altro per andare incontro alle esigenze della gente: farle credere che nel trambusto generale qualcosa finalmente cambierà. A giudicare dai sondaggi, per il momento, sembra che la ricetta funzioni.

In politica insomma vince la precarietà e in troppi si illudono che possa servire a generare novità. Poi cominciamo a lamentarci perché a livello occupazionale domina il lavoro precario. Siamo belli come il sole: pretendiamo che le aziende, invischiate nella precarietà di una crisi su cui si sta solo galleggiando, condizionate da una politica che non offre strategie di sviluppo ma solo confuse tattiche di resistenza, investano e assumano personale a tempo indeterminato. Pretese irrazionali.

Intanto non facciamo nemmeno una piega di fronte alla precarietà dello sfruttamento a livello schiavistico nelle campagne, laddove le braccianti italiane si confondono con i richiedenti asilo: le une e gli altri vengono remunerati in nero con pochi euro per raccogliere la frutta e magari accatastati in dormitori simili a gironi infernali. Di fronte all’esigenza di governare i flussi migratori, con equilibrio e senza cadere nelle retoriche da strapazzo, non riusciamo a saltarci fuori, tra spinte e contro-spinte, tra Paesi che guardano più alle urne che ai barconi, tra litigi sui soccorsi e tra i soccorritori, tra contraddizioni enormi a livello di Europa, tra forze politiche attente a spillare qualche decimale in più nei loro ipotetici consensi. Qui la precarietà diventa dramma umano, demografico e sociale.

Tutto è precarietà. Non vogliamo la globalizzazione, perché pensiamo di risolvere meglio i problemi in casa nostra, laddove regna il caos. Non ci fidiamo nemmeno dei vaccini perché dietro avrebbero colossali interessi delle case farmaceutiche: sappiamo solo dire no, a tutto e il contrario di tutto. Non capiamo che questo è semmai il modo migliore per lasciare tutto com’è, per cambiare a parole, per sbagliare la mira e colpire solo nel mucchio. Critichiamo il “sessantotto”: ma al confronto era una battaglia creativa e propositiva.

In compenso vorremmo stabilità di lavoro, di benessere, di condizione sociale, ma ad un tempo esigiamo una rivoluzione sistemica, una messa in discussione delle élite e dell’establishment. Non è per caso che vogliamo la quiete prima della tempesta, la botte piena e la moglie ubriaca? Forse stiamo puntando alla moglie piena (di problemi) e alla botte vuota (di soluzioni). Più precari di così…

 

Una ferita da rimarginare

La lontananza nel tempo guarisce le ferite superficiali, ma riapre quelle profonde. È il caso della strage del 1980 alla stazione di Bologna. Ogni anno l’appuntamento aggiunge un pezzetto di coda polemica, che chiama in causa governo e magistratura al punto da rendere sgradita in piazza la presenza dei rappresentanti del governo e da mettere in dubbio quella dei rappresentanti della magistratura.

Sul fronte governativo ci sono le mancate promesse sui risarcimenti alle vittime e sulla desecretazione degli atti relativi a questa angosciante vicenda; alla magistratura si imputa di non aver fatto piena luce su esecutori e mandanti della strage.

Per quanto concerne i risarcimenti alle vittime non ho mai capito e mai capirò queste vergognose lungaggini: per uno stato che si rispetti dovrebbe essere la prima cosa da fare con estrema puntualità e snellezza burocratica. Quanto ai segreti, apriamo pure i cassetti, ma non ci arriveremo mai in fondo. Troppo delicata e complessa la vicenda per essere dipanata e chiarita una volta per tutte. Resta l’amaro in bocca per una democrazia che non riesce a scoprire i propri altarini (nel caso trattasi di altari maggiori…).

Sull’operato della magistratura non mi sento di dare giudizi: i tempi lunghi della giustizia diventano interminabili di fronte alle procedure inerenti fatti di tale gravità. Una verità giudiziaria è uscita: la strage era di marca fascista e tendeva, con le complicità e le omertà dei poteri occulti, a creare un clima di disorientamento politico tale da favorire rigurgiti reazionari tutti da costruire.

Penso valga la pena, anziché insistere sui tasselli mancanti della verità, far tesoro di questa lezione incredibilmente cruenta: difendiamo la democrazia da ogni e qualsiasi nostalgia fascista, da ogni e qualsiasi scorciatoia populista, da ogni e qualsiasi qualunquismo, da ogni e qualsiasi manovra anti-democratica. Rafforziamo le istituzioni, riformandole per meglio adattarle al mondo che cambia, facciamole funzionare, evitiamo accuratamente di denigrarle, riportiamo la politica agli alti livelli che le competono. In fin dei conti è quello che ci ha insegnato il presidente della Repubblica di allora, Sandro Pertini, quando, dopo essersi quasi smarrito fra le bare delle vittime di Bologna, pose la sua mano sul podio da cui parlava il sindaco di Bologna; è quello che continua a chiederci con delicata insistenza l’attuale presidente Sergio Mattarella.

La democrazia paga prezzi enormi che la rendono sempre più preziosa, non è una conquista facile e soprattutto non è un dato acquisito, è una battaglia continua, giornaliera, impegnativa, rischiosa.

Ogni volta che rivedo le immagini di quella strage mi commuovo e ripenso ai tanti che ci hanno conquistato il bene prezioso della libertà: fra essi ci sono anche i martiri della stazione di Bologna. Forse sarebbe meglio interrompere le polemiche, che capisco soprattutto in capo a coloro che sono stati direttamente e tragicamente colpiti, per comportarci in modo più consono ad una democrazia che è nata e vive di Resistenza. La ferita c’è, ma non riapriamola, cerchiamo piuttosto, dopo averla ben disinfettata, di rimarginarla.

Il cimitero ambientale

Sono nettamente e convintamente contrario alla pena di morte, per motivi umanitari, etici, costituzionali, sociali e politici. Sono addirittura favorevole all’abolizione dell’ergastolo, che giudico una sorta di ipocrita surrogato della pena capitale, così come interpreto la pena carceraria in senso rieducativo e non in senso afflittivo.

Tutto ciò doverosamente premesso, ammetto che di fronte al fenomeno degli incendi boschivi scatenati dalla furia dell’uomo ho pensato, paradossalmente e istintivamente, alla pena capitale per i colpevoli di questi atti dolosamente vandalici e distruttivi (mandanti ed esecutori). Sì, perché in fin dei conti si tratta di una vera e propria guerra, che queste persone, per ignobili motivi, fanno contro la società e l’ambiente. La società ha il diritto/dovere di difendersi da queste follie, anche con le maniere forti: è peggio dello sciacallaggio post-cataclismi, si tratta di una volontà distruttiva perversa (credo poco al piromane puro, se non usato da chi ha ben altre manie).

Mio padre, uomo mite e pacifico, era piuttosto intransigente contro la criminalità e non era pregiudizialmente contrario alla pena di morte, ritenendo potesse avere un effetto dissuasivo e frenante. Mi permetto di rivalutarne il discorso almeno con un occhio rivolto al fenomeno “mafioso” della distruzione del patrimonio ambientale.

Detto questo, fatto questo sfogo, bisogna ragionare e capire che, al di là dei comportamenti criminosi, esistono responsabilità, incuria, ritardi, distrazioni, insensibilità, egoismi, che stanno alla basa dei danni incendiari. Se non capiamo che la difesa e la cura dell’ambiente dovrebbero essere il primo obiettivo socio-economico da perseguire, continueremo a mettere pezze ad un abito sempre più malconcio e inutilizzabile. Aria, acqua, coltivazioni, allevamenti, vegetazione, bellezze naturali sono il paradiso terrestre, che non esitiamo a rovinare scegliendo “la mela” del guadagno, del vantaggio immediato, del tornaconto, del profitto.

Quando, ad esempio, ci si pone il problema se sia prioritario salvare i posti di lavoro di un’azienda inquinante rispetto alla chiusura o alla ristrutturazione della stessa, si opera una tremenda mistificazione: è come accontentarsi di avere un posto assicurato al cimitero piuttosto che preoccuparsi di vivere a lungo e nel miglior modo possibile.

Forse dobbiamo imparare, con umiltà, a ripartire dalla terra in cui viviamo e da cui traiamo i beni per vivere. Uso spesso questa similitudine: siamo in una stanza chiusa, dove si fa sempre più fatica a respirare e noi ci illudiamo di risolvere il problema facendo uscire qualcuno da quella stanza o respirando meno a fondo. Mi è venuta in mente questa metafora quando, di fronte all’emergenza siccità, si è disposta l’interruzione dei prelevamenti di acqua dal lago di Bracciano e si è cominciato a prevedere il razionamento nell’uso dell’acqua.

Chi governa, a tutti i livelli, ha il dovere di invertire la tendenza, partendo, costi quel che costi, dal governo del territorio; chi è governato ha il dovere di ripulire la propria coscienza, rispettando l’ambiente in cui vive; tutti abbiamo il dovere di aprire quella finestra della stanza chiusa di cui spora, altrimenti moriremo asfissiati dopo una patetica gara alla sopravvivenza impossibile.

Il fuoco giovanile

Faccio molta fatica a comprendere il senso delle adunate oceaniche dei concerti di musica rock. Ci vedo tanta fuga dalla realtà, una irresistibile voglia di evasione al limite della estraniazione trasgressiva. Non riesco a capire se la musica sia il pretesto per sfogare il proprio desiderio preesistente di rifiuto della società o sia la causa che provoca questa ribellione personale e comunitaria.

Indubbiamente da questa musica si sprigiona una forte carica di contestazione, coinvolgente una intera generazione nella sua ricerca generica, ma sofferta, di un mondo diverso. Il concerto rock diventa l’espressione di un modo anticonvenzionale di vivere le proprie ansie esistenziali.

Spesso mi chiedo: e domani, a evento musicale concluso, questa gente cosa farà? Riuscirà a trovare la forza di rientrare in gioco o sarà tentata di proseguire la fuga con strumenti ed esiti facilmente e drammaticamente ipotizzabili.

Colpisce la catena di suicidi di cantanti rock, di leader di questa corrente musicale, di protagonisti sul palco e nella vita di quella che sembra essere non solo una professione artistica ma una scelta esistenziale di rottura. Rientra tutto nella confusa e fuorviante macchina del successo o diventa lo sbocco esemplare di uno stile di vita? E quale influenza possono avere questi atti estremi sulla mentalità dei loro innumerevoli fans?

La musica ha un fascino trascinante in quanto rappresenta un modo di porsi di fronte alla realtà: tutte le forme musicali hanno questa potente carica coinvolgente e trascinante. Sono un appassionato di musica (soprattutto operistica), non sono un musicologo, ma sono convinto che le varie correnti musicali si distinguano proprio per il loro intrinseco approccio alla realtà: dall’esaltazione dei sentimenti si passa alla cruda visione della realtà, dal tentativo di sublimazione si passa alla forza d’urto, dal mero divertissement si arriva al sofferto rifiuto della vita. In questo ginepraio culturale, se non si è guidati da equilibrio psicologico ed esistenziale, se ci si lascia andare, si rischia grosso: l’illusione, l’alienazione e persino il suicidio, che porta in sé qualcosa di misterioso e provocante.

Vedo i giovani combattuti tra la conformistica evasione della discoteca (anche la movida fa parte del fine settimana) e la ribellistica partecipazione al rito rock: due modi assai diversi di rispondere al bisogno di uscire dalla depressione di una vuota routine.

La discoteca e la movida, che ne è la versione stradaiola, nella loro superficiale smania di divertimento a base di alcol e droga, possono portare allo sballo: quante volte mi sono stupito nel sentire, ad esempio, che le vittime dello sballo fossero ragazzi che per cinque giorni alla settimana facevano una vita “normale” per poi tuffarsi al sesto giorno, meglio dire alla sesta notte, nel mare dello sfogo totale.

Il concerto rock, nel suo coinvolgente bagno di musica e di folla, porta al settimo cielo, ad una sorta di soddisfacente presa di distanza dal mondo “normale”, ma quando le luci si spengono può subentrare la disperazione della quotidianità.

Nell’età giovanile, è inutile negarlo, abbiamo tutti dentro una fiamma difficile da contenere e domare. Non è un passaggio da esorcizzare, ma da valorizzare, possibilmente senza scherzare col fuoco.

Roma nun fa’ la “raggiosa” stasera

Il caos amministrativo di molti enti locali, di cui Roma è l’esempio sempre più eclatante e asfissiante, ha indubbiamente parecchie motivazioni di ordine politico risalenti all’inerzia e all’incompetenza di molti amministratori locali, i quali affrontano il loro ruolo più con il piglio strafottente del governatore che con l’impegno paziente del coordinatore.

La legge, che assegna ai sindaci ed ai presidenti delle Regioni enormi poteri, il sistema elettorale, che li insedia su diretto mandato dei cittadini, la personalizzazione della politica in genere hanno creato i presupposti di questa sorta di governatorati periferici, in cui si consuma l’equivoca aspettativa della bacchetta magica capace di risolvere i problemi senza passare dalle mediazioni sui programmi, dai lavori di equipe a livello assessoriale e soprattutto dalla managerialità della dirigenza alla guida degli enti preposti alla gestione dei settori e dei servizi in cui è articolata la vita di una città o di una regione.

Volendo concentrarci sui comuni, i sindaci si vedono stretti nella morsa, costituita da una parte dai cittadini elettori che attendono i provvedimenti miracolistici loro promessi durante la campagna elettorale e dall’altra parte dalla larga burocrazia amministrativa che concretamente gestisce i fatti amministrativi. Per uscirne vivo il primo cittadino deve tenersi in equilibrio: saper dialogare con i cittadini imponendo loro l’inevitabile gradualità dei cambiamenti e collaborare con la dirigenza assegnandole i giusti compiti e le opportune direttive.

Il comune di Roma   applica tutto ciò esattamente al contrario: una sindaca, capitata per caso in Campidoglio sull’onda meramente protestataria dei cittadini imbufaliti contro una macchina cittadina piena di inefficienze, di irregolarità, di corruzione, di confusione; una prima cittadina totalmente priva di carisma politico, di preparazione e di esperienza, in balia di una sarabanda di funzionari e dirigenti incapaci, improvvisati, scelti a casaccio, calati dall’alto, troppo legati al passato o mandati allo sbaraglio verso un futuro alquanto vago, pericoloso, incerto, sicuro solo nelle perdite e nei debiti accumulati.

Vediamo un via vai di assessori, di capi e capetti provocato anche dalla mano pesante della magistratura, ma soprattutto dalla incapacità di affrontare le situazioni guardandole e raccontandole con spietato realismo e forte impegno rinnovatore. Si va per tentativi: fuori uno e dentro un altro, via un inquisito ed ecco un immacolato, dimissioni di un manager ed ingaggio di un sostituto, forfait di un assessore e suo immediato rimpiazzo, rottamazione di un dirigente ed entrata di uno nuovo di zecca. Un comune a porte girevoli, un’amministrazione fregoliana, un teatrino dei burattini.

E i romani con il loro ingombrante bagaglio di fascismo e clericalismo, con la loro storica pigrizia, con il loro rassegnato falso protagonismo, stanno a guardare, tra cumuli di immondizia, autobus fantasma e rubinetti a secco. Ogni giorno che passa la situazione si fa più pesante. La Raggi riesce solo e sistematicamente a scaricare colpe e responsabilità sul passato dei suoi predecessori e sul presente dei suoi referenti. Nel movimento, che l’ha candidata e difesa ad oltranza, si scalpita, consapevoli di una debacle annunciata.

Vista la scarsità, alla sindaca non resta che fare la battaglia contro l’acqua, cercando di convincere i romani che sia inquinata dal Pd. L’aggettivo “petaloso”, inventato da un fantasioso ragazzino, non ha trovato accoglienza nel vocabolario, chissà se ci entrerà l’aggettivo “raggioso”, da me affibbiato con simpatia, ad una sindaca penosa.

Poveri sì, coglioni no

Un mio simpatico ed arguto conoscente aveva affibbiato all’amata moglie il soprannome di “Francia”. Sì, quando parlava della moglie diceva proprio “la Francia”. Qualcuno, io per primo, stentava a capire l’allusione, ma poi, svelato l’arcano, si rideva di gusto, capendo l’assimilazione dei rapporti burrascosi tra marito e moglie a quelli tra Italia e Francia.

La storia si ripete. L’allargamento della famiglia all’Europa non è assolutamente bastato a stemperare le tensioni fra i due Paesi cugini. Cambiano i protagonisti, ma rimane la realtà di una convivenza difficile, che riemerge clamorosamente di tanto in tanto.

Le ultime vicende politiche francesi con l’elezione a presidente di Emmanuel Macron sembravano poter dissolvere vecchie e nuove nubi, invece… In pochi giorni su ben tre questioni, non di poco conto, quali immigrazione, rapporti con la Libia e settore cantieristico, si è aperto un vivace contenzioso. Sull’immigrazione la Francia non intende aprire i propri porti e insiste per farsi carico pro-quota solo ed esclusivamente dei rifugiati politici; nei rapporti con la Libia Macron ha voluto bruciare le tappe per riconquistare il centro della scena con accelerazioni discutibili e con risultati ancora tutti da verificare; nel settore cantieristico prevale un ritorno a guardare strettamente i propri interessi senza sottilizzare su accordi precedenti e sul tanto sbandierato principio della libera concorrenza in campo economico.

La storia richiederebbe all’attuale presidenza francese un po’ più di umiltà e di calma: il passato coloniale comporta parecchie macchie difficili da cancellare con un colpo di spugna; la Libia è nella condizione sbracata in cui è, anche e soprattutto, per responsabilità della Francia che nel 2011 volle a tutti i costi una scriteriata guerra contro Gheddafi solo per vantare al proprio interno un’assurda prova di forza; le battaglie economiche si fanno per mascherare la propria debolezza ammantandola di orgoglio nazionale; l’europeismo francese ha avuto i suoi alti e bassi e non può certo giustificare un’improvvisata pagella da primo della classe.

Ammetto onestamente che, se le recenti prese di posizione francesi le avesse adottate Marine Le Pen, penserei e direi che da un presidente nazionalista e pseudo-fascista non ci si poteva aspettare di meglio. Ma il caso vuole che sia stato eletto Macron e quindi una certa qual sorpresa esiste e disturba alquanto (dopo i precipitosi entusiasmi anche da parte mia, lo ammetto). Non solo si intuisce che la Francia non sarà un partner facile, ma si può temere che l’integrazione europea alla Macron non sia quel toccasana che ci si poteva aspettare.

La Gran Bretagna se ne va, i Paesi orientali ballano nel manico, quelli nord-europei si attestano su un concetto di Europa mercantilista, gli Stati mediterranei soffrono individualisticamente la loro debolezza, la Germania vuole spadroneggiare nonostante i sorrisi e le aperture di Angela Merkel, la Francia sembra prima di tutto puntare al rilancio della propria grandeur. Resta l’Italia con il cerino in mano: siamo rimasti solo noi a credere nell’Europa, ad accogliere gli immigrati senza troppi distinguo, a giocare a carte scoperte? Direi proprio di sì. Ci sottovalutiamo, abbiamo tanti problemi, ma come diceva il grande presidente Pertini, non siamo né primi né secondi a nessuno. Il nazionalismo non ci condiziona più di tanto, sappiamo aprirci ai problemi altrui, sul piano democratico non abbiamo tante lezioni da imparare.

Se vuoi essere aiutato non devi rivolgerti ai ricchi, ma ai poveri: è molto più probabile che ti ascoltino e ti diano una mano. La parte dei parenti poveri quindi non mi disturba, anzi. Le pacche sulle spalle invece mi danno fastidio: quasi tutti ci danno ragione. Come si dice in dialetto parmigiano: «La ragión la s’ dà ai cojón». Con una piccola precisazione: gli italiani non sono affatto coglioni. Lo sappiano tutti gli Europei e anche Macron, che sta provando a fare il furbo.

Le nuotate gossipare

Tra le tante cose “stravaganti” della mia vita ci sono le lezioni, meglio dire ripetizioni, che davo a un simpatico ragazzino, poco portato allo studio: era faticoso ficcargli in testa certe nozioni. Un giorno eravamo alle prese con la storia degli uomini primitivi e bisognava capire quale fosse stato il loro primo bisogno che cercavano di soddisfare: si trattava del bisogno di nutrirsi, di mangiare, di sopravvivere. Non c’era verso di cavargli di bocca questa deduzione molto elementare. Provai ad aiutarlo coi gesti: gli facevo gesti e movimenti che potessero evocare la ricerca di energia, di nutrimento, di forza. Mi guardava con aria dubbiosa, poi ad un certo punto, come improvvisamente illuminato, sparò la risposta: lo sport! Risi a crepapelle. Anche lui rideva, ma non troppo. Probabilmente si chiedeva cosa avesse detto di così ridicolo ed assurdo da suscitare la mia ilarità. Infatti, se da una parte poteva essere ed era una cavolata buttata a vanvera, dall’altra rappresentava una corrente e distorta mentalità: un bisogno secondario diventava l’incipit esistenziale assoluto. Lo sport che riempie la vita.

Nel periodo estivo, dal momento che il calcio giocato non esiste, considerato che automobilismo e motociclismo di sport non hanno la benché minima parvenza, ci si rifugia nel calcio mercato, nella compra-vendita pedatoria a suon di milioni, negli affari e negli ingaggi di giocatori e allenatori, nel tifo che si alimenta di sogni, nel precampionato affaristico. Si tratta di una stomachevole sarabanda, che dovrebbe convincere gli appassionati ad abbandonare ogni sentimentalismo, invece li nutre, li avvolge e li coinvolge.

Se Arturo Toscanini sosteneva che d’estate non si fa musica né al chiuso, perché fa caldo,   né all’aperto perché non se ne coglie la sostanza, si potrebbe sostenere che d’estate non si gioca al pallone ma si va a nuotare in acqua dolce o salata. E allora, “toscaninianamante” parlando, eccoci al ghiotto appuntamento con i campionati mondiali di nuoto alla ricerca di medaglie italiane fra bracciate, tuffi e sincronismi. A parte la penosa immagine robotica e muscolare che gli atleti danno di sé, la competizione c’è e rimane il fatto determinante. Fino ad un certo punto però. Fuori dalla piscina ecco il clamore per gli strabilianti risultati ottenuti, ecco le inutili chiacchiere di ritorno.

Federica Pellegrini con il suo oro nei 200 metri stile libero tiene il banco mediatico, i suoi colleghi Gabriele Detti e Gregorio Paltrinieri, con il loro oro e bronzo negli 800 metri stile libero, fanno fatica a bucare il video e la carta stampata. Differenza: la Pellegrini, senza nulla togliere alla sua lunga e splendida carriera sportiva, è un personaggio ammirato anche a livello di gossip, è una diva (può vantare un fascino ed un sex appeal che vanno ben al di là dei bordi delle piscine); gli altri sono semplici nuotatori che fanno la loro onesta fatica e non incantano nessuno. I titoli dei tg, dei giornali, delle news a tutti i livelli sono per Federica; Gabriele e Gregorio sono sì e no i suoi valletti. Così va il mondo, quello del pallone, del nuoto e financo della politica. Vale chi fa parlare di sé, non solo per l’oggettività del suo comportamento, ma per l’enfasi sulla soggettività della sua vita privata, che non dovrebbe interessare più di tanto. Forse è sempre stato così. Di Fausto Coppi si parlava molto più per le sue travagliate vicende sentimentali che per le sue storiche imprese ciclistiche. Di Gino Bartali si parlava meno, non perché fosse meno bravo, ma probabilmente perché aveva meno tiraggio gossiparo. In conclusione, complimenti a chi vince oro, argento e bronzo. Lo sport, nonostante tutto, in fondo in fondo resta un fenomeno positivo. Ma bisogna andare molto in fondo.

Andate a dar via le ferie

Nella mia ormai lunga vita non ho mai avuto l’ossessione delle ferie estive e, tanto meno, invernali. Però non sono mai stato nemmeno un patito del lavoro. Mio padre, con la sua saggezza, mi ha insegnato che nella vita c’è il tempo per lavorare, anche duramente, ma ci deve essere anche quello per riposare e divertirsi. A volte le circostanze mi hanno costretto a contenere al minimo il periodo di vacanza, talora non ho potuto allontanarmi dalla città al punto da abituarmi a tale modalità vacanziera. Tutto e sempre senza drammi e senza ansie e nervosismi, anche perché al rientro in ufficio mi ritrovavo una tale caterva di lavoro da smaltire al punto da sperperare, in mezzora di ripresa stressante, l’illusorio pieno di tranquillità accumulato e da ripromettermi quindi di non andare più in vacanza.

Ci vediamo dopo le ferie, ne parliamo dopo le vacanze, rinviamo tutto a settembre, riprendiamo il discorso dopo esserci riposati: tutte frasi che si sentono continuamente ripetere e che rappresentano solo l’alibi per giocare al rinvio dei problemi, i quali puntualmente si ripresenteranno ancor più difficili e induriti dalla pausa feriale.

La politica risente come non mai di questo clima pre-feriale, anche perché la pausa per i politici è piuttosto consistente, ma soprattutto perché è il pretesto per fuggire dalle realtà scomode. Prendiamo il Parlamento con una caterva di importanti e urgenti leggi in discussione: una per tutte, lo ius soli, la cittadinanza a chi vive da tempo in Italia (la giudico urgente per tante persone che aspettano con ansia e per tutti gli italiani che vogliano vivere in pace con loro stessi e con gli altri). Su questo provvedimento di civiltà si è strumentalmente   scaricato lo scontro sul problema dell’immigrazione: visioni diverse anche a livello governativo e di maggioranza parlamentare. Ebbene, si è trovata la soluzione: rinviamo tutto a settembre inoltrato, come se a quella data la serietà e la ragionevolezza diventassero più facili e gli accordi più semplici da raggiungere. Ma vale anche per altre questioni. Spesso il rinvio feriale diventerà rinvio alla prossima legislatura, per poi finire in un rinvio sine die.

Al rimpallo tra Camera e Senato si aggiunge quello tra periodo lavorativo (peraltro già piuttosto corto) e periodo feriale (peraltro piuttosto lungo). Possibile che di fronte agli enormi problemi che vive il nostro Paese, la classe politica non pensi di dare un segnale di maggiore impegno, rinunciando o contenendo al massimo le ferie o, almeno, smettendo di nascondersi dietro di esse per non assumersi con immediatezza le proprie responsabilità.

Non vorrei che i politici rientrassero nella categoria dei “procrastinatori”, fenomeno che gli scienziati osservano nel mondo occidentale, dove ci si rifugia nel rimando delle proprie responsabilità, preludio psicologico ad un comportamento sfuggente e omissivo.

Molto peggio sarebbe se la coscienza della classe dirigente impegnata nelle istituzioni democratiche si obnubilasse, per abitudine o per mancanza di etica, al punto da non sentire più alcun senso di colpa per le proprie manchevolezze. Certo, fatte le debite differenze, un chirurgo non può preoccuparsi troppo degli interventi operatori da eseguire, rischierebbe di impazzire, ma non deve nemmeno farsi prendere dalla mera routine o addirittura dalla cinica abitudine.

Si fa un gran parlare di riforma e taglio dei vitalizi (le pensioni dei parlamentari). Pur riconoscendo l’opportunità di rivedere severamente e rigorosamente questi trattamenti economici, paradossalmente preferirei non sforbiciare questi diritti (almeno nella parte che non è diventata assurdo privilegio), ma avere un maggiore impegno lavorativo e una maggiore produttività da parte dei parlamentari stessi. Ricordo al riguardo l’atteggiamento del presidente dell’associazione in cui lavoravo: durante le trattative per il rinnovo del contratto di lavoro non voleva parlare di diminuzione dell’orario. “Chiedetemi aumenti di stipendio, diceva, ma non chiedetemi di lavorare meno”. Aveva ragione.

L’Italia brucia negli incendi, ha scarsità di acqua, fatica a offrire lavoro soprattutto ai giovani, è martoriata dal dopo terremoti, è toccata nel vivo dal problema degli immigrati. In questo contesto risulta provocatorio e di pessimo gusto insistere sulle vacanze. Nel mese e mezzo di interruzione della vita politica si potrebbero fare tante cose urgenti, necessarie e utili. Il diritto al riposo di chi opera nelle istituzioni a servizio dei cittadini viene, a mio giudizio, dopo il diritto dei cittadini a trovare risposte concrete ai loro enormi problemi. Dico la verità: non so come possa un deputato fare tranquillamente vita da spiaggia, sapendo che nel Centro-Italia c’è gente che dorme e vive in situazione di estrema precarietà a parecchi mesi dai terremoti; come possa un parlamentare staccare la spina per parecchi giorni sapendo che c’è gente che rischia il posto di lavoro, gente che non lo trova affatto, gente che lavora vittima di uno sfruttamento vergognoso, gente che dorme sotto i ponti, gente che non ha di che vivere, gente che non riesce a campare dignitosamente, etc. etc.

Un caro amico a cui tempo fa avevo fatto un simile ragionamento mi rispose acutamente: «Se è per quello, i nazisti e anche altri personaggi, torturatori e massacratori, riuscivano e riescono tranquillamente a dormire la notte…». Forse sto esagerando, chiedo scusa ai politici, ma lo faccio (solo) per rendere l’idea. Qualcuno penserà che sia demagogia. Lo ammetto, un po’ è così. Ma basta con i rinvii, basta con i giochini, basta con le alchimie, basta con le faziosità, basta con le scappatoie. E basta parlare di ferie. Fatele queste ferie del cavolo. Chissà che al rientro non abbiate più energia e più buona volontà. Ho i miei dubbi.