Elezioni amministrative, tutto come da copione

Smaltita la stizza elettorale, fatte le opportune riflessioni sul significato e la portata del voto in sé, bisogna pur vedere cosa è successo nelle urne degli oltre mille comuni in cui si sono rinnovate le amministrazioni. A mio giudizio non è successo proprio niente di nuovo, anche se tutti si sono precipitati a cogliere le più svariate novità.

La debacle grillina era annunciata: già nella tornata amministrativa dello scorso anno il M5S aveva perso moltissimi consensi, anche se il dato era stato camuffato con l’inopinato successo a Roma e Torino. Virginia Raggi non poteva che vincere visto il casino amministrativo combinato in parte dalle amministrazioni di sinistra, ma soprattutto da quella del sindaco Alemanno, un’autentica sciagura facilitata persino dai rigurgiti destrorsi della Chiesa cattolica in vena di riconquistare Roma, che non ha mai cessato di essere papalina e fascista. Chiara Appendino aveva vinto non per suoi meriti e ancor meno per quelli del suo movimento, ma per i demeriti burocratici e ingessanti di una sinistra che scambia pragmatismo con burocratismo, solidarietà con ideologia e che alla fine si dimostra capace solo di innervosire le menti raffreddando i cuori. Il trend dei grillini in caduta libera è continuato, avvalorato oltretutto dai flop romani della Raggi e dal gelido continuismo dell’Appendino.

È normale che un movimento, antipolitico, protestatario, liquido, contestatore ante litteram, non riesca ad esprimere uno straccio di classe dirigente periferica credibile. Non è certo colpa del pur manovriero e politicante Luigi di Maio, non è questione di scontro fra ortodossi e innovatori, fra vecchia guardia idealista e nuova leva pragmatista, tra fedeli osservanti e polemici contestatori: il M5S è Grillo, tutto ruota intorno a lui, che vince e perde di conseguenza. Fin tanto che si può sbraitare in Parlamento, il consenso può anche arrivare, le carenze e i contrasti vengono coperti dalla (finta) ribellione al sistema, ma quando i problemi si fanno concreti e precisi lo sbraitare irrita, non porta voti e scopre tutta l’inadeguatezza delle proposte e di chi le esprime.

Il secondo dato scontato emergente è quello della presa elettorale del centro-sinistra e del centro-destra, se si presentano facendo il loro mestiere con un minimo di reciproca compattezza: non ci vogliono schiere di pennivendoli o eserciti di opinionisti per scoprire l’acqua calda della politica. Gira e rigira, il vero punto di differenziazione e di competizione sta nel come vengono coniugati i due elementi fondanti della nostra democrazia: libertà e uguaglianza. Se vogliamo non chiamiamole più destra e sinistra, liberalismo e socialismo, conservatorismo e riformismo. Senza ricadere nell’ideologismo datato (a sinistra può chiamarsi operaismo di ritorno; a destra nazionalismo di rimbalzo), scegliendo l’obbligato solco del pragmatismo e della soluzione flessibile ed ottimista (vedi la lucida analisi di Daniel Cohn-Bendit in ordine al nascente macronismo francese), si dovrebbero confrontare due visioni diverse: l’elettore ne è alla ricerca e appena le intravede si schiera volentieri. La conseguenza è la perdita di presa del populismo, inteso proprio come risposta solo virtuale ai problemi essenziali.

In questo senso suonano patetiche le rivendicazioni oltranzistiche della Lega e di Mdp: a detta dei primi si vince aprendo il bar della destra, a giudizio dei secondi si vince riaprendo le cellule della sinistra.   Gli elettori cercano altre cose, ma si vogliono loro imporre schemi vecchi. Se proprio vogliamo andare a discutere di politica al bar o in cellula, allora tanto vale seguire Beppe Grillo che, in certi metodi e atteggiamenti assomiglia molto all’uomo qualunque e/o al   comunista trinariciuto: la soddisfazione di mandare tutti affanculo non è mai più pagata.

 

 

Le elezioni non sono sempre lezioni…di democrazia

Forse, chi ha lottato fino a dare il sangue per conquistarci il diritto di voto, non sarebbe entusiasta di questa sarabanda elettorale italiana ed europea in cui si rischia di non raccapezzarsi più. Quando non si vota si parla della necessità o meno di votare, quando si è votato, se non si comincia subito a chiedere di rivotare, ci si sbizzarrisce sul significato da dare al voto, in quanto si vota su situazioni poco chiare e il dopo-voto ne risente inevitabilmente assegnando agli eletti compiti al limite dell’impossibile. Sembra uno scioglilingua.

Più si vota e più ai cittadini scappa la voglia di votare, stiamo vivendo una vera e propria inflazione elettorale, che paradossalmente svaluta la politica e svuota la democrazia. In Francia il tutto si moltiplica per due (primo e secondo turno elettorale, in due mesi si vota ben quattro volte), in Inghilterra si è voluto anticipare la tornata e la confusione è aumentata di brutto,   in Italia dopo il referendum sulle riforme costituzionali (consultazione molto discutibile nella sua opportunità e nel suo significato) non si è fatto altro che parlare di elezioni anticipate (non si sa ancora se ci si arriverà o meno) e finalmente siamo arrivati alle parziali elezioni amministrative.

La prima riflessione riguarda appunto questo sbornia elettorale da cui si esce frastornati e smarriti: ogni consultazione sembra dare indicazioni politiche puntualmente smentite dalla successiva; quando i partiti tradizionali sembrano spacciati, rialzano immediatamente la testa; quando i populisti sembrano imperversare, cadono miseramente in basso; quando il leader sembrano prendere in mano la situazione, è la volta che scivolano e vanno a sbattere. Una confusione pazzesca, cavalcata dai media, sfruttata dai commentatori, strumentalizzata dai guastatori, subita dagli elettori.

La destra barcolla tra estremismo e centrismo, la sinistra vacilla tra pragmatismo e ideologismo, l’antipolitica oscilla tra civismo e disfattismo, la partecipazione cerca disperatamente la scorciatoia del web, ma si ritrova con un pugno di mosche in mano, tutti a parole rifiutano il populismo ma ci cascano più o meno regolarmente.

La seconda riflessione è che rischiamo un overdose di elezioni con la quale mettiamo a repentaglio la democrazia sostanziale. Prendiamo il piccolo caso di Parma: cos’ha votato la gente? Chi ha avuto il coraggio di recarsi alle urne (io sinceramente non me la sono sentita) si è trovato di fronte ad una competizione fasulla e di basso profilo. Ne è uscito uno scontro sbiadito con una astensione record. Se andiamo avanti così, c’è di che preoccuparsi seriamente. Chi ha vinto, chi ha perso? Ho il fondato timore che stiamo perdendo tutti!

Non ricordo l’autorevole fonte, ma ho presente come un grande pensatore sostenesse che la democrazia comincia il giorno successivo alle elezioni. Mai come in questo momento storico penso avesse ragione. Teniamone conto, abbandoniamo le smanie elettoralistiche e le spinte antielettoralistiche: sono le solite diatribe fuorvianti e squalificanti. Pensiamo, ragioniamo, discutiamo, valutiamo. Non tanto sui dati elettorali, ma sui problemi. Ricordiamo che l‘abuso del voto può portare al vuoto democratico: della serie chi troppo vota nulla stringe.

Mai dire May

Quando si è in viaggio e, pensando di conoscere troppo bene la strada, ci si distrae, è facile perdere l’orientamento ed allora diventa estremamente problematico ritrovare il giusto percorso, anzi spesso non ci si salta più fuori, al punto da dover ritornare indietro per fare un minimo di chiarezza e riprendere correttamente il cammino.

Mi sembra che la metafora si attagli abbastanza bene alla Gran Bretagna. Gli Inglesi, nella loro storica e (in)giustificata presunzione, sono stati talmente sicuri del fatto loro da permettersi una solenne distrazione, che li ha portati fuori dall’Europa. Giorno dopo giorno si stanno rendendo conto di avere smarrito la strada per eccesso di sicurezza, e allora stanno letteralmente annaspando alla ricerca di una via alternativa anche perché quella principale è loro preclusa: sono finiti in una carraia dove rischiano di sporcarsi le scarpe e allora sono tentati di tenere i piedi in due paia di calzature; tentano disperatamente di non perdere completamente l’orientamento, di seguire in lontananza la strada maestra e   vorrebbero una via d’uscita morbida che li tenga comunque in zona senza allontanarli troppo; sono in confusione e non sanno bene a chi rivolgersi: sembrava che qualcuno avesse trovato la scorciatoia giusta, ma si sono accorti che non funzionava e allora sono tornati indietro, ma non troppo e quindi sono ancor più incerti di prima sul da farsi. L’eroico coraggio di tornare indietro del tutto non l’hanno e, forse, non lo possono avere, perché in Europa non c’è un padre misericordioso disposto ad accoglierli nonostante tutto, ma tanti primogeniti pronti ad occupare il posto lasciato libero e orientati comunque a far pagare assai cara la fuga da casa. Dovranno girovagare diverso tempo, per ritrovare l’orientamento e probabilmente ripiegare su un altro viaggio con tutte le incognite del caso.

Si stanno rivolgendo alle due più quotate agenzie di viaggi: una sembrava sicura del fatto suo, ma alla prova dei fatti si è rivelata inattendibile e confusionaria; l’altra, che pareva sull’orlo del fallimento, invece ha ripreso in mano la bussola, ha ridato qualche speranza, ma non al punto da conquistare totale fiducia nella capacità di uscire dal labirinto. Gli Inglesi sono ancora in alto mare: possono contare su una nave istituzionale storicamente collaudata, su una notevole esperienza di navigazione, su una stiva zeppa di ogni ben di Dio, hanno una moneta che dovrebbe loro consentire di comprare tutto il necessario, eppure sono in grave difficoltà.

Comincia a tirare aria di ammutinamento; l’equipaggio mette in discussione il capitano, ma non ne trova uno migliore; l’armatore (armatrice) non conta niente e si limita a leggere i dispacci che gli (le) passa il capitano; i viaggiatori discutono, litigano, si pentono, si scambiano pesanti accuse, ma non ci saltano fuori.   «Dove ci state portando? Ci avevate detto che la rotta era facile da tenere! Non è così! E adesso? Forse non ci resta che tornare indietro, facendo una gran brutta figura, sempre meglio che insistere sulla via sbagliata». Si alzano le voci dei membri più autorevoli dell’equipaggio: «Non torneremo May indietro…». La quasi maggioranza dei viaggiatori, comprendente soprattutto i più giovani, grida con voce stentorea: «Mai dire May!!!». Ben detto.

 

 

Non basta dire basta

Gli attentati terroristici in Gran Bretagna mettono in evidenza, ancora una volta, come le forze di polizia non siano in grado di controllare, prevenire e bloccare i responsabili di tali fatti, pur essendo questi squallidi figuri noti per la loro appartenenza a gruppi in odore di islamismo radicale e di simpatie Isis. Ormai si scopre quasi sempre come a monte della scia di sangue ci stia la trascuratezza di chi dovrebbe essere impegnato nella lotta al terrorismo a livello di intelligence. Sono anni che si sentono proclami a favore dell’antiterrorismo, non in senso militare, non con il ridimensionamento dei diritti civili, non tramite leggi speciali che tocchino i principi di democrazia, ma attraverso concordate ed avvolgenti azioni poliziesche. Giusto, ma piuttosto teorico.

Sono perfettamente consapevole delle difficoltà: si tratta probabilmente di cercare l’ago nel pagliaio, ma anche quando l’ago lo si conosce per tempo e lo si potrebbe individuare e seguire, lo si lascia nel pagliaio. Troppi e impossibili da controllare i soggetti pericolosi. Insufficiente il numero di uomini a disposizioni delle forze di sicurezza. Scarsa la collaborazione fra le polizie dei diversi Stati. Troppi, dispersi e diversificati i punti da difendere. Probabilmente si faranno graduatorie di rischio, regolarmente smentite dai fatti, anche se bisogna onestamente considerare i tanti episodi scongiurati sicuramente taciuti per non creare inutili allarmismi, facili entusiasmi e intralci alle indagini.

Credo che al recente G7 se ne sia parlato, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il camaleontico e smisurato mare terroristico. Qualcuno parte con le solite strumentalizzazioni politiche: chi vuole cominciare a fare la voce grossa (Theresa May, come se gridare al lupo bastasse); chi vuole criminalizzare gli immigrati considerandoli il brodo di coltura del terrorismo islamico (come se non fosse la solita anticamera storica del razzismo); chi vuole trasferire la patata bollente sui Paesi di matrice islamica, mettendoli l’un contro l’altro per far esplodere le loro contraddittorie e paranoiche strategie (come se non si trattasse dei ladri di Pisa, che litigano di giorno per le loro finte diatribe religiose, ma di notte trovano regolarmente nell’Occidente il comune amico/nemico contro cui combattere o con cui allearsi). Il recente corto circuito tra Qatar da una parte e tutti i Paesi arabi sunniti dall’altra non deve illudere: queste divisioni, peraltro motivate da false ragioni di carattere etico-religioso (sostegno ai terroristi), di carattere tattico (rapporti con lo sciita Iran), di carattere mediatico (la televisione Al Jazeera), non devono spingere l’Occidente a schierarsi, come ha fatto scriteriatamente Donald Trump a cui il giorno dopo è esplosa in mano la bomba con cui voleva impressionare il mondo islamico. Lo hanno preso in parola, gli hanno soffiato da sotto il naso il Qatar e hanno pensato bene di appoggiare la destabilizzazione terroristica dell’Iran.

Ho la netta impressione che l’Isis altro non sia che lo sporco avamposto dietro cui i Paesi arabi si “divertono” a ricattare il mondo occidentale (Israele in primis), peraltro ricattabile (nei suoi irrinunciabili interessi economici) e tutt’altro che esente da colpe storiche passate e recenti (dal colonialismo agli interventi militari di pura ostentazione di potenza): basti pensare a come Russia e Stati Uniti si sono giocati “a monopoli” i Talebani. Se non fosse così l’Isis sarebbe già stata cancellata dalla faccia della terra.

Lo scacchiere internazionale è molto complesso: mancava solo Trump per incasinare ulteriormente il quadro e renderlo ancor più esplosivo. Una cosa è certa: l’Occidente non riesce a trovare una strategia coerente e condivisa. Non si rassegna a trovare le risorse per aiutare politicamente ed economicamente i Paesi da cui provengono le schiere di disperati. Non ha il coraggio di rinunciare ai propri sporchi interessi evitando di soffiare sul fuoco o di strumentalizzare le parti in “commedia”. Non ha la pazienza e la capacità di integrare gli immigrati di religione musulmana togliendoli definitivamente dalle chimere terroristiche. Non ha la forza e l’abilità di difendersi a livello di intelligence nella lotta al terrorismo periferico (quello che noi vediamo, mentre fingiamo di non vedere quello assai più cruento che affligge gli Stati più o meno islamici). Sono partito di qui e qui ritorno, dopo avere divagato, ma non vaneggiato.

 

 

 

 

 

La coscienza e il seggiolino intelligente

È molto difficile capire fin dove la paradossale, drammatica e sconvolgente dimenticanza di un figlio-bambino per ore su un auto, al punto da provocarne la morte da soffocamento, sia ascrivibile alla colpevole e incredibile leggerezza umana di un genitore oppure all’inumana, sistemica e stressante routine cui siamo sottoposti.

Non voglio sovrapporre facili reprimende al dramma umano di persone segnate per tutta la vita da questi episodi sconfortanti ed allarmanti: posso immaginare il rimorso che li accompagnerà per tutta la vita e che spero possa essere alleviato dalla solidarietà di persone amiche.

Mi pongo invece una domanda molto scomoda e profonda: se la nostra società è impostata in modo tale da comportare   simili drammi, vuol dire che abbiamo sbagliato quasi tutto. Se è così, siamo tutti complici di un sistema sbagliato e malato, dove non esistono scale di priorità, dove le persone diventano inevitabilmente cose, dove il lavoro costituisce una tortura che ci abbruttisce, dove la famiglia è un peso troppo grande da sopportare, dove i figli sono pacchi postali da collocare, dove il tempo ci stringe in una morsa asfissiante, dove si perde non solo la memoria del passato ma anche quella del presente, dove ci aggiriamo come ingombranti e freddi fantasmi.

Non saprei da dove cominciare per cambiare il nostro modo di vivere, certo bisogna cambiare. Sì, anche perché i disastri si moltiplicano e si susseguono a catena: una valanga che rischia di sommergerci tutti.

Non credo alle solite dotte analisi scientifiche che tentano di spiegare l’inspiegabile. Tanto meno mi illudo che bastino un dispositivo d’allarme innestato su un seggiolino e una   leggina che lo renda obbligatorio a liberarci dall’incubo. Cerchiamo di essere seri. Tutto serve, ma non prendiamoci in giro. Noi vogliamo sempre risolvere i problemi a valle, quando è tardi. Muoiono migliaia di giovani al rientro notturno dalle discoteche? Chiudiamole prima! Gli stadi sono diventati arene di combattimento fra tifosi? Mettiamo una tessera all’ingresso per controllare! Migliaia di persone sono vittime del gioco d’azzardo? Eliminiamo le slot machines e i gratta e vinci!

Mio padre aveva un approccio piuttosto originale e scettico verso il gioco d’azzardo. Lo aborriva al punto da ingaggiare una vera e propria lotta contro di esso allorquando si accorse che un suo carissimo nipote era caduto in questo devastante gorgo. Lo raggiunse in piena bisca clandestina, lo trascinò via, lo rimproverò mettendo in gioco tutto il proprio carisma parentale e la propria autorevolezza etica, riuscì nel miracolo ben spalleggiato da mia madre: a questo simpatico, buono e carissimo nipote avevano fatto da tutori. Lo scetticismo però non mancava mai e quindi, quando sentiva demonizzare il gioco del poker, diceva: «As pól zugär a sòld anca con la bríscola…basta mettrogh su dez mila franc a sign…». Quanto poi alle disastrose conseguenze sul portafoglio dei giocatori era solito riflettere a bassa voce: «A zugär i van in arvén’na… e va bén… mo ag sarà pur anca col ca vènsa…».

Mio padre voleva dire, col suo innato scetticismo ed il suo esperienziale disincanto, che il male va tagliato alla radice e anche, possibilmente, all’inizio. Torniamo quindi a bomba. Dimentichiamo i figli nelle nostre automobili? Inseriamo un meccanismo che ci tenga allertato il cervello! A nessuno viene il dubbio che il male sia molto più profondo? A me sì! E mi sento in colpa, come singolo e come società. Diamoci una regolata, perché il tempo è scaduto e la strage degli innocenti imperversa.   Al momento non sono in grado di aggiungere altro.

Gli autogol degli ex

Quando vedo la fine politica e culturale dei berlusconiani pentiti, mi tocca paradossalmente   rivalutare il nano di Arcore. Guardiamo Gianfranco Fini ridotto all’insignificanza politica e alla gogna giudiziaria; osserviamo Angelino Alfano abbarbicato alle sue poltrone ed alla sua manciata di voti; e che dire di Pierferdinando Casini, il forlaniano riciclato in fretta e furia, di Gaetano Quagliariello, quello che ci voleva insegnare come e quando morire, di Fabrizio Cicchitto, a suo tempo un socialista duro e puro, di Formigoni, il celeste e casto ciellino prestato alla laicità dell’affarismo politico, di Gabriele Albertini, il milanese sindaco perbenista sbarcato in Parlamento, di Maurizio Lupi, il bravo ragazzo incappato per caso nelle grinfie della magistratura. Poi ci sono i Verdini (il piccolo-grande manovratore), i Fitto (l’uomo delle primarie), i Bondi (il poeta maledetto), i Tremonti (l’economista con gli stivali)…

Vorrei spendere però una parola su Alfano, al centro del circo elettorale che si sta preparando. Matteo Renzi con la debordante loquacità, la spregiudicata verve e l’insopportabile protagonismo che lo caratterizzano, gli ha fatto una istantanea perfetta: dopo tutte le seggiole ministeriali che ha ingombrato (lui e i suoi), teme di non raggiungere il 5% dei consensi a livello elettorale… Non si tratta così un alleato di governo! Ma non si può nemmeno correre dietro a questi insulsi personaggi in cerca di voti, che si difendono con tardive sputtanate (storie di tentati accordi segreti) alla “muoia Renzi con tutti i renziani”.

Ora la sparo grossa in senso paradossale e provocatorio. Meno male che ci sono tre personaggi, Renzi, Berlusconi e Grillo, che, bene o male, coagulano la politica italiana: dietro, davanti, sotto, sopra di loro non c’è nessun personaggio che li possa sostituire o seriamente condizionare.

Fuori dal PD (gli articolo 1 Mdp) abbiamo la ridicola visione speranzosa del futuro, l’ossessionante retaggio dell’antistorico passato dalemiano, il sussiegoso e burocratico richiamo della foresta bersaniana; con un piede dentro e uno fuori gli orlandiani sempre più furiosi, gli emiliani (seguaci di Emiliano) che sputano veleno programmatico; poi abbiamo i notabili corteggiati, gli antipapa riottosi, velenosi e vogliosi, mi riferisco a Romano Prodi ed Enrico Letta, che fanno gli schizzinosi ma muoiono dalla voglia di tornare in sella (persino Veltroni e Napolitano stanno giocando al sinistrismo di ritorno); gli innumerevoli cespugli più o meno rinsecchiti, penso ai Fassina, ai Civati, ai Fratoianni, ai Vendola, dei quali ho perso le tracce; buon ultimo Giuliano Pisapia, il personaggio pulito al quale vorrebbero assegnare il lavoro sporco (lui si comporta come quelle ragazze che prima o poi dovranno pur decidere con chi sposarsi pena restare zitelle).

Ed eccoci ai grillini. Lì dentro c’è un casino pazzesco, che rimane sotto traccia ed esplode alla prima occasione. Al centro ed in periferia si osa pungere Grillo, alzare la testa, ma le fronde stanno in poco posto, comanda Beppe che fa e disfa, gli altri la bevono da bótte. In parecchi sono usciti dal movimento condannandosi all’irrilevanza. In questo senso sarà interessante valutare in tutti i sensi l’esito politico ed elettorale della candidatura di Federico Pizzarotti a Parma. Quindi ci sono i rampanti che fanno rabbia e tenerezza, i talebani del cavolo, che fanno ridere, i pentiti, che fanno piangere. Ce lo vedete Roberto Fico al posto di Beppe Grillo? Il capo li lascia sfogare e poi, quando è il momento, dà loro la smerdata (anti) democratica e tutto finisce lì. Sulla legge elettorale questo equilibrio di potere all’interno del movimento sembra essersi incrinato: non ho capito se sia in atto una levata di scudi dei colonnelli contro i generali o se i generali manovrino a loro piacimento i colonnelli. Una cosa è certa: non si capisce dove Grillo voglia parare. Un giorno così, un giorno cosà. Un giorno decidono gli iscritti, l’altro decide il capo. Secondo me decide sempre il capo con le sceneggiate ad hoc. Per i cinque stelle, tanto, il consenso è tale a prescindere, quindi se lo possono permettere. Fino a quando?

Questo è il   tanto temuto e criticato tripartitismo imperfetto all’italiana, ma forse il casino totale, senza il filtro degli ingombranti leader, come ho pittorescamente e indirettamente ipotizzato (s)parlando di politica , sarebbe molto peggio. Certo quando la politica italiana poteva contare su leader del calibro di De Gasperi, Togliatti e Nenni oppure Moro, Berlinguer e Craxi, le cose andavano un po’ meglio. Poi è stata una lenta inesorabile discesa che non si è ancora arrestata. Qualcuno rifiuta il leaderismo considerandolo una prevaricazione populista della politica autenticamente democratica. Non sono d’accordo: ritengo sia meglio avere un cattivo leader che esserne sprovvisti, almeno si sa con chi prendersela.

Un po’ ho scherzato, un po’ ho parlato seriamente. Arrivo ad una sconclusionata conclusione: se nel calcio si deve avere paura della “vendetta” degli ex, in politica gli ex non combinano niente e si limitano a disturbare: sono fuori dalla porta e ci rimangono, nonostante le velleità conclamate e le seconde intenzioni malcelate.

I notabili e gli emeriti

Il vocabolario definisce “emerito” chi non esercita più un ufficio, ma ne conserva, onorificamente o con limitate attribuzioni, il grado. “Notabile” è persona importante, autorevole, maggiorente. In politica il termine “emerito” assume, in senso estensivo, il significato di persona insigne, famosa anche se a volte in chiave prevalentemente ironica. Nella vita politica il “notabile” è un pezzo grosso decaduto che vuole a tutti i costi e nostalgicamente contare ancora qualcosa.

Parto dalla contrapposizione fra queste due figure, l’emerito e il notabile, non per gusto filologico o lessicale, ma per criticare l’atteggiamento di alcuni personaggi, che sembrano aver abbandonato la scena della politica, mentre invece la vogliono calcare di sponda. Legittimo, ma, a mio giudizio, inopportuno. Mi riferisco a Enrico Letta, Romano Prodi e Giorgio Napolitano.

Dei primi due è noto il malcelato dente avvelenato per il trattamento loro riservato dal Partito Democratico: Letta sfrattato in tutta fretta da una Presidenza del Consiglio vissuta peraltro in modo problematico, flemmatico e inefficace; Prodi bruciato quale frettoloso candidato alla Presidenza della Repubblica in un passaggio opaco, che sfociò nella conferma di Napolitano quale scelta liberante rispetto ad una assai poco dignitosa impasse politico-parlamentare. Di questi due personaggi quindi non mi stupisce più di tanto la immancabile ed acida critica verso il PD renziano e tutto quanto   ad esso è riconducibile (ultime la legge elettorale e la prospettiva di elezioni politiche anticipate).

Francamente invece mi sorprende l’atteggiamento sciorinato con eccessiva virulenza da Giorgio Napolitano contro la legge elettorale in gestazione, ridotta a mera scelta di convenienza dei quattro leader, i quali getterebbero altresì il nostro Paese nell’instabilità portandolo al voto anticipato e dando quindi il massimo contributo negativo al consolidamento della credibilità politico-istituzionale dell’Italia.

Mi sento di fare tre riflessioni al riguardo, due di merito, una di metodo. La prima riguarda la scelta del sistema proporzionale a livello di legge elettorale. Si è sempre detto che bisognava arrivare a una legge il più condivisa possibile e, quando ci si arriva con un compromesso tra i quattro maggiori partiti, l’accordo diventa un inaccettabile inciucio ed il sistema proporzionale un attentato alla governabilità e alla rappresentatività. Vorrei capire la differenza sostanziale per il cittadino tra scegliere di votare per un candidato di collegio scelto dai partiti (meccanismo maggioritario) e un candidato di lista (meccanismo proporzionale) altrettanto stilata dai partiti senza possibilità di esprimere preferenze (le tanto vituperate e preferenze, un tempo considerate strumento di cattura del consenso a livello affaristico e pseudo-mafioso). Mi sembra che in questi mesi siano stati escogitati tutti i sistemi elettorali possibili ed immaginabili: nessuno trovava quella larga maggioranza parlamentare che sembra profilarsi sul cosiddetto sistema alla tedesca. Quanto al pluri-matrimonio di convenienza, la politica è fatta di compromessi dettati da convenienze e interessi diversi, talora contrapposti. Quindi niente di nuovo sotto il sole…

Veniamo alle probabili elezioni anticipate. Votare sei mesi prima superando e chiarendo una situazione politica confusa e precaria non mi pare un delitto di lesa stabilità democratica. Così come non credo che in coda alla legislatura non ci sia veleno ma possa esserci un balsamo legislativo per il Paese. Sul fatto poi che le elezioni possano sfociare in una situazione politica frazionata, sappiamo che (purtroppo) è già così e sarebbe così anche fra sei mesi, durante i quali il quadro politico tenderebbe a guastarsi ulteriormente piuttosto che a ricomporsi sia a sinistra, sia a destra, sia al centro. Saranno necessarie alleanze. Cosa c’è di strano? Succede o può succedere ovunque e non è detto che sia un male: l’importante è che si facciano nella chiarezza e nella concretezza. Prima o dopo le elezioni? Sarebbe meglio prima, ma potrebbe essere impossibile e/o non bastare e quindi…

Ultima riflessione. Giorgio Napolitano ha tutto il diritto di esprimere le sue opinioni politiche. Sono finiti fortunatamente i tempi in cui si irrideva al voto di fiducia al governo da parte dei senatori a vita, ritenendoli parlamentari onorifici e di pura tappezzeria. Tuttavia mi pare che questi suoi interventi in frangenti così delicati, che oltretutto vedono in primo piano il ruolo istituzionale dell’attuale Presidente della Repubblica, potrebbero essere un tantino più discreti e controllati.   Sembra quasi che Napolitano voglia indirettamente parlare nella mano di Mattarella e non è certamente bello. Si guardi al comportamento del papa emerito Ratzinger: si è chiamato fuori e ha risposto picche a chi voleva tirarlo per la tonaca. Non è proprio lo stesso discorso, ma una maggiore prudenza istituzionale e una più equilibrata partecipazione al dibattito politico gioverebbero al pur grande personaggio Napolitano.

Letta e Prodi non sono emeriti né di nome né di fatto, sono chiaramente dei notabili. Napolitano rischia di essere emerito solo di nome e notabile di fatto. Sarebbe un vero peccato per lui, per l’intero Paese e anche per la sinistra che non ha bisogno di richiami nervosi o di messaggi leziosi, ma di contributi concreti.

Dignità a prova di mafia

Non si possono buttare i pronunciamenti della Corte di Cassazione in pasto all’antimafia, alla politica, ai parenti delle vittime, agli esperti del fenomeno mafioso, ai giornalisti. Viviamo o no in uno Stato di diritto? Ci sono o no delle regole, delle leggi da rispettare e applicare? Siamo o no tutti uguali di fronte alla legge?

La sentenza di Cassazione a cui mi riferisco è quella che ha rinviato al tribunale di sorveglianza, per difetto di motivazione,   il diniego del differimento della pena o degli arresti domiciliari per gravi motivi di salute nei confronti di Salvatore Riina detenuto a Parma in regime di 41 bis. Ne ho sentite e lette di tutti i colori. Al termine credo di avere capito che la Suprema Corte abbia fatto un ragionamento giuridico e si sia chiesta: lo stato di detenzione comporta per Riina una sofferenza ed un’afflizione di tale intensità da andare oltre la legittime esecuzione di una pena? Per poi aggiungere: il diritto ad una morte dignitosa non può essere negato a nessuno, anche al più bestiale dei criminali!

Il tribunale di sorveglianza dovrà tornare su questa materia e sinceramente non invidio i giudici che dovranno decidere al riguardo. Dovranno partire dallo stato di malattia del carcerato: è tale da essere incompatibile con la detenzione, peraltro in un regime particolarmente duro? La malattia è tale da scongiurare ogni e qualsiasi possibilità di reiterare delitti o comportamenti mafiosi?

Ricordiamo la scena dei Promessi Sposi, quando Fra Cristoforo conduce Renzo a vedere don Rodrigo che sta morendo di peste, spegnendone le velleità vendicative contro l’uomo che lo aveva direttamente o indirettamente perseguitato. Prendiamone il significato laico. Non si tratta infatti (solo) di perdono cristiano, nel caso di Riina si tratta del suo paradossale, ma reale, diritto a morire dignitosamente, a chiudere i suoi giorni terreni in una dimora adeguata al suo stato di salute. Gli altri argomenti sono comprensibili ma devianti: il male che lui ha fatto non deve rilevare; i precedenti trattamenti riservati ad altri detenuti, vuoi di manica larga o stretta, non devono fare testo; il pensiero delle vittime, in questo caso, non ci deve condizionare. La giustizia non è vendetta, non è gogna, non è annientamento della persona colpevole, è equa applicazione della legge. Punto e stop.

C’è un uomo e c’è un giudice che deve decidere se sia nelle condizioni di rimanere in carcere o no, nel rispetto dei diritti costituzionali garantiti a tutte le persone. Lasciamo che il giudice faccia con coscienza il proprio mestiere, non abbiamo alcun diritto di parlargli nella mano. Lasciamo che un ergastolano sconti la sua pena fin dove è possibile scontarla e, persino se lo giudichiamo irrecuperabile, lo dobbiamo considerare un soggetto titolare di certi diritti imprescindibili.

Don Luigi Ciotti ha lanciato un appello: «C’è un diritto del singolo, che va salvaguardato. Ma anche una più ampia logica di giustizia che non possiamo dimenticare». Mi permetto di non essere d’accordo. A mio giudizio vale solo la prima parte del suo discorso. La logica di giustizia non può essere in contrasto con il diritto del singolo. Guai se fosse così, non vivremmo in uno Stato di diritto.

La presidente della commissione antimafia Rosi Bindi dice: «Riina in carcere è curato. Non è necessario trasferirlo. Bisogna scongiurare il rischio di trasformare la sua casa in un santuario». Rosi Bindi non è giudice di Cassazione e soprattutto non può misconoscere un diritto in base ad un fantomatico pericolo sociale. Lo dicevo all’inizio e lo ripeto: lasciamo in pace i giudici, facciamo silenzio. Preferisco un giudice che sbaglia facendosi guidare dalla legge e dalla propria coscienza ad un giudice che si piega alla ragion di Stato.

L’inversione dei fattori rovina il prodotto Rai

La nostra epoca si caratterizza, a livello politico, sociale ed economico, per le grandi riforme mancate. Si fa un gran parlare di riforme costituzionali, poi, quando si arriva al dunque, si preferisce lasciare le cose come stanno; la riforma della pubblica amministrazione cozza regolarmente contro le incrostazioni burocratiche e corporative; quella della scuola finisce normalmente nelle proteste di piazza; quella del mercato del lavoro sbatte contro la radicalità sindacale; quella della giustizia non riesce a vincere la pregiudiziale ostilità al cambiamento visto come attentato all’indipendenza della magistratura. La politica è indubbiamente pasticciona, incoerente, inconcludente, ma la società chiede il cambiamento salvo chiudersi a riccio quando le novità si profilano all’orizzonte. Scattano il benaltrismo, il maanchismo, il qualunquismo, l’egoismo, il corporativismo, etc. etc.

La Rai rientra in questo contesto di riforme mancate: tutti chiedono profondi cambiamenti nel servizio pubblico radiotelevisivo, ma al primo tentativo saltano le teste e si ritorna daccapo. Le recenti dimissioni del direttore generale Campo Dall’Orto (quasi amministratore delegato) stanno a significare la sostanziale intoccabilità del pachiderma o del carrozzone ( a seconda dei punti di vista). Volendo giocare con l’invitante cognome del dirigente costretto al frettoloso ritiro, si potrebbe dire: chi vuole operare in “Campo” aperto è condizionato fortemente “Dall’Orto” degli interessi consolidati.

Forse sarebbe molto meglio rinunciare agli straordinari disegni riformatori e ripiegare sul miglioramento dell’ordinaria gestione: partire dal basso, dalle piccole e grandi riforme concrete del quotidiano. Vale per la Rai e per tutte le istituzioni. Ma restiamo alla Rai. Non vivo incollato al video, seguo soprattutto l’informazione televisiva che ritengo sia la principale funzione di questo servizio pubblico. Ebbene se ne vedono e sentono di tutti i colori: microfoni regolarmente off line, collegamenti gestiti alla viva il parroco, conduttori e conduttrici con accento smaccatamente dialettale e che non sanno parlare correttamente italiano, traduttori simultanei clamorosamente inadeguati, giornalisti sopranumerari e privi di capacità critica, commentatori ridotti a tifosi di partiti e squadre di calcio, intervistatori piatti e insulsi, inviati speciali che di speciale non hanno nulla, etc. etc.

In poche parole qualità scadente a livello giornalistico: molti e poco buoni. Prima di decidere se fare tre, quattro o cinque telegiornali, anziché perdersi in alchimie informatiche, invece di preoccuparsi della concorrenza, si punti a (ri)qualificare chi lavora nell’informazione Rai: qualche corso linguistico, qualche esame preventivo, qualche selezione accurata. Spesso si ha la sensazione che si dia il microfono in mano al primo che passa o forse a chi è più raccomandato o forse a chi è più … (lasciamo perdere…).

È possibile che per un evento sportivo occorrano folte schiere di enfatici commentatori del nulla? Nicolò Carosio, padre di tutti i telecronisti, con i suoi “quasi gol” bastava e avanzava per creare l’atmosfera giusta intorno all’evento sportivo. Adesso invece…

Sergio Zavoli (un mio indimenticabile insegnante lo considerava il “dio” della televisione) alle prese con la storica alluvione di Firenze, fece una cosa molto semplice per spiegare e rendere l’idea di quanto stava succedendo: aprì finestra e microfono sulla strada ridotta a fiume. Era tutto il dramma di una città. Oggi fiumi di parole e la realtà non emerge.

Mi accontenterei che chi tiene in mano il microfono sapesse parlare e avesse mente e cuore per esprimere e trasmettere qualcosa. I consigli di amministrazione, i presidenti, i direttori, i budget, i bilanci, le commissioni di vigilanza dovrebbero venire prima, ma in verità vengono dopo. La politica inverte l’ordine dei fattori e purtroppo il prodotto cambia.

Panico da auto-terrorismo

Nei giorni precedenti l’evento sportivo calcistico per eccellenza, lo scontro per la conquista della coppa dei campioni, mentre montavano smisuratamente l’attesa e l’interesse favoriti dalla solita e scriteriata cavalcata mediatica, mi chiedevo se questo clima esagerato non potesse finire col creare i presupposti per qualche disastro: mi riferivo soprattutto a possibili scontri fra opposte tifoserie accorse in massa a Cardiff, laddove, tra l’altro, lo stadio non poteva ospitarle interamente e quindi con ulteriori problemi di coesistenza pacifica fra tifosi e con gli abitanti della città, in una zona nel mirino del terrorismo come non mai.

Invece, ironia della sorte, il casino è scoppiato a Torino, non fra tifoserie antagoniste, ma fra i simpatizzanti juventini assurdamente accalcati in una piazza del centro. In un certo senso quanto è successo è dovuto ad una sorta di auto-terrorismo. Cerchiamo di essere seri. Il terrorismo si combatte anche e soprattutto gestendo bene l’ordine pubblico. E nel caso in questione è stato gestito malissimo o meglio non è stato gestito.

Prima dell’inizio della partita di finale di coppa campioni tra Juventus e Real Madrid la televisione ha mostrato, con la solita inutile enfasi (a quando un codice etico-professionale al riguardo), le immagini della torinese piazza San Carlo, affollata all’inverosimile di tifosi juventini alla ingenua ricerca di emozioni dal (quasi) vivo. Sono rimasto impressionato, più che dalla quantità di persone accorse e ammassate, dalla calca incredibile: una sorta di curva da stadio portata in una piazza cittadina. La mia notevole impressione aveva naturalmente il seguente retro-pensiero: nessuno avrà controllato tutta questa gente…sarebbe un gioco da ragazzi per un terrorista infiltrarsi e provocare una carneficina colossale…speriamo bene…

Il terrorista fortunatamente non si è visto, la carneficina nemmeno, però è bastato qualcosa di strano (un petardo, un boato, un grosso rumore?) per scatenare il panico e provocare un fuggi-fuggi generale con centinaia di feriti. Poteva andare peggio…

Non voglio fare il grillo-parlante ma mi si impongono alcune brevi riflessioni. La prima riguarda la necessità di sdrammatizzare questi eventi sportivi riportandoli alla loro giusta dimensione e vivendoli quindi con sana passione, ma anche con un po’ di sano distacco. La partita, non dimentichiamolo, è stata preceduta da sfoghi demenziali di tifo calcistico ospitati se non fomentati da televisioni in cerca di audience, ma anche i più moderati servizi sportivi hanno contribuito a creare uno smisurato senso di attesa facilmente sconfinabile in vera e propria battaglia di nervi e potenzialmente non solo di nervi.

Il clima di tensione, alimentato anche dai media, sfocia in queste disordinate radunate oceaniche che si prestano a degenerazioni di vario tipo: questa volta si è trattato solo di panico, altre volte la tensione ha portato a scontri violenti, ad atti vandalici, ad episodi di teppismo, etc.

La seconda è questa: sono perfettamente d’accordo che la nostra società non debba farsi condizionare dalla paura del terrorismo, ma il terrorismo c’è, non possiamo dimenticarlo, è purtroppo penetrato nel nostro subconscio e basta poco per farlo auto-esplodere. E allora, diamoci almeno una regolata: non creiamo le occasioni e i presupposti per favorire lo scatenamento psicologico del terrorismo senza terrorismo.

La terza riguarda la gestione dell’ordine pubblico: non pretendo l’impossibile, ma non ha senso consentire un assembramento come quello di piazza San Carlo, una vera e propria polveriera dove è bastata la fantomatica puzza di zolfo per far esplodere il panico e il disastro. Quando si riempie uno spazio con migliaia di persone bisogna garantire le vie di fuga, bisogna prevedere qualche spazio libero per entrata e uscita. Ammettiamo che una persona in quella piazza si fosse sentita male improvvisamente, come si sarebbe potuto soccorrerla? Può essere il senno di poi, ma una questura come quella di Torino questi problemi se li dovrebbe porre. Cerchiamo però anche di essere un po’ più prudenti come cittadini. Non dico di chiuderci ermeticamente in casa, ma nemmeno di sfidare prepotentemente e presuntuosamente i pericoli. Vivere non è facile, convivere è ancor meno facile, convivere col terrorismo è impossibile. Fermiamoci alle prime due difficoltà e affrontiamole con senso di responsabilità. L’impossibile non è alla nostra portata.