La sobrietà è merce rara

Ho sempre seguito con interesse la conferenza stampa di fine anno del capo del governo: un’occasione per ribadire il mio interesse verso la politica, possibilmente fatta non di chiacchiere; un rendiconto annuale del Presidente del Consiglio, illustrato ai rappresentanti della stampa, dovrebbe effettivamente essere un evento riguardante la politica dei fatti.

Ero andato con mia madre e mia nonna a trascorrere qualche giorno di vacanza a Fabbro Ficulle (paesino in provincia di Terni), ospite del convento dove viveva mia zia suora Orsolina. Avevo quattro-cinque anni,   non ricordo con precisione. Pranzavamo in una saletta messa molto gentilmente a nostra disposizione ed in quella saletta vi era un apparecchio radio: la nonna gradiva ascoltarla durante il pasto, soprattutto le piaceva ascoltare il giornale radio. Un giorno al termine del notiziario politico me ne uscii candidamente con questa espressione: “Adesso nonna chiudi pure la radio, perché a me interessa il governo”. Facile immaginare le reazioni di mia madre, ma soprattutto di mia nonna, incredula e divertita, che rideva di gusto, anche se forse aveva fatto qualche pensiero su questa mia stranezza infantile.

Il premier Gentiloni non ha deluso le aspettative e, con il suo stile sobrio, ha dato un’idea concreta della sua azione di governo. Chi ha deluso sono stati gli autorevoli (?) giornalisti che lo interrogavano: istigati dalla contemporanea chiusura della legislatura e dalla automatica apertura della campagna elettorale, lo hanno sottoposto ad un monotono ritornello di domande, tutte più o meno riconducibili alla sua volontà di ricandidarsi. In poche parole tentavano di farlo litigare con Renzi, volevano spillargli una qualche battuta su cui imbastire il dualismo elettorale col segretario PD. Gira e rigira, il motivo era sempre quello, si partiva e si finiva lì.

L’onorevole Aldo Moro, durante una conferenza stampa da Presidente del Consiglio – allora la serie di tribune elettorali culminava in quella riservata al capo del governo in carica – di fronte ad una domanda ripetitiva, con il suo inconfondibile e flemmatico stile, non degnò neppure di uno sguardo il giornalista pappagallo, si rivolse al moderatore e laconicamente disse: «Ho già risposto…». Con quella scarna battuta aveva indirettamente rivolto ai suoi colleghi un pressante invito alla sostanza della politica (lui che sapeva fare discorsi di ore, era capace di non sprecare neanche un minuto sulle oziose polemichette da quattro soldi) ed una lezione di etica professionale ai giornalisti chiacchieroni e disattenti.

Se Paolo Gentiloni avesse usato lo stesso criterio moroteo, la conferenza stampa di fine anno 2017 sarebbe durata poco e il moderatore Carlo Verna avrebbe dovuto incassare un imbarazzante sequela di “ho già risposto”.

Gentiloni non è Moro, ma comunque non è caduto nella trappola. Con un tono tra lo scocciato e il rassegnato ha dribblato i pelosi complimenti verso di lui, che preludevano scorrettamente ad attacchi verso Renzi e il PD.

Mi pare esistesse in passato una trasmissione televisiva o radiofonica che si intitolava “uno contro tutti” o “tutti contro uno” come dir si voglia: sarà il leit motiv della campagna elettorale? Penso di sì. Renzi ha la sua parte di colpa nell’attirare su di sé un’esagerata attenzione. Non c’è dubbio: parla troppo! Non è questione di quantità: i politici hanno sempre parlato molto per non dire nulla. Aldo Moro sapeva parlare molto e poco a seconda dei casi. I tempi sono cambiati. Consiglio tuttavia a Renzi di farsi magari un po’ di violenza e di contenersi: i suoi logorroici competitor lo tireranno a cimento, i giornalisti mestieranti lo provocheranno in continuazione, gli elettori può darsi finiscano col votare chi (s)parla poco.

 

 

L’afta elettorale

Col morto in casa ancora caldo è quasi normale che si cominci a litigare sull’eredità e sui rapporti esistenti col de cuis: mentre si chiude mestamente la legislatura, la campagna elettorale, peraltro in moto perpetuo, si profila tanto calda quanto assurda, tanto litigiosa quanto inconsistente.

Mi è subito venuta alla mente la famosa barzelletta delle promesse elettorali: vi daremo questo, vi concederemo quest’altro, vi offriremo ciò che vorrete… E l’afta epizootica? chiese timidamente un agricoltore della zona interessata. Vi daremo anche quella! rispose gagliardamente il comiziante di turno.

Sono mesi che il movimento cinque stelle parla di reddito di cittadinanza: una delle tante boutade, una proposta chiaramente inapplicabile per motivi economici e inopportuna per una società basata sul lavoro e non sulla sussistenza.

Adesso arriva anche Silvio Berlusconi, lui che di sogni irrealizzabili se ne intende, il quale anziché la zuppa promette il pan bagnato, non il reddito di cittadinanza ma quello di dignità. Luigi Di Maio reagisce stizzito e accusa Berlusconi di essere “un copione”. Che pena!

Ho sempre avuto una certa antipatia per i primi della classe: li sopportavo e li sopporto sono se lo sono veramente e soprattutto se lasciano copiare il compito in classe. Ebbene, Di Maio è il capoclasse tollerato da Beppe Grillo, non è certo il primo della classe a giudicare dalle fandonie che snocciola in continuazione e poi denuncia addirittura chi tenta di scopiazzargli il compito. Il massimo della sciatteria politicante. Berlusconi deve essere veramente alla frutta se non trova di meglio che scopiazzare i pentastellati, cavalcandone le più trite battaglie teoriche.

Sullo stesso file del televideo Rai in questi giorni erano collocati due titoli: “Di Maio: Berlusconi ci copia” e “La Costituzione compie 70 anni”. Peggiore accostamento non si poteva fare, a meno che non si intendesse rendere l’idea della sfacelo politico attuale rispetto al progetto politico costituzionale. I padri della Costituzione si rivolteranno nella tomba e chi ha speso la propria vita per conquistare libertà e democrazia si chiederà se ne valesse la pena. Siamo arrivati alla scuola degli asini…

Abbiamo di fronte quasi due mesi e, se il buon giorno si vede dal mattino, stiamo freschi. Una certa qual esasperazione dei toni propagandistici è da mettere in conto, ma tutto ha un limite e speriamo che tale limite il cittadino lo sappia far rispettare in cabina   elettorale. Qualcuno in un lontano passato disse, che essendo il voto segreto, bisognasse fare i conti comunque con Dio che vede tutto e non con Stalin che infatti non ammetteva il voto segreto. Oggi si potrebbe aggiornare la questione senza scomodare Dio e lasciando perdere Stalin. “In cabina ci dovrebbe entrare il buonsenso, lasciando perdere gli slogan elettorali la cui ridondanza formale è direttamente proporzionale alla inconsistenza sostanziale”.

Mia sorella Lucia amava ricordare, in riferimento alla schietta e profonda religiosità incarnata da don Raffaele Dagnino, suo maestro e storico sacerdote, l’incoraggiamento sui generis da lui fatto ad un’amica a cui era nato un figlio con una piccola imperfezioni fisica. «L’important l’è cal g’abia dal bon sens, ‘na roba ca ne’s compra miga dal bodgär» sentenziò con sano realismo umano e religioso di fronte alle ansie di una madre inquieta. Proviamo a farci guidare da questa merce rara durante la campagna elettorale, ma soprattutto al momento del voto.

 

 

Il rischio della naftalina costituzionale

Il caro amico don Luciano Scaccaglia, durante la celebrazione del Battesimo sull’altare poneva due riferimenti essenziali: la Bibbia e la Costituzione italiana. L’una chiedeva al cristiano la fedeltà alla Parola di Dio, l’altra al cittadino l’attivo rispetto dei principi democratici posti a base del vivere civile. Questo, secondo i detrattori del cavolo (resisto alla tentazione di usare un termine volgaruccio che lascio alla facile intuizione del lettore), anche altolocati, voleva dire fare politica in chiesa… Che ottusità mentale e culturale! Erano stupende e geniali provocazioni esistenziali, che contenevano autentici trattati di teologia coniugata con la laicità dello Stato. Se, pertanto, fare politica in chiesa vuol dire affermarne la laicità ed auspicarne l’ancoraggio ai valori di giustizia, uguaglianza e solidarietà, don Scaccaglia faceva politica: egli, tra l’altro in perfetto stile degasperiano, alla duplice appartenenza del cittadino credente alla Chiesa e allo Stato rispondeva con la duplice fedeltà al Vangelo e alla Costituzione, conciliando Chiesa e Stato nell’impegno concreto degli uomini e non sui principi astratti e sui compromessi giuridici o, peggio ancora, di potere.

Ma veniamo al settantesimo compleanno costituzionale. La torta per festeggiare contiene, a mio giudizio, due ingredienti fondamentali, uno di metodo e l’altro di merito. Il metodo, che io amo definire della “mediazione ai livelli più alti”, continua ad essere un’autentica ed insuperabile lezione di “galateo” politico: il confronto, con addirittura qualche punta di scontro vero e proprio, se attuato con onestà di intenti e vera disponibilità al dialogo, porta a risultati positivi. In quella fase storica la fame democratica era tale da non consentire alcun spreco di risorse umane ed intellettuali. Oggi riteniamo di essere sazi di democrazia e rischiamo di sciupare tutto: facciamoci tornare l’appetito che, tra l’altro, vien mangiando. Noi, a forza di fare gli schizzinosi e di rifiutare il cibo, siamo diventati democraticamente anoressici.

Nel merito la nostra Costituzione rappresenta una combinazione formidabile dei valori liberali, socialisti e cattolici in un mix che riesce a coniugare al meglio i diritti individuali con quelli collettivi: in larga parte è tuttora inattuata, in qualche parte dovrebbe essere aggiornata, in nessuna parte è superata.

Di fronte alla Costituzione si possono avere due atteggiamenti ugualmente sbagliati: la oltranzistica e nostalgica difesa e la smaniosa e modernistica revisione. Il dibattito rischia di avvitarsi sempre e comunque in questo falso dualismo dialettico con il risultato di mettere la Costituzione in naftalina. È successo con le riforme costituzionali bocciate dal recente referendum. Lo sforzo di rinnovamento è stato banalmente liquidato come stravolgimento. Attenzione quindi a non cadere nell’immobilismo costituzionale: i padri costituenti non hanno inteso darci una legge intoccabile e perfetta, ma uno strumento da utilizzare al meglio, con saggezza e coraggio, sapendo distinguere ciò che è irrinunciabile da ciò che deve essere cambiato e perfezionato.

La Costituzione non è l’abito da sposa, che si mette una volta e poi lo si ripone nell’armadio come un talismano, è l’abito della festa da tenere sempre in ordine, da adattare, da indossare e soprattutto da onorare.

Il Natale è donna

Le provocazioni non mi dispiacciono. Gesù è stato il più grande provocatore di tutti i tempi: tutte le volte che ascolto la lettura del vangelo durante la messa non posso esimermi dal pensare, a volte dal sussurrare: che razza di provocatore era mai questo uomo-dio.

D’altra parte la pastora battista Lidia Maggi, teologa e biblista, scrive a commento della liturgia natalizia: «La fede, oggi, non si limiti a confessare che Gesù è Dio. Più decisivo riconoscere che Dio è Gesù, un amore gratuito che capovolge ogni nostro immaginario religioso».

Nessuno scandalo quindi che un attivista del movimento ucraino femminista, Femen appunto, in topless, in piazza S. Pietro si sia lanciata sulla statua di Gesù Bambino per strapparla dal presepe, gridando “Dio è donna”.

Se questa donna fosse portata davanti a Gesù adulto ed a lui fosse chiesto se meriterebbe le manette per vilipendio della religione o roba del genere, sono sicuro che risponderebbe: «Chi nella sua vita non ha violato il messaggio di me Bambino, faccia scattare le manette ai polsi di questa femminista…». E tutti se ne andrebbero sconsolati ed umiliati. Poi magari Gesù si rivolgerebbe direttamente alla contestatrice: «Capisco cosa hai voluto dire. Io d’altra parte nella mia vita non ho fatto altro che sdoganare le donne, dal momento della mia nascita fino alla mia morte e resurrezione. La Chiesa invece è stata deturpata da un maschilismo pazzesco. Qualcosa è cambiato e sta cambiando: un papa ha detto che Dio è anche e soprattutto madre, il papa attuale vuole studiare il modo di inserire a pieno titolo la donna nei meccanismi clericali ed ecclesiali. Siamo solo all’inizio. Non mi sono scandalizzato affatto del tuo seno nudo, anche mia madre lo avrà mostrato con orgoglio per allattarmi di fronte ai pastori. Il seno della donna è realtà d’amore, in tutti i sensi. Se intendevi portare la mia statua nella sede del tuo movimento per farmi capire quali sono le vostre aspirazioni, non c’è problema: verrò di mia spontanea volontà, parleremo a lungo e sono convinto che su parecchie questioni ci troveremo d’accordo. Quindi va pure, non sarò certo io a metterti le manette ai polsi. Fai la tua battaglia, mi raccomando, sii provocatoria, ma non violenta…».

Mi fermo qui perché non vorrei finire io in manette per vilipendio della religione. Il Natale è donna. Lo sostiene indirettamente anche Massimo Cacciari nel suo libro “Generare Dio”. Perfettamente in linea col cardinal Martini, ritiene che il fatto fondamentale per credenti e non credenti sia sapere mettere in discussione la propria fede o la propria non-fede. Era il presupposto della “cattedra dei non credenti”, istituita dal cardinal Martini e di cui Cacciari fu, se non erro, il primo autorevole esponente.

Egli, a commento del proprio libro, sottolinea come il suo “affetto” sia tutto indirizzato a Maria e non agli uomini, compresi gli uomini di Chiesa, che in duemila anni non hanno combinato nulla di buono in materia di cristianesimo.

Anche il gesto clamoroso compiuto da quella femminista penso e spero possa indurci a valutare il Natale nella giusta luce, che mette i sessi in perfetta parità: una vera donna che accetta, in piena libertà, di fare posto ad una creatura, un vero uomo, che accetta di essere Figlio di Dio e di immolarsi per la salvezza di tutti ed a cui sarà legata per tutta la vita fino al suo drammatico epilogo. C’è da riflettere!

 

Bòti da oròb

Un mio simpatico zio, che oserei definire diversamente credente, amava ironizzare benevolmente sull’espressione latina “urbi et orbi”, riferita alla benedizione papale impartita dalla loggia di S. Pietro in occasione delle più solenni festività, come è successo anche per questo Natale. Sostituiva alla definizione suddetta un modo di dire parmigiano: “la benedisiòn bòti da oròb”.

Quando si vuol allontanare brutalmente qualcuno, senza troppo riguardo lo si manda a farsi benedire: un eufemismo piuttosto irriverente verso la fede e la sua combinazione teologica e rituale. Aggiungiamo che la benedizione papale prevede l’aggiuntiva e generosa elargizione dell’indulgenza plenaria da tutti i peccati commessi: quella delle indulgenze è una vecchia e delicata questione storicamente foriera di polemiche e fratture all’interno della Chiesa.

Mai come quest’anno mi sono sentito bisognoso di indulgenza e di misericordia, senza però illudermi che basti un segno di croce davanti al video per purificare il proprio cuore e la propria anima. Sarebbe comodo!

Un papa insolitamente serio, probabilmente irrigidito, se non addirittura infastidito, anche dai soliti penosi, anacronistici ed assurdi onori militari, ha benedetto Roma e il Mondo, risparmiandoci le botte che ci meriteremmo, limitandosi all’invito a vedere Gesù nei bimbi che soffrono. Non è una sollecitazione da poco!

Tuttavia mi permetto di fare un appunto a Sua Santità: da chi innesca processi di rinnovamento si pretende tutto, da chi ha dormito per secoli non si pretendeva nulla. È sempre così… Vado avanti e chiedo: non sarebbe meglio sostituire questi appelli di carattere generale, che comportano una carrellata piuttosto superficiale sulle situazioni di crisi umanitaria, con gesti e appunti concreti e ben mirati, che tocchino veramente in profondità certe situazioni   insostenibili, richiedenti interventi immediati? Diversamente le parole passano e i problemi rimangono, addirittura con l’applicazione dell’indulgenza plenaria, che sembra quasi assolvere tutti dai misfatti passati, presenti e futuri.

Il rituale buonismo del Natale è ad altissimo rischio, anche per il Papa. Cominci col mandare a casa guardie svizzere e carabinieri schierati in alta uniforme, che col Natale non hanno proprio nulla da spartire: le uniformi davanti alla stalla di Betlemme erano quelle assai poco alte dei pastori. Gli inni, quello vaticano e quello italiano, hanno una melodia diversa dalle note dei canti angelici del “gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama”. Le folle plaudenti di piazza San Pietro sono eccessive rispetto ai quattro gatti che omaggiarono il redentore appena nato.

Si dirà che la storia è cambiata. Sì, in peggio: in duemila anni siamo riusciti a rovinare tutto. Io credo che il papa, anziché concederci l’indulgenza plenaria, dovrebbe, come fece Gesù, prendere un bastone e cominciare ad affibbiare botte da orbi a quanti hanno travisato tutto: parafrasando una recente omelia di padre Ermes Ronchi, siamo passati da un giorno qualunque, un luogo qualunque, una giovane donna qualunque, un bambino qualunque, la normalità di una casa ridotta a stalla, alle luci delle ribalte profane e delle liturgie solenni nel tempio e nelle piazze. Un Dio che si rivela nella più assoluta quotidianità, mistificato dalla straordinaria pomposità celebrativa: dalla provocante semplicità dell’evento evangelico alla spettacolare solennità dell’evento liturgico.

Forse, magari senza volerlo, mio zio, quando ipotizzava “la benedisión bòti da oròb”, voleva dire proprio questo. Grazie zio!

Il presepe della paura

Come non cogliere tristi e imbarazzanti analogie tra l’indifferenza, l’ostilità e la persecuzione che colpirono la famiglia terrena di Gesù e il colpevole naufragio della legge sullo Ius soli, vale a dire sul diritto di essere considerato italiano per chi ha fatto un serio percorso di inserimento nella nostra comunità. Un incidente procedurale al Senato ha chiuso sul nascere l’iter di questa legge impropriamente e strumentalmente   trasformata in un referendum pro o contro gli immigrati.

“Colpito e affondato” ha commentato il leghista Calderoli; “orgogliosi di aver fatto naufragare la legge” ha detto il forzista Gasparri; “Renzi stai sereno, sullo Ius soli decideranno gli italiani” ha dichiarato la sorella d’Italia Giorgia Meloni. Indipendentemente da tutto, non riesco a capire come si possa essere contenti per non aver risolto un problema, che esiste e che aspetta di essere affrontato.

Se, come sembra, lo scioglimento delle Camere farà chiudere sostanzialmente bottega al Parlamento, peggiore congedo non poteva arrivare dall’Aula di Palazzo Madama, stoppata dalla mancanza di numero legale: un fuggi fuggi, che, complice forse l’imminente arrivo delle festa natalizie, ha fatto passare la discussione dalle pregiudiziali di costituzionalità a quelle di menefreghismo.

Ognuno risponde alla propria coscienza, anche i parlamentari, senza bisogno che questo diritto glielo conceda il loro partito: tuttavia non riesco a capire come si sentiranno gli opportunisti o razzisti oppositori dello Ius soli, quando siederanno alla tavola del cenone natalizio della loro famiglia. Possibile che non abbiano qualche scrupolo nell’aver chiuso la porta in faccia a tante persone che, stando sull’uscio, chiedevano di poter entrare legittimamente ed a tutti gli effetti nella nostra comunità nazionale.

A proposito di coscienza, ricordo come alle mie ingenue sollecitazioni sugli immigrati che dormono e magari muoiono sotto i ponti, un caro amico mi fece osservare come i gerarchi nazisti responsabili dei campi di concentramento mangiassero e dormissero tranquillamente nelle loro case e nelle loro famiglie.

Archiviata la coscienza, restano la debolezza della politica e la paura della gente: due caratteristiche che trovano una loro perfetta compatibilità e interdipendenza. La politica accarezza la pancia degli italiani, la gente si chiude egoisticamente nel proprio territorio e pretende di essere difesa dalla politica. Un ignobile connubio!

Non si può stare con un piede davanti al presepio e con l’altro dentro i propri interessi. Oltre tutto, al di là del discorso etico, non mi sembra certo, razionalmente parlando, il modo migliore di convivere in una nazione civile.

Il Natale 2017 è macchiato da questo vergognoso infortunio parlamentare. Le ormai vicine elezioni politiche avranno nel loro bagaglio anche tale questione. Non mi illudo. Anzi, ho il timore che coloro i quali hanno lavorato a questa imboscata parlamentare verranno premiati dalle urne. L’Italia, che tutto sommato e in qualche modo dimostra un certo livello di solidarietà verso gli stranieri, ha incespicato nello Ius soli finendo con lo sbattere il capo contro la mangiatoia di Betlemme, quella che i nazionalisti vorrebbero difendere dalle incursioni islamiche. È una strana culla che non cerca difensori di comodo, ma imitatori coraggiosi.

All’inferno con telethon

E così la maratona natalizia di Telethon, finalizzata al sostegno della ricerca per combattere le malattie, ci mette la coscienza a posto? Ho seri dubbi e manifesto al riguardo tutte le mie perplessità.

È pur vero che lo stesso Gesù si è accontentato, alla sua nascita, di avere intorno degli “squallidi” pastori o dei ciarlatani maghi. È altrettanto vero che, una volta cresciuto, ha detto come anche un bicchiere d’acqua dato a chi ha sete possa rappresentare un grande merito di fronte al Padre Eterno. Oggi il nostro bicchiere d’acqua può essere un messaggino telefonico: versione evangelica informatica?

In materia di solidarietà mio padre aveva una regola d’oro: “S’a t’ tén il man sarädi a ne t’ cäga in man gnan’ ‘na mòsca”. Oggi può voler dire fare una telefonatina che sa tanto di pacca sulle spalle?

Mantengo tutto il mio scetticismo, anche se mi rendo conto che può fare rima con disfattismo. Credo sia tutta questione di atteggiamento interiore molto spesso coperto dall’esteriorità: siamo infatti alla industrializzazione spettacolare della beneficenza. La vedova al tempio butta segretamente qualche spicciolo nel tesoro vincendo la gara con chi ostentava offerte assai consistenti. Noi abbiamo messo d’accordo la vedova coi ricchi farisei: spettacolarizziamo tutto, anche pochi spiccioli, e ci illudiamo di essere bravi e buoni. Abbiamo modernizzato l’elemosina contestualizzandola scientificamente e finalizzandola umanamente.

Attori, cantanti, conduttori televisivi, sportivi, cronisti, giornalisti: tutti allineati e coperti a sostegno della ricerca contro la malattia. Cosa vogliamo di più? Non siamo forse nella società quasi perfetta? Se ci fermiamo in superficie può anche essere, se appena scendiamo di un millimetro cambia tutto. È sempre la solita storia che il Natale porta inesorabilmente a galla: la forma non può cambiare la sostanza. Non scherziamo per favore. Una importante ed esperta funzionaria ministeriale diceva spesso a me, giovane e sprovveduto professionista da strapazzo: «Dottor Mora, si ricordi che la forma è sostanza!». Ebbene ciò può essere vero in campo burocratico ed amministrativo, ma in campo culturale e sociale…

Ricordo quando da studente diedi qualche lezione privata ad un ragazzino che scolasticamente faceva fatica a stare al passo. Alla fine del ciclo mi arrivò a casa un pacco dono con dentro un bel regalo. La famiglia benestante di quel bambino mi aveva ricompensato. Un carissimo e disincantato amico mi disse: «Caro Ennio, questa è la giustizia dei ricchi…». Sì, è la giustizia di telethon, quella delle maratone televisive, quella dei ricchi epuloni che si degnano di guardare di sfuggita i poveri Lazzaro e gli allungano un pezzettino di pane. Meglio di niente, ma l’inferno non ce lo toglierà nessuno.

Alla ricerca del Natale perduto

Scriveva Alberto Moravia: «Il Natale mi fa pensare a quelle anfore romane che, ogni tanto, i pescatori tirano fuori dal mare, …tutte ricoperte di conchiglie e di incrostazioni che le rendono irriconoscibili. Per ritrovarne la forma, bisogna togliere tutte le incrostazioni. Così il Natale». Un altro scrittore, padre D. M. Turoldo, dal versante cristiano, mette a fuoco la stanchezza dei nostri Natali, lo stress, la mancanza del futuro e di bambini: «Siamo tutti stanchi; tutta l’Europa è stanca: un mondo intero di bianchi, vecchi e stanchi e pieni di paure! Il solo bambino delle nostre case di questi giorni saresti tu, Gesù, ma sei un bambino di gesso! Nulla di più triste dei nostri presepi: in questo mondo dove nessuno più attende nessuno».

Mi riconosco in queste autorevoli definizioni del Natale: in me prevale la tristezza delle occasioni perdute associata alla pigrizia ed alla stanchezza per tentare il ripristino del vero Natale. Ecco perché, tra l’altro, non sopporto il rito degli auguri (anche se spesso ci vengo tirato dentro per i capelli), che è la consacrazione del finto Natale, quello irriconoscibile e fasullo che ci siamo costruiti. Sono passati duemila anni e del coraggioso “fiat” di Maria non è rimasto nulla, nonostante quel “fiat” abbia avuto un seguito a Betlemme, ma soprattuto sul Golgota dove tutto è stato compiuto.

Quante volte abbiamo sentito affermare che per celebrare il Natale occorrerebbe essere felici e spensierati: è la più grossa fandonia che si possa dire. La nascita di Gesù ha comportato enormi e drammatici problemi: per sua madre Maria in odore di lapidazione, per Giuseppe in odore di colossale presa in giro, per i pastori in odore di falsa illusione, per i magi in odore di scientistico abbaglio…

Il Natale ci mette in discussione e scopre tutte le nostre magagne ed è per questo che mi prende una grande tristezza: non ho il coraggio pazzesco di Maria, non ho l’umiltà profonda di Giuseppe, non ho la sincerità trasgressiva dei pastori, non ho la testarda perseveranza dei Magi. Sono solo con le mie paure.

Mi viene in soccorso l’indimenticabile amico sacerdote Luciano Scaccaglia, che affermava: «Nel Natale tutti sono inclusi, tutti hanno il diritto di esserci, tutti hanno diritto a un pezzo di pane, di speranza e di accoglienza, tutti sono a diritto nel presepe: il tossico e la prostituta, chi ha perso fiducia, chi è in carcere, chi prende continuamente porte in faccia o è messo da parte, le coppie “regolari” e le coppie “di fatto”, l’omosessuale che si sente discriminato ed emarginato e guardato con sospetto e l’eterosessuale che cerca faticosamente di imparare ad amare, magari sbagliando i percorsi, lo straniero, come i magi, con la loro religiosità aperta alla ricerca, i credenti non sazi né sicuri nei loro “punti fermi”, ma sempre in cammino un po’ a tentoni, i poco credenti con l’insoddisfazione per i vuoti che trovano in sé, gli atei non “devoti” al loro clericalismo, ma perché atei più per disperazione che per convinzione, poiché la loro onesta ricerca è finita in “sentieri interrotti”… Tutti possono tornare a casa lasciando risuonare la parola più bella che risuona a Natale: “Non temete!”,   perché Dio abita la nostra debolezza e non è assente per nessuno».

La cura per la Curia

Don Andrea Gallo raccontava una stupenda barzelletta (?): «Voi sapete che nella nostra Santa Madre Chiesa, uno dei dogmi più importanti è la Santissima Trinità: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. L’amore e la comunione vanno in tutto il mondo, e si espandono. Lo Spirito Santo dice: “Andiamo a farci un giro. Io sono affascinato dall’Africa”. Il Padre risponde: “Be’, io andrò a vedere il paradiso delle Seychelles. Perché non capisco come mai i miei figli e figlie hanno il paradiso in terra”. Gesù ascolta e non risponde. Allora gli altri due: “Tu non vai?” Gesù: “Io ci son già stato duemila anni fa”. “Non ci farai mica far la figura che noi andiamo e tu rimani”, gli dicono in coro il Padre e lo Spirito Santo. “Va be’, allora vado anch’io”. “Dove vai?” “A Roma”. “Sì, ma a Roma dove vai?” “Vado in Vaticano”. “In Vaticano?”, dicono increduli il Padre e lo Spirito Santo. Gesù risponde: “Eh sì, non ci sono mai stato”».

Questa gustosa storiella mi è tornata in mente leggendo le critiche che papa Francesco ha rivolto alla Curia Vaticana: non ha speso parole chiarissime, forse ha parlato a nuora perché suocera intenda, forse è stanco di avere a che fare con un ambiente viscido e ambiguo, forse ha cannato qualche scelta di persone, forse si rende conto di dover combattere contro i mulini a vento.

Da una parte il papa, che, tra l’altro, non deve rispondere ai suoi elettori, non ha problemi di secondo mandato, ha un diretto superiore molto esigente ma totalmente al di fuori degli schemi, quello Spirito Santo che tutti invocano e di cui tutti se ne fregano, ha l’autorità per intervenire direttamente e pesantemente nella carne burocratica della Chiesa, per riformare le strutture riconducendole al paradossale dettato evangelico della non-struttura.

Dall’altra parte il papa deve pur fare i conti con la debolezza umana annidata nelle stanze vaticane: sono sue pecore anche i cardinali e i monsignori di Curia e non può limitarsi a “smerdarli” come meriterebbero, non fosse altro perché hanno la furbizia e la capacità di disfare la tela papale.

Se ne esce? Da tempo vedo un grosso rischio per papa Francesco, quello di non riuscire ad istituzionalizzare, strutturare, codificare, consolidare, concretizzare il messaggio fortemente innovativo di cui è portatore. Nello stesso tempo capisco che l’invito aperto e misericordioso dell’attuale pontefice non può essere rinchiuso nelle mura vaticane, non può essere lasciato agli addetti ai lavori, non deve essere tradotto in disposizioni canoniche. In fin dei conti Gesù non ha scritto niente e diceva continuamente ai suoi discepoli di non preoccuparsi, perché al momento giusto avrebbero comunque saputo cosa c’era da fare e da dire.

Ammetto che, quando il papa lancia frecciate ai potenti e ingombranti esponenti della sua corte, godo come un matto, ma la goduria finisce in fretta, perché le frecciate e i rimproveri scavalcano le mura vaticane e superano gli abiti talari per arrivare a tutti coloro che dicono di essere cristiani.

Sembra che nei richiami di questi ultimi giorni in vista del Natale 2017 alcuni, coloro che ostentano di essere più papisti del papa, abbiano visto un attacco agli opposti estremismi curiali: ai pedanti conservatori più incalliti, ma anche   agli inconcludenti e deludenti riformatori chic. Non sono addentro agli equilibri “politici” della Chiesa, me ne frego altamente dei dogmi e delle regole, il mio punto di riferimento è il Vangelo, ascolto volentieri le parole di Francesco e sono attento ai suoi comportamenti in quanto lo vedo proteso a ricondurre tutto il popolo di Dio agli insegnamenti evangelici senza fronzoli e senza sconti. Il resto lo lascio ai vaticanisti.

 

La messa (in scena) è finita, andate in un altro teatro

L’utilizzo dello smartphone è diventato una specie di ossessione per (quasi) tutti. Una volta, scherzando goliardicamente con gli amici, mi sono chiesto quando si riuscirà ad utilizzarlo per un clistere o…poi mi sono fermato per non essere scurrile o addirittura volgare.

Finalmente papa Francesco ha inflitto un teorico colpo madornale a questa mania generalizzata: se ne sconsiglia caldamente l’uso durante le celebrazioni liturgiche, non solo per non disturbare o essere disturbati dalle chiamate, ma anche per evitare di scattare fotografie e immortalare ricordi.

In effetti quando si assiste televisivamente a qualche rito a livello vaticano presieduto dal Papa, si è colpiti dai bagliori di un’autentica gragnola di scatti fotografici partenti dai telefonini (persino da quelli dei numerosi sacerdoti concelebranti): colpa della mania che ci perseguita e che non dovrebbe avere niente da spartire con una seria partecipazione alle liturgie eucaristiche.

Un tempo il discorso era limitato ai Battesimi, alle Cresime, alle Prime Comunioni, ai Matrimoni ed alle performance dei fotografi ufficiali e di qualche parente o amico. Ricordo al riguardo le battaglie di certi sacerdoti volte a contenere al massimo queste fastidiose trasgressioni: battaglie perse a giudicare dall’inflazione attuale.

Ho accolto con soddisfazione e sollievo la raccomandazione papale volta a sottolineare l’incompatibilità sostanziale tra il significato della celebrazione eucaristica e la smania di scattare le foto col telefonino. Sarebbe come se sul Calvario le donne strette attorno alla Croce di Cristo si fossero preoccupate di cogliere l’aspetto spettacolare dell’evento. Come se l’apostolo Giovanni si fosse brevemente allontanato per godere meglio la scena.

Se però di inopportuna spettacolarizzazione vogliamo parlare, il discorso lo dobbiamo vedere da entrambe le parti: da quella dei promotori e dei protagonisti principali del rito oltre che da quella dei distratti componenti del popolo di Dio.

Assistiamo in televisione ai riti celebrati in Vaticano, in S. Pietro a Roma, e ne cogliamo la pesante teatralizzazione, abbiamo la sensazione di assistere ad assurde messe in scena degne del miglior Franco Zeffirelli. Il prossimo Natale non mancherà di fornire ghiotte occasioni al riguardo.

A quando, papa Francesco, una ventata di aria fresca anche in questo campo? A quando il licenziamento dell’insopportabile ed impettito maestro di cerimonie, protagonista instancabile di un marcamento a uomo del pontefice ovunque celebri una messa? Mi sembra che il tutto possa essere considerato una sorta di istigazione a rovinare l’Eucaristia facendone un’occasione di pur perbenistica ma dissacrante memoria. Se mettiamo su un piatto d’argento tutta l’esteriorità liturgica possibile, diventa difficile pretendere che non venga assaporata con accanimento. Con le arie che tirano si spettacolarizza tutto, quindi anche le messe addobbate e sovraccaricate di esteriorità.

Poi entriamo in certe chiese periferiche e torniamo a terra, per constatare la routinaria pochezza di liturgie sbrigativamente ed anonimamente finalizzate solo al tagliando di adempimento del precetto festivo. Da una estremità all’altra: dalla vuota enfasi rituale alla banalizzazione precettistica. Là scatti con lo smartphone, qui scatti per uscire di chiesa il più alla svelta possibile.