Dietro la lavagna dell’Onu

Il nuovo Alto commissario per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha annunciato l’invio di un team in Italia, e analogamente un altro in Austria, per valutare recenti episodi di razzismo. “Abbiamo intenzione di inviare personale in Italia per valutare il riferito forte incremento di atti di violenza e di razzismo contro migranti, persone di discendenza africana e rom”, ha detto aprendo i lavori del Consiglio Onu per i diritti umani riunito fino al 28 settembre. “Il governo italiano ha negato l’ingresso di navi di soccorso delle Ong. Questo tipo di atteggiamento politico e altri sviluppi recenti hanno conseguenze devastanti per molte persone già vulnerabili”, lo ha detto Michelle Bachelet, annunciando appunto l’invio di un team in Italia per verifiche. “Cala il numero di migranti che attraversano il Mediterraneo, ma non il tasso di mortalità”, ha aggiunto Bachelet, esortando l’Ue al soccorso umanitario e a garantire l’accesso all’asilo e alla protezione dei diritti umani nell’Unione Europea.

Sarò ingenuo ed emotivo, ma, leggendo questa notizia, forse per la prima volta in assoluto mi sono vergognato di essere italiano. Il mio Paese viene messo sotto inchiesta dal massimo organismo internazionale per comportamenti razzisti e omesso soccorso ai migranti. Stiamo veramente toccando il fondo: fino a qualche tempo fa eravamo elogiati per l’atteggiamento di accoglienza, il presidente della Commissione europea proponeva l’Italia per il Nobel della pace, eravamo considerati un esempio di apertura solidale verso coloro che fuggono da guerra, fame e torture. Cosa sta succedendo?

È cambiato il clima politico e questo fatto ha dato il via libera ai nascosti sentimenti di ripulsa nei confronti degli immigrati: il razzismo è un virus presente nella nostra società ed è sufficiente abbassare le difese per farne esplodere manifestazioni clamorose e rancorose. C’è un passaggio nelle parole dell’Alto Commissario Onu, che tocca nel vivo: “Questo tipo di atteggiamento politico e altri sviluppi recenti hanno conseguenze devastanti per molte persone già vulnerabili”. Michelle Bachelet ci ha messo giustamente nel mirino: prima la chiusura alle navi Ong, poi addirittura lo stallo per quelle della Guardia Costiera. Siamo sotto inchiesta da parte della comunità internazionale.

Le reazioni da parte italiana, vale a dire di Matteo Salvini (la prima gallina che canta ha fatto l’uovo), sono le solite: «Non accettiamo lezioni dall’Onu che si conferma prevenuta, inutilmente costosa e disinformata. Le Nazioni Unite indaghino su quegli Stati membri che ignorano diritti elementari, come libertà e parità tra uomo e donna». Mi sono sentito sui banchi di scuola, quando ci si giustificava accusando l’insegnante di avercela con noi e lo si invitava a redarguire chi faceva più casino di noi. Difese assurde, infantili e controproducenti. Siamo improvvisamente dietro la lavagna dell’Onu e, anziché chiedere scusa e rivedere i nostri comportamenti censurabili, ci ostiniamo a fare le linguacce e gli sberleffi.

Il presidente della Repubblica lo aveva più volte sottolineato: attenzione a non incendiare il clima sociale con atteggiamenti politici provocatori ed inammissibili. Ha cercato di smorzare certe spinte politiche. Persino la Chiesa è intervenuta per togliere le castagne dal fuoco. Che l’Italia stia sbagliando e sbandando se ne sono accorti tutti, meno che gli italiani. Brava gente, ma…

 

La democrazia che si ferma è perduta

In questi giorni tutti i più autorevoli commentatori politici si interrogano sulla tendenza popolare europea a radicalizzarsi su posizioni di destra estrema, tali da mettere in discussione il futuro stesso dell’Unione. I partiti nazionalisti, sovranisti, reazionari, filo-razzisti e xenofobi sarebbero in grande ascesa di consensi, mentre i partiti tradizionali, socialdemocratici (la sinistra riformista) e popolari (la destra moderata), avrebbero perso il legame con la gente, orientata a cercare istintivamente e sbrigativamente soluzioni facili e immediate a problemi difficili e complicati. Questa tendenza, in alcuni Paesi come l’Italia, assume una connotazione più sfumata, in quanto, a contendersi l’elettorato scettico, protestatario e sostanzialmente reazionario, sono in campo anche formazioni genericamente populiste riconducibili alla cosiddetta anti-politica.

Nella base popolare ed elettorale esiste da sempre la spinta a radicalizzarsi su posizioni nette: potremmo dire che il popolo ama il populismo ben più della democrazia. Il primo, infatti, gli offre l’illusione di essere perfettamente ascoltato e interpretato nelle sue ansie e paure, mentre la seconda gli prospetta soluzioni lunghe, complesse, talora poco chiare. La gente non ama le mezze-tinte, preferisce i colori forti ben riconoscibili e alquanto sgargianti.  Fino a quando, politicamente parlando, hanno tenuto le ideologie, socialismo e cattolicesimo in particolare, la saldatura tra la gente e i governanti era garantita da una fideistica adesione, che consentiva alla politica di compromettersi nei modi e nei tempi della storia senza perdere il contatto con gli elettori. La popolazione capiva perfettamente che le soluzioni tardavano ad arrivare, ma i ritardi erano colmati da una sorta di certezza ideale e valoriale e ciò bastava a rassicurarli.

La caduta delle ideologie, che purtroppo ha trascinato anche i valori sottostanti, ha costretto la politica a misurarsi in campo concreto, a fare un pragmatico bagno di governo, in cui si sta dibattendo con gravi difficoltà. Il ragionamento della gente è questo: se la democrazia rappresentativa, con i suoi riti e le sue procedure, non risolve i problemi, meglio affidarsi a chi punta direttamente al sodo senza mediazione e senza progressione, magari anche calpestando quei valori che sembravano irrinunciabili fino a qualche tempo fa.

Sono d’accordo con chi, vedi i radicali italiani, sostiene che alla deriva radicale populista europea non bisogna illudersi di rispondere solo con la chiamata a raccolta dei progressisti, con un richiamo della foresta che forse non esiste più, ma soprattutto con l’istituzionalizzazione democratica del radicalismo: è giunto il tempo di smetterla di tergiversare con i balletti europei per puntare decisamente alla Federazione di Stati che superi gli schemi nazionali duri a morire e quelli comunitari duri a vivere. Bisogna cioè rispondere alzando il livello del contendere e tentando di rispondere all’insano populismo politico con il sano populismo democratico. Solo così forse si riusciranno a rianimare le coscienze obnubilate dall’egoismo dell’antipolitica.

I margini di recupero esistono: sembrava che le elezioni in Svezia potessero segnare la debacle definitiva del riformismo socialista nella sua culla geografica e storica con l’annunciato trionfo della destra estrema. Non è stato proprio così: la destra avanza, ma non stravince. La fiammella è ancora probabilmente accesa: anziché pensare semplicemente di rianimarla, alimentandola coi richiami alla tradizione democratica dell’Occidente, sarebbe il caso di utilizzarla per appiccare l’incendio istituzionale all’Europa in senso federale e comunitario. Le prossime elezioni europee vanno giocate all’attacco: chi si difende è perduto.  A mio giudizio non è il momento di vedere e scoprire i giochi, ma di rilanciare alla grande: la democrazia che si ferma è perduta.

 

La brezza Obama

Nella mia vita ho incrociato parecchi enti, in cui ho lavorato o con cui ho avuto rapporti di vario tipo, avendo necessità e opportunità di confrontarmi con i loro presidenti. Ebbene, una strana costante è stata quella di incontrare parecchie difficoltà, a volte quasi drammatiche, con i presidenti in carica, arrivando anche allo scontro fino alle estreme conseguenze della rottura. Mentre trovavo tali e tanti problemi nei rapporti con la dirigenza in sella, scoprivo di essere in perfetta sintonia con i predecessori. Purtroppo era tardi, ero fuori tempo massimo e questo feeling di ritorno da una parte mi consolava, ma dall’altra mi arrecava ulteriore rincrescimento e rimpianto.

Di questo strano destino esistono senz’altro cause storiche e psicologiche, che non ho mai sufficientemente indagato e approfondito, preferendo chiudermi in una sorta di masochistica autoflagellazione culturale. Il tempo è inesorabilmente galantuomo o cinicamente menefreghista? Nella prossima vita vedrò di rimediare… Fatto sta che in questi giorni l’inghippo culturale si è ripetuto. Per quanto può riguardarmi mi sento profondamente vedovo della presidenza di Barak Obama e proporzionalmente separato da quella di Donald Trump. Ho tanta nostalgia del passato: non solo lo rivaluto, come è normale che avvenga, ma lo rimpiango con tutte le mie residue forze. Il fascino dell’ex mi intriga assai.

Ma veniamo a quanto affermato in questi giorni da Barak Obama, tornato in campo invitando i giovani ad andare a votare nelle elezioni americane di mid-term del prossimo novembre: “La posta in gioco è alta e le conseguenze dello starsene da parte si fanno più grame”. Obama ha affermato che quello in corso è un momento davvero diverso da quanto visto fino ad ora in America. Ha però sottolineato che i timori per la democrazia non sono iniziati con Trump. Il tycoon convertito alla politica “sta solo sfruttando il risentimento nei confronti dei politici, che c’è da anni”. L’ex presidente ha proseguito: “Lo status quo spinge in senso contrario al progresso. A volte questo cambiamento arriva da persone, che in maniera genuina, anche se sbagliata, temono il cambiamento. Più spesso è creato da persone potenti e privilegiate che vogliono tenerci divisi, arrabbiati e cinici. Perché questo li aiuta a mantenere lo status quo, a conservare il loro potere e i loro privilegi. E può capitare di crescere in una di queste fasi. Tutto questo non è iniziato con Donald Trump: lui è un sintomo, non la causa”.

Mi sono sentito rasserenato e rinfrancato. Non so quanto effetto avranno le parole di Obama. Trump si è affrettato a commentare di essersi addormentato ascoltandole. Lo capisco! Probabilmente anche i giovani americani faranno fatica a mettersi in sintonia con esse.

In Italia i sondaggi danno in rapida salita i consensi alla Lega: possibile? Possibilissimo. Stanno sfruttando il risentimento nei confronti della politica, anche da parte di categorie che non avrebbero motivi seri al riguardo. Anzi…Pensiamo agli agricoltori, a tutti gli aiuti da essi ricevuti, all’attenzione riservata ai loro problemi. Niente: tutti stupidi e tutti ladri. Non ci sto! Dagli Usa è sempre arrivato un vento che, volenti o nolenti, ci ha coinvolto. Speriamo che, dopo il ciclone Trump, ritorni la brezza Obama: per l’Italia, per l’Europa e per il mondo.  Sarò un illuso, ma ci spero.

Il più bel Fico del bigoncio pentastellato

Se è vero, come è vero, che l’assunzione di certe cariche politiche, e non solo politiche, scatena una sorta di ridicolo delirio di onnipotenza, è altrettanto vero che esistono fortunatamente eccezioni a questa regola. Vado immediatamente al sodo: Roberto Fico. Il nuovo presidente della Camera dei Deputati, la terza carica dello Stato, sta dimostrando, pur senza abiurare alla propria fede grillina, di saper ragionare con la sua testa e di sapersi affrancare dal pesante condizionamento partitico.

Non credo si tratti del giochino del grillino buono e di quello cattivo, ma di senso di responsabilità adeguato all’importanza e delicatezza dell’incarico ricoperto. Roberto Fico ha preso una posizione ragionevole ed equilibrata durante la vicenda dei profughi bloccati sulla nave Diciotti, non facendosi scrupolo di criticare l’assurdo atteggiamento baldanzoso del ministro degli Interni e il comportamento omertoso del governo Conte. Qualcuno lo ha immediatamente mandato a cuccia, intendendo relegarlo al suo mestiere, ma, tutto sommato, non c’è riuscito e Roberto Fico ne è uscito bene, senza esagerare: ha semplicemente affermato che era il caso di far scendere dalla nave i profughi, di soccorrerli, per poi discutere chi li avrebbe dovuti ospitare. Un semplice, non banale, ragionamento di buon senso, merce sempre più rara.

Non ho elementi per giudicare se questo anomalo grillino sia il miglior Fico del bigoncio pentastellato. Non so se sia stato collocato sul più alto scranno della Camera per toglierselo dai piedi quale concorrente scomodo oppure per mostrare la faccia dialogante e buonista di un movimento arrabbiato e cattivista. Si tratta di un contrappeso rispetto all’invadenza dimaiana e di un rigurgito di autonomia rispetto alla strafottente leadership grillina e/o casaleggiana? È presto per dirlo. Posso solo esprimere un desiderio.

Il movimento tanto in auge fa riferimento a cinque stelle, che rappresentano un po’ l’affascinante libro dei sogni grillino: Acqua, Ambiente, Trasporti, Connettività, Sviluppo. Come noto, esiste il fenomeno delle stelle cadenti, che mitologicamente e religiosamente parlando, rappresentano un collegamento, un ponte tra il cielo (dove stanno le stelle) e la terra…qualcosa di celeste/immaginario che scende sulla terra, che diventa vero, qualcosa di eccezionale che diventa realtà, che si avvera. Ecco perché le stelle cadenti sono collegate all’avverarsi di un desiderio.

Fantasia per fantasia, mi piace sognare che Roberto Fico altro non sia se non una stella cadente del firmamento grillino: un ponte tra il cielo dell’antipolitica e la terra della politica, tra la protesta campata in aria e la proposta coi piedi per terra, tra la favola “dell’arrivano i nostri” e la realtà “del collaboriamo per migliorare la situazione”, tra l’impossibile colpo di spugna e il credibile cambiamento. Di fronte alla sua stella che cade esprimo quindi un desiderio: che la politica torni ad essere la base per migliorare la nostra convivenza, che si smetta di sbraitare slogan per dialogare seriamente, che si rispettino e valorizzino le istituzioni democratiche, che il popolo non venga illuso e strumentalizzato, ma concretamente interpretato nelle sue esigenze e istanze in linea con la nostra Costituzione.

Spero che il Presidente della Camera non faccia la fine prevista dal modo di dire parmigiano: “Incolar atach al mur cmé ‘na péla ‘d figh” (appiccicare al muro come una pelle di fico). Sicuramente qualcuno ci sta pensando, anche fra i suoi colleghi di partito, o movimento come dir si voglia.  Gli auguro invece di resistere, di vendere cara la sua pelle e di inchiodare al muro quanti stanno giocando a fare politica, precipitando sulla terra il cielo grillino. Può darsi si tratti della “speransa di mäl vesti, ch a faga un bón invèron”.

 

 

Temiamo l’ira dei burloni

“Se vogliono toglierci tutto, lo possono fare. Noi abbiamo gli italiani con noi, facciano quello che credono”. Così il leader del Carroccio, Salvini, dopo la decisione del tribunale del Riesame di Genova, che ha accolto il ricorso della Procura sul sequestro dei fondi della Lega. “È una vicenda del passato, sono tranquillo – ha puntualizzato Salvini – gli avvocati faranno le loro scelte”.

“Temete l’ira dei giusti. Lavoro per la sicurezza degli italiani e mi indagano per sequestro di persona (30 anni di carcere), lavoro per cambiare l’Italia e l’Europa e mi bloccano tutti i conti correnti, per presunti errori di dieci anni fa. Se qualcuno pensa di fermarmi o spaventarmi ha capito male, io non mollo e lavoro con ancora più voglia. Sorridente e incazzato”. Così il vice-premier Matteo Salvini su Twitter.

Queste reiterate dichiarazioni si possono valutare i due modi: come sberleffi al sistema o come attacchi al sistema. “Lo sberleffo” è una smorfia o un gesto di derisione a cui generalmente si risponde con un altro sberleffo. Nel caso specifico si potrebbe controbattere a Salvini: anche noi siamo sorridenti e incazzati, anzi sorridenti e impietositi. L’attacco è altra cosa: un’azione offensiva che ha scopo distruttivo o, quanto meno, intimidatorio. Dall’attacco, in qualche modo, bisogna pur difendersi, non si può far finta di niente, perché potrebbe essere assai pericoloso.

Le dichiarazioni salviniane sono un condensato di sciocche ma rischiose boutade anti-sistema, meglio dire anti-democratiche. La Lega sarebbe al di sopra della legge e della giustizia in quanto dalla parte dei cittadini e quindi si ipotizza una netta dicotomia fra Stato e Popolo oppure, se si vuole, una coincidenza fra Stato e Lega. In secondo luogo la storia non conterebbe nulla: gli errori del passato vanno in prescrizione e non si pagano, la spugna leghista è più forte della memoria giudiziaria. In terzo luogo le regole di funzionamento della democrazia vengono ridotte a scontro tribale tra chi vuole cambiare e chi vuole conservare: una sorta di duello all’ultimo sangue politico.

Prima o poi questo signore si ridimensionerà.  Se la sono fatta addosso personaggi di ben altro spessore, quindi… Il problema però non è tanto di merito, quanto di metodo, non riguarda tanto parole in libera uscita, ma presupposti della coscienza democratica. Uso una metafora calcistica: un conto è andare tutti all’attacco con il supporto della tifoseria, un conto è giocare un campionato a propria misura con le regole fatte dai propri tifosi. Siamo a questo punto: non si tratta più di fisiologico qualunquismo da bar, né di stucchevole populismo da corrida. Il discorso si sta facendo delicatissimo, ogni giorno sempre più delicato, stiamo scivolando più o meno inconsapevolmente verso una caricatura della democrazia. Salvini finirà, probabilmente finirà male, ma lascerà dietro di sé un cumulo di macerie a livello di coscienza popolare, da cui ci vorrà del bello e del buono a riprendersi. Gli esperimenti nella vita si possono anche fare, gli errori si commettono, tutto si può sopportare meno che le scriteriate e impazzite fughe dalla realtà.

Un esperimento – probabilmente molti italiani si sono affidati a Salvini in tal senso – è la realizzazione di un’operazione empirica atta a confermare ipotesi o trovare leggi riguardanti un fenomeno per migliorarne la conoscenza o trovare soluzioni di miglioramento, non per spazzare via tutto gettando alle ortiche ogni e qualsiasi bussola. Mi auguro che questo progressivo innalzamento dell’asticella nel clima politico possa risvegliare finalmente un minimo di razionalità e dare una scossa al ravvedimento delle coscienze. Diversamente non riesco più a ridere, nemmeno a sorridere, forse nemmeno ad arrabbiarmi. Se qualcuno può muoversi e fare qualcosa lo faccia, prima che sia troppo tardi.

 

 

Dall’altare del populismo alla polvere del popolo

Gesù entrò trionfalmente in Gerusalemme, acclamato con gli “Osanna al Figlio di Davide”, riconosciuto a furor di popolo come redentore e messia. Dopo alcuni giorni venne messo in croce, con il popolo che assistette imperterrito alla farsa della sua incriminazione da parte dei maggiorenti israeliani e gli preferì addirittura un Barabba qualsiasi. Le plebi sono pericolosamente volubili e imprevedibili: ecco perché chi vaneggia alla ricerca di un facile populismo anti-istituzionale fa un pessimo servizio alla vera democrazia.

Sono passati pochi giorni dalla celebrazione solenne dei funerali delle vittime del crollo del ponte Morandi a Genova. Quel giorno venne concessa una accoglienza molto benigna ai rappresentanti del governo e ai leader della maggioranza giallo-verde. Già il mescolare le esequie con le simpatie politiche non è il massimo della serietà. Agli imponenti funerali di Enrico Berlinguer venne riservata una certa ostilità a Bettino Craxi, al quale fu poi chiesto un commento: «Nei funerali politici c’è spazio anche per la contestazione politica».

Tutto si può capire: nei momenti di disperazione è umano attaccarsi a quel che c’è a portata di mano e in questa fase storica la politica offre purtroppo la botte che ha. Non appena si assaggia il vino, ci si rende conto che la botte conta poco. Ebbene siamo già arrivati alla contestazione, inscenata dai senza tetto contro Regione e Comune per i ritardi nella assegnazione degli alloggi. Luigi Di Maio ha sentito puzza di bruciato e si è precipitato a cavalcare la protesta: «Hanno ragione, diamoci una mossa!». Gli ha risposto il presidente ligure Toti: «Meno parole e più fatti!». È scoppiata, prima che si potesse immaginare, la querelle fra gli Enti Locali che aspettano i fondi per intervenire e lo Stato che lamenta una certa debolezza del potere a livello periferico.

Non mi scandalizzo di niente. Non mi stupisce la fretta della gente: al loro posto probabilmente sarei ancora più ansioso e pretenzioso. Non mi impressiona l’incertezza della politica locale a muovere i primi passi in una situazione complicatissima e delicatissima. Capisco la difficoltà del governo ad intervenire tempestivamente con i giusti provvedimenti senza farsi imprigionare nelle solite pastoie burocratiche. Qualcosa però mi infastidisce: la faciloneria e la supponenza con cui gli attuali governanti si presentano e la dabbenaggine con cui la gente li segue. Non sopporto questa aria da primi della classe sciorinata da Lega e M5S. I primi della classe sono sempre antipatici, figuriamoci se li sono soltanto di facciata.

Consentitemi di riportare una piccola esternazione paterna, davanti al video, vale a dire a commento di una delle solite vuote interviste propinate ai fanatici del pallone. Parla il nuovo allenatore di una squadra, non ricordo e non ha importanza quale, che ottiene subito una vittoria ribaltando i risultati fin lì raggiunti. L’intervistatore chiede il segreto di questo repentino e positivo cambiamento e l’allenatore risponde: “Sa, negli spogliatoi ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti che dovevamo vincere”. Non ci voleva altro per scatenare la furia ironica di mio padre, che, scoppiando a ridere, soggiunse: “A s’ capìssa, l’alenadór äd prìmma, inveci, ai zugadór al ghe dzäva äd perdor”.  Tutto chiaro? Mi sembra proprio di sì. I trainer padre eterni sono inutili ed insulsi, come i politici “faso tuto mi”.

Lo storytelling del fascismo

In questi giorni ricorre il triste ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziste contro gli Ebrei: una ricorrenza che rischia di passare inosservata. Non so se si tratti di rimozione a livello psico-storico, in un momento in cui certi fantasmi razziali si stanno aggirando per l’Italia, per l’Europa e per il mondo. Forse è colpa soltanto del tempo che passa e cancella le orme di un passato vergognoso?  Non credo!

Fa notizia invece il funerale del docente di Diritto italiano all’Università di Sassari, che sta suscitando polemiche: i “camerati” schierati che salutano “romanamente” il professore e rispondono “presente” al richiamo “camerata Giampiero Todini”. Il video è stato postato dalla consigliera comunale del centro-sinistra, Lella Careddu, che commenta: «Nella nostra città, sul sagrato di una chiesa, senza vergogna. Fascisti sdoganati».

Lo storytelling è l’arte del raccontare storie, impiegata come strategia di comunicazione persuasiva, specialmente in ambito politico, economico ed aziendale. In parole povere la storia non è fatta obiettivamente dagli accadimenti, ma dal racconto che di essi si fa strumentalmente. Ha ragione da vendere Lella Careddu: lo storytelling, in questa fase politica, sdogana il fascismo, coprendo, con manifestazioni nostalgiche e sottovalutazioni culturali, l’orrore delle scelte di un regime; relega la storia in un passato da compatire e le toglie l’insegnamento per il futuro.

Il prossimo 20 settembre l’Università italiana chiederà scusa alle vittime delle leggi razziali: i rettori degli Atenei non intendono fare una semplice commemorazione, ma vogliono dare un forte monito per il presente e per il futuro, che dovrebbe servire a riaccendere l’attenzione su quello che può riaccadere. Sarà bene che si faccia anche un esame di coscienza sul fatto che solo una ristrettissima minoranza dei docenti universitari seppe prendere le distanze dal regime rifiutando la tessera del fascio. Servirà a rendere più credibile e profondo l’appello.

Lo storytelling del fascismo fortunatamente me lo sono trovato in casa. Mio padre, prima e più che in senso politico, era un antifascista in senso culturale ed etico: non accettava imposizioni, non sopportava il sopruso, non vendeva il cervello all’ammasso, ragionava con la sua testa, era uno scettico di natura, aveva forse inconsapevolmente qualche pulsione anarchica, detestava la violenza. Ce n’è abbastanza? E a me, ancora bambino, raccontava episodi di vita vissuta nella culla antifascista dell’Oltretorrente. Uno storytelling sanguigno e diretto che mi ha forgiato culturalmente e politicamente.

Resistenza (nel cuore e  nel cervello), costituzione (alla mano), repubblica (nell’urna) imponevano e impongono una scelta di campo imprescindibile e indiscutibile: sull’antifascismo non si può scherzare anche se qualcuno tra revisionismo, autocritiche, pacificazione, colpi di spugna rischia grosso, finendo col promuovere il discorso di chi vuole voltare pagina, non capendo che coi vuoti di memoria occorre stare molto e poi molto attenti e che (come direbbe mio padre) “in do s’ ghé ste a s’ ghe pól tornär “.

 

Il mondo, la guerra e la pace a pezzi

Da parecchio tempo papa Francesco parla di una guerra mondiale a pezzi. Fra questi ci sono i pezzettoni e i pezzettini. Quella siriana, per la sua complessità e durata rientra nella prima categoria. Quella libica, che sta risorgendo dopo la breve illusione di un patto di non belligeranza fra le diverse tribù in cui è articolato il tessuto socio-politico di quel Paese, è forse classificabile nella seconda, anche se a noi più vicina, territorialmente, storicamente e socialmente. Purtroppo in questi Paesi, dilaniati da enormi problemi, solo i più feroci dittatori riescono a tenere coperchiate le pentole e, non appena questi personaggi vengono tolti di mezzo, scoppia il finimondo. Non è una buona ragione per sostenere i dittatori, ma non è nemmeno un motivo per farli fuori sbrigativamente, come è successo in Libia con Gheddafi.

La storia insegna che questi squallidi personaggi sono capaci di stare a galla o meglio vengono lasciati galleggiare per opportunismo, poi, quando non servono più, vengono abbattuti e i loro Paesi cadono dalla padella alla brace. Per la Libia si sta verificando proprio questo percorso. Ai tempi dei blocchi contrapposti e della guerra fredda, i focolai di guerra si accendevano e si spegnevano sulla base degli impulsi, che le due superpotenze imprimevano alle situazioni. Oggi il mondo si è complicato, è aumentato il numero delle potenze in gara, ma la logica è rimasta la stessa, con la grossa differenza che l’interruttore per accendere e spegnere è in troppe mani. Per continuare a citare papa Francesco, alla guerra a pezzi bisognerebbe contrapporre la strategia di una pace a pezzi.

Non è un caso se sono portato a fare riferimento a Bergoglio: è l’unico personaggio veramente globale, autorevole e credibile, che si muove sulla scena mondiale. Se si passano in rassegna i vari leader c’è da rimanere sbigottiti per la loro inaffidabilità e la loro totale inadeguatezza. Al pensiero che il mondo sia nelle mani dei vari Trump , Putin, etc. etc., c’è da farsi venire i brividi. L’ultimo personaggio di livello apparso è il presidente francese Emmanuel Macron: aveva avvalorato qualche timida speranza, ma anche lui si sta omologando alla presuntuosa mediocrità dei “grandi”.

Cosa intende papa Francesco quando parla di pace a pezzi? Una via vissuta, testimoniata, cercata, invocata, creduta da uomini e donne, leader religiosi e semplici credenti, che non si arrendono al “paganesimo dell’indifferenza”. Qualche tempo fa Andrea Tornielli su Vatican Insider, dopo un forte richiamo di Francesco a tutti i popoli della terra, scriveva: «Nonostante il mondo sia sempre più squassato da guerre, odio, violenze, sfruttamento e povertà, ci sono tanti uomini e donne, tanti credenti appartenenti a tutte le religioni, che non si arrendono. Sono frammenti, pezzetti, tessere minuscole di un puzzle alla cui composizione l’umanità anela».

Forse siamo stati troppo abituati a guardare alla politica quale prevenzione e rimedio ai conflitti. Ma se la politica scade a guerra di nervi ed a contrapposizione strumentale…resta l’impegno degli uomini di buona volontà. Giorgio La Pira, quando prendeva spericolate e paradossali iniziative a favore della pace, si faceva accompagnare non tanto da consiglieri diplomatici, ma dalla preghiera delle monache di clausura. La pace è un dono di Dio e non una conquista degli uomini. Ce ne stiamo accorgendo giorno dopo giorno. Non è un motivo per rassegnarsi, ma per agire al di là dei consessi internazionali, che non combinano un tubo.

Tutti prostituti nel casino siriano

Un po’ per uscire dalle penose strettoie della politica italiana, un po’ per mettermi a posto la coscienza in senso pacifista, un po’ per affogarmi nel mare grande della guerra mondiale, ho buttato un occhio alla Siria laddove si profila un ulteriore incrudimento dello scontro militare con la conseguenza di un ulteriore dramma umanitario.

Non è facile riuscire a capire qualcosa nel ginepraio siriano: le forze in campo sono molte, le alleanze complesse e variabili, gli attori impegnati in un “tutti contro tutti” pazzesco. Abbiamo innanzitutto l’esercito del macellaio-presidente siriano Bashar Al Assad, testardamente impegnato a difesa di un regime che si regge sulla propria debolezza, strumentalmente cavalcata dai potenti di turno: Russia, Iran e Turchia che si battono contro i ribelli del regime. A questi tre Paesi, per diversi motivi, fa gioco il regime fantoccio di Assad: la Russia vuole tenere a tutti i costi un piede in questo teatro; l’Iran vuole prevenire e contrastare le mire espansioniste del nemico israeliano; la Turchia ha l’ossessione per i separatisti Curdi a loro volta facenti parte della coalizione curdo araba sostenuta da una coalizione internazionale guidata dagli Usa. C’è poi il fronte “terroristico” con le forze jihadiste costituite dall’Isis, (lo Stato Islamico) e il gruppo Hayat Tahir al-Cham, contro cui combattono disperatamente insieme tutti gli altri.

In cotanta confusione politico-militare la ricca ed autoreferenziale Europa che fa? Sta più o meno debolmente a guardare, anche se sarà la prima destinataria del dramma di centinaia di migliaia di vittime e di milioni di rifugiati, di fronte ai quali i vari Salvini non potranno certo salvare nessuno. Preferisce preoccuparsi dell’ora legale, non riuscendo peraltro a trovare la quadra nemmeno su questo marginale problemuccio. Non so se, come sostiene Massimo Cacciari, per rilanciare l’Europa occorra costituire un fronte progressista a livello continentale: mi sembra francamente uno schema piuttosto datato e velleitario. Vedo – e in questo come in parecchie altre questioni hanno ragione i radicali eredi di Marco Pannella – necessario   un rilancio a livello culturale, sociale e politico del federalismo: solo un’Europa federale può essere protagonista all’interno e all’estero.

Torno un attimo sul conflitto siriano. Non ci si capisce niente al di là della volontà di tutti di fare “i cazzi propri” sulla pelle dei siriani. Ci sono vari tipi di protagonismo dietro i due fantocci in campo: Assad e lo Stato islamico. C’è il protagonismo lucido e freddo della Russia putiniana, che mi ispira paradossale analogia-nostalgia per il gigante Urss. Esiste il protagonismo trumpiano mordi e fuggi, quello del colpo al cerchio e del colpo alla botte. Esiste anche il protagonismo silente ma pesante di Israele. Abbiamo il protagonismo dei comprimari: quello aggressivo e progressivo degli iraniani; quello schizofrenico e fuorviante dei turchi. Poi arriviamo al protagonismo del “non protagonismo”, quello europeo con la Francia che non rinuncia mai alla sua visione nazionalistica, con l’Inghilterra che scappa ma trova sempre il modo per darla su militarmente agli Usa, con la Germania che pensa solo ai conti ed ai bilanci e strizza l’occhio agli interlocutori di turno, con l’Italia che un tempo aveva dignità e ruolo e che oggi sta rinunciando all’una e all’altro.

Chiudo con una inevitabile puntatina polemica a livello italiano: non illudiamoci di risolvere i problemi guardandoci l’ombelico. A proposito di ombelico ricordo una simpatica battuta di un mio zio. Eravamo in spiaggia e stavamo sciorinando le solite futili chiacchiere estive. Tutto ad un tratto se ne uscì con questa constatazione: «Non so se ci avete fatto caso, ma l’ombelico ce l’hanno tutti…». Sì, ma il nostro, dopo la cura giallo-verde, è il miglior ombelico d’Europa e del modo. Continuiamo a guardarcelo! Anche perché stiamo riuscendo a ripristinare il cordone ombelicale con i peggiori “ismi” della storia.

 

 

Il crollo del ponte solleva il polverone burocratico

Si potrebbe dire “dopo il danno la beffa”. È quanto rischia di succedere relativamente al crollo del ponte Morandi: comincia a intravedersi un gioco allo scarico di responsabilità fra la società autostrade e il ministero delle infrastrutture, emerge una corrispondenza dai toni burocratici, che sembra fatta apposta, non per prevenire i disastri, ma per mettere le mani avanti nel caso in cui si verifichino. Dalla caterva di documenti sequestrati ed attualmente nelle mani della magistratura inquirente non potranno emergere con chiarezza le responsabilità: troppo complessa e delicata la materia, troppo astuta la burocrazia a nascondersi dietro le prassi amministrative, troppo difficile stabilire le cause dell’evento e se questo potesse o meno essere previsto ed evitato o quantomeno se sia stato fatto tutto il possibile per evitarlo. Perizie, contro-perizie, relazioni tecniche, pareri legali, discussioni infinite: probabilmente non si arriverà a capo di nulla.

Che infastidisce non è tanto l’incertezza su cause e responsabilità; che irrita parecchio è il “ma noi l’avevamo scritto”, “ma la questione era stata sollevata”, “ma attendevamo una risposta”, “ma avevamo fatto la segnalazione”, “ma questo non toccava a noi”, “ma doveva pensarci qualcun altro”. Mio padre, uomo portato al dialogo ed al confronto con le persone e le istituzioni, piuttosto tollerante con tutti, capace di sdrammatizzare le situazioni; non sopportava però di essere preso in giro, di finire stritolato nel giochetto del rimando a tizio e caio, non accettava d’esor tôt pr’al cul (per dirla alla parmigiana). Se si trattava di battute o di episodi bonari, tutto andava bene (in fin dei conti, chi la fa, l’aspetti), ma, quando si faceva sul serio, reagiva e non accettava. La sua etica gli imponeva l’intransigenza assoluta.

Raccontava spesso episodi accadutigli in ambiente di lavoro. Mio padre era artigiano-imbianchino e lavorava in cantieri dove doveva confrontarsi con altri operatori edili ai quali a volte doveva chiedere qualcosa di importante per la corretta prosecuzione dei lavori. Una volta se lo rimandarono da uno all’altro: «Veh, d’mandol a lilù…». «No, pärla con chilù…». «No, sènta lalù…». A quel punto la pazienza finì: «Ragas, am tóliv pr’al cul? Adésa basta!». Così come sapeva essere aperto e simpatico, all’occorrenza la sapeva mettere giù dura ed aveva mille ragioni.

L’episodio più spiacevole, che talora rammentava, risaliva al periodo in cui lavorava non da artigiano, ma da dipendente. Ad un cliente, che aveva chiesto un intervento straordinario rispetto al preventivo stipulato, su preciso ed espresso incarico del suo datore di lavoro fu costretto a dire un categorico No, spiegando di avere parlato col “padrone” che così aveva deciso. Se non ché pochi istanti dopo, arrivò il padrone al quale il cliente chiese conto: «Come mai lei dice che non è possibile fare questo intervento?». Il padrone, che aveva evidentemente mandato mio padre allo sbaraglio, rispose: «Mi, an säva niént …, adésa a v’dèmma…». Mio padre mi diceva che, per non rischiare il posto di lavoro si morse la lingua e tacque, ma se avesse potuto reagire liberamente gli avrebbe sferrato un pugno nei denti. Sì, perché in quei casi non bisogna porgere l’altra guancia, ma l’altro pugno.

Trasferiamo questa intolleranza verso la presa in giro all’elevato livello del ponte Morandi e ci sentiremo cornuti e mazziati. È questo l’inghippo burocratico che paralizza e squalifica il nostro paese, che allontana gli investitori, che rende tutto lungo e incerto. Hanno provato in tanti a riformare la burocrazia, a snellirla, a renderla più efficiente: non ci sono riusciti. Le cause storiche si sommano a quelle sociali e politiche. Alla politica tutto sommato fa gioco una burocrazia elefantiaca e invadente; alla burocrazia fa comodo una classe politica incompetente e inconcludente. La burocrazia è competente, esperta e capace, ma si nasconde dietro la politica: al caos legislativo aggiunge un di più di inerzia e di confusione interpretativa. Non bisogna generalizzare. Ho conosciuto fior di funzionari, ma anche fior di fannulloni. Quanti episodi avrei da raccontare al riguardo!

Basti rammentare questo piccolo episodio. Mi trovavo per impegni professionali nell’anticamera di una Commissione Tributaria e partecipavo al gossip di attesa, che verteva sulle solite lamentele riguardanti la complessità degli adempimenti fiscali per il contribuente e la loro scarsissima chiarezza. Teneva banco un esperto professionista di Milano, il quale, ad un certo punto, stupì tutti con una rivelazione dal sapore scandalistico. In riferimento al contenuto delle risoluzioni del Ministero delle Finanze (le risposte che gli uffici centrali danno ai quesiti dei contribuenti singoli o associati) chiese ai presenti se conoscessero il perché di tanta ambiguità e di così poca chiarezza. Nessuno ebbe una risposta pronta e questo pretenzioso commercialista sputò la sua motivazione: «Dal momento che le risoluzioni vengono redatte da funzionari di alto livello, responsabili di quanto affermano, esisterebbe una norma ovviamente segreta, una sorta di patto corporativo in base al quale verrebbero introdotti nel corpo delle risposte espressioni ambigue, parole contraddittorie, incisi fuorvianti in modo da rendere interpretabile in modi diversi il testo e da evitare quindi spiacevoli responsabilità ai funzionari stessi. Questi quindi solleverebbero comunque un po’ di polvere per coprirsi le spalle da errori o da leggerezze interpretative».  Tutti i presenti rimasero di stucco. Anch’io non reagii, la discussione cadde, ma il dubbio rimase ed ogni volta che leggevo una risoluzione ministeriale poco chiara mi ricordavo di quell’illustre signore: l’aveva sparata grossa, ma forse non era andato lontano dalla verità.