Giovanni Tria, soprannominato “il bohémien”

“Se l’Italia vuole un trattamento particolare supplementare, questo vorrebbe dire la fine dell’Euro. Bisogna essere molto rigidi. L’Italia si allontana dagli obiettivi di bilancio che abbiamo approvato insieme a livello europeo. Non vorrei una crisi come la Grecia”. Così il presidente della Commissione Ue, Juncker, non certo un nemico dell’Italia. Juncker era a Friburgo in Germania e rilasciava queste dichiarazioni mentre il ministro italiano dell’Economia, Giovanni Tria, giungeva all’Eurogruppo a Lussemburgo, dove non è stato accolto con rose e fiori e quindi ha invitato i partner europei a stare tranquilli, rassicurandoli che il rapporto debito/pil scenderà nel 2019.

Poi ha cercato di spiegare che cosa sta accadendo e come è formulata la manovra. “Il 2,4 % è un numero che non corrisponde ad alcune regole europee, ma fa parte della normale dinamica Ue, è sempre accaduto a molti Paesi nel corso degli ultimi decenni: sono pochi quelli in regola con Ue. Non significa che non vada rispettata la legge, ma ci sono delle situazioni economiche in cui bisogna fare delle valutazioni”. Così il ministro Tria.  “Importante è la qualità della manovra. Questa è di crescita. Se non vinciamo la scommessa cambieremo misure. Non ci sarà alcuna fine dell’Euro”. Tria ha lasciato anticipatamente la riunione di due giorni per rientrare a Roma. Non parteciperà all’Ecofin, la riunione dei ministri finanziari. Lo confermano fonti del Mef specificando che Tria torna per potersi dedicare al completamento della Nota di aggiornamento al Def e all’Ecofin andrà il direttore generale del Tesoro Rivera.

Due banali riflessioni mi vengono spontanee. Innanzitutto non mi sembra il momento di snobbare importanti riunioni a livello europeo: è inutile nasconderlo, siamo nell’occhio del ciclone e dare l’impressione di trascurare i tavoli europei non è certo il modo migliore per chiarire la posizione italiana a livello di confronto e di dialogo. L’aria che tira non è delle migliori e quindi non sono opportune furbizie pseudo-diplomatiche. In certi frangenti bisogna essere presenti e puntuali nel sostenere le proprie tesi, ma anche nell’ascoltare le obiezioni e le critiche dei partner, che fino a prova contraria non sono dei nemici.

La seconda riflessione riguarda il tono e il contenuto delle dichiarazioni rilasciate frettolosamente dal ministro Tria. In Bohème, l’opera lirica di Giacomo Puccini, Rodolfo cerca di giustificare il suo distacco da Mimì con argomenti pretestuosi, al punto che l’amico Marcello è costretto a dirgli: “Lo devo dir? Non mi sembri sincer…”. Il seguito lo lascio perdere per carità di Patria. Leggendo i comunicati stampa, che riportano le parole di Tria, ho avuto la stessa reazione di Marcello: le spiegazioni non sono plausibili, lasciano il tempo che trovano, rinviano i problemi a data da destinarsi.

Appellarsi ad una situazione eccezionale, peraltro prevista dagli accordi europei, non è oggettivamente sostenibile: la giustificazione è fasulla e posticcia e quindi non può essere presa in seria considerazione. Che uno sforamento del 2,4 % a livello di rapporto defici/pil faccia parte della normale dinamica UE, dopo che l’Italia si era impegnata a puntare allo 0,8 %, è sinceramente un’argomentazione ridicola (lo stesso Tria risulta aver battagliato per non alzare la previsione del deficit fino a quel punto). Prevedere che, se non si otterranno i risultati di crescita, verranno cambiate le misure, sa tanto dell’infantile promessa di “fare i bravi” dopo aver sgarrato a più non posso.

Mi auguro che Giovanni Tria, se ancora possibile, lavori sodo sul Def e poi, visto che non ritiene opportuno dimettersi, cerchi almeno di spiegarsi meglio e di tenere un atteggiamento corretto nei confronti dell’Unione Europea. Non può traccheggiare, fare il finto tonto, prendere tempo. Abbia il coraggio di dire che in questa fase politica l’Italia ritiene di allontanarsi dai propri impegni europei, chiedendo transitoria comprensione e tolleranza. Per stare sempre a Bohème, al nostro ministro non resta, parafrasando Mimì, che cantare: “Altro dell’Italia non saprei narrare, sono il vostro vicino che vi vien fuori d’ora a importunare”. Speriamo che queste citazioni operistiche non siano dei lapsus freudiani, dal momento che “Bohème” significa “Vita povera e disordinata”.

Il popolo festeggia il lupo e snobba l’agnello

Luigi Di Maio vide il Partito Democratico in piazza che protestava contro la manovra economica del governo pentaleghista e gli venne voglia di sputtanarlo con qualche pretesto. Standosene sul Blog delle Stelle cominciò ad accusare il PD di creare terrorismo mediatico per far schizzare lo spread, di essere irresponsabile e nemico dell’Italia e amico dei poteri forti annidati in Europa.

Il PD gli fece notare che lo spread non dipende dal partito democratico, ma dal grado di fiducia degli investitori verso chi governa e che i mercati non guardano al PD, ma alle linee di politica economica che mettono a rischio la tenuta del Paese, contenute nel documento di economia e finanza varato dal governo, irresponsabile e cialtrone, di cui i democratici sono all’opposizione.

Venutogli meno quel pretesto, Di Maio allora disse: «Ma voi del PD avete governato in passato e i mercati si ricordano di voi e soprattutto di Renzi, ecco perché le borse crollano. È colpa vostra!». E il PD a spiegargli che quando governavano Letta, Renzi e Gentiloni, lo spread era in netto calo e la situazione economico-finanziaria tendeva a migliorare. E poi, se proprio vogliamo scaricare le colpe sul passato, anche gli attuali alleati del M5S, i leghisti, hanno governato per parecchi anni fino a portare l’Italia sull’orlo dell’abisso europeo.

«Bene» concluse Di Maio, «se siete così bravi a trovare delle scuse, noi non possiamo rinunciare a darvi tutte le colpe e a farvi mangiare dal popolo. Infatti abbiamo oltre il 60% di consenso, fatevene una ragione. La manovra economica per la prima volta fa il deficit per dare ai più deboli e non alle banche».

Dalla piazza risposero i democratici, una volta tanto uniti fra di loro: «La vostra è una manovra contro il popolo, perché ne aumenta i debiti. Il deficit sarà ben più alto di quanto previsto e il Paese è a rischio». E Di Maio, spazientito come non mai, rispose: «Metteremo mano alle forbici e abbatteremo il debito tagliando spese inutili».

A quel punto, visto che contro chi ha deciso di avere ragione a tutti i costi, non c’è argomento che tenga, il PD si rassegnò. Riprese a litigare al proprio interno fra coloro che vorrebbero dialogare e collaborare con i grillini e quanti non li vogliono nemmeno vedere, fra coloro che vorrebbero restare in piazza per ripartire dal popolo, non quello osannante sotto le finestre di Palazzo Chigi, ma quello storico per una nuova sinistra, e quanti pensano di rimandare tutto al congresso in cui decidere se farsi mangiare definitivamente dal popolo o provare a resistere in nome di un’Italia che non è minoritaria e cerca di reagire.

La favola finisce qui, chiedendo scusa a Fedro per avere liberamente adattato la sua (Il lupo e l’agnello) alla sciocca prepotenza grillina e alla pigra arrendevolezza piddina.

 

Me ne frego…no, mi preoccupo

“Stia tranquillo il Presidente…, e se Bruxelles dice no, me ne frego”: così in estrema sintesi la risposta di Matteo Salvini alle dichiarazioni di Sergio Mattarella sugli indirizzi governativi in materia economia. “Mattarella non deve preoccuparsi”: è quanto dice Luigi Di Maio dopo aver impropriamente festeggiato alla luce (?) delle linee contenute nel Def.

Nella mia classe avevo uno stupendo compagno di banco insieme al quale ho fatto tutto il cammino scolastico: era bravo, studioso, collaborativo, paziente, coraggioso. Era però piuttosto emotivo e, quando veniva interpellato dagli insegnanti, andava un po’ in agitazione. Agli altri compagni non pareva vero metterlo in qualche ulteriore difficoltà allorquando un professore chiedeva chi volesse leggere il brano oggetto della lezione: «… legge molto bene!». Poi, non contenti di averlo messo in imbarazzo, si rivolgevano a lui e lo infastidivano dicendo: «Su, mi raccomando, stai calmo…». E lui naturalmente si agitava ancor di più.

L’attuale Presidente della Repubblica è un uomo calmo ed estremamente equilibrato, non assomiglia caratterialmente affatto al mio compagno di cui sopra nel senso che non si fa certo impressionare ed agitare da provocazioni e censure. Infatti l’indomani dello scoprimento degli altarini economici del governo, l’ha presa su larga, ma è andato ben presto al sodo: «La Costituzione rappresenta la base e la garanzia della nostra libertà, della nostra democrazia. Detta le regole della nostra convivenza e indica i criteri per i comportamenti e le decisioni importanti, come quelle da assumere in questi giorni. Avere i conti pubblici solidi e in ordine è una condizione indispensabile di sicurezza sociale, soprattutto per i giovani e il loro futuro. Stiamo tutti insieme, come comunità, dentro la Costituzione. Essa all’articolo 97 dispone che occorre assicurare l’equilibrio di bilancio e la sostenibilità del debito pubblico per tutelare i risparmi dei nostri concittadini, le risorse per le famiglie e per le imprese, per difendere le pensioni, per rendere possibili interventi sociali concreti ed efficaci. La Costituzione è la nostra casa comune».

Le reazioni al suo intervento, da parte degli esponenti governativi, equivalgono, più o meno, ad una presuntuosa alzata di spalle, come quando, da adolescenti, si ironizza sulle raccomandazioni genitoriali, per poi accorgersi, a distanza di qualche tempo, che erano giuste e pentirsi amaramente di non averle ascoltate e seguite. Siamo ancora in tempo per recuperare un minimo di razionalità e di buon senso e Mattarella ci sta giustamente ed elegantemente provando, tentando di ricondurre la politica economica finanziaria ad un costruttivo tavolo di discussione e dialogo, togliendola dal ring allestito per un match di pugilato   economico-finanziario contro tutto e tutti.

Il mio indimenticabile compagno di banco era paziente e bravo, ma una volta successe un fatto particolare di stampo deamicisiano, che lo vide “grande” protagonista. In classe c’era un ragazzo molto buono e simpatico, un po’ infantile, che con il suo comportamento suscitava a volte una certa ilarità e si prestava a qualche presa in giro. Fin qui niente di grave, se non che questa situazione divenne preludio per un maldestro tentativo di bullismo morale. Un giorno infatti un altro compagno si rivolse a lui con una espressione a dir poco offensiva, stomachevole e inaccettabile da tutti i punti di vista. Il mio compagno di banco di cui sopra, piuttosto prestante dal punto di vista fisico e leale sul piano umano, non si fece scrupolo, ne prese le difese, ebbe il coraggio di insorgere platealmente, chiedendo al prepotente di ripetere l’offesa: «Dil a mi!», continuava a ripetere provocatoriamente. «Guarda c’ag stag a ruvinerom…» aggiunse. C’era in effetti da scatenare un putiferio a livello disciplinare, qualora si fosse arrivati allo scontro fisico. Ad un certo punto arrivò un altro compagno di classe in vena di fare da paciere e venne bruscamente allontanato dalla discussione. Era il momento delle maniere forti, che funzionarono: il bullo di turno arrivò persino a chiedere scusa. Il paciere mancato ammise la giustezza dell’atteggiamento duro. Episodi di quel genere, nella mia classe, non se ne verificarono più. Merito anche e soprattutto di chi aveva avuto il coraggio di affrontare la situazione a brutto muso.

Mi auguro che il Presidente della Repubblica non venga tirato a cimento e non sia costretto ad assumere atteggiamenti duri contro il bullismo governativo che si sta sempre più delineando. Ad estremi mali estremi rimedi. Giochiamo un attimo con le parole: il premier Conte potrebbe essere caldamente invitato a mettere i conti a posto. Un primo morbido avvertimento Mattarella glielo ha indirizzato. Speriamo che basti e che non occorra l’intervento delle autorità europee, sarebbe cosa sgradevole e foriera di preoccupanti conseguenze. Speriamo altresì che il Presidente della Repubblica ci pari il brutto colpo della sollevazione mercatale. “Se ne faranno una ragione”, dice Salvini in riferimento alle reazioni “stizzite” delle Borse. Tutti insomma dovrebbero farsi una ragione: che il governo italiano sta governando senza ragione.

La novità del “condonismo” di sempre

Non vorrei essere brutale, ma il linguaggio serve innanzitutto e soprattutto a capirsi, a comprendere le reciproche volontà e intenzioni. Le raffinatezze linguistiche le lascio quasi sempre agli specialisti della materia, da cui peraltro ho molto da imparare. Ecco perché non mi coinvolge più di tanto la discussione su come debba definirsi il ventilato provvedimento di carattere fiscale volto a cancellare le pendenze dei contribuenti nel delicato rapporto tra erario e cittadini. Come si deve chiamare? Condono? Concordato? Pace fiscale? Definizione agevolata del contenzioso? Colpo di spugna? I termini possono essere tanti, ma la sostanza è una e una sola.

Dalla parte dell’Erario lo scopo è quello di fare cassa: punto e stop. Tutto il resto sono menate demagogiche e/o disquisizioni formali. Perché, infatti, quando si cambia la normativa fiscale, sarebbe utile azzerare le situazioni precedenti? Perché dovrebbe essere un atto di chiarezza e di miglioramento nei rapporti tra Stato e contribuenti? Perché potrebbe essere un incentivo a rendere più agibile un sistema tributario farraginoso? Perché si rivelerebbe uno strumento utile nella lotta all’evasione? Non capisco!

Se lo Stato si fa guidare dal detto veneziano “pocheti ma tocheti”, il cittadino-contribuente risponde ripulendosi la coscienza sporca a basso costo; tutti felici e contenti? Direi proprio di no! Soddisfatti gli evasori che si rifanno una verginità e continueranno ad evadere in attesa del prossimo provvedimento dello stesso tipo. Soddisfatti quanti sono orientati a “non dare a Cesare quel che è di Cesare”, accampando tutte le scuse di questo mondo: pagare le tasse non serve a nulla, meglio investire quei soldi, meglio darli in beneficenza, etc. etc. Soddisfatti i governanti di piccolo cabotaggio, che si illudono di quadrare i conti mangiando il piccolo vitello del condono nella grande pancia della vacca dell’evasione.

Girala di qua, prillala di là, guardala di sopra, sbirciala di sotto, la questione “condonistica” è questa. Una palese e grave ingiustizia per l’intera società, una presa per i fondelli per i pochi o i tanti cittadini virtuosi, la vittoria di Pirro per la casse dello Stato. Non è prerogativa di questo governo varare provvedimenti simili: altri si sono cimentati in questa triste gara con risultati insoddisfacenti da tutti i punti di vista. Un’altra prova, se ce n’era bisogno, che il governo del cambiamento è penosamente ancorato al peggior modo di governare del passato. I giallo-verdi si stanno arrampicando sugli specchi, impresa ardua a cui aggiungono un tocco di ulteriore problematicità: farlo con le mani sporche di grasso. Con quei quattro soldi spillati dalle tasche degli evasori si illudono di andare in soccorso di nullatenenti, pensionati in pectore e imprese in difficoltà.

Roba da far arrossire Robin Hood e da far divertire i furbacchioni. Non appena si parla di amnistia o condono per i reati penali (provvedimenti svuotacarceri) tutti insorgono e si strappano le vesti: non vi sarebbe certezza della pena, i fuorusciti riprenderebbero immediatamente a delinquere, si darebbe un pessimo segnale nella lotta alla delinquenza. Non si può e non si deve fare! Il discorso fiscale è un’altra cosa e se ne può parlare. Chi ruba le mele al supermercato merita di marcire in carcere, chi ruba milioni allo Stato merita di essere perdonato e restituito all’onore del mondo. So benissimo che esiste l’evasione tributaria di pura sussistenza, di confusione tributaria, di accanimento fiscale. Ma c’è anche la micro-delinquenza in genere. Due pesi e due misure: è la specialità all’italiana. Ci pensi Giuseppe Conte, che si è definito l’avvocato difensore del popolo italiano. Ho fatto un po’ di demagogia, ma forse è l’unico modo plausibile per far scoppiare le contraddizioni di una stagione politica che vuol far credere che “Cristo è morto di freddo ai piedi”.

Il def…unto governo dell’economia

Cos’è il Def? Def sta per Documento di Economia e Finanza all’interno del quale vengono inserite tutte le politiche economiche e finanziarie selezionate e decise dal governo: contiene cioè la strategia a medio termine del governo, che deve essere approvata dal Parlamento. Parto volutamente dall’abc della politica economica per evitare accuratamente di farmi risucchiare dal ring della competizione dei politici del governo (Di Maio e Salvini), che mettono alle corde il tecnico responsabile del dicastero competente in materia (Tria) e gli sferrano l’uppercut definitivo ottenendo di portare al 2,4% il rapporto tra deficit e pil, in buona sostanza ottenendo di fare i conti senza l’oste.

Non sono mai stato allineato alla categoria dei cosiddetti rigoristi, vale a dire di chi subordina tutte le scelte di politica economica e di (non) sviluppo alla quadratura dei conti pubblici: è una visione ristretta e semplicistica, che porta generalmente a far pagare il conto ai più deboli, soprattutto ai senza lavoro. Di qui a fregarsene altamente del bilancio per varare misure strampalate volte solo a mantenere assurde promesse elettorali ci passa una bella differenza.

Provo a sintetizzare i contenuti del Def varato dal governo, dopo un braccio di ferro tra chi per mestiere deve difendere la credibilità del bilancio dello Stato e chi per scelta politica dissennata vuole spendere e spandere. Più pensioni, più reddito ai cittadini, meno tasse. E chi potrebbe dirsi contrario? A parte il vedere cosa effettivamente vogliono dire questi slogan, per fare ciò occorre una barca di quattrini, che non esistono. Ebbene, non c’è problema: si spende lo stesso, poi qualcuno pagherà.  Così pensiamo di metterla in quel posto all’Unione Europea e di riprendere a comandare in casa nostra. Così pensiamo di risolvere i nostri problemi fregandocene altamente dei mercati assetati del nostro sangue.

Cosa dirà la Comunità Europea, in cui siamo inseriti, di fronte ad un così marcato alleggerimento dei nostri impegni in materia di bilancio? Cosa dirà chi deve finanziare i nostri debiti di fronte ad una politica spendacciona dell’Italia? Quando a livello professionale ero chiamato a trattare con i debitori in serie difficoltà, ero solito chiedere una immediata e concreta, anche se piccola, manifestazione di buona volontà, accompagnata da un ragionevole piano di rientro. Mi irritava assai il silenzio del debitore e magari il vederlo spendere e spandere senza preoccuparsi di pagare i debiti o addirittura aumentandoli. Prima di fare la voce grossa bisognerebbe provare la resistenza delle proprie corde vocali, perché diversamente prima o poi si corre il grave rischio di rimanere afoni. Il Def, con le arie che tirano, sta diventando l’abbreviazione di defunto: la politica elettorale sta facendo il funerale a quella economica.

Il peggior passato democratico è meglio del vacuo presente

Sinceramente non capisco cosa ci sia di scandaloso e di censurabile nella nomina a vice-presidente del Consiglio Superiore della Magistratura di Davide Ermini. Se ne è stato nominato componente da parte del Parlamento, significa che, come minimo, ne aveva i requisiti previsti sul piano della preparazione e dell’esperienza professionale. Mi sembra di aver capito che la sua “indegnità” a ricoprire questo importante incarico istituzionale sarebbe dovuta alla sua provenienza politica (il PD), ma ancor più alla sua affinità politica (è un renzianissimo).

C’è qualcuno in Italia che sta giocando al massacro istituzionale: la magistratura va benissimo quando mette sotto processo esponenti politici provenienti da una certa parte, cessa di essere indipendente e diventa partigiana se osa mettere sotto inchiesta qualche grillino, sequestrare i presunti fondi neri della Lega e ancor più se osa farsi presiedere da un ex-parlamentare PD.

Non conosco il curriculum di Davide Ermini e non azzardo giudizi sulla sua persona, mi limito a prendere atto che sia stato eletto da una larga maggioranza del plenum del CSM in totale autonomia rispetto agli altri organi costituzionali e sotto l’occhio vigile del Presidente della Repubblica. Fin qui il discorso istituzionale.

Dal punto di vista politico non sono ammesse fegatose discriminazioni: è ridicolo e puerile l’atteggiamento di considerare contaminato tutto quanto è stato toccato da Matteo Renzi, una sorta di Re Mida a rovescio. Posso capire la contrarietà politica, non capisco la discriminante antirenziana che furoreggia in questo periodo. Di quali delitti politici si è macchiato Renzi al punto da essere esorcizzato come il diavolo della politica italiana? Se avevo, e le avevo, perplessità sul modo di far politica di Renzi, devo rivalutarlo, tanto sono pretestuosi e assurdi i continui attacchi che gli vengono direttamente o indirettamente rivolti. Probabilmente in lui si continua a vedere l’unico antagonista possibile e, nonostante stia attraversando un periodo di magra, lo si teme, anche perché è l’unico esponente politico in grado di mettersi in gioco alla pari a livello mediatico.

Cosa c’entri tutto questo, comunque, con il CSM e il suo vice-presidente resta un mistero. Emerge prepotentemente una faziosità pazzesca coperta dal pretestuoso e forzoso discorso del cambiamento, per cui tutto quanto ha un minimo di aggancio col passato è da rifiutare e rottamare a scatola chiusa. Il cambiamento è diventato la demagogica discriminate per giudicare e scegliere. Si è sempre parlato di cambiamento e su questo concetto sono stati raccolti sbrigativi e superficiali consensi. Stiamo ben attenti però: a volte si può, anzi si deve cambiare.  Il ricambio è un principio irrinunciabile della democrazia. Nessuno però si pone seriamente la questione: si può cambiare in meglio, ma non è assolutamente garantito; cambiando si può anche peggiorare! Ed è proprio, secondo me, quel che sta avvenendo.

 

Scimmiottando Macron

C’era un mio conoscente che aveva affibbiato alla moglie, con cui spesso bisticciava, un simpatico e significativo soprannome: “la Francia”.  La convivenza degli italiani con i cugini francesi e viceversa non è mai stata troppo facile e serena: ci si odia cordialmente. Ricordo come mia sorella, nella sua solita schiettezza di giudizio, una volta si lasciò andare e parlò di “quegli stronzoni di Francesi”: forse non sbagliava di molto.  In questi giorni la Francia è diventata improvvisamente un esempio da imitare.

Emmanuel Macron, anche e soprattutto per recuperare i consensi in caduta libera, ha preannunciato una manovra economica all’insegna della detassazione per i francesi e dello sfondamento del rapporto deficit/pil per l’Europa e i suoi rigorosi arbitri finanziari. Per i grillini, e forse per l’intero governo italiano, Macron da scomodo interlocutore è diventato un perfetto battistrada dialettico: se la Francia si permette di sforare i suoi parametri, chi siamo noi italiani per rimanere inchiodati ai nostri. Macron sì e Conte no? Ma vogliamo scherzare o stiamo scherzando!

La nostra “postura” all’interno dell’Unione Europea è simile a quella di certi alunni nella loro classe scolastica: siamo nell’ultimo banco, chiacchieriamo e disturbiamo a più non posso, snobbiamo le lezioni, non studiamo, non facciamo i compiti a casa, poi, quando viene il giorno delle interrogazioni e degli esami gridiamo all’ingiustizia e alle solite preferenze applicate agli alunni migliori. Ci dimentichiamo cioè dei voti meritati durante l’anno scolastico, delle pagelle periodiche, della condotta tenuta, degli sberleffi fatti agli insegnanti, dei litigi con i compagni.

Fuor di metafora il governo italiano vorrebbe scimmiottare quello francese senza avere alle spalle la stessa situazione economico-finanziaria. La Francia ha infatti un debito pubblico molto inferiore al nostro, ha un indice di crescita molto superiore a quello piuttosto striminzito dell’economia italiana, ha fatto da tempo certe riforme che noi tendiamo a rimettere in discussione, si può permettere sgravi fiscali finalizzando a ciò il maggior deficit rispetto a quello programmato, mentre il governo italiano sta farneticando di sforamenti per finanziare marchette socio-elettorali.

Sappiamo bene cosa successe a quel bambino che voleva imitare il pur maleducato papà in materia di pernacchie: se la fece addosso! Non possiamo picchiare penosamente i pugni sui tavoli europei e poi pretendere ascolto e comprensione. I francesi, politicamente parlando, sono piazzati meglio di noi, hanno coltivato alleanze produttive, hanno le carte (non certo tutte) in regola. Invece di tessere pazientemente rapporti e alleanze con chi guida l’Unione Europea strizziamo l’occhio a chi la vuole distruggere, invece di dialogare con la burocrazia europea non perdiamo occasione per “smerdarla”, invece di stare in Europa con i piedi ben piantati a terra teniamo un piede dentro e uno fuori (ci siamo dimenticati la querelle per mettere Paolo Savona al Mef? In Europa non l’hanno dimenticata, nonostante gli sforzi di Mattarella).

Adesso vorremmo che ci dessero credito: abbiamo la necessità di spendere e non abbiamo i fondi. Sarà una gara dura, anche perché l’esame non ce lo fa soltanto la Commissione Europea con i suoi alti funzionari, ma i mercati che ci osservano con molta perplessità e non si sa fino a quando saranno disposti a comprare i titoli del nostro debito pubblico. Al limite Juncker ed i suoi colleghi potrebbero anche sorvolare e darci una azzardata promozione o almeno un rinvio, ma poi arriverebbe la stangata mercatale. Succede così agli alunni che ottengono promozioni di favore per naufragare alla prima serie prova scolastica od extra-scolastica. Il simpatico burattino “Sandrone” veniva promosso “per via del bestiame”, vale a dire a furia di galline regalate alla maestra. Credo che le galline, nel caso italiano, non bastino: bisogna riformare il pollaio e cambiare l’allevatore.

Meglio Padre Pio di Donald Trump

In occasione della giornata dedicata alla memoria liturgica di San Pio da Pietrelcina, il premier Giuseppe Conte è stato a San Giovanni Rotondo a pregare Padre Pio, che secondo lo zio, Frate fedele, lo illumina anche nel nuovo incarico di governo. E, come ha detto lui stesso mostrando a Bruno Vespa l’immaginetta che tiene sempre in tasca, gli ha insegnato l’umiltà.

Mescolare politica e fede religiosa è sempre piuttosto pericoloso. Ci sono riusciti nel passato illustri personaggi, che non hanno ostentato santini, ma hanno incarnato nella loro vita politica i valori cristiani in modo esemplare e costruttivo. Sul collegamento spirituale tra Padre Pio e Giuseppe Conte ho fatto due riflessioni, con tutto il rispetto per il premier e soprattutto per Padre Pio.

Probabilmente solo il Santo potrebbe fare quadrare la manovra economica.  E Giuseppe Conte infatti ha prevenuto le facili ironie definendola laicamente coraggiosa e utile al Paese e non miracolosa. Più leggo le anticipazioni relative alla politica economica del governo e più mi convinco che il problema non è l’ondivago ministro Tria, non sono i supponenti funzionari del Mef, non è l’Europa con i suoi taglieggiamenti, non sono i mercati con le loro speculazioni, ma l’assurdo contratto di governo, che alla prima vera prova del fuoco si sta sciogliendo come una candela. Ecco perché occorrerebbe un miracolo di Padre Pio, anche se forse sarebbe meglio riservarlo a qualche migliore causa. Sì, perché un simile miracolo finanziario farebbe più male che bene al Paese.

La seconda riflessione riguarda tutta il premier Giuseppe Conte al di là della sua rispettabilissima devozione. Lo vedo molto male: non ha in mano la situazione politica, stretto com’è nella bolgia pentaleghista. È un presidente del Consiglio sotto tutela di due penosi personaggi, che giocano a fare i politici: capisco che la politica abbia sempre un suo fascino ed eserciti un forte richiamo, ma chi gliel’ha fatto fare. Il problema è fortemente aggravato dalla sua mancanza di padronanza in materia economica: i vice-presidenti lo scavalcano e gli tirano continuamente autentici “boridoni”; i ministri economici lo ignorano e tentano di brancolare nel loro buio, senza bisogno di ulteriore confusione dialettica e programmatica.   Giuseppe Conte fa più tenerezza che rabbia, non è antipatico, è soltanto fuori luogo, fuori tempo e fuori “come un balcone”. Si è aggrappato a Donald Trump senza rendersi conto del rischio di legarsi a questo pazzo, che riesce ad incasinare tutto quel che tocca. A livello europeo continua a girare a vuoto, dice e disdice, sembra uno capitato a Bruxelles per puro caso. Mi dispiace per lui, che tutto sommato, giudico una degna e brava persona. Mi dispiace soprattutto per l’Italia.

Non so cosa salterà fuori dalla manovra economica in via di elaborazione: un giro vorticoso di miliardi presenti solo nella fantasia di Salvini e Di Maio. Ci sarebbero tutti i presupposti per chiedere un miracolo non solo a Padre Pio, ma anche a tutti i santi protettori dell’Italia e dell’Europa. Non il miracolo di quadrare i conti, ma di portare alla ragione chi ci sta governando. Proviamoci e chissà che non funzioni.

La rima sbaciucchiata

Il vicepremier Di Maio, intervistato dal ‘Fatto’, ribadisce la fiducia a Tria, ma insiste: “C’è chi rema contro”. Promette reddito e pensioni di cittadinanza facendo più deficit (esclusi i migranti), annuncia “rimborsi a tutti i truffati dalle banche”, sconti Ires “per chi inquina meno”, e “carcere per gli evasori”. “Inaccettabile” il condono fino a un milione: “Abbiamo chiesto i dati per individuare le persone in difficoltà, dai piccoli imprenditori alle famiglie. E su quelli costruiremo soglia e platea della pace fiscale”. La Legge di stabilità “sarà una manovra del popolo, che aiuta gli ultimi e fa la guerra ai potenti”.

Può valere la famosa barzelletta delle promesse elettorali, anche se le elezioni ci sono state da un pezzo, ma c’è sempre un’elezione dietro l’angolo: “Vi daremo questo, vi concederemo quest’altro, vi offriremo ciò che vorrete…”. E l’afta epizootica? chiese timidamente un agricoltore della zona interessata. Vi daremo anche quella! rispose gagliardamente il comiziante di turno.

La barzelletta però si complica perché si arriva addirittura a parafrasare il Vangelo e a varare un “Magnificat” a misura dimaiana: “Rovesciare i potenti dai troni e innalzare gli umili”.  Chissà perché dal reddito di cittadinanza verranno esclusi i migranti? Non sono forse gli ultimi degli ultimi? A completamento della barzelletta di cui sopra un africano chiederebbe timidamente: “E io che sono un migrante?”. Di Maio andrebbe un poco in difficoltà, ma lo supporterebbe immediatamente l’alleato Salvini: “Ti daremo il foglio di via per tornartene a casa”. Un ulteriore vangelo apocrifo scritto in fretta e furia.

La demagogia è la degenerazione della democrazia, per la quale al normale dibattito politico si sostituisce una propaganda esclusivamente lusingatrice delle aspirazioni economiche e sociali delle masse, allo scopo di mantenere o conquistare il potere. Nelle facoltà di Scienze politiche si potrebbe tranquillamente inserire un insegnamento complementare sulla demagogia tenuto da Beppe Grillo, il quale, come fanno purtroppo tanti cattedratici, finirebbe col delegare le lezioni al suo assistente Luigi Di Maio e tornerebbe in pista solo al momento degli esami, regalando il 30 politico a tutti i potenziali elettori pentastellati. Ma ci sarebbe anche un altro corso, “Demagogia 2”, tenuto in prima persona da Matteo Salvini: l’imbarazzo della scelta con il rischio di fare confusione in sede di esame. Qualcuno potrebbe studiare sulle dispense grilline e poi andare sotto esame leghista: un bel casino!

Come dare torto a Silvio Berlusconi che vagheggia la possibilità di candidarsi alle prossime elezioni europee. Se giochiamo a chi è più demagogico, lo psiconano è in pole position, ha le carte in regola, forse non lo batte nessuno. Sarebbe una bella gara a tre per la palma del miglior demagogo. Nei Promessi sposi di Alessandro Manzoni, fra Cristoforo grida in faccia a don Rodrigo, il prepotente che finge di offrire protezione: “Verrà un giorno…”. Oso anch’io, da villano temerario e da poltrone incappucciato, sperare che un bel giorno il gioco demagogico, che sta prendendo dimensioni colossali, possa essere smascherato. Chissà che alla rima baciata fra democrazia e demagogia, si possa sostituire la rima scombussolata tra promesse e bidonate.

 

Le purghe alla burocrazia

Mio padre sosteneva che spesso le cose vanno bene (o sembrano andare bene) indipendentemente dalla tua volontà e lo esprimeva con una espressione dialettale simpatica e colorita: «Quand la va bén, a fa al lat anca il galén’ni…».  Sembra essere la sorte che tocca agli attuali governanti italiani: qualsiasi cazzata dicano o facciano va benissimo e porta a loro applauso e consenso o, nella peggiore delle ipotesi, rimozione e disattenzione. In psicologia esiste “la sindrome rancorosa del beneficiato”, vale a dire la paradossale tendenza a colpevolizzare chi ti fa del bene; per il governo pentaleghista o legastellato si è instaurata la sindrome benevola del fregato, vale a dire l’inconscia tendenza ad accettare anche le più clamorose sciocchezze da chi riesce a turlupinarti per bene.

Rocco Casalino, portavoce del premier Conte, in un audio privato via WhatsApp inviato a due giornalisti dice fuori dai denti che al ministero dell’economia e delle finanze c’è chi rema contro il governo e non “sgancia i soldi” per il reddito di cittadinanza e che se non si troveranno i fondi necessari a questo provvedimento partirà una “megavendetta” contro i dirigenti del Mef accusati di fare ostruzionismo. Il premier gli conferma tutta la sua incondizionata fiducia nascondendosi dietro un forzato concetto di privacy, il movimento cinque stelle, a cui Casalino aderisce, lo difende inquadrando le sue dichiarazioni nella nota filippica contro i mandarini di stato, contro i burocrati acerrimi nemici del cambiamento. L’opposizione ha scatenato la polemica, la gente forse non ha capito o forse ridacchia sotto i baffi.

È vero che “tutti i matti hanno la loro virtù” e infatti le folli dichiarazioni casaliniane contengono un pezzo di verità. Che la burocrazia tenda a mantenere lo status quo ad essa comodo e conveniente è cosa stranota. Che i ministeri siano spadroneggiati da funzionari che fanno il bello e cattivo tempo è altrettanto scontato. Che la politica faccia fatica a farsi sentire nel silenzio sepolcrale delle stanze ministeriali è assai comprensibile. Ricordo quante volte, durante la mia vita professionale, sono incappato in circolari ministeriali che stravolgevano il senso di provvedimenti legislativi in materia fiscale, tendendo a sminuirne la portata innovativa o addirittura a cambiare le carte in tavola con diabolica abilità tecnica. Dicevo, assieme ai colleghi: osserviamo la legge, i funzionari ministeriali vengono dopo…

Rocco Casalino ha quindi detto cose metodologicamente e istituzionalmente folli, ma sostanzialmente ha detto qualche verità impronunciabile. L’attuale governo non può però ipotizzare una sorta di subdolo e rancoroso spoils system generalizzato, secondo il quale gli alti dirigenti della pubblica amministrazione dovrebbero cambiare col cambiare del governo. Non è possibile e nemmeno auspicabile, certo più il governo è costituito da politici incompetenti, inesperti, vanesi e demagogici, più gli alti burocrati hanno buon gioco a far valere le loro ragioni, la loro esperienza e la loro preparazione tecnica. Se poi i politici vogliono addirittura forzare la mano e spremere fondi pubblici dalle rape del bilancio dello Stato, i rapporti si complicano ulteriormente. I burocrati non sono stinchi di santo, ma nemmeno si può pretendere che siano prestigiatori dei conti pubblici per compiacere la politica delle promesse facili.

Una cosa si è capita molto bene: se il governo non riuscirà a cavare un ragno politico dai buchi di bilancio, sarà tutta colpa dei disfattisti ministeriali che vogliono proseguire il tran-tran di regime. La giustificazione è pronta, ma è anche in larghissima parte fasulla: come quegli alunni che se la fanno firmare preventivamente dagli ingenui genitori per poi usarla a sproposito. Di ingenui genitori del governo Conte (forse lui stesso per primo) ce ne sono troppi!