I grillini straparlanti

“La sentenza di assoluzione per Virginia Raggi spazza via due anni di fango”, così ha commentato a caldo Luigi Di Maio la sentenza che ha mandato assolta la sindaca di Roma dal reato di falso. Poi Di Maio e Di Battista hanno apostrofato i detestati giornalisti definendoli “infimi sciacalli, puttane, pennivendoli, cani da riporto di Mafia Capitale”. “Eh no, quando ce vo’ ce vo’”, ha esclamato Di Maio quando su La7 gli è stato chiesto se volesse fare retromarcia rispetto alle dichiarazioni rilasciate in precedenza. Rocco Casalino, portavoce del premier, a sua volta ritiene quasi educativi gli insulti ai giornalisti: “I toni eccessivi a volte servono; la libertà di stampa è giusta, ma c’è un accanimento contro di noi, il cane da guardia fa questo”. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, durante un’intervista su una rete Rai, ha dichiarato: “Non avrei usato quelle parole, ciascuno ha il suo stile, e non commento post di colleghi che esprimono il proprio pensiero; non mi scandalizzano quei termini, mi scandalizzano di più i due anni di massacro e fango sulla Raggi”.

“Al mattino leggo i giornali e i commenti che non condivido sono ancora più importanti di quelli che condivido, sono uno strumento su cui riflettere. Per questo la libertà di stampa è un grande valore”. Lo ha detto il Presidente Mattarella incontrando gli studenti.

“Sono fiero di essere giornalista e non accetto che si dica che i giornalisti siano delle prostitute, come hanno detto autorevoli rappresentanti del governo e del M5S”. Lo ha detto il presidente dell’Europarlamento Tajani, dopo gli attacchi di Di Maio e Di Battista alla stampa sul caso Raggi.

Interviene anche il presidente della Camera Fico: “La libertà di stampa va tutelata, ma manca una cultura dell’indipendenza”. Parla di “accuse infamanti” il presidente della Commissione di Vigilanza Rai, Barachini: “Mi riservo di verificare se le parole del ministro Di Maio possano configurarsi come pressione indebita o censura preventiva”.

Ammettiamo pure che i giornalisti esagerino e usino la loro libertà per attaccare, in modo pressapochistico e unilaterale, i politici in odore di reato: è successo e succede. Nessuno è senza peccato, stampa compresa. Non vado oltre nel merito delle accuse lanciate contro i giornalisti, mi limito a chiedere: come mai questi signori pentastellati non si sono mai scagliati contro la stampa per trattamenti ben più pesanti riservati ad altri esponenti politici e rivelatisi infondati dopo le sentenze emesse in sede giudiziaria. Forse in quei casi tutto faceva brodo e sporcare gli altri serviva a far emergere il loro “pulito”. Adesso che gli schizzi di fango arrivano anche a loro, danno fastidio. Storia vecchia!

Il discorso più pregnante sta però nel vero e proprio scontro a livello istituzionale: da una parte importanti ministri ed esponenti di un partito di governo attaccano la categoria dei giornalisti con toni da censura, mettendo sostanzialmente in discussione la libertà di stampa, lasciando intendere misure ritorsive; dall’altra parte i rappresentanti delle massime istituzioni italiane ed europee che prendono nettamente, seppure educatamente, le distanze, ribadendo il valore della libertà di stampa a prescindere.  È roba di tutti i giorni! I casi sono due: o il governo sta andando oltre i limiti costituzionali e qualcuno dovrà prenderne atto, oppure il rispetto delle istituzioni e dei principi costituzionali è diventato un optional e i cittadini (tanto reattivi e intransigenti nel caso della riforma costituzionale proposta da Renzi) ne dovrebbero prendere atto. Apprezzo molto il comportamento del Presidente della Repubblica, ma mi chiedo e mi permetto di chiedergli: in una situazione del genere, c’è qualcosa di più che possa essere fatto. Non è il caso di abbandonare il galateo istituzionale per andare al sodo delle questioni e chiedere conto ufficialmente a un governo che straparla e strafa in continuazione?

Luigi Di Maio, durante le consultazioni per la formazione del governo post-elettorale, era arrivato a minacciare il Capo dello Stato lasciando intendere una sua messa in stato d’accusa per alto tradimento o per attentato alla Costituzione: roba da matti…che ci siamo dimenticati. Ora, siamo sicuri che non comincino ad esistere i presupposti per sottoporre a giudizio alcuni ministri per reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni e che non si possa sollevare davanti alla Corte Costituzionale un conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato? Non sarà il caso di ipotizzare un passaggio dalla moral suasion, vale a dire dalla pressione e persuasione morale, ad una vera e propria azione d’autorità nei confronti del governo o almeno di alcuni suoi esponenti? Fantasie pseudo-costituzionali? Può anche darsi, ma…

 

Democrazia a furor di popolo

In cosa consiste la democrazia? Sarebbe opportuno porsi questa domanda prima di sottovalutarla, snobbarla, bypassarla o rinnegarla. Stiamo vivendo un periodo in cui la democrazia è messa a dura prova dalla sua caricatura populista. Scrive Corrado Augias: «Il populista è colui che di fronte a dimostrazioni lampanti delle maggiori garanzie di equilibrio offerte in certi casi dalla democrazia delegata, continua a dire facciamo anche noi un referendum; se la costituzione non lo consente? Cambiamo la costituzione. Per fortuna si tratta solo di strepiti da comizio». Purtroppo il discorso non finisce lì e sta dilagando e rovinando coscienze e mentalità. La politica viene infatti impostata e trattata come un semplicistico e fuorviante “prendere o lasciare”. La deriva referendaria ha un suo appiglio nelle consultazioni vere e proprie di tale natura, ma è anche diventata un modo di approcciare i problemi riducendoli ai minimi termini di infantile e illusorio “sì o no”.

A Roma si è avuta una scarsa, scarsissima affluenza al referendum sull’azienda dei trasporti, un servizio da sempre disonore delle cronache per inefficienza, corse saltate e mezzi che vanno a fuoco. Si chiedeva ai romani di dire se erano d’accordo a liberalizzare il servizio attraverso gare pubbliche per far concorrere anche altri gestori oltre il monopolista ATAC e allargare il trasporto pubblico ad altre forme di trasporto collettivo. Ma i cittadini se ne sono sostanzialmente disinteressati o non hanno capito la portata ed il significato del quesito referendario. L’affluenza è stata lontanissima dal raggiungere il quorum del 33 per cento, anche se il referendum aveva soltanto un valore consultivo. Ha votato circa il 16% degli aventi diritto. A parte la scarsa informazione, la disorganizzazione ed il caos nei seggi, l’operazione, che voleva portare una ventata di democrazia nella travagliata città di Roma, è miseramente fallita. Il motivo? Non si può risolvere con uno sbrigativo “sì o no” il problema della pubblicizzazione-liberalizzazione dei servizi pubblici, un tema storicamente, culturalmente, economicamente e socialmente assai complesso.

A Torino si tende ad affrontare il problema Tav a furor di popolo, portando davanti ai cantieri o in piazza o sul web i favorevoli e i contrari tout court ad un’opera colossale, le cui motivazioni devono essere valutate ed approfondite in ben altre sedi, con ben altri metodi e con ben altre analisi ed argomentazioni. Non è giusto farne una materia di tardiva e piazzaiola diatriba, ideologizzando l’ambientalismo, radicalizzando il discorso finanziario, riducendo la questione anche a mera polemica pro o contro l’attuale sindaca Chiara Appendino.

Analogo discorso vale per la Tap, ridotta a buccia di banana per il M5S, reo di fare promesse impossibili e di rimangiarsele in fretta e furia. È inutile illudere i cittadini di contare mettendo in su o in giù il pollice. Anche la sondaggite acuta, che si scatena su partiti, governanti, problemi, questioni, tende a ridurre il tutto ad un superficiale giudizio che finisce con l’essere spesso un pregiudizio. La politica è conoscenza, è dibattito, è confronto, è mediazione. Il discorso, direttamente o indirettamente referendario, è l’eccezione alla regola della delega di rappresentanza e all’opzione della sostanziale partecipazione alla vita politica.

Non è un caso che lo strumento referendario sia stato e sia usato dai regimi autoritari e totalitari per approntare anestetizzanti e populistici bagni di falsa democrazia. Se andiamo avanti così, con un semplice clic informatico dichiareremo guerra ad un altro Stato, decideremo di fare un gasdotto o una ferrovia, di ospitare le olimpiadi, di costruire muri di blocco all’immigrazione, di sbattere fuori gli immigrati, di dotare chiunque di un’arma di difesa, di sfondare il bilancio dello Stato, di uscire dall’Unione europea, di tornare alla lira, etc. etc. E questa sarebbe democrazia diretta? No, questo è fascismo indiretto!

Ognuno ha le sue manciate di…“malta”

“I maltesi regalano bussola e benzina ai migranti per farli arrivare a Lampedusa”. La denuncia arriva dal Viminale e dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini. “La Guardia costiera maltese ha intercettato imbarcazioni con migranti, fornito giubbotti di salvataggio e li ha scortati verso l’Italia. Troppi indizi ci fanno pensare a un vero e proprio atto ostile di un altro Paese Ue, dopo quello di Clavière. La sensazione è che l’Italia sia sotto attacco”, aggiunge Salvini.

Passi la polemica contro il sussiegoso e strafottente atteggiamento francese sull’accoglienza ai migranti, che fa un po’ a pugni col loro comportamento – d’altra parte scaricare a livello internazionale le tensioni interne è un classico dei regimi (e Salvini sta facendo incetta di regime) – ma prendersela con Malta fa effettivamente (sor)ridere. Può darsi che i maltesi ci stiano marciando, ammettiamo pure che siano fondati i dubbi sulla loro correttezza. Non facciamone però un pretesto per fare le vittime e gridare all’attacco Ue contro l’Italia. Non perdiamo la faccia in scontri, che hanno tutta l’aria di essere pure beghe di cortile.

Salvini ha bisogno, come se fossero pane, di questi miseri contenziosi: tutto fa brodo. Il ministro maltese Farrugia gli ha risposto: “Smetta di criticare e cominci a prendere nota di quello che si dovrebbe fare. L’Italia ha ripetutamente fallito nel rispetto degli obblighi”. Non ha tutti i torti, si difende come può. Noi italiani da queste stupide risse verbali abbiamo tutto da perdere, solo Salvini guadagna il surriscaldamento continuo del suo potenziale elettorato.

Mio padre, quando capitava di ascoltare qualche notizia riguardante provocazioni fra nazioni, incidenti diplomatici, contrasti internazionali era solito commentare: “S’ag fis  Mussolini, al faris n’a guera subita. Al cominciaris subit a bombardar”.  Era una lezione di politica estera (sempre molto valida). Ho la netta impressione che Salvini vada alla ricerca scrupolosa di questi incidenti per poterci lavorare sopra “ideologicamente”. Oltre tutto è ministro dell’Interno e fa regolarmente il ministro degli Esteri con buona pace per Moavero Milanesi.

E i grillini? La bevono da botte! Basti pensare al fatto che Salvini sta addirittura cavalcando il sì alla Tav per creare loro ulteriore imbarazzo. Salvini contro tutti. Molti nemici, molto onore. Sono storie vecchie come il cucco, che tuttavia fanno ancora presa sulla mentalità popolare. E il Pd? Sarà il caso che esca dal letargo e cominci a fare politica. Mentre la Lega scarica sugli altri (all’interno ed all’estero) le contraddizioni della sua miope impostazione politica, il partito democratico sfoga su se stesso le tensioni esistenti a tutti i livelli, somatizzandole in una “lotta continua” al proprio interno, facendo il verso al correntismo democristiano, al centralismo comunista, al populismo estremista, al moderatismo centrista: una centrifuga da cui esce un beverone insipido e inconsistente. Siamo in emergenza democratica e allora bisogna mettere da parte le questioni di lana caprina e andare al sodo. Salvini ha la sua Malta al di fuori dei confini; il M5S ha le sue Malte in comune di Torino e Roma e laddove si rimangia bellamente la parola data; il Pd ha le sue Malte dentro il dibattito di partito. L’Italia ha la sua vera Malta a Bruxelles, dove rischia capricciosamente  l’irrilevanza. Con tutto il rispetto per lo staterello in questione, “malta” significa anche melma, fango…

 

Il barometro grillino in mano alle sindache

Mentre in molti si esercitano penosamente nella previsione sull’evoluzione della leadership nazionale pentastellata, mettendo in contrapposizione la realtà “dimaiana” con il sogno “dibattistano”, la vita grillina sembra attaccata alle sorti dei sindaci, in questo momento delle sindache. Non era infatti partito a Parma con Federico Pizzarotti il cursus honorum del M5S e non si è incrinata proprio lì la prima significativa esperienza gestionale di un movimento che prometteva la luna? E qual è stata la questione dirimente e deprimente per la sindacatura di Pizzarotti, al di là delle incomprensioni ben presto sorte con la dirigenza allora molto concentrata e centralizzata in Beppe Grillo? Il termovalorizzatore che non si doveva fare, ma che era già fatto.

Per Chiara Appendino, sindaca di Torino esiste invece la grana Tav: anche questa opera infrastrutturale si dovrebbe interrompere previa velleitaria analisi dei costi-benefici. Altra battaglia impossibile, sconfessata persino dagli alleati nel governo centrale, quella Lega, che si sta smarcando in periferia per fare il proprio gioco. Anche la piazza, che sembrava monopolio grillino, si è rivoltata contro la Appendino, ribadendo a gran voce che la Tav va proseguita e completata quale opera di fondamentale importanza. Tanto per non sbagliare i 30 mila manifestanti di piazza Castello hanno detto “Sì, Torino va avanti”, nuova lettura per l’acronimo Tav.  Sì inoltre alle olimpiadi invernali, per le quali Torino ha balbettato un inspiegabile e retrogrado no. Sembrava che la Appendino avesse innescato una sindacatura all’insegna del pragmatismo grillino nuovo di zecca e si ritrova catapultata in una vecchia deriva referendaria fine a se stessa.

Per Virginia Raggi, la improvvisa e malcapitata sindaca di Roma, il cammino è sempre stato in salita: enormi difficoltà e contraddizioni nella formazione della squadra; un no frettoloso alle olimpiadi appena attutito dal sì al nuovo stadio di calcio; complicazioni giudiziarie a dir poco imbarazzanti e frenanti; una irreversibile mala-amministrazione che è rimasta appiccicata alla nuova giunta grillina, rivelatasi inconcludente ed inadeguata. La Raggi sembra appena tollerata dal movimento e non sconfessata, al fine di evitare una clamorosa debacle del nuovismo alle prese con la dura prova della gestione della capitale. È arrivata l’assoluzione in tribunale dall’accusa di falso, perché il fatto non costituisce reato con legittima soddisfazione dell’interessata e inopportune e contraddittorie accuse di sciacallaggio indirizzate da Di Maio ai giornalisti. Quanto sciacallaggio ha mai fatto il M5S contro tutti i potenziali avversari in odore di reato!

Il barometro grillino oscilla quindi: bassa pressione per Appendino e alta pressione per Raggi. I due simboli piuttosto deboli, che cadono, con una certa facilità, dagli altari alla polvere.  La prova finestra dimostra che il bianco grillino non è smagliante. Tuttavia, se devo essere sincero e volendo restare fedele al mio inguaribile vezzo di andare controcorrente, sono portato a giudicare, nella complessiva azione politica grillina, molto più bonariamente queste due signore intente a smanacciare la realtà rispetto agli assurdi e chimerici padreterni governativi alla disperata ricerca di verginità. Per Virginia Raggi mi aspettavo l’assoluzione, considerata l’inconsistenza penale dei rilievi a lei mossi; da Chiara Appendino mi aspettavo più carattere ed una più spiccata capacità politica. Con le donne sono sempre pronto ad essere comprensivo, anche a costo di alleggerire il giudizio estremamente negativo sul movimento politico che le esprime. Resta il fatto tuttavia che a loro confronto il parmense sindaco Federico Pizzarotti appare come un gigante: ha avuto infatti il demerito di costituire “al primm cavagn c’al vôl bruzè”. Dopo di lui si sono viste ceste ben peggiori, piene di niente: provate, per credere, a passare in rassegna i ministri grillini del governo Conte. Tutto sommato molto meglio le Raggi e le Appendino…ed è tutto dire.

La grottesca parafrasi della profezia di Ezechiele

Comunque vada a finire, la faccenda del ritrovamento di ossa all’interno dei locali romani della nunziatura apostolica di proprietà vaticana risulta piuttosto inquietante. Se si è ben capito questi reperti scheletrici dovrebbero risalire al periodo in cui fu ristrutturata l’abitazione del custode, vale a dire agli anni ottanta, infatti le ossa erano sotto il pavimento di tale casa. Non resta che aspettare i risultati delle analisi e i riscontri eventuali a livello di Dna. Potrebbe trattarsi effettivamente di un colpo di scena nella vicenda legata alla stranissima e misteriosa scomparsa di Emanuela Orlandi, figlia di un commesso della Prefettura della casa pontificia, avvenuta nel giugno del 1983, intorno alla quale si sono sprecate inchieste, ipotesi, fantasie, malignità.

Rimane a monte la domanda su cosa ci facessero delle ossa umane in una simile struttura, presumibilmente appartenenti ad un corpo occultato. Non si tratterebbe di reperti archeologici o confinabili in un lontano passato in cui a livello di intrighi vaticani succedeva di tutto e di più. E allora? Mistero! Penso non sia il caso di scatenare ulteriormente la fantasia su un caso che ha già tenuto banco per decenni. Mi chiedo però perché la Chiesa istituzione debba farsi trovare impelagata in simili oscure vicende.

Può darsi che tutto si risolva in una bolla di sapone come nel 2012 in occasione del ritrovamento dei resti di Enrico De Pedis, boss della Magliana, sepolti in una tomba dentro la basilica romana di Sant’Apollinare: sembrava potesse esistere un legame con il caso Orlandi, visto che il killer di De Pedis era un certo Mario, che chiamò a casa di Emanuela Orlandi il giorno della sua scomparsa. La tomba fu aperta e non si trovò niente di particolare. Anche in quel caso però ci si pose una domanda: come mai venne data sepoltura in una basilica romana ad un personaggio di stampo delinquenziale. Viene spontaneo collegare questo fatto al vomitevole diniego del funerale religioso a Piergiorgio Welby, reo di essersene voluto andare in punta di piedi dopo annose e terribili sofferenze. In Vaticano c’è qualcosa che non va e capisco sempre più la barzelletta che vuole Gesù in viaggio di studio in Vaticano, dove ammette di non essere mai stato. Che papa Francesco lo possa definitivamente accogliere con tutti gli oneri e gli onori del caso.

Posso capire il gusto dissacrante di trovare in castagna la Chiesa, scoprendone gli “altaroni”, vedendola protagonista di oscure manovre e di autentici gialli a sfondo economico-finanziario, senza parlare delle copiose vicende sugli abusi sessuali. Essa però sembra fare tutto il possibile per rendersi accattivante in tal senso. Tutte le umane istituzioni hanno i propri scheletri nell’armadio: la Chiesa li ha in senso proprio, a nulla valendo la sua natura e valenza di ordine spirituale. Intendiamoci bene, nulla in confronto degli intrighi di palazzo, delle lotte e delle compromissioni col potere, delle crociate contro gli infedeli, della santa Inquisizione, delle porcherie varie commesse nei secoli. La sua sopravvivenza a tanta malvagità viene considerata una delle prove della sua missione ultraterrena. Preferirei di gran lunga che la dimostrazione della sacralità ecclesiale fosse data da una omogenea sequela di eventi ed esempi solo positivi.

Riflessioni a bassa voce in attesa dei referti scientifici, che possano chiarire l’appartenenza delle ossa ritrovate a Roma in via Po. Una cosa è certa, la visione profetica di Ezechiele sulle ossa aride in cui si concretizzò la promessa di Dio di riportarle in vita, vale anche in questo caso, ma…

 

L’audiologia proibita allo Juventus stadium

Esistono accadimenti che, per loro natura o per loro conseguenze oggettive, diventano fatti la cui portata ed il cui rilievo comportano attenzione, riflessione, critica, dibattito, scontro etc. Ve ne sono altri che, pur essendo oggettivamente irrilevanti o addirittura insignificanti, assurgono a grande importanza per la distorta sensibilità collettiva, spesso accesa a livello mediatico. Un lungo giro di parole per dire come la più banale delle cazzate possa monopolizzare l’attenzione e la discussione di tanta gente. È sicuramente il caso dell’innocuo e banale gesto rivolto da José Mourinho al pubblico dello stadio torinese al termine della partita di calcio, a livello di champions league, tra Juventus e Manchester United, finita inaspettatamente con la vittoria della squadra inglese allenata dal suddetto tecnico portoghese. Ci casco anch’io e porto acqua al mulino chiacchierone delle futilità.

Dopo aver sopportato cori offensivi durante l’intera partita, alla fine, ringalluzzito dalla clamorosa rimonta della sua squadra avvenuta con due goal negli ultimissimi minuti di gioco, Mourinho si è rivolto al pubblico portando la mano all’orecchio per chiedere provocatoriamente cosa avessero intenzione di urlare in quei momenti di grandissima delusione o se avessero perso improvvisamente la voce. È vero che il rapporto tra questo tecnico e il pubblico juventino è molto teso e risale al fatto che Mourinho abbia allenato l’Inter, la storica acerrima rivale della Juventus, ottenendo nella stessa stagione la vittoria nelle tre competizioni calcisticamente più importanti, vale a dire il campionato italiano, la champions league e la Coppa Italia. Lui si è sempre fatto scudo del cosiddetto triplete per rispondere alle critiche, lasciando intendere che i tifosi juventini devono starsene zitti e potranno parlare quando la loro squadra avrà raggiunto un simile articolato traguardo.   Alla spazzatura da rissa di cortile fa riscontro una rivalsa da asilo infantile.

Detto questo vorrei capire cosa c’è stato di tanto sconveniente e censurabile in quel gesto, peraltro praticato da tutti i calciatori beccati dal pubblico e successivamente autori di goal. Mio padre la chiamava “arlìa”. Certo, se praticata da imbecilli, può diventare l’innesco per offensivi scontri verbali o addirittura per sfoghi di violenza.  Io non ho trovato nulla di scandaloso nel comportamento di Mourinho, se non la “giusta” rivalsa verso chi lo voleva ridicolizzare. I grilli parlanti, irritati dalla sconfitta della vecchia signora, l’hanno messa sul piano della mancanza di professionalità. Ma fatemi il piacere…Nel mondo del calcio la correttezza professionale è un optional per tutti: giornalisti che friggono il tifo per poi lamentarsi delle scottature, giocatori che si comportano come viziati bamboccioni, allenatori malati di “primadonnismo”, arbitri pagati per commettere errori, presidenti che giocano a sfondare i bilanci e a quadrarli con la fantasia, tifosi che non fanno il tifo, ma vanno allo stadio per sfogare le loro frustrazioni e i loro peggiori istinti. Non si salva nessuno, è un mondo sempre più malato e sporco. Smettiamo quindi immediatamente i panni moralistici, accettiamo la sconfitta con quell’eleganza, che effettivamente non è il pezzo forte del bizzoso allenatore del Manchester United.

Mio padre era maestro nello sferzare il calcio, un gioco che amava e seguiva con grande interesse, ma da cui restava disgustato ogniqualvolta veniva oltrepassato il limite del buongusto e della sacrosanta rivalità sul campo e negli stadi. Durante un Parma-Sampdoria di coppa Italia di parecchi decenni fa, nelle file della blasonata e simpatica squadra di Genova militava un fuoriclasse a fine carriera, il quale aveva espresso il meglio di se durante i campionati precedenti giocati nella Fiorentina: si trattava di Lojacono. Il suo aspetto esteriore era quello tipico del giocatore a fine carriera: qualche chilogrammo in più, il passo un po’ lento, forse qualche capello grigio. Per la verità ricordo che la sua, in quell’occasione, non fu una prestazione di rilievo. Venne trotterellando, senza fretta, quasi con scetticismo, a battere un calcio d’angolo nella zona di campo prospiciente la gradinata dove tra gli altri era piazzato anche mio padre (c’ero anch’io). Il solito assurdo e stonato tifoso non trovò di meglio che far tuonare (intorno c’era silenzio) la propria voce nell’urlo di scherno “Lojacono bidone”, che fu sentito distintamente da tutti, compreso l’interessato il quale, scrollando il capo, senza voltarsi verso il suo detrattore, allargò simpaticamente le braccia in un gesto, che voleva dire tutto e niente, ma che certamente sdrammatizzava con intelligenza la situazione e ridicolizzava lo sfogo del tifoso parmense. A quel punto mio padre, che amava bollare le vicende ridicole e non si lasciava sfuggire la possibilità di sottolinearle in modo sarcastico, lanciò il suo acido e personale commento di sintesi e disse rivolto all’incauto tifoso: “A sarìss cme där dal povrètt a Barìlla s’al magna ‘na sigolla”.

In conclusione, il pubblico juventino avrebbe fatto meglio a tacere o almeno ad aspettare la fine della partita e forse Mourinho avrebbe fatto meglio a prendere lezione da Lojacono: un personaggio del quale non gli è forse nota la storia. I giornalisti sarebbe meglio che si andassero a nascondere. Io avrei fatto meglio a non prendere in considerazione questo fatto(?), ma la frittata è fatta.

Elezioni di midterm per una mid-democracy

Donald Trump nel 2016 è stato eletto presidente degli Usa dalla minoranza degli americani (circa due milioni di voti in meno rispetto alla Clinton), nel 2018 viene politicamente confermato sulla base di risultati elettorali in cui il partito democratico esce vincente e controlla la Camera dei rappresentanti, mentre il partito repubblicano, sempre più controllato da Trump, si accontenta di mantenere la maggioranza dei seggi al Senato.

Ai tempi del fascismo e del nazismo gli oppositori a questi drammatici regimi cercavano di fuggire negli Usa alla ricerca di un po’ di libertà e democrazia, oggi se dovesse mai succedere che in Italia si instauri un regime autoritario (mai dire mai) avrei parecchie perplessità ad orientare la mia fuga verso gli Stati Uniti. Perché? Una democrazia istituzionalmente zoppa, con un sistema elettorale e rappresentativo assurdo, con una mentalità di governo chiusa, presuntuosa ed invadente. Pensiamo se la rinascita italiana ed europea, all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, avesse dovuto dipendere dagli Usa di Trump: poveri noi. Alla cortina di ferro si sarebbe sostituita immediatamente una cortina di burro e noi saremmo stati sballottati perennemente fra Russia ed America, l’Europa unita non sarebbe mai nata e forse ci saremmo fusi con la Jugoslavia. Sto scherzando, ma non troppo.

Al momento non sono riuscito a capire come la pensa la maggioranza degli americani: nel ginepraio del voto statunitense ho la netta impressione che la democrazia venga nascosta e sacrificata sull’altare di un finto presidenzialismo, con il Parlamento a fare da mero supporto a chi governa dalla Casa Bianca. Il sistema, fino al momento in cui esprimeva presidenti ragionevoli, pur con tutti i limiti e i difetti possibili ed immaginabili, reggeva sul piano democratico, nel momento in cui è spuntato un folle incantatore di serpenti il sistema democratico  è andato in crisi, è stato di fatto invertito, perché non dà garanzie di rappresentatività e soprattutto perché è privo di contrappesi istituzionali. Chi governa non è un leader, che risponde a tutta la nazione, ma un capo che comanda in nome dei suoi sostenitori (oltretutto sono e continuano ad essere una minoranza). Fanno tenerezza e (quasi) pena i bagni di folla pre e post elettorali: sempre più fastidiose americanate e sempre meno feste democratiche.

Il problema sta nei riflessi che tale anomalia democratica sta avendo sul mondo intero e sull’Europa in particolare. La democrazia si sta dileguando, gli equilibri internazionali stanno andando a gambe quarantotto, l’economia sta friggendo la politica, emergono i fantasmi del passato. Ho sempre ritenuto gli Usa, pur in mezzo alle contraddizioni imperialistiche di non poco conto, un punto di riferimento e di appoggio imprescindibile per l’Europa, ma soprattutto per l’Italia. L’alleanza con gli Stati Uniti è sempre stata un punto di forza per un Paese debole come il nostro. Anche adesso sembra che Trump ci voglia bene, che ci allunghi la mano (e i nostri attuali governanti per mille stupidi motivi la stanno accarezzando): sì, ma per andare nel fosso in cui lui sguazza benissimo mentre noi rischiamo di affogare.

La caduta degli asini

Non c’è giorno in cui non scoppi un piccolo o grande contenzioso all’interno del governo e della sua maggioranza parlamentare. È la volta della “prescrizione”, vale a dire di un istituto giuridico che porta all’estinzione di diritti o di reati a seguito del trascorrere di un determinato periodo di tempo. La questione è molto delicata, perché tocca da una parte principi giuridici fondamentali come la certezza del diritto, la durata ragionevole del processo, il reinserimento sociale del reo e dall’altra parte il diritto dello Stato a fare comunque giustizia per i suoi cittadini.

Su questo tema si scontrano, al di là delle scaramucce di metodo, peraltro di una certa importanza che vedremo fra poco, due impostazioni politiche nettamente contrastanti, sinteticamente condensabili in giustizialismo e garantismo. Tendenzialmente giustizialisti sono i pentastellati, i quali vogliono dare almeno l’immagine dei rigorosi pulitori del sistema: tendenzialmente garantisti sono i leghisti, che preferiscono coniugare il loro populismo con la rigorosa difesa dei diritti del singolo contro l’invadenza dello Stato e della legge.

Nel cosiddetto contratto di governo è contenuta la riforma della prescrizione: scrivere così non significa però nulla, perché cambiare le regole della prescrizione può significare accorciarne o allungarne i tempi, renderla più o meno stringente, farne uno stimolo o una salvaguardia per la magistratura lumaca, etc. etc. Qui casca il primo asino: se il programma di governo doveva essere all’insegna del cambiamento e per ciò stesso doveva essere preciso e puntuale a differenza dei soliti generici e onnicomprensivi documenti programmatici, non ci siamo in quanto anche il contratto pentaleghista  ha evidentemente l’elasticità per dire tutto e niente.

I grillini intenderebbero poi inserire l’innovazione – vale a dire la sospensione dei termini prescrittivi dopo la sentenza di primo grado (in parole povere un allungamento dei tempi) – facendola confluire nel provvedimento legislativo anticorruzione (un fiore all’occhiello), mescolando capre e cavoli con un emendamento spot e magari con la quadratura del cerchio, aggiungendo cioè nel titolo del ddl Anticorruzione anche “in materia di prescrizione del reato”. E qui casca il secondo asino: la trasparenza e la linearità delle procedure parlamentari doveva essere una novità, mentre si ricade bellamente nella solita e confusa mescolanza di provvedimenti disorganici e incasinati fin dalla loro nascita.

Sullo sfondo dei lavori parlamentari poi spunta il discorso di porre la questione di fiducia su un altro provvedimento, quello inerente la “sicurezza”, per chiudere in qualche modo la disputa parlamentare su questo decreto, per il quale, tanto per cambiare, non c’è accordo. E qui casca il terzo asino: il ricorso ai voti di fiducia non era una pratica antidemocratica e antiparlamentare da evitare accuratamente e scupolosamente? Tutto dimenticato e superato!

L’asino più grosso casca però non tanto in senso metodologico o procedurale, ma in senso squisitamente politico: abbiamo un governo, che sui temi fondamentali non è omogeneo; non si comprende quale linea porti avanti in politica estera, nei rapporti con la Ue, in campo giudiziario, in campo assistenziale etc. etc. Avrebbero bisogno di un provetto mediatore a livello di presidente del Consiglio, un politico coi baffi che dipanasse le aggrovigliate matasse, mentre invece si sono affidati a un tecnico assai sprovveduto politicamente parlando e per di più tendono a sminuirne ruolo e poteri imbrigliandolo continuamente in un balletto salvinian-giorgettian-dimaiano da cui esce aggrovigliato lui stesso in mezzo ai  gomitoli governativi. Più che del governo di cambiamento si può parlare di governo “dell’ucasizzazione”, vale a dire affidato all’Ucas, ufficio complicazione affari semplici. Con l’aggravante che gli affari del governo Conte non sono affatto semplici e quindi la complicazione finisce con l’essere una solenne presa per i fondelli laddove la semplificazione doveva rappresentare una bella novità. C’è un detto popolare che avvalora una sciocca ma simpatica superstizione: “Frä barbä, béla novitä!”. Peccato che nel governo Conte non ci siano frati con la barba, ma ministri che fanno venire la barba.

I debiti ambientali giungono a scadenza

Abbiamo trovato il capro espiatorio. Dopo giorni di angoscioso ciarpame post-alluvionale siamo arrivati al dunque: tutta colpa dell’abusivismo. Piove, abusivismo ladro! L’importante infatti, nella nostra epoca “disumanista”, non è partecipare, ma incolpare.  Abbiamo violato a più non posso i divieti posti a salvaguardia del territorio e non sono arrivate ammende, sanzioni penali e civili, è giunta la spietata e imparziale vendetta ambientale.

Abbiamo storicamente ritenuto l’abusivismo un male necessario per uscire dalla miseria post-bellica: dobbiamo ammettere che il nostro boom economico degli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso è dovuto all’abusivismo e all’evasione fiscale. Si costruiva dappertutto e si lavorava dappertutto. Le leggi erano un optional: eravamo dei poveri diavoli, che rubavano per mangiare e quindi ci sentivamo innocenti, addirittura bravi. Si chiama contestualizzazione e storicizzazione dell’abusivismo.

Poi l’appetito vien mangiando ed è iniziato l’abusivismo dei furbetti dell’ambientino, quelli della villetta in riva al fiume, dell’albergo in riva al mare, del residence dentro i boschi, etc. Abbiamo consentito autentici sfregi territoriali ed ambientali, talora in buona fede, spesso in odore di corruzione, concussione e mafia.

Poi, quando il rigore ambientalista ha fatto capolino, non ce la siamo sentita di spazzare via l’acqua sporca anche perché rischiava di trascinare il bambino: ecco i condoni, le sanatorie, le indulgenze plenarie a prezzo risibile. Qualcosa nella legislazione è cambiato, ma purtroppo non è mutata la mentalità del cittadino profittatore, quella del governante omertoso o addirittura complice, e abbiamo continuato a sopravvivere da un terremoto all’altro, da un’alluvione all’altra, accontentandoci di un piatto di lenticchie che copriva le annose brutture accumulate nel territorio.

Questo è il triste percorso da cui veniamo, lo sappiamo da tempo e ogni volta facciamo finta di scandalizzarci. Certo, nel frattempo il clima ci è venuto contro e ci ha scaricato addosso i debiti ambientali accumulati nel tempo. Paga chi ci resta sotto, colpevoli, innocenti, responsabili, irresponsabili, giovani ed anziani, ricchi e poveri.  Come la morte, che non guarda in faccia nessuno, ma non per questo la possiamo umanamente considerare giusta, ma solo imparziale.

Per rimediare è molto tardi. Il ministro Matteo Salvini ha fatto due affermazioni che meritano una certa considerazione (tutti i matti hanno le loro virtù): bisogna piantarla con l’ambientalismo da salotto, con la poetica difesa a tutti i costi dell’alberello e del torrentello, bisogna finirla col cretinismo ecologico, che sacrifica tutto sull’altare della protezione chiccosa, emozionale e parolaia della natura. Tuttavia se l’ambientalismo ha necessità di un bagno di pragmatismo, il pragmatismo ha bisogno di un bagno di ambientalismo e non di condonismo. Attenti dunque, perché ciò che può sembrare eccessivo ed esagerato oggi, potrebbe rivelarsi indispensabile e utile domani. A buon intenditor poche parole. Persino la difesa del posto di lavoro oggi può significare disoccupazione, malattia e morte domani o dopo domani.

La seconda intuizione salviniana riguarda la necessità di un progettone per la messa in sicurezza del territorio: sono più che d’accordo. Occorre una barca di soldi, stimabile in 40 miliardi. Credo a naso che siano pochi, ma comunque si potrebbe ragionare. Bisogna trovarli anche perché si tratterebbe di un volano socio-economico notevole per imprese, occupazione, giovani, turismo e chi più ne ha più ne metta. I finanziamenti potrebbero arrivare da tante parti, anche da un’imposta di scopo ben articolata e dosata. Mi dichiaro fin d’ora d’accordo e disponibile e rinuncio fin d’ora alle solite obiezioni: paghi chi ha sbagliato, non facciamo un assist alla mafia, facciamoceli dare dall’Europa, non serviranno a niente perché verranno rubati o sprecati come è già successo. Ci sto a rischiare, ma facciamo qualcosa sul serio e di serio. Subito!

Il prete nell’acqua

Abbiamo l’acqua alla gola. Non è un modo di dire per fotografare gli andamenti di politica economica, ma la fotografia della situazione climatica che stiamo vivendo. Ricordo che mio padre, con la sua solita e sarcastica verve critica, di fronte agli insistenti messaggi statistici sulla morte di un bambino per fame ad ogni nostro respiro, si chiedeva: «E mi alóra co’ dovrissja fär? Lasär lì ‘d tirär al fiè?». Lo diceva forse anche per mettere fine ai pietismi di maniera che non servono a nulla e vanno molto di moda.

Di fronte all’allarmismo giustificato, ma mediaticamente cavalcato e spropositatamente enfatizzato, ci si potrebbe chiedere: e allora cosa facciamo, ci chiudiamo in casa a piangere sull’acqua versata? Non usciamo più per paura che un albero ci caschi in testa?  Mi sembra che anche dal punto di vista climatico e meteorologico non si vada oltre la strumentalizzazione delle paure. La paura degli immigrati ci assolve dalle ataviche responsabilità nei confronti dei nostri simili, che vivono in condizioni disperate. La paura delle alluvioni ci può portare a sopravvivere rispetto agli andamenti climatici, a galleggiare nelle tempeste che ci colpiscono, in fin dei conti a voltarci dall’altra parte, ad alzarci in punta di piedi se l’acqua è troppo alta.

Il clima è cambiato, non so fino a qual punto sia ascrivibile ad una imprevedibile evoluzione naturalistica oppure ad una scriteriata mercificazione dell’ambiente. Non ho risposte precise e non penso di essere l’unico, anche se i grilli parlanti abbondano.  Tuttavia, se cambia il clima, se il territorio è devastato, se l’aria è inquinata e ci mette in guerra con l’acqua che ci sommerge, dovremo pure porci il problema di riequilibrare il nostro umano comportamento rispetto a questi sconvolgenti mutamenti. Non con l’allarmismo del momento, ma con il senso di responsabilità di dover rifare i nostri conti.

Da una parte siamo sommersi, oltre che dall’acqua, da una valanga mediatica angosciante quanto superficiale e spettacolare: basti pensare che certe televisioni chiedono ai loro spettatori di inviare immagini, le più choccanti possibili, dei rovinosi fatti alluvionali. Dall’altra, mentre si parla di miliardi di danni, la politica è in grado di raggiungere simili livelli finanziari di intervento in soccorso della popolazione disastrata. E non cedo alla facile demagogia del pretendere che siccome piove, il governo la smetta di essere ladro.

In mezzo dovremmo starci noi cittadini del mondo. Siamo disposti a convertire le nostre stucchevoli “maratone domenicali” in battaglie pedonali quotidiane? Siamo disposti a trasferirci armi e bagagli dai nostri “nidi” veicolari per frequentare gli squallidi casermoni dei bus urbani ed extra-urbani? Siamo disposti ad adottare un comportamento rigoroso in materia di gestione dei rifiuti? Siamo disposti a qualche sacrificio fiscale da indirizzare alla salvaguardia del territorio, a trasformare il famigerato e storico “soccorso invernale” in razionale difesa dell’ambiente in cui viviamo? Siamo disposti a piantarla con l’abusivismo e la rapina a mano disarmata del territorio? Siamo disposti a trasformare l’ambientalismo da salotto in un ambientalismo ruspante che ci tocchi nel vivo? Siamo disposti a diventare tutti operatori della protezione civile, senza fare casino e disturbare chi lavora, ma impegnandoci a fare qualcosa di concreto (meglio prima che dopo i cataclismi)? Forse sto facendo la poesia dell’antipoesia…

Sapete invece cosa stiamo rispondendo? Ci orientiamo a votare per chi tende a negare il problema dell’inquinamento atmosferico (leggi Donald Trump e suoi amici interni ed esterni). Facciamo un po’ di casino pre e post mediatico tra un’alluvione e l’altra. Scarichiamo colpe a destra e manca. Imprechiamo contro tutto e tutti. Buttiamo il prete nella…nell’acqua e chi si è visto si è visto…