Un profumato vento di femminismo

In questi giorni ho visitato una mostra di pittura, che esponeva le opere creative di quattro donne: sono rimasto impressionato dalla loro capacità di coniugare e sintetizzare artisticamente, persona e natura, passato e presente, sacro e profano, sofferenza e speranza, innocenza e riscatto, amore e lotta. Solo la donna è capace di cambiare il mondo, è capace di “sviolentare” le religioni e i conflitti sociali, di combattere per la giustizia senza fare guerre, di proporsi con la forza della sua debolezza e con la debolezza della sua forza.

Quattro pittrici, Enrica Gibin, Agata Maugeri, Mara Montagna, Andreina Spotti: migliore testimonianza non poteva venire in vista della celebrazione della giornata contro la violenza sulle donne. “Tracce, frammenti, memorie” offerti con delicata convinzione: una piccola grande sfida, che non può venire solo dalle pionieristiche e fulminanti carriere delle “privilegiate”, ma dalle umili e pazienti testimonianze delle “impegnate”.

Andreina Spotti mi ha confidato, con malcelata timidezza, che, quando dipinge, riesce a creare intorno a sé un habitat artistico a misura di donna: c’è persino un profumo avvolgente e coinvolgente. Non faccio fatica a crederlo, guardando la femminilità prorompente e sgorgante dai suoi dipinti.  Una candidatura a donna di mondo nel suo piccolo (grande) laboratorio creativo.

Molti anni fa scrissi un provocatorio omaggio alle donne, ricordando emblematicamente mia nonna materna, una vedova autoemancipata, madre Teresa di Calcutta, la soluzione vivente al problema del sesso degli angeli, le suore di clausura, le migliori cosmetologhe possibili e immaginabili. Quanti rimbrotti ebbi da amiche e colleghe! Sono ancora sostanzialmente di quel parere a costo di fare la figura del retrogrado; continuo imperterrito a correre il rischio della retorica.

Il paradosso del mondo sta nel fatto che l’amore ci divide, la violenza ci accomuna. E che ci accomuna è soprattutto la violenza contro le donne: da una parte ci scandalizziamo delle torture e delle discriminazioni operate dai musulmani salvo poi cadere sostanzialmente nelle stesse prassi rivedute e corrette (?).

Mi sembra resti aperta nell’Islam (non solo quello radicale o radicaleggiante), grande come una casa, la questione femminile. Non è certo di buon auspicio che i musulmani, anziché affrontarla con serietà e umiltà, facciano una camaleontica difesa d’ufficio delle loro usanze pseudo-religiose, inventando assurde mode da “ultima spiaggia”.

Dal canto nostro, nella (in)civiltà occidentale, abbiamo ridotto la donna a bambola gonfiabile e non ci accontentiamo di agitarla prima dell’uso, ma la distruggiamo dopo l’uso. La violenza contro le donne è una costante della storia: dalle streghe messe al rogo alle bambine infibulate, dai chador imposti alle donne musulmane ai nudi imposti dal più bieco consumismo, dalle diavolesse agli angeli del focolare, dalle macchine per fare figli alle prostitute bambine.

Sotto queste violenze c’è oltretutto sempre l’inganno: da una parte l’illusione di essere “padrone di casa”, dall’altra il miraggio della parità di difetti.  Il maschilismo cambia pelle, ma rimane intatto nella sua portata culturale, politica e religiosa. Il femminicidio altro non è che la punta di un iceberg. Non voglio esagerare, ma mi sembra che l’unico capovolgimento radicale e globale nei confronti della considerazione e rivalutazione del mondo femminile sia quello predicato e praticato da Gesù. E non fu un caso se andò in croce e se sotto la sua croce si ritrovarono solo uno sparuto gruppo di donne. Ricordiamo che la prima persona a capire la novità assoluta del cristianesimo fu una donna (Maria Maddalena la prima a credere al Risorto). Non i membri di qualsiasi sinedrio, non gli zelanti osservanti di qualsiasi religione, non gli intellettuali di qualsiasi epoca. Una donna! E noi? Delle donne sappiamo solo fare scempio: su questo ci troviamo tutti d’accordo.

La scena del sonnambulismo

“Chi poteva in quel vegliardo tanto sangue immaginar?”, così il delirante canto di lady Macbeth durante la scena del sonnambulismo dell’opera verdiana: la pazzia la distrugge col tragico ricordo dell’assassinio del re Duncano, compiuto per la conquista del trono da parte della coppia infernale.

Valdis Dombrovskis, il vice-presidente della commissione europea che sta esaminando la manovra economica italiana e la sta bocciando con la seria minaccia dell’apertura di una procedura di infrazione dalle conseguenze facilmente prevedibili, ha spietatamente dichiarato: «Il rischio è che l’Italia proceda come un sonnambulo verso l’instabilità».  Non mi sono sentito affatto offeso, ma soltanto (sic!) interrogato e provocato: l’alto esponente dell’establishment europeo ha voluto scuoterci da una sorta di colpevole torpore che ci sta attanagliando.

Mi risulta che i contraccolpi dello scriteriato atteggiamento del governo italiano stiano già concretizzandosi a livello bancario: gli istituti di credito stanno reagendo all’impoverimento del loro portafoglio titoli detenuto a garanzia dei crediti concessi alla clientela, chiudendo drasticamente i cordoni della borsa o addirittura revocando, in tutto o in parte, gli affidamenti concessi, in proporzione alla svalutazione dei titoli di Stato a suo tempo comprati (lo spread non è un’invenzione per far paura a Salvini e Di Maio, è un inesorabile meccanismo mercatale che ci colpisce tutti). Vorrei chiedere a quanti hanno votato Lega o Cinquestelle se si sentirebbero di comprare titoli del debito pubblico italiano. Mio padre sosteneva che per scoprire le reali intenzioni della gente bisogna colpirla nel portafoglio. E allora è inutile fare i furbetti dell’euroscetticismo.

Mentre Matteo Salvini continua imperterrito ad insolentire le autorità comunitarie, mentre Luigi Di Maio vaneggia su una assurda resistenza allo strapotere dei mercati (siamo in un sistema capitalista e non sarà certo la presunzione grillina a rivederne i meccanismi), mentre il premier Conte rassicura stucchevolmente tutti sulla solidità dei conti italiani, giocando le sue carte alla tavola imbandita di Juncker, mentre il ministro Tria non sa più che pesci pigliare, mentre il ministro Savona butta la palla nella tribuna dei precedenti governi, gli italiani cominciano a soffrire sulla loro pelle il dramma di un’Italia figlia di nessuno alla ricerca di una fantomatica Europa diversa.

Ai partiti che sostengono e “ricattano” questo governo del cambiamento non interessa il bene degli italiani, ma il pieno di consensi da fare quanto prima, magari tornando in fretta e furia alle urne, prima o contemporaneamente alle elezioni europee, con la macabra spartizione del bottino fra nord e sud. Il tempo e l’Europa giocano contro di loro e quindi bisogna accelerare e passare all’incasso quanto prima.

Il presidente Sergio Mattarella, nella sua esemplare correttezza costituzionale, ha tollerato un matrimonio di interessi, anche se gli improvvisati sposi venivano da idee e programmi opposti. La mia speranza è che, vedendo andare in crisi questa unione di fatto, che ci sta effettivamente trascinando nel baratro, riesca ad annullarla o a bypassarla in qualche modo, istituzionalmente corretto, ma coraggiosamente spinto a farci uscire dal tunnel in cui ci siamo ficcati. Sono sicuro che anche Mario Draghi stia lavorando sotto traccia per quadrare il cerchio: vedo, con l’ottimismo della volontà e mettendo da parte il pessimismo dell’intelligenza, un asse di salvezza Mattarella-Draghi-Moscovici, che dovrebbe perbenisticamente “stritolare” l’andazzo dell’attuale compagine governativa. Come? Non lo so. Lasciatemi sognare Matteo Salvini che nel suo sonnambulismo canta: “Chi poteva in quel Dombrovskis tanta forza immaginar…”.

Da Metternich a Bismarck a…Trump

Donald Trump ha preso visione del rapporto finale della Cia sul caso Khashoggi, da cui emerge la (quasi) certezza che il principe saudita sia il mandante dell’omicidio, vale a dire colui che ha ordinato a una squadra della morte guidata dai suoi fedelissimi di andare ad Istanbul ad eliminare l’odiato giornalista, che sulle colonne del Washington Post continuava a infangare la sua immagine.

Ebbene, dopo aver tuonato ripetutamente contro questa schifosa operazione, oggi, giustificandosi col fatto che il principe ereditario “forse sapeva e forse no” e che “forse non sapremo mai veramente tutti i fatti”, ha ripiegato sulla più smaccata realpolitik: «Il regno dell’Arabia Saudita resta un grande alleato degli Stati Uniti. Il mantenimento dell’intesa è volto ad assicurare l’interesse del nostro Paese, di Israele e di tutti gli altri alleati nella regione».

Quindi l’interesse americano è al di sopra di ogni tentazione di alzare il tiro e non esiste la necessità di ulteriori misure punitive.  Khashoggi giace, Trump si dà pace e il principe Mohammed è salvo. Le indagini sono corredate da una montagna di informazioni e dal famigerato audio consegnato dalle autorità turche, quello che Trump sembra non abbia voluto nemmeno ascoltare per paura fosse troppo crudele. Di quell’audio sono uscite nuove indiscrezioni da un giornale turco, che spiega come si senta Jamal Khashoggi protestare appena entrato nel consolato saudita di Istanbul: “Cosa credete di fare”, urla mentre lo afferrano per un braccio e lo trasportano in una stanza appartata. Poi la voce dei suoi aguzzini che gli promettono di fargliela pagare prima di iniziare il massacro. Ma Trump non arretra e fa pubblicare dalla Casa Bianca una dichiarazione in cui ribadisce la piena lealtà degli Usa verso la monarchia di Riad, in nome del suo mantra ripreso in calce al comunicato: “America First”.

«L’Occidente non può combattere Daesh e, nello stesso tempo, stringere la mano a Riad. Il jihadismo cresce grazie alla propaganda voluta dai regnanti wahabiti». Così l’analisi di Kamel Daoud, scrittore algerino: «Daesh nero, Daesh bianco. Il primo taglia le gole, uccide, lapida, taglia le mani, distrugge il patrimonio dell’umanità e disprezza l’archeologia, le donne e i non musulmani. Il secondo è vestito meglio, ma fa le stesse cose. Lo Stato Islamico; l’Arabia Saudita. Nella sua lotta al terrorismo, l’Occidente fa la guerra con una mano e stringe le mani con l’altra. Questo è un meccanismo di negazione, che ha un prezzo: conservare la famosa alleanza strategica con l’Arabia saudita rischiando di dimenticare che anche il Regno degli Emirati poggia su un’alleanza con il clero che produce, legittima, diffonde, predica e difende il wahabismo, la forma ultra-puritana dell’Islam a cui Daesh si ispira. L’Arabia Saudita è un Daesh riuscito. Colpisce come l’Occidente lo neghi: saluta la teocrazia come suo alleato, ma fa finta di non notare che è il principale sponsor ideologico della cultura islamica».

Questo equivoco pazzesco, fondato sugli interessi economici petroliferi, non solo mette a repentaglio l’etica nei rapporti internazionali, ma rende persino schizofrenica la Realpolitik. La rozzezza culturale e politica di Trump evidenzia ancor più queste contraddizioni, esistenti da tempo immemorabile nella politica occidentale. Di fronte a tali luridi equilibri, davanti alla vita umana retrocessa a mera pedina sulla scacchiera internazionale, c’è da rimanere soffocati e sconvolti. Le reazioni sono due: o si prende atto e ci si adegua adottando, anche a livello individuale, questi parametri di opzione politica (è quanto molti nel mondo stanno facendo appiattendosi sul consenso e sul voto a personaggi totalmente disancorati dai valori) oppure si cerca di combattere contro i mulini a vento, di contrastare e combattere a mani nude la violenza (il)legittima che ci opprime. Forse non ci rendiamo conto che mai come oggi il mondo è a un bivio e siamo tentati di stare a guardare: non è possibile, bisogna scegliere, costi quel che costi, tra i valori fondamentali dell’uomo e le convenienze dell’egoismo individuale e collettivo.

Autorelegati nel sottoscala europeo

Un mio compagno di scuola andò a consultare il tabellone che esponeva l’esito dell’anno scolastico: “respinto”. Non fece nemmeno una piega, inforcò il suo lussuoso motorino e si presentò disinvoltamente sotto le finestre di casa: “Mamma, sono stato bocciato! Devo scappare, mi aspettano gli amici…”. Mi chiesi cosa sarebbe successo a me, se mi fossi comportato in quel modo, durante ed alla fine dell’anno scolastico.

La differenza, fra la bocciatura Ue della manovra economica del governo Conte e quella del mio compagno di cui sopra, consiste nel fatto che la famiglia del ragazzo respinto era molto ricca e, seppure a malincuore, poteva sopportare ed assorbire un simile comportamento irresponsabile del figlio, mentre l’Italia non è ricca e non può permettersi un simile lusso e purtroppo soffrirà, più o meno, le conseguenze di un comportamento irresponsabile del suo governo.

Mi sono sentito mortificato dalle parole con cui i commissari Ue, durante un’attesa conferenza stampa, hanno motivato la bocciatura del nostro Paese, che porterà ad una procedura d’infrazione con tutte le ripercussioni a livello dei rapporti con l’Unione europea ed a livello dei mercati finanziari. C’era nelle parole dei massimi esponenti politici europei un dispiaciuto avvertimento al popolo italiano, che rischia di avere danni consistenti dalla testardaggine trasgressiva dei suoi attuali governanti.

Non sono un rigorista spinto, non ho l’abitudine di fare l’antitaliano, non sono un esterofilo e nemmeno un eurofilo per partito preso, vedo i limiti ed i difetti della Ue e dei suoi membri più autorevoli, leggo nella storia una memoria corta dei nostri partner, i quali hanno ottenuto enormi aiuti e vantaggi ed ora fanno i primi della classe e ci fanno, come si suol dire gli uomini addosso. Questa menata però ce la potevamo risparmiare: ci stiamo facendo un autogol per il gusto masochistico di voler essere “padroni in casa nostra”, ben sapendo che non viviamo in una lussuosa villetta monostatale, ma in un grosso e problematico condominio sovranazionale.

Tutti ricorderanno la barzelletta del marito che, per schivare gli improperi e le bastonate della moglie, si rifugia sotto il letto. Al reiterato e autoritario invito della moglie ad uscire dal penoso nascondiglio, egli, con un rigurgito di machismo, risponde: «Mi fagh cme no vôja e stag chi!». Noi facciamo come vogliamo, ma rischiamo di essere ficcati nel sottoscala europeo in attesa di tempi migliori. Ma perché tanta velleitaria presunzione, perché tanta cocciuta difesa di una linea di politica economica criticata aspramente da tutti non tanto per la violazione dei parametri, ma per la contraddizione insita nella mancanza di una sua logica espansiva? A volte ci può stare anche la scelta di indebitarsi ulteriormente, ma con uno scopo ben preciso, quello di investire in qualcosa che ci darà in prospettiva un vantaggio tale da poter diminuire i debiti, e non allo scopo di continuare a vivere al di sopra delle proprie possibilità. Prima o dopo arriva la mazzata!

Nelle parole dei commissari europei c’era un messaggio di questo tipo: guardate che non state facendo un dispetto all’Europa, ma al popolo italiano. “Chi se ne frega di Juncker, Dombrovskis e  Moscovici”, dice Matteo Salvini, la punta di diamante della linea sovranista e populista del governo Conte. E se per caso avessero ragione? Non dico di bere a gargamella quel che dicono, ma proviamo almeno a ragionare con calma. Forse siamo ancora in tempo.

Ritiratevi tutti, è cambiato il mondo!

L’attuale governo sta facendo un casino pazzesco: affronta i problemi con grande superficialità, improvvisa soluzioni illusorie, litiga continuamente al proprio interno, è in rotta di collisione con l’Unione europea, fa indubbiamente molto fumo e poco arrosto (forse addirittura brucia l’arrosto). Dà però l’idea di impegnarsi, di buttare all’aria la casa per ripulirla, di voler cambiare l’aria, di voltare pagina.

I cittadini italiani, con tutto il rispetto, non sono mostri di intelligenza e cultura, non hanno grande capacità critica, si lasciano facilmente infinocchiare ed infatti sta succedendo proprio che la gente, esasperata dai problemi, dalle inefficienze, dalle contraddizioni, dalla corruzione, ascolta chi la sa raccontare meglio e le promette facili soluzioni. Bisogna però sforzarsi di mettersi nei panni di tante persone effettivamente in grosse difficoltà, che quindi sono portate ad affidarsi anche al primo che passa, visto che in precedenza magari non passava nessuno.

Il governo legastellato dà di sé un’immagine di confuso attivismo, di contraddittorio efficientismo, di inconcludente populismo, di indispettito sovranismo: da questo bailamme molti vengono storditamente impressionati e fanaticamente coinvolti. Non è facile spiegare che nel casino politico non si costruisce niente, anzi si distrugge quel poco o tanto che esiste. L’ansia del nuovo e del pulito induce nell’errore di rottamare, distruggere ed eliminare senza discernimento. Abbiamo tutti fatto l’esperienza di un trasloco: alla fine ci si accorge immancabilmente di aver buttato qualcosa che poteva ancora servire.

A questo scenario di artificiosa apocalisse politica fa riscontro un altro casino, quello del partito democratico: il Pd dà l’immagine opposta, vale a dire di una forza politica avvinghiata ai riti del passato, sussiegosamente ed altezzosamente lontana dai problemi concreti, inguaribilmente malata di un protagonismo fine a se stesso, incapace di dialogare con la gente, non per irriderne le paure, ma per rimuovere le cause di tali disagi. Di fronte ai tanti problemi emergenti qual è l’idea offerta dal partito democratico: scontrarsi su chi sarà il nuovo segretario! So benissimo che non è proprio così, che la scelta della dirigenza è fondamentale, che i congressi servono, che i problemi vanno inquadrati in una strategia complessiva, che la politica non è uno sbrigativo toccasana per chi sta male. Ci sono però momenti, e forse quello che stiamo vivendo lo è, in cui occorre fornire un’idea convincente, in cui occorre bucare il video, in cui bisogna sforzarsi di affiancare il cittadino prima di indicargli una strada.

Non aveva tutti i torti Katia Tarasconi, immediatamente bollata come “pasionaria del Pd, la quale, intervenendo nel dibattito dell’ultima assemblea nazionale del partito, ha avuto il provocatorio coraggio di affermare dalla tribuna: “Ritiratevi tutti, è cambiato il mondo. Non basta cambiare segretario ogni due anni, servono idee e un nuovo schema di gioco. Siamo rimasti un partito ottocentesco”. Una delle solite e velleitarie sparate? Può darsi, ma per Katia Tarasconi mi è immediatamente nata una certa simpatia.

Mi sovviene lo strafalcione di un mio simpatico conoscente. Quando spuntava qualche amico, di cui aveva appena (s)parlato, esclamava: «Ecco, tabula rasa!». Voleva dire “lupus in fabula”, ma faceva lo stesso. Non vorrei che il “tabula rasa” di Katia Tarasconi venisse snobbato con una sorta di “lupus in fabula”, affibbiatole come se fosse uno dei soliti sgangherati nuovisti rottamatori. Provino a darle ascolto, a ritirarsi in buon ordine ed a cambiare schema di gioco. Chissà che…

 

Il PD a prescindere da Renzi

La mia modesta esperienza di partecipazione alla vita politica attiva, a livello di partito (democrazia cristiana) e a livello istituzionale (consiglio di quartiere), mi ha insegnato che per capire cosa avviene nei consessi (assemblee, congressi, comitati) bisogna essere presenti e non accontentarsi delle cronache giornalistiche, dei retroscena, delle ricostruzioni più o meno fantasiose.

All’assemblea del Pd, che ha avviato la fase congressuale del partito, non ho partecipato (non sono nemmeno iscritto), non ho notizie di prima mano (da chi ha effettivamente partecipato ai lavori) e quindi vado a tentoni e faccio molta fatica a capire cosa stia bollendo nella pentola di questo partito.

Un altro insegnamento derivante dall’esperienza è quello della “presenza degli assenti”. Quando qualche pezzo grosso brilla per la sua assenza (generalmente studiata dall’interessato), il dibattito rischia di incartarsi sul significato da dare a questa sedia vuota, sulla critica alla diserzione o sull’apprezzamento del passo indietro, che molto spesso vuole essere un grande passo avanti. L’assenza di Matteo Renzi alla recente assemblea precongressuale del Pd ha catalizzato l’attenzione mediatica: cosa sta succedendo? L’ex premier ed ex segretario cosa sta facendo o cosa sta pensando di fare? Come minimo un nuovo partito? Come massimo una nuova corrente…di pensiero? Sicuramente Renzi fa parte dell’ampia categoria dei protagonisti a tutti i costi ed avrà tatticamente ritenuto conveniente snobbare l’assemblea per essere appunto protagonista, assai più che se fosse intervenuto direttamente per esporre le proprie idee. È un giochetto che funziona in modo proporzionale alla levatura culturale e politica dell’assente: può essere un fatto traumatico se il personaggio è di grande peso, può essere addirittura un fatto patetico se il personaggio è in crisi irreversibile. Non so sinceramente dove collocare Renzi in questa fase e temo che stia rivelando la sua peggiore fisionomia: quando era sulla cresta dell’onda governativa, la sua verve aveva un senso e otteneva anche una mia personale (relativa) simpatia; fuori dal governo gli altarini si scoprono e la capacità politica diventa un problema serio: una sorta di prova del nove. Al momento non torna e credo serva a poco abbandonare la scena per preparare un rientro alla grande, magari anche recitando un’altra commedia.

Aldo Moro in una fase della vita democristiana, abbandonò gli incarichi di partito, si fece da parte perché non condivideva la linea politica portata avanti dalla segreteria: non si eclissò, non ipotizzò un nuovo partito, non si divertì a rompere le scatole ai colleghi impegnati negli organi di partito. Parlò dalle colonne del quotidiano “Il giorno” con editoriali di grande spessore culturale. Prima o dopo lo andarono a cercare…Con tutta la stima che posso avere nei confronti di Renzi, mi sembra tutto un altro film.

Il partito democratico credo abbia abbondanti risorse culturali e umane a prescindere da Matteo Renzi: non si faccia quindi condizionare, svolga al meglio il suo congresso, metta in campo i suoi uomini migliori, si chiarisca le idee, si presenti alla gente in modo credibile e convincente. Men che meno si lasci coinvolgere nel referendum pro o contro l’alleanza con il M5S. In una parola, faccia politica, il resto si vedrà.

La Lega non si lega

Mentre i contrasti all’interno del governo Conte risultano sempre più evidenti e clamorosi, mentre i commentatori politici si esercitano di conseguenza nella previsione di (scarsa) durata del governo stesso, cosa dicono i protagonisti. Di Maio dice di non essere preoccupato circa l’eventualità di elezioni, dopo l’incontro tra Salvini e Berlusconi: “È normale che si incontrino perché loro sono alleati sul territorio. Noi abbiamo un contratto di governo a livello nazionale, ma a livello regionale e comunale ognuno per sé”.

Salvini dal canto suo afferma: “Governeremo per cinque anni. L’incontro con Berlusconi? Abbiamo preso solo un caffè”. Silvio Berlusconi aspetta e spera: “L’anomalia del governo giallo-verde non può durare a lungo. Cominciano ad esplodere contraddizioni insanabili, presto il centrodestra avrà di nuovo la possibilità di guidare l’Italia. Presto ci saranno manifestazioni in tutte le piazze d’Italia contro una Manovra che mette a rischio il risparmio degli italiani. Quello dei grillini è un progetto inquietante di decrescita ed è un progetto di governo che ci porta fuori dall’Europa”.

Salvini sta giocando a fare il socialista nel senso peggiore del termine: gioca su due tavoli, uno nazionale e uno locale, per portare a casa i vantaggi maggiori nella spartizione del potere. Ricatta gli interlocutori che non possono fare senza di lui e fa così il bello ed il cattivo tempo. I socialisti erano maestri in questa tattica: si ponevano come alleati della Dc e facevano incetta di ministeri e di enti a carattere nazionale, mentre si tenevano le mani libere a livello locale laddove ricattavano i comunisti, conquistando fior di sindaci ed assessori. Per giocare in questo modo bisogna però essere abili e non so se i leghisti siano all’altezza di un simile gioco politico. I numeri elettorali ed i consensi in crescita sembrano comunque dare loro ragione e forza.

I cinquestelle sono in difficoltà, ma non hanno alternative: la devono bere da botte per potersi ubriacare. Un eventuale filo di collegamento con il Pd appare impossibile e quindi devono tenersi ben stretti alla loro ancora di “salvinitaggio”.

Quanto ai rimasugli del centrodestra sembrano fuori dai giochi: è inutile infatti che continuino a sottolineare le divergenze fra Lega e M5S. Indubbiamente ci sono, ma forse, tutto sommato, sono inferiori a quelle tra Lega e Forza Italia. A livello europeo c’è un abisso fra l’antieuropeismo leghista d’assalto e la linea espressa pedissequamente da Antonio Tajani, attualmente il più europeista di tutti i politici italiani, complice la sua carica di presidente del Parlamento europeo. Anche a livello di politica economica non so se il populismo leghista sia più distante da quello grillino o dal perbenismo mercatista e liberista del forzitaliota Renato Brunetta.

Quale dunque la prospettiva? La situazione è costretta, salvo miracoli elettorali o cataclismi economico-finanziari, a durare fintanto che la Lega non avrà ridotto ad inutili brandelli le altre forze (debolezze!) del centrodestra e non avrà spolpato la carica contestatrice del M5S indebolito dalle fronde interne e dal calo di consensi. Il Pd rischia di svolgere un ruolo insignificante e di assistere dall’esterno al duello fra Lega e cinquestelle. La speranza del malvestito partito democratico dipende dal buon inverno futuro: dalla resipiscenza di gran parte dell’elettorato grillino e dalle prospettive europee.

Andiamo verso una sorta di penoso tripartitismo imperfetto, dovuto a tanti fattori impazziti in una maionese acida e schifosa, in cui gli italiani (lo hanno in gran parte voluto e se lo tengano) perderanno la bussola, se non, come teme giustamente Cacciari, anche la coscienza (nel qual caso la scena si complicherebbe molto sul piano della tenuta democratica del Paese). Nel frattempo, se dovesse salire al Quirinale un re travicello, saremmo fritti in padella. Che squallore!

 

P.S. Dopo aver scritto queste riflessioni inquietanti e demoralizzanti, mi sono precipitato a rileggere la vita di Giorgio La Pira, Giuseppe Dossetti, Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani, Aldo Moro ed Enrico Berlinguer. Bisogna pur sopravvivere…sull’onda dei ricordi…

 

La politica dei muri e dei forni

All’esame di maturità, sostenuto al termine della frequentazione dell’istituto tecnico commerciale, durante l’interrogazione in “diritto”, peraltro andata molto bene, il professore mi pose una domandina sibillina, che mi mise in difficoltà: non era nelle mie conoscenze e non ricordavo di avere colto nei miei libri di testo quella particolarità (sinceramente non la ricordo nemmeno oggi). Risposi così: «Professore questo argomento non è nel libro su cui ho studiato…». Il colloquio continuò e con la coda dell’occhio vedevo che l’esaminatore sfogliava e risfogliava il libro di testo alla ricerca dell’argomento perduto. Impiegò diverso tempo, ma alla fine lo trovò: era contenuto in una nota a piè di pagina, di quelle per le quali occorre la lente d’ingrandimento. Me lo fece notare. Allargai sconsolato le braccia, lui mi tranquillizzò e, nonostante quel piccolo incidente, mi assegnò un gran bel voto. Avevo tuttavia fatto un po’ la figura del Pierino di turno. A diciotto anni, in preda a forte tensione, emozionato come non mai, ci poteva anche stare.

Mi è sovvenuto questo curioso episodio scolastico, ascoltando i patetici scambi di battute sulla questione rifiuti tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio: forni inceneritori sì, forni inceneritori no. Il leader leghista adotta il solito schema da bar sport, riconducibile al ragionamento terra terra: i rifiuti non si possono mangiare, se non li vogliamo buttare a mare, bisogna bruciarli, meglio se in un impianto ad hoc piuttosto che con i roghi della disperazione. Salvini dice dei forni inceneritori: «Li dovrebbero scegliere i sindaci e la Regione, ma tutti dicono di no. Quindi li faremo. E senza ceppa». L’espressione “ceppa” era stata usata da Di Maio (non servono a una ceppa, vale a dire a una mazza, a un cavolo, a un c…). A questa invettiva leghista il leader cinquestelle risponde: «Sono dispiaciuto di questa polemica sugli inceneritori, che crea tensioni. Si fonda su un tema che non è nel contratto di governo, quindi non si pone». Non so se l’argomento sia indicato in una noticina scritta a caratteri minuscoli: fatto sta che, così come è assai riduttivo e poco “maturo” sostenere un colloquio d’esame con il libro di testo alla mano, non si può governare seriamente e compiutamente sulla base di un semplice contratto. I problemi esistono e vanno affrontati.

Resta la pochezza di un patto di governo meramente strumentale (non tengono i matrimoni d’amore, immaginiamoci un matrimonio di convenienza) e resta lo stucchevole spettacolo dei due galli nel pollaio, che si beccano continuamente: non so se finiranno col fare la sorte dei polli di Renzo o se metteranno tutti gli italiani in padella o nel forno assieme ai rifiuti. Fuor di metafora, politicamente parlando, si scontrano continuamente due modi di intendere la politica. Il leghismo salviniano adotta il pragmatismo da osteria: un modo per farsi capire ed entrare in sintonia con il brontolio intestinale della gente, fatto di soluzioni “un tanto al metro”, di risposte sbrigative a problemi enormi. Il grillismo dimaiano adotta invece lo schema ideologico del “benaltrismo” illusorio ed inconcludente, fatto di risposte radicali ed aggrovigliate ai problemi semplici. Il punto d’incontro sta nel contestare tutto e tutti. Il punto di scontro sta nel far quadrare il cerchio delle scelte, non dico strategiche perché sarebbe chiedere troppo, ma nemmeno tattiche.

Tornando ai rifiuti, problema serio al di là dei triviali, volgari e lirici approcci, su questo tema si stanno scottando le dita gli amministratori locali di espressione grillina, da Parma a Roma: effettivamente non basta dire no ai termovalorizzatori, la politica dei no sta in poco posto. I leghisti al contrario provano a cavalcare i termovalorizzatori quale scorciatoia rispetto ad un problema molto più articolato e complesso: la risposta brutale a ciò che dà fastidio, dai migranti ai rifiuti il passo è breve. Posso dirla grossa, posso esagerare? Speriamo di non arrivare a scambiare le soluzioni: i muri per i rifiuti e i forni per gli immigrati.

 

 

Mattarella parla europeo

Non ho mai capito fino in fondo come si colleghino le visite ufficiali all’estero effettuate dal Capo dello Stato con quelle che hanno come protagonisti autorevoli membri del governo. Spero si coordinino fra di loro in modo tale da evitare di parlare all’estero lingue diverse. I miei dubbi sono considerevolmente aumentati in questo periodo, in cui emergono chiaramente impostazioni diverse fra la Presidenza della Repubblica e il Governo attualmente in carica, a livello culturale e di politica internazionale.

In questi giorni Sergio Mattarella è andato in visita di Stato in Svezia. Ha parlato la sua lingua politica, fatta di europeismo e di grande attenzione al problema dell’immigrazione. “Compito di ognuno di noi, cittadini europei, è mantenere viva la visione dei Padri fondatori, passandola intatta e sempre più solida, in una simbolica staffetta, alle generazioni future. Ci auguriamo che i Membri dell’Unione europea – tutti – riescano a identificare e perseguire politiche sempre più comuni, volte a governare con coraggio un fenomeno non certo destinato ad esaurirsi, come il flusso di migranti. L’Italia è impegnata senza riserve su questo terreno, a partire dalla drammatica emergenza dei salvataggi in mare e degli sbarchi di centinaia di migliaia di migranti. L’Europa affronta delle difficoltà, attraversa un momento non facile, dopo le elezioni europee bisognerà trovare il modo di rilanciare il ruolo dell’Ue. L’edificio che è stato costruito si deve completare, rafforzando il pilastro sociale dell’Ue perché i cittadini, che hanno sofferto per la crisi economica, si sentano davvero parte della casa europea”. Questi alcuni passaggi significativi dei discorsi tenuti da Sergio Mattarella, incontrando i rappresentanti delle massime istituzioni svedesi. Da ultimo ha invocato un Parlamento che unisca più che dividere: “Nel Parlamento quel che unisce è sempre di più di quel che divide. Esso è il luogo dove si esercita la volontà popolare”. Visitando l’aula parlamentare svedese ha commentato: “Sono rimasto colpito, vedendo che i posti dei parlamentari non sono divisi per partito, ma per appartenenza di collegio. È un messaggio importante”.

Nell’ultimo atto dell’opera Falstaff, la vicenda si svolge in una foresta e Sir John dice espressamente “ecco la quercia” per identificare il luogo dell’appuntamento. “Mo indò éla?”, gridò mio padre dal loggione, dal momento che la scena non aveva neanche l’odore della quercia. Maleducato? Sì! Aveva ragione? Almeno un po’, sì! Anche se il discorso sarebbe molto lungo e complesso, valga comunque l’episodio ad evidenziare come le giustissime ed autorevoli parole di Sergio Mattarella non possano colmare le lacune di un governo italiano che sostanzialmente non crede all’Europa, che considera i migranti carne di bassa macelleria, che vive le istituzioni democratiche come inciampo per una politica impostata populisticamente e “sovranisticamente”. Non so cosa avranno pensato gli svedesi, peraltro anch’essi alle prese con una difficile crisi politica e non esenti da simpatie verso le pulsioni che stanno contagiando l’Italia e non solo l’Italia. Non vorrei che con riferimento all’esistenza dell’Europa Unita, qualcuno dal loggione svedese avesse gridato: “Mo indò éla?”. Certamente si saranno dati di gomito e si saranno chiesti a bassa voce: “Come se la metterà Mattarella con Salvini che usa le ruspe contro i migranti? E con il governo che è in netta rotta di collisione con l’Unione europea? E con i partiti che in Italia vanno in Parlamento come se salissero su un ring?

Mi sovviene una barzelletta. Una lussuosa automobile investe un ciclista che viene notevolmente danneggiato. Dalla macchina scendono due splendide ragazze che si presentano al malcapitato. “Piacere io sono miss emilia” dice una. E l’altra pure: “Piacere, io sono miss Lombardia”. Il poveretto, che si reggeva a stento in piedi, rispose: “Mi, inveci a son miss mäl”. Credo che Mattarella potrebbe dire così, scuotendo malinconicamente il capo, guardandosi attorno e “contemplando” le vedette del governo legastellato, ormai note in tutto il mondo.

 

Lo “sviluppismo” senza sviluppo

Il governo italiano ha risposto alle perplessità europee sulla manovra economica con una lettera formalmente morbida, ma sostanzialmente rigida. Ad alzare i toni hanno pensato i leader (?) dei partiti di maggioranza: sono intenzionati a tenere ben aperto il contenzioso con la Commissione Ue fino alle prossime elezioni europee, in modo da incassare il dividendo dello scetticismo o addirittura dell’antieuropeismo montante. Poi si vedrà. Nel frattempo rischiamo di essere alla mercé dei mercati finanziari, ma chi se ne frega…

Nel bar frequentato abitualmente da mio padre c’era qualche persona un po’ dura d’orecchi, uno in particolare dotato di apparecchio acustico. Gli amici, i primi tempi di utilizzo dell’aggeggio, chiedevano al ringalluzzito compagnone: “Gh’ät piè la radio? Parchè s’a te gh’la zmors a t’ podèmma där dal stuppid”. Mi sembra un po’ l’atteggiamento dei legastellati o pentaleghisti, come dir si voglia, verso le Istituzioni europee trattate a pesci in faccia, con un senso di superiorità, che pagheremo assai caro. La gag di cui sopra può infatti capovolgersi rapidamente e la parte degli stupidi la faremo noi italiani, che ci lasciamo guidare da un governo di irresponsabili.

Ma torniamo alla manovra economica. Se proprio vogliamo andare alla sostanza della questione di politica economica si pone il confronto fra due linee programmatiche, le quali a loro volta si collegano a due scuole di pensiero: siamo cioè alla diatriba fra rigoristi e sviluppisti. Da una parte ci stanno coloro i quali ritengono essenziale ed irrinunciabile una politica di contenimento del debito pubblico e di quadratura dei bilanci; dall’altra parte si mettono quanti opterebbero per una linea comunque espansiva, ritenendo sia meglio rischiare di affogare nel mare grande piuttosto che farsi inghiottire dalle sabbie mobili di un infido stagno.

Per mia formazione culturale e preparazione scientifica (modeste entrambe) sono orientato verso lo sviluppismo anche perché il rigorismo, a livello europeo, ci ha effettivamente impantanato in un clima di scarsa crescita: siamo un po’ come belle (?) donne, che si accontentano di specchiarsi anche se non le corteggia nessuno.

Il discorso sulla manovra economica del governo italiano, detto da quasi tutti i commentatori più autorevoli, non è però tanto riconducibile alla contrapposizione suddetta, ma ad una scelta sviluppista senza sviluppo. Lo sforamento dei parametri europei non si accompagna e non si giustifica infatti con adeguate misure a livello di investimenti pubblici ed a sostegno di quelli privati, tali da lasciare intravedere una crescita capace di rimettere in moto economia e occupazione, ma si accompagna ad una dilatazione di spese correnti di dubbia efficacia dal punto di vista economico e sociale. In parole povere la linea di politica economica del governo Conte non è né carne né pesce, è solo un modo smaccato di pagare le cambiali rilasciate a certe abbondanti fasce di elettori con dubbie prospettive di sostegno all’occupazione e alla giustizia sociale. Mi riferisco al cosiddetto reddito di cittadinanza e all’alleggerimento dei requisiti pensionistici.

Si sta pertanto perseguendo un (non) dialogo fra sordi. A volte mio padre, per segnare marcatamente il distacco con cui seguiva i programmi TV, si alzava di soppiatto dalla poltrona e, quatto quatto, se ne andava. Mia madre allora gli chiedeva: “Vät a lét?”. Lui con aria assonnata rispondeva quasi polemicamente: “No vagh a lét”. Era un modo per ricordare la gustosa chiacchierata tra i due sordi. Uno dice appunto all’altro: “Vät a lét?”; l’altro risponde:” No vagh a lét” E l’altro ribatte: “Ah, a m’ cardäva ch’a t’andiss a lét”.