La improbabile Boccia…tura del governo

Nel nostro Paese c’è il brutto vizio di puntare più alla pesante critica verso l’operato altrui piuttosto che tentare di fare al meglio il proprio mestiere. Vale a livello di base, ma anche e soprattutto a livello di vertice. L’idraulico, prima di cominciare il proprio lavoro di manutenzione e riparazione, non manca di scuotere il capo su chi ha progettato e installato l’impianto. Il presidente vuole insegnare al direttore come tenere la penna in mano, il direttore punta a fare il presidente. I Parlamentari, anziché impegnarsi a fare buone e chiare leggi, con la scusa di tenere i rapporti con i loro elettori, diventano veri e propri operatori mediatici, che fra un’intervista e l’altra (non) trovano il tempo di elaborare provvedimenti legislativi adeguati alle problematiche del Paese. Si potrebbe continuare, ma mi soffermo invece, con un commento più lungo del solito, sulle organizzazioni imprenditoriali.

In questi giorni a Torino si sono riuniti almeno 3 mila imprenditori in rappresentanza di una dozzina di categorie produttive, Confindustria, artigiani cooperative, commercianti, imprese edili, definiti il partito del Pil. Dopo settimane durante le quali hanno chiesto al governo interventi per sostenere lo sviluppo, gli investimenti e la realizzazione delle grandi opere, sono andati giù duri: «Se siamo qui significa che siamo ad un punto quasi limite di pazienza, per mettere insieme 12 associazioni tra cui alcune concorrenti tra loro. Se siamo qui tra artigiani, commercianti, cooperative, industriali, qualcuno dovrebbe chiedere perché. La politica è una cosa troppo importante per lasciarla solo ai politici. Noi stiamo facendo proposte di politica economica per evitare danni al Paese. Siamo 12 associazioni che rappresentano 3 milioni di imprese, oltre il 65% del Pil, un segnale importante che si vuole dare al governo del Paese. Si parte dalla Tav chiaramente, si pone la questione infrastrutture, in senso largo, grandi e piccole infrastrutture per il Paese, e si pone un auspicio, che è quello di un’attenzione alla crescita. Gli interventi messi in campo dal governo stanno trascurando il motore della crescita. La manovra è tutta spostata sulla spesa corrente senza però strumenti per sostenere la crescita». Così si è espresso, a nome dell’intera e larga platea, il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, il quale ha concluso il suo discorso in questi termini: «Se fossi in Conte convocherei i due vicepremier e gli chiederei di togliere due miliardi per uno, visto che per evitare la procedura d’infrazione bastano 4 miliardi. Se qualcuno rifiutasse, mi dimetterei e denuncerei all’opinione pubblica che non vuole arretrare. Una promessa a Di Maio: se ci convoca tutti non lo contamineremo. A Salvini, che ha preso molti voti al nord, dico di preoccuparsi dello spread».

Chi è senza peccato scagli la prima pietra. Purtroppo le organizzazioni imprenditoriali di peccati ne hanno parecchi: infatti sono in evidente crisi di rappresentanza e credibilità nei confronti dei loro associati e probabilmente questo affondo anti-governativo è strumentale a riprendere voce e peso più all’interno che all’esterno. Ricordo molto bene la sciagurata scelta confindustriale di sposare tout court il berlusconismo, strategia rivelatasi a dir poco sbagliata, intrapresa ancor più smaccatamente e irrazionalmente dalla Confcommercio (che arrivò ad esprimere chiara ostilità elettorale a Romano Prodi). Per onestà intellettuale bisogna fare queste premesse.

Dopo di che posso essere perfettamente d’accordo (o quasi) nel merito delle critiche sostanziali mosse al governo e confesso di avere una reazione analoga a quella del famoso musicologo Rodolfo Celletti, a proposito del pubblico e del loggione del Teatro Regio, diceva: «Quando strigliate qualche grosso cantante dimostrando di non avere timore reverenziale verso i mostri sacri dell’opera lirica, confesso che, sotto-sotto, ci godo…». Mi chiedo però chi abbia votato questi signori che ci stanno portando alla deriva. Non mi si dirà che i tre milioni di imprese (a livello elettorale sono molti di più, considerando almeno i soci e i loro familiari) non abbiano nemmeno parzialmente sostenuto Lega e M5S. Allora, prima di sbraitare bisogna fare ammenda. Poi si può anche pontificare, altrimenti i Salvini e i Di Maio la butteranno nel luogo comune dei poteri forti autoreferenziali e faranno orecchie da mercante, a meno che in vista delle sicure elezioni europee e delle probabili elezioni politiche, non si spaventino e non facciano pubblica ed operosa ammenda. Non ci credo troppo e soprattutto non è così che si deve sviluppare il dialogo tra politica e forze intermedie.

Quanto al presidente Conte non mi sento di affondare i colpi: a volte lo sento parlare e, usando l’espressione cara a mio padre, ammetto che “non è un gabbiano”; poi alla prova dei fatti lo vedo come l’evanescente e poco dignitoso ostaggio dei suoi vice. Un opportunista? Purtroppo sì. Se Salvini e Di Maio toglieranno in tutto o in parte i quattro miliardi relativi alle loro promesse elettorali, non sarà certo per un’impennata di carattere del presidente Conte, e forse nemmeno per la sollevazione del parterre economico, ma per ben più alte, prestigiose ed autorevoli insistenze e pressioni. Più che verso la piazza imprenditoriale la mia speranza è indirizzata ai palazzi istituzionali italiani ed europei. Non c’è bisogno che dica di più.

Una questione di Var

Oggi entro di prepotenza nel bar sport e mi unisco alle discussioni e polemiche sul VAR: si tratta del Video Assistant Referee, vale a dire il metodo di arbitraggio che prevede due ufficiali di gara, che collaborano con l’arbitro in campo, esaminando le situazioni dubbie della partita di calcio tramite l’ausilio di un video su cui possono rivedere, con relativa calma, le azioni difficilmente valutabili in tempo reale.

Le polemiche sorgono prevalentemente dal fatto che l’arbitro in campo fa ricorso con una certa ritrosia a questo metodo, che lo dovrebbe peraltro mettere al coperto da eventuali possibilità di errore. Forse esiste il timore di essere ridotto ad una sorta di robot, telecomandato e condizionato dall’esterno (la difesa del proprio ruolo e del proprio status). È pur vero che non si può pretendere l’intervento del Var ad ogni piè sospinto, ma un uso più puntuale e coraggioso non guasterebbe, eviterebbe agli arbitri brutte figure e toglierebbe il dubbio dei favoritismi all’una o all’altra squadra, soprattutto alle grandi squadre: nel calcio infatti, come in molti altri campi, non esiste la tendenza a stare dalla parte del più debole, ma quella di schierarsi dalla parte del più forte. Quando poi si incontrano due grandi fra di loro, il pasticcio diventa ancora più imbarazzante.

In questi giorni finalmente l’attenzione si era portata sui comportamenti razzisti e grotteschi delle tifoserie, sugli atteggiamenti isterici dei fuoriclasse del pallone (forse sarebbe meglio ribattezzarli fuoriditesta), delle spese enormi sostenuta dallo Stato per garantire l’ordine pubblico prima, durante e dopo gli incontri, della violenza insinuatasi anche nel calcio minore, laddove i ragazzini-giocatori vengono aizzati dai loro genitori contro arbitri ed avversari. È durata poco, perché il Var si è ripreso il centro della scena e tutto il resto è stato rapidamente dimenticato.

Se devo essere sincero, del Var non mi interessa un bel niente, faccio come un carissimo amico di mio padre: era un amante della compagnia e ad essa sacrificava i propri gusti; non gli interessava il calcio, ma a volte andava con gli amici allo stadio; non era un giocatore di carte, ma osava cimentarsi con lo scopone scientifico. Tutto pur di stare in compagnia, senza rinunciare alla propria personalità.

Dagli spalti lanciava le sue provocazioni. Durante la partita, magari in una fase piuttosto tranquilla a centro-campo, si metteva a gridare: «Opso! Arbitro, opso!». Era la sua versione dell’inglese off-side, fuori-gioco in italiano. A chi gli faceva osservare che il problema in quel momento non esisteva, rispondeva: «Cò vót ch’a sapia mi, andì sémpor adrè con cl’opso lì…». Faceva il finto tonto, in realtà sapeva benissimo di cosa stava parlando, ma gli piaceva prendere in giro la gente nei suoi eccessi, anche quelli del tifo calcistico. Tra l’altro, dava sempre ragione all’arbitro. Quando tutti inveivano contro il direttore di gara, lui lo difendeva a spada tratta: «Al gh’à ragión, al gh’à ragión». Un provocatore nato. Chissà cosa direbbe del Var. Provo a ipotizzare una battuta: “As pol savér cò l’è col bagàj lì? Ani catè la manéra ‘d fär ancòrra pù cazén. Ag n’era miga abàsta…, ànca al Var…”.

Può darsi che anche l’Unione europea finisca con l’adottare una sorta di Var nei confronti del governo italiano: arriveranno tre arbitri e passeranno alla moviola i nostri conti pubblici. Non so come potrà finire la partita. Ammonizione con ammenda? Espulsione? Squalifica? Sconfitta a tavolino? Retrocessione? Non sarà meglio evitare il gioco scorretto, darsi una regolata, andare in ritiro prima di riprendere il gioco? La smetto, perché hanno capito dove sto andando a parare e mi stanno cacciando fuori dal bar sport in malo modo. Chissà perché mi è venuta voglia di entrarvi…ben mi sta!

Il Pil? O famo strano!

“Si ferma la crescita, nel terzo trimestre il Pil scende dello 0,1%. È il primo dato negativo dopo 14 trimestri di crescita. Tutti i principali aggregati della domanda interna registrano diminuzioni con un calo dello 0,1% dei consumi finali nazionali e dell’1,1% per gli investimenti fissi lordi”. Parole prese da titolo e sommario di un articolo della redazione economica del Corriere della sera. “Pil e disoccupazione: ogni giorno si perdono 627 posti di lavoro”. È sempre quel che si legge sul sito del Corriere a commento dei dati Istat sputati in faccia al Paese Italia. I dati statistici vanno sempre presi con le molle, non hanno valore assoluto, ma segnano tendenze ed andamenti, soprattutto se vengono raffrontati omogeneamente nel tempo. In parole povere, le cose nell’economia italiana non stanno andando bene.

Lasciamo perdere la notizia riguardante le spese per il Natale 2018, che, secondo quanto emerge da un’analisi della Coldiretti sulla base dei dati Deloitte, salirebbero complessivamente a 541 euro a famiglia, il 3% in più dello scorso anno, con il nostro Paese che si classifica al quarto posto fra i Paesi europei dove si spende di più per il Natale, preceduto da Gran Bretagna, Spagna e Austria.  Non so come combinare questi dati con quelli dell’Istat: mi limito a considerarli “misteri dell’economia”. Lungi da me comunque ironizzare o sottovalutare le difficoltà economiche dell’economia italiana.

Di fronte a questi dati, oggettivamente preoccupanti, si è scatenato il solito giochetto allo scaricabarile. Da una parte non solo i politici, ma anche gli analisti, dicono e/o scrivono: questi mesi dimostrano che non può esserci crescita se il governo non garantisce in primo luogo la stabilità finanziaria. Se non lo fa, le aziende non investono e le banche, cariche di debito pubblico, tagliano le linee di credito e generano così fallimenti e disoccupazione.

Dall’altra parte, quella dell’attuale governo, si tende a far risalire la responsabilità di questi andamenti negativi ai precedenti governi, in particolare il governo Monti, quelli presieduti successivamente da Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, tutti governi che avevano all’opposizione gli attuali partiti di maggioranza (Lega e M5S). Quei governi avrebbero solo stressato gli italiani per far quadrare i conti pubblici, creato enormi disparità sociali, gonfiato l’occupazione con interventi penalizzanti per i lavoratori, distribuito mance rivelatesi ininfluenti o addirittura controproducenti per i consumi. A chi gli chiedeva un commento sulla revisione al ribasso del Pil da parte dell’Istat, primo calo congiunturale dal 2014, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, a Buenos Aires per il G20, si è limitato a rispondere: «Lo faremo crescere». Forse avrebbe potuto e dovuto parafrasare la storica battuta del film di Carlo Verdone “Viaggi di nozze”: «E come o famo il Pil? O famo strano».

Non annetto un potere miracolistico ai governi ed alle loro tattiche: l’economia spesso e volentieri si muove su sentieri diversi, in un ambito quasi estraneo rispetto agli equilibri politici. Gli stessi italiani, che in maggioranza apprezzano il governo, sembrerebbero non credere alle prospettive del Paese: gli acquisti di beni durevoli delle famiglie sono calati, la spesa per impianti e macchinari è crollata. Viene spontaneo chiedersi: e allora chi ha votato per i partiti che esprimono e sostengono l’attuale governo, che solleva tante perplessità e scoraggia famiglie ed imprese. Forse solo i disoccupati ingolositi dal reddito di cittadinanza, i pensionandi stuzzicati dalla revisione della legge Fornero, gli spaventati rassicurati dal blocco degli immigrati?

Non mi sento di addossare tutte le colpe di questa preannunciata quasi recessione alle goliardate anti-europee ed alle stiracchiate e contraddittorie linee economiche di un governo, concepito nel “peccato” delle urne, nato col forcipe contrattuale di Salvini e Di Maio, allattato al seno della demagogia e dell’illusionismo, svezzato nei continui contrasti fra partiti e ministri, rimbrottato continuamente dal presidente della Repubblica, compatito dai cosiddetti poteri forti. Ammettiamo pure che l’economia italiana fosse già comunque in qualche difficoltà, che mostrasse sintomi piuttosto equivoci, che avesse in sé latente il virus della decrescita, che fosse già, insomma, malata.  Ebbene, non ha certamente preso un brodo rigenerante e ricostituente pentaleghista o legastellato: semmai è stata messa in isolamento, in quarantena, a letto, in cure palliative, in suicidio assistito. Un mio caro e simpatico amico sosteneva che, quando non si hanno soldi, non resta altro da fare che andare, soli e soletti, a letto presto e spegnere la luce. Così stanno facendo gli innovatori del piffero. Personalmente aggiungo una nota masochistica: se sono tormentato da disturbi fisici di varia natura, a chi mi consiglia accertamenti e terapie varie, rispondo grottescamente: so io quel che devo fare, mi vado a sedere davanti al cimitero e aspetto con pazienza che arrivi il momento…in compagnia del governo Conte…

Eccesso colposo in demagogia istituzionale

Il titolare di una rivendita di gomme di Monte San Savino, in provincia di Arezzo, all’alba ha sparato e ucciso uno dei ladri scoperti all’interno della sua azienda, dove dormiva dopo aver subito 38 furti in pochi mesi. L’uomo ha raccontato al Pm di essersi svegliato per il rumore dell’ascia usata dai malviventi per spaccare una finestra e di aver sparato d’istinto 3 colpi di pistola. Il 29enne moldavo, colpito all’arteria della gamba, si è accasciato ed è morto. L’altro è riuscito a fuggire. Applausi e grida: “Bravo Freddy” da parte di amici e conoscenti davanti alla sua azienda, mentre la procura lo ha messo sotto indagine per il reato di eccesso di legittime difesa.

“Dopo il decreto sicurezza arriverà in Parlamento la nuova legge sulla legittima difesa. Io sto con chi si difende. Entrare con la violenza in casa o nel negozio altrui, di giorno o di notte, legittima l’aggredito a difendere se stesso e la sua famiglia. La mia solidarietà al commerciante toscano, derubato 38 volte in pochi mesi: conti su di noi!”. Così il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha commentato l’accaduto. Il legale di Freddy Pacini ha riferito che il ministro Salvini ha telefonato al commerciante per rappresentargli “la vicinanza delle istituzioni”. “Pacini non se l’è sentita di parlare con il ministro perché è troppo scosso”.

Il tema, già di per sé caldo, è stato surriscaldato da questo paradossale episodio e Salvini non si è lasciato sfuggire l’occasione per cavalcare la tigre della paura. Mi ha colpito il fatto che la persona in questione sia talmente scossa da non sentirsi di parlare con il ministro: significa che questo problema non può essere affrontato con strumentale semplicismo ed ancor meno con demagogica e velleitaria rassicurazione. Uccidere una persona, seppure per legittima difesa, è comunque un dramma, che lascia un segno nell’autore del gesto. Non c’è niente e nessuno da applaudire, non c’è da gridare dei “bravo” a scena aperta, non c’è da scatenare alcuna guerra, ci sarebbe solo da tacere, riflettere e agire con senso di responsabilità ed equilibrio.

Dal momento che esiste la legge sarebbe molto meglio lasciare alla magistratura il difficile compito di applicarla, individuando il limite fra il consentito e l’eccessivo, considerando tutti gli elementi psicologici e umani del caso. Non credo che una sorta di legittimazione della difesa sempre e comunque possa contribuire a risolvere il problema. Da una parte esiste l’ingenua illusione di affrontarlo aumentando le pene o, ancor prima, dando a tutti la possibilità di difendersi con le armi in pugno: mio padre credeva così fermamente alle regole ed alla necessità di rispettarle da ipotizzare addirittura la prevenzione dell’evasione carceraria apponendo un cartello “chi scappa sarà ucciso”. Dall’altra parte c’è chi soffia sul fuoco volendo creare un clima di tensione tale da giustificare la politica del pugno duro.

Ai tempi in cui ero impegnato concretamente in politica, seppure a livello di base, avevo il coraggio di prendere in considerazione l’eventuale disarmo della polizia nei conflitti di lavoro. Mi sentii urlare in faccia che la polizia era meglio rifornirla di cannoni. Storia vecchia! Mia sorella sosteneva che, tutto sommato, non eravamo riusciti a toglierci di dosso le scorie di una mentalità fascista. Non voglio esagerare, ma probabilmente non aveva tutti i torti. Il fascismo, con la scusa di combattere la criminalità, combatteva con violenza anche gli oppositori del regime, previa loro criminalizzazione ideologica e politica.  Stiamo ben attenti a non teorizzare e legittimare le cosiddette “maniere forti”: il più è cominciare, poi non si sa mai dove si va a finire.

Il signor Pacini ha tutta la mia comprensione, posso capire la sua esasperazione, il suo comportamento così come il suo dramma di avere comunque ucciso un uomo. Sono sicuro che il magistrato saprà giudicare equamente la sua difesa. Resta il problema della delinquenza per il quale non mi illudo possa trovarsi una rapida ed efficace soluzione varando una legge del tipo “chi delinque potrà essere ucciso dalla vittima”. Chi ha intenzione di rubare e di aggredire lo farà prendendo le precauzioni del caso, vale a dire operando a mano armata e sparando senza alcuna pietà. Chi subirà l’aggressione, se ne avrà il tempo, sparerà. Alla fine potrebbe succedere come nei film western: una mia amica voleva ironicamente chiedere l’intervento delle pompe funebri per ripulire gli spalti.

Il voltafaccia fa perdere la faccia

Come al solito si scatenano bagarre politico-dibattimentali su questioni senza che qualcuno tenti almeno di chiarirne la sostanza. Anche i media hanno la loro parte di grave responsabilità al riguardo. In questi giorni si fa un gran parlare polemico di “global compact sull’immigrazione” e della prossima riunione mondiale finalizzata alla firma del documento Onu in tale materia: il problema sta nel fatto se debba parteciparvi il governo italiano condividendo i presupposti di questa iniziativa oppure se sia più opportuno lasciare la patata più o meno bollente nelle mani del Parlamento. A prima vista sembrerebbe una questione meramente procedurale o tutt’al più istituzionale. In verità c’è sotto molto di più.

Il “Global Compact for migration” è un documento dell’Onu, i cui punti cardine sono la lotta alla xenofobia ed allo sfruttamento dei lavoratori, il contrasto del traffico illegale dei migranti, l’assistenza umanitaria, il potenziamento delle politiche di integrazione, la messa a punto di programmi di sviluppo e la definizione di procedure di frontiera che rispettino la Convenzione sui rifugiati del 1951. I Paesi firmatari devono promuovere anche “il riconoscimento e l’incoraggiamento degli apporti positivi dei migranti e dei rifugiati allo sviluppo sociale”. L’accordo prevede, inoltre, un maggiore sostegno agli Stati che accolgono il maggior numero di rifugiati.

Secondo le stime delle Nazioni Unite, al momento ci sono 258 milioni di migranti in tutto il mondo, 85 milioni in più rispetto al 2000. Ciò vuol dire che circa una persona su trenta è costretta a lasciare il proprio Paese d’origine per cercare fortuna in uno Stato d’accoglienza. Tra le tante persone coinvolte nel fenomeno migratorio negli ultimi anni ci sono anche 50 milioni di bambini. Dal 2000 ad oggi oltre 60mila migranti hanno perso la vita nelle pericolose traversate per arrivare ai Paesi più ricchi.

Nonostante appena due mesi fa avesse detto, in sede Onu tramite il suo presidente Conte, che avrebbe sottoscritto tale documento, il governo italiano sembra avere cambiato idea ed ha deciso di parlamentarizzare il dibattito e rimettere le scelte definitive all’esito di tale discussione” per via delle tematiche “particolarmente sentite dai cittadini”.

In Marocco, fra il 10 e 11 dicembre, si terrò un summit a Marrakech per la sottoscrizione del suddetto documento, che non è vincolante, ma si pone23 obiettivi che rispecchiano norme già previste dal diritto internazionale ed esortazioni a una maggiore cooperazione fra gli Stati.  La maggior parte dei Paesi europei, anche quelli più interessati dai flussi migratori come Francia e Germania, hanno annunciato che firmeranno il documento: fra i Paesi europei che non lo faranno ci sono quelli tradizionalmente piò ostili ai migranti come Ungheria, Polonia e Slovacchia. L’ufficio stampa dell’Onu, in un comunicato ripreso dall’Ansa, aveva scritto che Conte aveva confermato la firma dell’Italia durante un incontro col segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, seguendo un impegno preso nel 2016 dall’allora presidente del consiglio Matteo Renzi.

Cosa è successo nel frattempo? Cosa nasconde questa improvvisa e strana parlamentarizzazione del discorso? Abbiamo l’ennesimo contrasto all’interno del governo con furbesco relativo scarica barile? Che il Parlamento prenda atto e discuta una simile materia non è certamente cosa sbagliata e inutile, ma sembra una pilatesca e vergognosa lavata di mani governativa. Probabilmente è un documento imbarazzante per l’attuale compagine governativa italiana e il suo modo di impostare la politica in materia di immigrazione. “Va’ avanti ti ch’am scapa da rìddor”, dice una nota battuta dialettale. “Linea al collega che stava parlando”, farfugliano i radiocronisti sportivi di tutto il calcio minuto per minuto. Purtroppo nel caso del Global Compact non c’è da ridere e nemmeno da passare sbrigativamente la mano. Oltre tutto tra le linee del documento in questione esistono punti chiaramente favorevoli al nostro Paese ed al suo forte coinvolgimento nel fenomeno.

L’importante non è  aderire a principi universalmente riconosciuti, l’importante non è  porsi seriamente di fronte al problema immigrazione che, volenti o nolenti, caratterizza  la situazione mondiale, l’importante non è nemmeno trovare aiuti, appoggi e sostegni nella nostra qualità di Paese in prima linea, l’importante non è coinvolgere il Parlamento nel discorso, l’importante non è dare segnali di coerenza e continuità a livello internazionale, l’importante è tirarsi indietro mantenendo il vergognoso impegno di respingere, rimpatriare, criminalizzare i migranti, che vengono a romperci i coglioni. Se questo è il prezzo richiesto a Giuseppe Conte per rimanere in sella, gli consiglierei caldamente di ritornare a fare il suo mestiere, prima di perdere la faccia sul piano politico (sarebbe tutto sommato il meno) e su quello etico (qui il discorso si fa molto, ma molto pesante).

Il cavalier servente del centro-destra

La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha chiuso senza una sentenza la vicenda del ricorso di Silvio Berlusconi contro l’applicazione della legge Severino, che lo obbligò a lasciare il suo seggio al Senato nel 2013 e gli impedì di candidarsi a elezioni, comprese quelle del 2018. Questo dopo la rinuncia al ricorso, decisa dal leader di Forza Italia visto l’iter molto lungo, 5 anni. Quindi è intervenuta la “cancellazione dal ruolo” del ricorso, come chiesto dai legali di Berlusconi. “Non c’era più necessità”, spiegano, visto che lui nel frattempo era “tornato nella pienezza dei propri diritti politici”. “Ha inteso assolutamente evitare tensioni nella già più che complessa vita del Paese”.

La notizia, anche se non è di quelle che meritano grande attenzione, induce tuttavia a qualche riflessione. Quando Berlusconi recupera buon senso, equilibrio, credibilità è proprio il momento in cui perde consenso: il cavaliere andava bene alla (sua) gente quando diceva e faceva sciocchezze a proprio uso e consumo, ora che parla meno e riesce finalmente a dire qualcosa di sensato è in caduta libera di consensi. Forse per conquistare la fiducia degli elettori bisogna prenderli in giro, come si dice, in chiave smaccatamente e pericolosamente maschilista, relativamente alle donne: “Per farle innamorare e conquistarle bisogna trattarle male”.

Tutti ricordiamo nel 2003 il clamoroso e, a dir poco, imbarazzante esordio berlusconiano, quale presidente del Consiglio europeo per il semestre italiano: un discorso al Parlamento europeo durante il quale invitò ironicamente l’allora capo-gruppo dei socialisti, il tedesco Martin Schulz, a farsi scritturare come “kapò” in un film sui nazisti. E le corna durante la foto di gruppo del vertice Ue? Un tipico gesto da asilo infantile, che voleva significare la totale mancanza di considerazione e rispetto per le istituzioni europee. E gli epiteti riservati alla cancelliera Merkel, definita una “culona intrombabile”, nonché la scortesia di lasciarla in attesa mentre telefonava convulsamente sul cellulare e tutte le altre gaffe, più o meno volute e studiate, per svaccare l’Europa e il mondo intero? Una sequenza di episodi che ci portò ad essere considerati gli zimbelli della politica internazionale. Non erano altro che le prefigurazioni dell’attuale, ancor più grave, impasse nei rapporti con gli esponenti europei: non c’è grande differenza tra il “kapò” affibbiato a Schulz da Berlusconi e “l’ubriacone” lasciato chiaramente intendere da Salvini nei confronti di Juncker.

Ora Berlusconi, forse solo per puro tatticismo, si erge a difensore dell’Unione europea assieme al suo pretoriano preferito, quell’impettito e rigonfio Antonio Tajani, che recita la stucchevole parte dell’europeista (non) convinto e soprattutto non convincente. Fatto sta che almeno non ci espone più a memorabili figuracce: per gli italiani, stando ai sondaggi di opinione, era meglio prima, ancor meglio l’attuale Salvini che gioca a sputtanarci in tutto il modo, strizzando l’occhio ai peggiori fichi del bigoncio mondiale. Durante l’ultima campagna elettorale e nel dopo elezioni il leader forzista non ha fatto altro che irridere ai grillini considerandoli dei perfetti ignoranti, dei pulitori di cessi per vocazione e competenza, delle mine vaganti per la democrazia. È diventato il più deciso sostenitore del presidente Mattarella, con cui addirittura si sforzava, senza successo, di improvvisare qualche siparietto durante le consultazioni per la formazione del governo.  Ma dire la verità non paga: era ben più stimato e considerato ai tristi tempi in cui raccontava balle a raffica come il più sfacciato dei venditori ambulanti.

Quando era sotto processo, un giorno sì e l’altro pure, per una sfilza di reati di ogni tipo, veniva considerato un furbacchione capace di fare i cazzi suoi; ora che ha fatto un gesto apprezzabile, anche se solo di pura convenienza, nei confronti della giustizia, viene considerato un vecchietto per cui è difficile trovare una collocazione: è rimasto con pochi ed opportunistici amici, saluta ancora con la manina anche se non si capisce chi saluta, perché in realtà è la gente che sta salutando lui per abbandonarlo ad una ben misera fine politica.

È vero che fino ad ora, ogniqualvolta lo si è dato politicamente per spacciato, ha ritrovato la verve per tornare a galla: credo sia difficile una risurrezione in extremis, anche se, tutto sommato e con questi chiari di luna, ci sarebbe quasi da augurarselo. Qualcuno pensa stia brigando in Parlamento per ribaltare gli equilibri con i salviniani, affondare il governo pentaleghista, ripresentarsi come padre nobile di un centro-destra riveduto e corretto in salsa europea ed in chiave moderata. Ad un quarto di secolo dalla sua prima discesa in campo, si candida non più a giocare in tutti i ruoli, ma a svolgere il ruolo di allenatore, sperando di catturare la simpatia dei tifosi, che però nel frattempo si sono fatti incantare da altri giocatori.  Personalmente non bazzico quegli stadi, ma un occhio da semplice cittadino-elettore glielo deve buttare.

Padre, figlio e poco spirito santo

Quando per squalificare l’avversario politico si va a rovistare nella sua vita privata, vuol dire che lo scontro si è portato su un terreno inadatto e inaccettabile. Un tempo erano i figli che squalificavano i padri. Storico ed emblematico il caso, risalente agli anni cinquanta del secolo scorso, di Attilio Piccioni, ministro ed esponente di primissimo piano della Democrazia Cristiana, stroncato nella sua carriera politica per il coinvolgimento del figlio Piero (alla fine assolto) nella famosissima vicenda giudiziaria relativa alla morte di Wilma Montesi. Altrettanto memorabile il caso del presidente della Repubblica Giovanni Leone, letteralmente martirizzato per i comportamenti disinvolti dei suoi figli. Anche il più volte ministro e capo di una corrente democristiana Carlo Donat Cattin dovette sobbarcarsi le ripercussioni dei comportamenti del figlio Marco, militante dell’organizzazione terroristica di estrema sinistra Prima Linea.

Non è quindi soltanto un vezzo della moderna società mediatica gettare sui politici manciate di fango a vanvera, è sempre stato un pessimo vizio della lotta politica. Ultimamente sono i figli a scontare le ipotetiche trasgressioni dei padri. Il ministro Maria Elena Boschi fu colpevolizzata per il comportamento del padre vice-presidente di una banca. Matteo Renzi fu tirato in ballo per le accuse rivolte a suo padre in merito ad affari di carattere economico-imprenditoriale. Oggi tocca a Luigi Di Maio rispondere per il padre, imprenditore edile che avrebbe pagato in nero un suo operaio. Qualcuno dirà che sto mescolando capre e cavoli ed in effetti ogni caso evocato ha una sua specificità ed una sua rilevanza, ma sono tutti omogenei nell’intenzione di voler impicciare i figli impegnati in politica con i comportamenti dei padri in altre faccende affaccendati.

Anche prescindendo dall’esito giudiziario delle inchieste, molto spesso chiuse con un nulla di fatto, quella di cui sopra resta comunque una “prassi vergognosa”, che oltre tutto si arricchisce di discriminazioni, in quanto per certi esponenti politici è (quasi) giusto ricorrere a questi mezzucci, mentre su altri non si può sparare. La faziosità arriva fino a questo punto: qualcuno rischia di essere martirizzato per le colpe del padre, mentre magari qualcun altro viene quasi santificato per essere così bravo nonostante la cattiveria paterna. Sto volutamente esagerando per rendere l’idea.

Sarebbe ora di finirla con questi atteggiamenti. Non si tratta tanto di distinguere tra pubblico e privato: discorso delicato che la Costituzione italiana risolve all’articolo 54, prevedendo che “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”. Non si può finire col fare i bacchettoni, come succede negli Usa ed in altri Stati, ma occorre pretendere un comportamento globalmente credibile da coloro che rivestono cariche pubbliche.

Altro discorso è mescolare i rapporti privati con la politica al fine di far ricadere le eventuali colpe dei padri sui figli e viceversa. Al di là della squallida gara mediatica a simili scoop, i politici devono smetterla di scontrarsi a questo infimo livello e la gente deve sforzarsi di discernere la sacrosanta critica politica dalla calunniosa insinuazione. In poche parole a me non interessa e non deve interessare quel che ha combinato e combina il padre di Luigi Di Maio, ma quel che combina Luigi Di Maio come ministro della Repubblica. Ce ne sarebbe più che a sufficienza per mandarlo a casa senza ricorrere alle “marachelle” paterne. Tuttavia il grillismo, che si vuole distinguere per il “bigottistico” ardore della pulizia etica, sconta anche i propri errori: quando i suoi esponenti ricevono una comunicazione giudiziaria, quando scoppiano le risse per i reati di opinione all’interno del movimento stesso, quando emergono fedine penali non immacolate per i loro candidati, quando si dubita che abbiano regolarmente pagato i contributi per le colf, quando i loro papà non hanno il pedigree in ordine, etc., è automatica la riflessione “facevano tanto i puri…si guardassero in casa loro”.

C’era uno spot pubblicitario per la marca di un detersivo, che diceva: “Credevo che la mia camicia fosse bianca finché non ho visto la tua lavata con …”. A rovescio si potrebbe dire: “Credevo che certi politici fossero puliti finché non ho rovistato nella loro vita privata”. Non mi piace per niente! È normale che chi la fa l’aspetti, ma sarebbe auspicabile che nessuno avesse travi nei propri occhi e soprattutto che nessuno giocasse a cercare la pagliuzza altrui.

La cena delle beffe

Sarà vero che i dissidi matrimoniali si risolvono a letto (purtroppo invece si concludono con i femminicidi), che i contrasti negli affari si sanano intorno ad una tavola imbandita (purtroppo invece vanno ad intasare le aule giudiziarie), ma che la diatriba Italia Ue imbastita sulla manovra economica del governo possa svanire con la cena bruxellese di Juncker e Conti è veramente un’assurdità.

Può essere che i contendenti abbiano scherzato, poi, ad un certo punto, sia successo quanto mio padre diceva con molta gustosa acutezza: «Se du i s’ dan dil plati par rìddor, a n’è basta che vón ch’a guarda al digga “che patonón” par färia tacagnär dabón». Saremmo dentro un teatrone della politica avvilente e disarmante.

Preferisco pensare che cominci a prevalere il buon senso, quella merce rara che non si compra dal pizzicagnolo, ma che si può scoprire strada facendo. È presto per poterlo dire ed è sempre tardi per poterlo sperare. Lascia ancor più di stucco il fatto che basti un incontro gastronomico di vertice per tranquillizzare i mercati, abbassare lo spread, ridare tono alle contrattazioni finanziarie. Che i mercati siano dominati dalle speculazioni è cosa nota, ma che basti un boccone di Conte per stuzzicare l’appetito delle borse, mi sembra un po’ troppo. Saremmo dentro un teatrone dell’economia, roba da mettersi le mani nei capelli.

L’ipotesi più attendibile però è che la cena sia stata architettata per buttare fumo negli occhi a tutti, per guadagnare tempo, per stemperare il clima, per indurre tutti a più miti consigli: una sorta di avanspettacolo in attesa che, dietro le quinte, si preparino i veri protagonisti della vicenda. E chi sarebbero questi primi attori-salvatori ad occupare la scena vera e propria? Azzardo un pronostico: Sergio Mattarella che dà a tutti lezioni di diplomazia politica, Mario Draghi che dà a tutti dimostrazioni di buona gestione finanziaria. I giochi sono finiti, gli scherzi hanno fatto il loro tempo, i bidoni si sono svuotati. Arrivano i nostri e sistemano finalmente le cose. Magari fosse così. Sarò un illuso, ma ci spero. Non è vero, ma ci credo. Nei giorni scorsi il discusso ministro Paolo Savona ha fatto una sibillina affermazione: “Non si tratta di cambiare la manovra, ma di cambiare il governo”. Cambiarlo su due piedi, non sarà cosa facile, ma depotenziarlo potrebbe essere possibile, anche perché, diciamola tutta, il governo Conte si sta depotenziando per proprio conto dietro le stupidaggini di Salvini e Di Maio.

Il giorno stesso dell’illusionistico boom delle borse, che sembravano brindare al termine della famosa cena, Mario Draghi ha fatto una nitida fotografia della situazione economica dell’Eurozona: «La crescita ha perso slancio, ma parte del rallentamento può essere anche temporaneo. Allo stesso tempo, i rischi legati al protezionismo, alla vulnerabilità dei mercati emergenti e alla volatilità nei mercati finanziari restano prominenti». Come dire, andiamo al sodo, le balle stanno in poco posto, parliamo sul serio.

Sergio Mattarella, dal canto suo, intervenendo a Torino all’Arsenale della Pace, sede del servizio missionario giovanile, nell’ambito delle celebrazioni del centenario della Grande Guerra, ha fatto la nitida fotografia dell’Europa Unita: «Qualcuno la critica e può avere dei difetti, ma l’esperienza di integrazione europea è guardata con ammirazione in tante parti del mondo come modello cui ispirarsi. Si deve proseguire su questa strada, senza pensare al ritorno di nazionalismi che fanno tornare indietro di secoli la storia e i rapporti tra i popoli». Come dire, piantiamola di giocare e guardiamo avanti seriamente.

Non sono un esperto di finanza, non faccio l’operatore di borsa, anzi, senza voler essere scurrile, la mia borsa è strapiena delle sciocchezze, che giornalmente ascolto dai governanti italiani. Colgo con grande speranza e una certa fiducia le cose serie che finalmente qualcuno ci propina. Sono autentiche flebo di verità e serietà. E il mio personale spread cala vertiginosamente.

L’anti-politica egemonizza la non-cultura

Dentro alla pattumiera televisiva riesco a recuperare ed a seguire con un certo interesse i programmi di carattere culturale, storico e politico (per questi ultimi occorre un attento discernimento, in quanto abbonda la robaccia pseudo-politica). Dalla visione critica di queste rubriche emerge un livello qualitativo piuttosto elevato di quella che potremmo definire, con un termine riduttivo ed aristocratico, l’intellighenzia nazionale. Ed allora sorge spontaneamente una domanda: come mai a questa solida e valida radice fa riscontro una pianta politica con rami mai così secchi come quelli attuali? come mai esiste una discrasia così evidente e clamorosa fra l’elaborazione culturale e la proposta politica? come mai non c’è collegamento fra le due sponde, quella culturale e storica da una parte e quella politica dall’altra. La difficoltà di rapporti fra questi mondi è sempre stata problematica, la crisi delle ideologie l’ha accentuata, il berlusconismo l’ha istituzionalizzata, ma il pentaleghismo l’ha drammatizzata e portata alle estreme conseguenze.

Non mi sono mai illuso che, per sposare indissolubilmente e proficuamente cultura (intesa come storica elaborazione scientifica ed artistica) e politica (intesa come approccio gestionale all’amministrazione della cosa pubblica), sia sufficiente piazzare un luminare della medicina al ministero della salute, un economista coi fiocchi al ministero dell’economia, uno psicoterapeuta di fama indiscussa al ministero dell’istruzione e via discorrendo. Quando modestamente ho avuto modo di impegnarmi a livello di programmazione e gestione teatrale, ho potuto verificare l’inguaribile inconcludenza di molti addetti ai lavori, dispersi nelle loro elucubrazioni teoriche a dispetto dei sipari, che attendevano concretamente di aprirsi. Un conto è parlar di morte, un conto è morire, anche se dovrebbe essere utile prepararsi a ben morire.

Tuttavia la politica, come la musica, non ammette cultori improvvisati: non ci si improvvisa sindaci, assessori, parlamentari e ministri, andando ad orecchio o per sentito dire. Dovrebbe quindi sussistere una certa osmosi fra chi incarna la politica e chi studia i fenomeni da governare. È pur vero che è più facile pontificare dall’alto di una cattedra universitaria piuttosto che affrontare i problemi della società, ma di qui a istituzionalizzare l’impreparazione al limite dell’ignoranza, per coloro che assumono importanti cariche, esiste molta ed incolmabile differenza.

L’inadeguatezza dei personaggi politici che attualmente vanno per la maggiore la si nota anche facendo il raffronto con i politici del più recente passato, senza scomodare i mostri sacri della cosiddetta prima repubblica. In certi esponenti leghisti e pentastellati (non solo in questi movimenti, ma soprattutto in essi) si riscontra la totale mancanza di cultura, di professionalità, di esperienza, coperta da un fanatismo parolaio e aggressivo. Come è possibile che gli italiani abbiano la dabbenaggine di mettere il Paese nelle mani di questi occasionali frequentatori dei palazzi della politica. Storicamente si osserva come un tempo il partito comunista sia riuscito a egemonizzare la cultura, mentre la democrazia cristiana egemonizzava la politica: non finiva tutto lì, perché la cultura era comunque in grado di stimolare la politica e la politica obtorto collo doveva ascoltare le proposte culturali emergenti o comunque fare i conti con esse.

Oggi abbiamo invece una certa (anti)politica che bypassa un po’ tutto per raggiungere direttamente il popolo, offrendo ad esso illusorie soluzioni quali risposte alle sue paure. La cultura, l’esperienza, la storia, la professionalità, la scienza sono considerati retaggi del passato, pericolose armi del potere, cianfrusaglie da mettere in cantina o in solaio. Sono atteggiamenti tipici dei regimi autoritari o comunque antidemocratici. Basta vedere con quanta sufficienza (non) vengono ascoltate le voci critiche, le analisi dissonanti, i discorsi contrastanti.  Tutti stupidi, tutti in mala fede, tutti a difesa dello status quo: dal presidente della BCE a quello della Repubblica, dai membri della Commissione europea alle agenzie di rating, dal Fondo monetario internazionale agli organismi mondiali impegnati ad osservare gli andamenti economici, dal Papa ai sindaci d’assalto, dalle Ong ai burocrati di Bruxelles, dai mercati finanziari alle banche, dalla Corte dei conti a chiunque ragiona con la propria testa. Non si entra minimamente nei contenuti, ci si limita a criminalizzare la critica da qualsiasi parte arrivi. Se questo non è fascismo, cos’è?

La guerriglia autoreferenziale

A volte serve ritornare sui propri passi. Nel maggio 2017, commentando l’elezione di Emmanuel Macron a presidente della repubblica francese, scrivevo che la politica deve ritrovare la forza di offrire seria, positiva e democratica rappresentanza alle istanze popolari abbandonando ogni e qualsiasi spinta populista, deve rilanciare l’ideale europeista sganciandolo dalle rigide e burocratiche impostazioni, deve aprire la società convincendo i cittadini che i problemi si risolvono aprendo porte e finestre e non chiudendole ermeticamente, deve prospettare una classe dirigente rinnovata e credibile, deve tarare istituzioni e programmi  sui bisogni dei cittadini e non il contrario. Mi chiedevo se Emmanuel Macron fosse in grado di avviare simili processi e se bastassero alcune interessanti premesse valoriali e di metodo: una certa credibilità gli veniva dal non essere legato agli schemi politici tradizionali; si era presentato come un europeista ultra-convinto; aveva un approccio alla politica anti-ideologico, moderno e pragmatico; prometteva di coniugare al meglio libertà, uguaglianza e solidarietà.

A distanza di oltre un anno il presidente francese non fa un bilancio positivo: quanto sta succedendo in Francia lo dimostra. La rivolta dei gilet gialli ne segna un brutto resoconto. Intendiamoci, non do alcuna credibilità a queste improvvisate rivoluzioni basate sulla generica indignazione dell’antipolitica, non concedo comprensione e tanto meno solidarietà agli “sfasciavetrine” della protesta fine a se stessa: senza politica queste rivolte si prestano alle strumentalizzazioni populiste dell’estrema destra in cerca di consenso e dell’estrema sinistra in cerca di identità. Sono destinate a durare l’espace d’un matin, lasciano sul campo macerie di ogni tipo, avvelenano il clima sociale nascondendo i problemi reali sotto l’inutile violenza. Sono tuttavia un sintomo del malessere e impongono serie riflessioni ai governanti.

In estrema sintesi direi che la politica deve ritrovare la capacità di condire la pragmaticità del mercato con la prospettiva della solidarietà. In Italia, mentre la sinistra ha fallito su questo piano, forse più dal punto di vista del consenso che da quello realizzativo, il movimento cinque stelle ha provato a intercettare queste spinte ribelli traducendole in rappresentanza politica e addirittura governativa. Ho concesso un minimo di credito iniziale a questo improbo tentativo, che si sta rivelando un fallimento estremamente pericoloso. In poche parole il suddetto difficile legame tra sviluppo e uguaglianza non ha trovato sbocco nella speranza solidale, ma nell’illusione populista, con la conseguenza di non evitare le macerie nelle strade, ma di portarle nelle istituzioni.

La rivolta francese mette in grave imbarazzo la presidenza di Macron, ma dimostra soprattutto che non si può vivere di indignazione continua; tutt’al più, scendendo in piazza con intenzioni bellicose, si sopravvive alla frustrazione del momento, ma si allontana la soluzione dei veri problemi. Resta aperto il problema della risposta politica. L’Italia, come detto, sta dimostrando che la scorciatoia del grillismo non porta da nessuna parte, anzi rafforza la destra estrema molto più capace di interpretare in senso deteriore le ansie popolari traducendole nel solito e storico populismo reazionario. Alle paure della gente non si sta rispondendo con la speranza delle riforme, ma con l’illusione delle risposte facili o con la concretezza delle risposte sbagliate. Io, con tutti i dubbi e le perplessità, non vedo altra strada rispetto alla sinistra politica seppur riveduta e corretta. Infatti anche la novità di Macron, chiusa nel suo respiro tecnicistico e burocratico, sta pagando dazio, non solo ma anche per effetto della guerriglia dei gilet gialli.